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Autismi 11 – Mia sorella

di Giacomo Sartori

dubuffet.goddessMia sorella con l’età si è completamente inacidita. Raggrinzita e inacidita. Come certi frutti si accartocciano su se stessi prima di raggiungere la dolcezza e la pienezza della maturità. Si direbbe che qualcosa nella normale evoluzione fisica e psicologica legata all’età sia andato storto. Una qualche degenerazione biochimica dovuta a un morbo ancora sconosciuto, un subdolo deterioramento del sistema nervoso che ha finito per prendere anche il cervello, ripercuotendosi sul carattere, qualcosa del genere. Ma la cosa forse che è diventata più fastidiosa è la voce: nasale, inquisitoria, implacabile. Ogni sua frase è una nuova doccia gelata.

Mia sorella è una di quelle tipiche persone che quando gli racconti che ti è cascata una tegola in testa ti guardano fissamente, sottintendendo che se passavi di lì una qualche colpa ce l’hai anche tu: se fossi stato un minimo più responsabile avresti fatto attenzione allo stato del tetto sotto il quale transitavi, o meglio ancora ne saresti stato al corrente a priori. Le racconti che sei rimasto per strada con la macchina, e lei in qualche modo ti fa capire che te la sei cercata, perché quella macchina era pur sempre la tua, e chi ne ha avuto cura sei tu. Le racconti che hai litigato con quel figlio di puttana del tuo datore di lavoro, una vera merda fumante, e ti accorgi con raccapriccio che lei dà per scontato che abbia ragione lui. È una di quelle persone alle quali passa la voglia di raccontare le cose, insomma.

Quando molti anni fa le ho presentato quella che sarebbe diventata mia moglie non le ha detto che le faceva piacere conoscerla: tenendosi a tre metri di distanza le ha detto che non voleva affezionarsi a lei, perché altrimenti quando io l’avrei lasciata ci sarebbe rimasta male, come c’era rimasta male tutte le volte precedenti. Era stufa di affezionarsi a delle donne che poi venivano tutte piantate in asso, e quindi scomparivano nel nulla, le disse, perché non ci fosse possibilità di equivoco.

Mia sorella ha sempre mal di testa. Si guarda torvamente intorno, facendo appunto pesare che ha mal di testa. Anche il pallore sembra essere strumentale, come quello di certi attori che impersonano un personaggio morente. Se però la osservi meglio ti accorgi che nei suoi occhi più che disappunto c’è risentimento. Capisci che per lei il vero responsabile del suo mal di testa sei tu. Quello che le hai fatto quando avevi ancora le braghette corte, quello che le stai facendo al presente, i torti terribili che le farai in futuro, fanno sì che in quel momento abbia un lancinante mal di testa. O comunque sei corresponsabile, se non proprio l’unico responsabile.

Mia sorella non ride mai, non ha mai riso in vita sua. Posso anche scervellarmi, ma non mi viene in mente una sola occasione in cui l’ho vista ridere, e ancor meno ridere di cuore. Nemmeno una fottuta volta. Neanche quando tutti gli altri erano stramazzati per terra tenendosi la pancia, si stavano ormai soffocando. Non ride perché è sprovvista della minima briciola di spirito dell’umorismo, come certi deserti pietrosi e inospitali sono irrimediabilmente sguarniti di acqua. Lei non ride, alza un angolo della bocca, quello sinistro. Preferibilmente nei momenti di maggior imbarazzo, o comunque quando chi gli sta attorno è perfettamente serio. Tutto quello che sa fare è sogghignare sarcasticamente, facendoti pesare questo o quello.

Per quanto possa andare indietro con la memoria mia sorella ha sempre avuto la puzza sotto il naso. Si è quindi trovata un marito consono alla sua natura sprezzante. Un marito che le consentisse di seguitare a guardare tutta la nostra famiglia e tutta l’umanità dall’alto in basso. Un marito di altezzosa e facoltosa famiglia. Per fugare fin dall’inizio ogni dubbio se l’è trovato già a quindici anni, quando io ero ancora all’asilo. Poi si sono sposati solo molti anni dopo, ma il fidanzamento è avvenuto nel pieno dell’adolescenza, come succedeva in certe dinastie regali qualche secolo addietro. Nei miei ricordi, vista appunto la differenza di età, appiccicato a mia sorella c’è quindi sempre stato il suo benedetto facoltoso e distintissimo marito.

