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Le cavalle sanguinarie [Eracle #7]

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di Ginevra Bompiani

Perché nessun dio si accontenta di una vittima di scarto.

Quando Eracle ebbe compiuto sei fatiche, il suo destino mutò in tre punti: da quel momento il pungolo alle sue imprese sembrò piuttosto la macchinazione che la paura, e dacché la paura è solitaria, ma alla macchinazione servono complici, nelle sue avventure compaiono sempre più spesso compagni e brigate: così, dietro ai passi dell’uno o dell’altro, i suoi viaggi si allungarono imbrogliandosi di altre imprese.

Qualcosa era cambiato intorno a lui: la morte aveva perso i panni di uccello da preda in picchiata su pastori inermi e lungamente ammutoliti dalla sgomento, per prendere quelli del cane da caccia al servizio di qualunque padrone. Dal duello si era passati all’agguato. E gli occhi dimenticarono la propria morte per appuntarsi su quella altrui. Così il mucchio di sterco imputridito sotto gli zoccoli delle vacche solari aveva cessato d’incombere come una montagna dannata per diventare il lievito di una terra che nutriva il vivente coi sepolti.

Eracle banchettava in casa di Admeto circondato da un cortese, ospitale silenzio sulle faccende di casa e su quella nuova legge che proprio dietro le sue spalle stava mietendo la sua vittima più tenera. Legge che all’affettuoso Admeto pareva già tanto naturale da sacrificarle la vita della sposa fedele per rinnovare la sua. Ma un rumore familiare dovette drizzare le orecchie di Eracle perché all’improvviso, lasciato il banchetto a metà, si alzò a precipizio e corse fuori nella notte, dove la vecchia nemica stava trascinando il suo fragile bottino. Quando tornò alla casa con Alcesti tremante, tutti si rallegrarono del nuovo tiro giocato alla morte che avevano rinunciato a combattere a viso aperto. Ma la legge era impressa per sempre e nessuno pensò di rinnegarla.

Euristeo voleva le cavalle di Diomede. Quelle che nella mangiatoia trovavano ogni giorno un uomo per saziare la loro fame. Le voleva non per liberare il mondo da un delitto quotidiano, ma per acquistarselo e averlo più vicino, al suo servizio. Quando Eracle vide affacciarsi alla porta della stalla il lungo muso di uno di quegli animali, capì subito che si trattava di nuovo della morte. E poiché non doveva vincerla stavolta, ma in qualche modo comprarla, si domandò quale sarebbe stato il prezzo.

Tentò di ingannarla offrendo in pasto alle bestie il re Diomede. Ma la morte sdegnò lo scherzo e gli rubò il compagno più caro, perché nessun dio si accontenta di una vittima di scarto. Alla perdita di quel compagno Eracle non si sapeva rassegnare. Aveva capito la legge, ma non gli piaceva. Non era adatta a lui, abituato a battersi per ogni cosa. Così decise di dar battaglia proprio al nuovo nocciolo della morte, faccia a faccia, e provocò a duello Ares e tutti i suoi figli. La battaglia, come tutte le sue, fu inutile e fortunata. Tanto fortunata da mandare il dio della guerra ferito all’Olimpo, mentre i suoi figli restavano uccisi sul campo.

In questa impresa Eracle non figura più come un pensatore, ma come un uomo d’azione. I tempi muti sono trapassati dei cori guerreschi, l’avventura nella spedizione. Non c’è più tempo per studiare il nemico: bisogna aggirarlo e colpirlo quasi prima di conoscerlo, piombare su di lui prima che faccia altrettanto. Non aspetterà come il Leone Nemeo in fondo alla grotta, ma durante il sonno si è avvicinato tanto che il tuo incubo non ha il tempo di svegliarti. Il risveglio avviene sempre in campo nemico.

Eracle è a disagio nella nuova civiltà che gli cresce accanto. E già miracoloso che abbia intuito che si trattava di Ares e si sia vendicato su di lui, lasciando Ecate ai suoi alleati.

Ma Eracle non basta più, se non come una futile provvidenza. Intorno ai suoi piedi piantati al suolo in posizione di combattimento, passano le comitive: qualcuna, come gli Argonauti, lo prende con sé e poi lo abbandona. Sono tempi comuni, cacce collettive, alla ricerca dell’oro. Mentre l’immortale si rifugia ferito sull’Olimpo, le schiere umane percorrono la campagna con entusiasmo guerriero.

[Questo è il settimo di tredici racconti sulle dodici fatiche di Eracle e resto. E per dare altri numeri Le cavalle sanguinarie è incluso in una raccolta intitolata Le specie del sonno uscita nel millenovecentosettantacinque per i tipi di Franco Maria Ricci e riedita da Quodlibet nel millenovecentonovantotto. Nella prefazione Italo Calvino ha scritto Per i miti una prima volta non c’è mai stata; o ogni geroglifico si sovrappone la storia delle sue decifrazioni; è così che nel nostro confronto col mito, sia la sua immagine che la nostra immagine si moltiplicano come in una stanza foderata di specchi. E specchio sia, anche NI. L’opera in apice è La nave dei folli di Dino Valls. La prima fatica di Eracle è qui, la seconda qui, la terza qui, la quarta qui, la quinta qui, la sesta qui.

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5 Commenti

  1. “Nessun dio si accontenta di una vittima di scarto”…c’è forse qualcosa di più vero?
    Questi racconti sanno rendere preziose le mie domeniche.

  2. Chiara, che meraviglia! Da leggere e rileggere e poi conservare
    nell’ archivio della memoria. Grazie. Marlene

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