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narrazione del posto di lavoro

di Chiara Valerio

La dismissione di Ermanno Rea e Vita precaria e amore eterno di Mario Desiati sono due romanzi assai distanti ma accomunati da una miriade di particolari. Quasi i fili con i quali sono tessuti provengano dalla medesima fabbrica. Fabbrica è un buon termine per cominciare questo discorso. La dismissione e Vita precaria e amore eterno sono romanzi successivi al duemilauno, al crollo di quelle enormi meridiane segnatempo che sono diventate, nel vissuto collettivo, le torri gemelle. Finito l’intervallo delle certezze, del lavoro, delle misure. Se questi romanzi fossero temporalmente distanti, se parlassi di Dickens e Desiati o di Dickens e Rea non mi meraviglierei delle differenze di linguaggio, delle flessioni della grammatica e della lingua attraverso secoli e accadimenti. E invece al centro de La dismissione così come al centro di Vita precaria e amore eterno ci sono un uomo, un lavoro, un rapporto d’amore e un tradimento più pensato che attuato.

In mezzo a tante collimazioni tuttavia, stessi ingredienti, quasi stessi esiti, sta la differente generazione degli autori. Sembra una notazione di colore, quasi fastidiosamente leziosa. Rea è un uomo del millenovecentoventisette, Desiati del millenovecentosettantasette. Cinquant’anni. Questa differenza, ripeto, così poco letteraria rispetto ai temi e alla condivisione di un italiano evocativo (anche se Desiati ha dalla sua un disincanto documentaristico che non appartiene alla penna etica di Rea) fa sì che due romanzi, sulla carta simili, risultino alieni l’uno all’altro, spiega perché tra essi si slarghi un abisso. Non c’è epopea che non reclami un tragico tributo.

La dismissione è un romanzo nel quale sono identificabili, senza voler esprimere giudizio alcuno sulla forma o sui ritmi narrativi, le idee di questione e ammortizzatori sociali, di classe operaia, di industrializzazione e di bene collettivo. Dove l’intelligenza e le capacità sono prerequisito netto per gli avanzamenti di carriera e per l’attribuzione di corrispettivi consoni alle competenze. Al mondo si può fare sempre qualcosa di più per risolvere un problema tecnico. Questione di tempo, di ostinazione e di talento: quante matasse impossibili non sono state sciolte da questa magnifica trinità?. La dismissione è, in questa misura, un romanzo ottimista, addirittura umano giacché tentenna ma non rinuncia alla fiducia nell’uomo. Come singolo e come categoria. La dismissione è ancora progettuale, gestibile, contestualizzabile in parole come dolore, tragedia, sforzo, fatica, compito assegnato, lotta, speranza collettiva.
In Vita precaria e amore eterno non c’è nulla che coinvolga generali astratti di enorme o modesta entità, non ci sono categorie in cui si possa identificare la maggior parte di bene o un picciol pertugio di male o viceversa, non ci sono idoli e nemmeno perdita di ideali. Solo incertezze, frammentazione, precarietà ed espiazione e non c’è neppure epica. Né nella narrazione, né nei fatti, né nei toni.
La dismissione mantiene le unità aristoteliche di tempo, luogo e spazio. E ha parole proprie e specifiche. Corrado Stajano ha scritto sul Corriere della Sera La dismissione è una radiografia della vita e della morte, io leggo Fu più o meno a questo punto che sulla folla, dabbasso, cominciarono a piovere le note (quasi rabbiose, quasi dolenti, quasi disperate) dell’Internazionale cantate da un solitario misterioso sassofono. (…) eccolo l’uomo che suona l’Internazionale; il suo sassofono si staglia argenteo contro il cielo scuro. Eccolo, lassù, in cima al laminatoio, lo vedi? (…) Sul terrazzo del treno a nastri una macchina da presa continuò a filmare, fino all’ultimo, ogni nostro gesto, a rubarci tutti i nostri turbamenti. Quanto all’uomo col sassofono andò avanti a lungo. Sempre con quel motivo, con quelle stesse note secche e straziate: “compagni, avanti il gran partito, noi siamo dei lavoratori/ rosso in petto un fiore c’è fiorito/ e una fede c’è nata in cuor…”. Fiducia, toni roboanti, unità aristoteliche sono tutte caratteristiche di una grande epica popolare, penso a Rea quanto alla dismissione della classe contadina in Novecento di Bertolucci. Il popolo di questa specifica dismissione sono gli operai dell’Ilva di Bagnoli, raccontati nel dialogo tra Vincenzo Buonocore, operaio specializzato con titolo di ingegnere guadagnato sul campo, e il resto. Degli uomini e dei fatti. Vincenzo Buonocore è un puro, un pezzo meccanico scelto e necessario all’ingranaggio di questo libro. È quello che trasfigura le macchine per se stesso e gli altri, in amici e quasi confidenti. Non sempre riuscivo a centrare il bersaglio. Poiché il palo scorreva su un altro palo sistemato a croce, bastava un piccolo intoppo, una oscillazione da niente a far andare a vuoto il tentativo. Allora scappavano le prime parole. E poiché una parola tira l’altra, ecco che le parole diventano mille, diecimila, tutto un lungo e complicato discorso. Diretto al palo collocato di traverso, oppure a quello armato in punta di scaricatore; oppure al buco della siviera; o infine alla siviera stessa. Tante parole. E non soltanto per protestare. Si parla anche per blandire, per offrire la propria amicizia, per muovere a compassione. Chi dice che una macchina non possa mostrarsi nei nostri confronti anche compassionevole?.