Qualche volta mi dico che se avesse invece sposato un metalmeccanico, o un giocatore di calcio di serie D, forse mia sorella sarebbe un po’ più umana. Forse alcuni suoi angoli si sarebbero smussati, forse sarebbe un minimo più indulgente, mi dico. Forse avrebbe sperimentato cos’è l’empatia, se non proprio l’affetto, mi dico. Forse avrebbe imparato a ridere, forse qualche volta mi sorriderebbe, mi dico. Forse si avvicinerebbe un po’ di più all’idea che ho io di una vera e premurosa sorella. Ma naturalmente sono solo sogni ad occhi aperti. Probabilmente anche senza mia cognato sarebbe inacidita lo stesso, come quei frutti che a causa di una ferita quasi invisibile sono condannati già dall’inizio.

Fino a qualche anno fa ci vedevamo un paio di volte all’anno, principalmente ai compleanni o a Natale. Durante quelle cene mi fissava come se avesse sempre qualcosa di molto grave da rimproverarmi, come se facesse molta fatica a trattenersi. Ogni frase che dicevo mi squadrava succhiando le guance all’interno, dandomi l’impressione che stesse per esplodere. Era chiaro che secondo lei avrei dovuto sentirmi in colpa per ogni parola che dicevo, o addirittura vergognarmi. A quanto pare aveva la paranoia che volessi prenderla in giro. E se appunto osavo fare una battuta, anche se era una bella battuta che faceva ridere tutti, mi fulminava con gli occhi. Ma era evidente che non apprezzava nemmeno i miei silenzi. Per lei i miei silenzi non preannunciavano nulla di buono, o anche semplicemente avevano qualche detestabile secondo fine. Qualche volta esplodeva davvero, e diceva che ero immaturo, immaturo e irresponsabile. La sola cosa che sapevo fare, a parte beninteso lamentarmi a centottanta gradi, era farmi beffe di tutto e di tutti. Il problema era che in quanto figlio più piccolo ero stato viziato a dismisura, e quindi non ero mai veramente passato allo stadio adulto. Durante quelle cosiddette feste di famiglia io cercavo allora di non incrociare il suo sguardo, anche se in realtà me lo sentivo sempre incollato addosso, e di tenere un profilo il più possibile basso.

Quello che davvero la imbestialiva, nei ritrovi di famiglia, era che contraddicessi suo marito, perché è attaccata come un’edera a suo marito. Per lei c’è un’unica persona che si salva dall’abiezione in cui sguazza il genere umano, suo marito. Un’unica persona che fa sempre tutto nella maniera giusta, suo marito. Qualsiasi cosa dicessi secondo lei era in polemica con quello che aveva detto o pensava sua marito, o comunque per contrariare suo marito. Per lei miravo solo a quello, a provocare e a imbufalire suo marito, esattamente come facevo quando avevo cinque anni. Suo marito allora la guardava con ammirazione, grato che prendesse le difese del suo ipertrofico amor proprio e della sua esagerata stima di se stesso.

Ma le dava noia anche solo che soffiassi sulle candeline al posto del festeggiato. Io ho sempre soffiato sulle candeline al posto del festeggiato appena prima che lo faccia lui, cogliendolo di sorpresa, o comunque in contemporanea, cosa che in genere dà luogo a delle situazioni molto buffe, soprattutto quando si tratta di una torta cosparsa di zucchero a velo, com’è spesso il caso. Mia sorella però ogni volta con la sua voce acida decretava che era incredibile che alla mia età fossi ancora così infantile. Secondo lei era inammissibile che a trentacinque anni, e poi a quaranta, a quarantacinque, soffiassi ancora sulle candeline al posto del festeggiato come quando avevo dieci anni. Naturalmente si inalberava soprattutto quando il festeggiato era suo marito, naturalmente si inviperiva soprattutto quando soffiavo sulle candeline del suo congiunto. E anche lui si stizziva, perché è una persona che prende tutto molto seriamente, a cominciare proprio dai suoi compleanni. Invece di ridere come gli altri si incavolavano entrambi.

