RADIOBAHIA: racconti per canzoni [004]
di Marco Ciriello
RADIOBAHIA: suona
⇨ “Grace Kelly Blues” degli Eels
4.
Monsieur Olivier Dupont crede solo a quello che incontra. Si muove per cercare e catalogare, raccontandolo nella sua rubrica “il costume di mio padre”. «So che non è molto di moda, ma io non ho radici, dove mi mettono sto. Sono un uomo misterioso e molto lento», questo ha scritto di sé. E quando, incontrando al capolinea la donna della sua vita, ha capito che tutto quell’andare su e giù era perchè cercava l’amore, si sarebbe messo a piangere. Poi, con l’aiuto della fisica quantistica, si è convinto, che esistano universi uguali a quelli che viviamo per ogni variabile di un avvenimento, consolandosi del tempo perduto: dicendosi che negli altri, lui già l’amava, già l’aveva amata. E che la maledetta piega della sua vita lo aveva relegato nell’unica parte di tempo dove era dispari. Il giorno dopo, ha scritto: ora datemi solo la luce.
Radiobahia suona ogni venerdi all’alba sul quotidiano IL MATTINO
[ da Eels, “Grace Kelly Blues”, Track 01 da Daisies of the Galaxy, DreamWorks, 14 marzo 2000 ]
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Ma la luce a Monsieur Dupont non fu data. Su un quotidiano che la donna della sua vita comprava per conoscere in lingua originale le storie dei rifiuti, trovò sei righi in cui si riconobbe. Così capì di dovere tutto ai rifiuti. Quando lesse che stavano per trasferirli in Germania gli venne ancora da piangere. Prese il treno per Amburgo, e si perse in un altro universo. La donna ogni venerdì all’alba compra un giornale che non è mai lo stesso, per vedere se Olivier scrive ancora. Pensa a lui ancora come a un tipo dispari.
Vigliaccamente, perché sapeva, Olivier non usò più il suo vero nome, per gli articoli che non avrebbe mai più scritto. Infatti, portatosi avventatamente nei pressi di Casoria, per un’inchiesta sulle bufale [lette o non lette?], venne investito da una balla euroecografica. Incidente che determinò l’intervento dell’art director del giornale. Che in questo modo l’apostrofò, licenziandolo:
“Quoque tu O.T.!”.
L’Innominato vive ora, e per sempre, in un tubolare vonnegutiano, di cui approfitta, ogni tanto, per dare una sbirciata alle tette della Littizzeto, quando il tempo è buono e le nuvole non impediscono la vista
Smise di cercarlo alla fermata dell’autobus, troppi ricordi per chi ancora li ha. Smise di studiare la fisica quantistica, davvero troppo distante dalla razionalità del cuore.
Si affacciò ad un balcone ed aspettò. Era l’alba, la luce arrivò.
Fu allora che Ochwia Biano (Lago di Montagna), un capo dei Pueblos Tao, disse: “Non è forse egli che si muove là, il padre nostro? Chi potrebbe dire diversamente? Come potrebbe esserci un altro dio? Nulla può esistere senza il Sole!”
Mentre, tra gli Elgonnyi, un altro vecchio spiegava a un frastornato occidentale, capitato per caso nel territorio della sua tribù: “Di mattina, quando spunta il sole, usciamo dalle nostre capanne, ci sputiamo sulle mani, e le alziamo rivolgendole verso il sole.”
Il vecchio disse che questa era la vera religione di tutti i popoli, che tutti i Kevirondos, i Buyanda, tutte le tribù che abitavano le regioni che si scorgono dalla montagna, e anche molto più in là, adoravano Adhista, e cioè il sole al momento del suo sorgere. Solo allora il sole era mungu, Dio.
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