Ne La dismissione leggo ancora Ti chiedo: sai che cosa significa una fabbrica violata, devastata, sviscerata, demolita al trenta e mezzo per cento del totale? (…) Ti confesso che non è facile per me adesso ricostruire in maniera minuziosa come andarono le cose. mi manca la successione dei fatti: non so più in che ordine si svolsero, come se l’emozione, la dinamite, il grande bum!, avessero mandato in frantumi anche la mia memoria, lasciandomi tanti frammenti di ricordi separati. (…) Mancano sessanta secondi. Arriva il secondo colpo di sirena: breve, tagliente. Sussultiamo tutti, salvo ricomporci subito nel nostro stato di attesa. Meno venti… meno dieci… meno cinque… quattro, tre, due, uno… La torre vacilla per un attimo come un ubriaco. (…) Poi crolla: un tonfo sordo che è soltanto il prolungamento del boato prodotto dalla dinamite.

Per converso in Vita precaria e amore eterno, C’è in Italia questa psicosi che qualche arabo se ne vada in giro con una bella chinata di tritolo su per il culo e si faccia sbudellare in nome di Allah, Osama Bin Laden e compagnia turbante. Nessuno sospetta che lo stesso desiderio di questi arabi scoppianti sia molto vicino all’odio di Poldo e del sottoscritto. Tutti stanno attenti con gli occhi ben spalancati quando uno di questi tipi con la barba lunga mette piede dentro la metro. Ma nessuno sa che Poldo e io, senza i soldi e inseguiti dai creditori, le bollette non pagate, i supermercati svaligiati, ci immoleremo contro i nostri nemici. Immaginavo il mio call center che fumava come un bel pollo allo spiedo con le strisce di vapore che salivano verso il cielo e verso la consunzione. (…) Odio quei bastardi che acquistano potere e lusso perché licenziano la gente. Odio quella melma marcia che scrive i contratti capestro, che non paga stipendi decenti e nemmeno una tassa. Ti odio tutor dalla cravatta scoppiata ritto con il petto impallato, preparati alla fine. Ti voglio vedere crepare nel dolore. Salta in aria agenzia telefonica strillano le news…

L’utilizzo della dinamite, attivo in entrambi casi per lo smantellamento di un posto di lavoro, che comunque è un posto di sostentamento, è assai diverso. La rabbia di Martino Bux in Vita Precaria e amore eterno sostitusce la dismissione di Vincenzo Buonocore.

Mario Desiati appartiene a quella generazione, che è pure la mia, e la cui specialità, il cui limite e cesello, è quello di ricomporre puzzles disfatti da altri. Anche quando le scomposizioni, gli smembramenti, le dismissioni sono attuate con le migliori intenzioni. La retorica ci vuole ad adorare e mitizzare gli scioperi, le manifestazioni di cinquantenni impettiti e saltellanti con bandiere rosse e straccetti al collo, urlanti a favore di questo o quel sindacato. Di solito questi tizi si mettono in coda a un vecchio smunto, incapace di intendere e volere, ridotto dall’età e dagli acciacchi a un manichino con tutti gli orpelli e i fazzoletti dei partigiani; come un pupazzo lo spingono nella folla mentre lui, sempre più debole, barcolla, gridano i loro slogan inutili per poi andare a ritirare il loro assegno garantito. Il fine è sempre lo stesso. La loro pensione e i loro ottocento euro al mese che non vedrò mai. E mentre cresciamo in una spazzatura senza diritti, contributi e assicurazioni, ci costruiamo un futuro assicurato: la guerra civile. Guerra, guerra, guerra civile. Sarà una guerra terribile, tra straccioni e dobloni. Sarà un inferno di fuoco e crudeltà. Ognuno a caccia di uno spazio per la propria dignitosa esistenza. Per permettersi un brandello di consumistico gaudio.