Qualche anno fa ci hanno invitati, me e mia moglie, alla cena della vigilia di Natale. La cena non è andata né bene né male, che mi ricordi. La tavola era gaiamente sontuosa, e il cibo era ottimo, come sempre da loro. E anche il vino era proprio buono. Tutto questo bisogna ammetterlo, se si vuole essere davvero oggettivi. Come tanta altra gente piena di soldi ci tengono un po’ a mostrarlo, anche se con dei modi fintamente modesti e tutt’altro che smaccati, spesso sconfinanti nella leziosaggine. Poi però verso mezzanotte, vale a dire quando cominciava il giorno di Natale, ci siamo messi a discutere, a discutere di cose piuttosto serie. E io ho avuto l’ardire di contraddire suo marito. Dopo un po’ che discutevamo lei ha preso la parola, e mi ha detto chiaro e tondo che non voleva più vedermi. Io e mia moglie ci siamo guardati, e quando abbiamo constatato che faceva sul serio ci siamo guardati ancora. Eravamo costernati. Non sapevamo cosa fare. Mia sorella allora ha ripetuto che non voleva vedermi mai più, questa volta ne aveva proprio abbastanza.

Non capita tutti i giorni di essere sbattuti fuori da una cena di famiglia proprio il giorno di Natale, proprio quando anche le persone più rigide dovrebbero fare un minimo sforzo per mostrarsi concilianti. Senza contare che mia moglie è nata proprio a Natale, e quindi oltre a essere Natale era anche il suo compleanno. E compiva anche cinquant’anni, per giunta. Venivamo estromessi nello stesso tempo dalla cena di Natale in famiglia e dalla cena per i suoi cinquant’anni. Ma apparentemente era proprio così, a giudicare dal silenzio rugginoso che stagnava tra l’odore di candeline e di dolci fatti in casa: nessuno dei famigliari presenti diceva niente. Perfino i resti della faraona sembravano prendere posizione per mia sorella. E allora ci siamo alzati, e ci siamo avviati verso la porta di entrata. Lasciando i regali che avevamo ricevuto, naturalmente: sarebbe stato assurdo partirsene con i regali, visto che venivamo cacciati. Sarebbe stato meschino, umiliante. Quindi i regali li abbiamo lasciati lì. Cosa che naturalmente ha fatto imbestialire ancora di più mia sorella.

Da quel momento mia sorella mi fa pesare anche quello, quasi avessi sabotato il Natale a bella posta, facendo per giunta l’affronto di lasciare lì i regali. Quasi fossi io che le ho dichiarato che non volevo mai più vederla, quasi fossi io l’intollerante e il rancoroso. A tutti i torti precedenti si sono aggiunti adesso anche questi. Non mi parla, ma ogni volta che ci incrociamo i suoi sguardi di aquila inacidita non lasciano adito al dubbio. E quel che è peggio sembra essere riuscita a convincere anche tutto il resto della famiglia che l’attaccabrighe sono io.

Io non so perché mia sorella sia venuta così male. Certo con un padre fascista e una madre al contempo fanatica delle apparenze e criminalmente anticonformista, oltreché a sua volta fascista, si possono capire molte cose, ma ci si aspetterebbe che al fondo di ogni essere umano permanga pur sempre una briciola di umanità. Ci si aspetterebbe che la famosa resilienza riaggiusti un po’ le cose, a tanti anni dall’infanzia, evitando il peggio. E invece niente. Con gli stessi genitori mio fratello non è venuto così male, e nemmeno io sono venuto malissimo, a conti fatti. Lei invece è venuta pessimamente. È un tristissimo dato di fatto. Non resta che rassegnarsi.

Un sacco di gente sostiene che mia sorella mi somiglia moltissimo, non solo fisicamente ma anche come carattere. Se c’è una cosa che mi dà fastidio è proprio che dicano delle assurdità del genere. Spesso sembra quasi che si siano messi d’accordo, per chi la spara più grossa. Più invecchio più le assomiglio, e anche la mia maniera di ragionare, e perfino quella di parlare, hanno molte affinità, dicono. Anch’io sono spesso intrattabile, anch’io tendo a essere paranoico, dicono. Per non parlare delle nostre attività scientifiche, che si svolgono in due domini tutto sommato assai vicini. E a ben guardare anche i nostri micidiali mal di testa sono molto simili. E né io né lei abbiamo figli. Qualche volta perfino mia moglie mi rinfaccia di essere uguale a mia sorella, anche se naturalmente in una versione più alla mano, per così dire più democratica. Io penso inorridito a mia sorella, e mi dico che non capiscono proprio nulla, ma non ribatto niente. L’importante è che non sia vero, mi dico.