Ne La dismissione invece E tuttavia mentirei se dicessi di non aver condiviso a mia volta, e di non condividere tuttora, il mito dell’acciaieria e perfino un po’ della sua mistica, della sua retorica. A modo mio, certo. Contemporaneamente ai gusti del mio tempo, della cultura del mio tempo. Il che, credimi, non fa alcuna differenza dal punto di vista dei sentimenti e del senso di appartenenza. L’Ilva che scompare è una dissolvenza che non soltanto mi riguarda ma mi comprende. Dobbiamo imparare a dimettere innanzi tutto noi stessi dissi un giorno di particolare malumore (…). Distruggere all’improvviso una fabbrica può essere anche una operazione semplice. Distruggere di colpo una civiltà, una cultura, una forma mentis è un altro paio di maniche. E ancora Prima di essere rasa al suolo nella realtà l’Ilva è stata insomma eliminata un’infinità di volte nella finzione della fantasia, tanto che per moltissima gente la dismissione sarà ricordata come una sorta di tenebrosa ginnastica mentale durata abbastanza a lungo per diventare nevrosi collettiva.

Da Salvatore Stajano [Dalla parte giusta. Un comunista tra sindacato e partito, Fata Morgana, 2006] leggo Cari compagni, con le urla e i fischi non si vince. Si vince con l’unità di tutti. (…) Voi uscirete di qui con una sola linea, quella della non contrapposizione con quanti non la pensano come voi. (…) Sarebbe una tragedia e una sicura sconfitta.

Vita precaria e amore eterno è zeppo di fatti e considerazioni con al centro una storia d’amore struggente e malinconica. Come tutte le storie a distanza. Come tutte le distanze che sembrano incolmabili e se non lo sono lo diventano. Perché c’è il tempo e i fatti e l’incapacità e il gesto ritratto e il caso e Mario Desiati che è uno scrittore di ambientazioni e di sfondi e che in mezzo a invettive ha boccioli di prosa. Baci che danno sonno, il titolo stesso, le perle di acqua salata schiacciate tra il pollice e l’indice, drugstore perpetui, altro. Scrive del tono dissonante della piccineria quotidiana, del malumore generazionale, della classe e della trasformazione del tuo amato e odiato paese in un grande cinema tridimensionale, della protesta, costruisce un personaggio irritante, pusillanime e senza assoluzione. Vita precaria e amore eterno è un romanzo senza clemenza, come il mondo che descrive, dove i visionari perdono se non la vita almeno una casa. Tutto è insondabile, ma per un solo attimo, un attimo immenso riesci a vedere tutto quello che le loro menti proiettano. In questo stesso attimo che non finisce mai un forte bagliore ti toglie la vista. Le sfere affettive, le bugie, le paure, le bollette da pagare restano in sospeso.

Il prossimo libro di Desiati, Il paese delle spose infelici, che esce a giorni per i tipi di Mondadori, ha sullo sfondo l’Ilva di Taranto. Quando gli ho detto di questo incontro, di giovani e lavoro, de La chiave a stella, di Rea e di Stajano, di Ponticelli che è periferia di Napoli ma ha una Casa del Popolo, gli ho domandato pure Ma secondo te perché tutta quest’Ilva nella letteratura italiana? Mi ha risposto secco Necessità, estetica, ma aveva un’aria dolente. L’avevo pensato anche io.
Ecco, ripeto, io appartengo a questa generazione di scrittori. A persone che traggono linfa linguistica, ispirazione letteraria dalle architetture umane più che dalle persone. Perché abbiamo perso le persone. Esistono solo i singoli e ogni forma di associazionismo e sindacato è un rottame. Come ha scritto Lee Masters L’idea che ci facciamo di ogni cosa, è cagione che ogni cosa ci deluda.

[Intervento tenuto il 15 Febbraio 2008 alla Casa del Popolo di Ponticelli nell’ambito di Primo Levi a Ponticelli. La chiave a Stella. Il lavoro ieri e oggi organizzato dalla Biblioteca Universitaria di Napoli. Le immagini sono tratte rispettivamente dal sito www.esplosivi.it, e dal sito www.agoramagazine.it]

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10 Commenti

  1. bella questa lettura comparata… mi ha incuriosito… metterò questi due romanzi nella lista dei prossimi da leggere, anche perché sono originario di Piombino, per cui qualche idea su cosa siano l’Ilva e le acciaierie ce l’ho…

  2. per questo mi piacciono i libri. si rivelano sempre sassi lanciati negli stagni altrui. sono irriverenti e alzano un bailamme d’acqua. grazie simone.
    :-)
    chi

  3. quella generazione, che è pure la mia, e la cui specialità, il cui limite e cesello, è quello di ricomporre puzzles disfatti da altri.

    cara chi questa di puzzles scomposti, di tessere mancanti fra piccoli spazi ricomposti è la netta sensazione che provo spiegando molte cose del passato e purtroppo del presente ai figli, sensazione che non si libera di un certo senso di colpa della mia di generazione nella scomposizione di tante cose, o forse nell’incapacità di tenere i pezzetti saldi al loro posto.
    La lnifa che tu dici nello scrivere la tua generazione trae più “dalle architetture umane che dalle persone” non credo sia un limite, contrapposta ad un certo rifugio nel personale “impolitico”, nel ricordo del passato filtrato attraverso una dimensione mitica personale come verità unica di rappresentazione.

    ,\\’

  4. è una cosa alla quale penso sempre sai orsola. se il personale impolitico, che è cercato, come dici tu bene, sia qualcosa connesso con la passione per il generale astratto, per l’esoscheletro, e che ovviamente e per forza, se da una lato cancella il personale, dall’altro lo innalza ad archetipo. sono terrorizzata da questa porta basculante che da un momento all’altro potrebbe sbattermi sul naso di narratore ma colpirmi sul mio viso di persona.

    se avessi dei figlio, o quando li avrò, cercherò di spiegargli che ricomporre il disegno il più possibile, con tutte e sole le tessere che si hanno in mano, il disegno che potrebbe essere pre preceduto da un articolo indeterminativo, un disegno qualsasi, una forma di senso, dovrebbe essere il fine. ma a oggi, non so il fine di cosa.

    mi sforzo, coi mezzi che ho, di cogliere le variazioni, come la rabbia narrativa di desiati e l’epica narrativa di rea. distantissime a soli cinquanta anni d distanza.

    ehi orsola, grazie sempre. :-)
    chi

  5. bellissima recensione, Chiara, scritta nella tua inimitabile lingua che sempre mi affascina indipendentemente da quello che scrivi.
    Mi colpisce, di striscio, la frase che citi “Cari compagni, con le urla e i fischi non si vince. Si vince con l’unità di tutti. (…) Voi uscirete di qui con una sola linea, quella della non contrapposizione con quanti non la pensano come voi.” La famosa unità di tutti, malgrado lo storico titolo del giornale del PCI, è un mito che si allontana sempre più. I sinistri, che si dicono più eticamente puri degli altri, e forse è pure così, valorizzano demenzialmente qualsiasi differenza interna fino a produrre uno sgretolamento irreparabile e perdente. Le recenti vicende della sinistra italiana parlano purtroppo da sole. Grazie in ogni caso per aver segnalato questi libri che toccherà mettere nella categoria (sterminata) “prossime letture”:-)

  6. sparz, grazie!! il libro di Salvatore Stajano, da cui riporti “di striscio” ma super accuratamente la frase, è davvero notevole, anche perché è un diario di n uomo che ha agito e pensato in egual misura.
    ;-)
    chi

  7. Articolo molto bello Chiara.
    Una riflessione sul mondo del lavoro accostando generazioni diverse:
    la vecchia generazione che soffre con la fabbrica e quella nuova, spaesata e persa che sogna una rivalsa.
    Ma il libro non l’ho letto ancora anche se dopo quanto scrivi penso lo leggerò. Un saluto.

  8. Brava Chiara, come sempre, acuta, semplice, limpidissima. E bravo Mario, che ho tenuto a battesimo come poeta e visto nascere come scrittore. Vorrei sottolineare che entrambi – recensore e recensito – are still in their twenties. Non mi pare poco.

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