[Immagine: J. Dubuffet, Déesse]

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27 Commenti

  1. Perdoni, ma la frase: “un subdolo deterioramento del sistema nervoso che ha finito per prendere anche il cervello” non può andare, mi sembra, considerato che il cervello è una delle due parti del sistema nervoso: centrale vs periferico.
    Mi farei i fatti miei, se la sua scrittura non fosse sempre così precisa.

  2. Magnifico ritratto con sempre il tratto devastatore.
    Ma quando leggo le prime righe, è come se un occhio
    terribile avesse studiato la mia mente:

    “Mia sorella con l’età si è completamente inacidita.
    Raggrinzita e inacidita. Come certi frutti accartocciano
    su se stessi prima di raggiungere la dolcezza e la pienezza della maturità.”

    E ancora si puo sperare la venuta dell

  3. E ancora si puo sperare la dolcezza, ma non ci credo.

    C’è una crudeltà nella scrittura di Giacomo Sartori mostrando il lato malsano della famiglia.
    Scrittura vera, con vetriolo.

    Ma vorrei difendere quelli che hanno a subire l’emicrania ( e non il male di testa benigno e pronto a essere dimenticato con una compressa), male che rende accanito ( e il pallore che mi fa credere all’emicrania),
    matto.

    Mi piacerebbe leggere un testo sull’emicrania. Perché non scrivere dal di vista della sorella?

    (Ho fatto una manipolazione cattiva)

  4. Mio fratello è di quelli che si credono costantemente migliori di te e del mondo. Mio fratello non capisce che è un fallito giocatore di serie D, e non si rende conto che non sarà mai un vero giocatore né un allenatore. Mio fratello, rendendosi ridicolo con le magre pubblicazioni che ha forzosamente elaborato in anni di beatissima ignoranza, non si rende conto che mi vergogno di lui perché abbiamo lo stesso cognome. Mio fratello distrugge se stesso con cura sistematica da quando è al mondo, e porta con sé chiunque lo avvicini o lo frequenti. Mio fratello mi fa una gran pena. Mio fratello è uno scarto. Mio fratello soffia sulle candeline degli altri perché anche lui si rende conto che non c’è nulla da festeggiare nel suo compleanno. Mio fratello è ridicolo e imbarazzante anche quando ha il mal di testa. Mio fratello spera che il mondo lo ami e non si rende conto che il mondo non ama nessuno. Mio fratello è un ingenuo.

  5. onestamente. in particolare descrivendo malesseri conclamati, nulla è peggio di finti riti di passaggio. anche stando nel limbo (che però il vaticano due-tre anni fa ha dichiarato non esistente, ma ormai, dispiace, è categoria dello spirito), non ne parlerei così.

  6. è il titolo che mi da da fare.
    §
    Se c’è la figura di “Angoscia”, è perché talvolta il soggetto esclama (senza curarsi dell’accezione clinica della parola): “Sono angosciato!” – “Angoscia!”, canta da qualche parte la Callas. La figura è in certo senso un’aria d’opera; e come l’aria viene identificata, rimemorata e maneggiata attraverso il suo incipit (“Voglio vivere questo sogno”, “E ora piangi!” – “Lucean le stelle, “Piangerò la mia sorte” – i secondi in corsivo), così la figura prende le mosse da una certa cadenza di linguaggio (una sorta di versetto, di refrain, di cantilena) che l’articola nell’ombra.
    (da Roland Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, spiegazione di come è fatto il libro).
    Se già il discorso amoroso è frammentario perché estatico, non dice altro senso che il sentimento che esprime.
    Figurarsi il discorso del malessere psichico, fondato sulla nostalgia della comunione, la nostalgia della identità che ci serve per potere parlare con l’altro.
    L’unico modo per narrarlo è la registrazione.

  7. ho l’impressione che a qualcuno sia un po’ sfuggito che l’io di un racconto può aver pochissimo a che fare – nonostante tutte le apparenze – con l’autore, e che l’eventuale comicitità svia il senso letterale delle frasi; ahinoi, dover ricordare queste cose su un blog letterario (lo sanno perfino le le mie sette (vere e amate) sorelle!); ma forse mi sbaglio, per carità

  8. Ho ben capito che il pezzo non è autobiografico.
    Mi sono divertita a pensare a un altro punto di vista, quella della sorella fittizia. Immaginare la scène di famiglia di natale secondo vedere le due punti di vista.
    Invece come lettrice mescolo la mia autobiografia con la lettura, posso, no? E il mio diritto di avere più simpatia per la sorella, inacidita. Il lettore ha tutti i diritti :-)

  9. no, no, scusa véronique, non alludevo ai tuoi commenti: per quanto mi riguarda i giudizi e le critiche (anche le più feroci, se sono un minimo pertinenti) e i suggerimenti sono sempre bene accetti
    con affetto

  10. Con affetto, anche dalla mia parte.

    Sono sempre una lettrice appassionata dei tuoi testi e ho letto i romanzi (tutti).

  11. eh, però, @GS, (se dice a me) in quel pezzo sugli escrementi il suo personaggio (non necessariamente lei, ha ragione) usava termini fisiologici in modo insolitamente corretto.
    per quello.
    poi, per carità anch’io :-)

  12. no, no, non è nemmeno lei! (sono punito per avere utilizzato l’allusione, figura che in realtà detesto; come detesto, se devo essere sincero, chi si accanisce/sfoga/inveisce/pontifica usando un nick: lo trovo un comportamento meschino; naturalmente se il tono invece è scherzoso, è diverso);
    mi ero posto io stesso il problema che solleva (e avevo già pronta una variante scientificamente più precisa); ma mi sembrava che l’inesattezza (all’inizio non voluta) corroborasse l’improbabilità delle ipotesi che andava alambiccando il personaggio, accentuandone quindi la valenza grottesca/comica; mentre il personaggio della cacca doveva essere più scientifico possibile, la comicità voleva essere proprio lì;
    in ogni caso sono convinto che la scrittura, anche quando adotta uno stile più piano, interloquisca sempre e giochi con i sensi e le connotazioni “abituali” della lingua, anche appunto scientifica

  13. ho solo detto che non mi piace il racconto, e ne ho cercato il motivo.
    mi sembrava meccanico, frettolosamente risolto, mancano nel racconto le assenze, i puntini.
    però se il tono ti ha offeso è senz’altro colpa mia: sbaglio spesso tono, è infinitamente più facile leggere che scrivere, quindi di questo mi dispiace.

  14. (ah, ecco, non avevo calcolato che i personaggi dei vari pezzi potessero essere diversi. vabbè, una volta o l’altra magari avrò occasione di leggere con calma, su carta.)

  15. “Io non so perché mia sorella sia venuta così male. Certo con un padre fascista e una madre al contempo fanatica delle apparenze e criminalmente anticonformista, oltreché a sua volta fascista, si possono capire molte cose.”
    Trovo questa frase eccessivamente esplicativa, e per dir così narrativamente “sbracata.” A mio avviso il racconto ne risente, perchè si ha l’impressione che qua l’autore voglia far rientrare a forza ideologia e/o sociologia, in un contesto sino ad allora totalmente fantastico benché assai realistico.
    Un altro appunto: lo stile non mantiene sempre il medesimo livello – anzi il medesimo registro; cosicché alle volte s’avverte qualche stonatura, tipo “merda fumante” o “fottuta volta”. Nel complesso però il racconto è un buon risultato di fusione tra forma e contenuto, il che rappresenta sempre una cartina di tornasole attendibile riguardo il senso e l’esistere stesso dell’opera. Quando la forma aderisce al contenuto, l’autore non ha “mentito”.

  16. @maciochi… “Quando la forma aderisce al contenuto”????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????

    tre quarti della tradizione letteraria occidentale sono fatti di stridori fra contenuti e forme

    ciò detto… taccia, la prego!

  17. Cara la sorella terza puntata,
    primo mi chiamo Macioci, senza h. Secondo, se le riesce di comprendere soltanto letteralizzando, forse è meglio che taccia lei. Che, se pure questa benedetta letteratura occidentale l’ha letta, evidentemente non l’ha capita.
    Amen

  18. molti dei romanzi e dei racconti di Sartori mi sembrano governati dalla claustrofobia del carattere: il carattere è una maledizione, una specie di inevitabile e spessa scorza che progressivamente imbriglia gli esseri umani, isolandoli, peggiorandoli, moltiplicandone i malintesi con il resto del mondo; anche coloro che hanno un buon carattere, pagano questa inerzia della bontà.
    Questa secondo me è una delle ragioni della mancanza di vuoti, sul piano stilistico. E una delle ragioni della ripetizione. Che senz’altro ha un illustrissimo antesignano in Bernhard. Ma Sartori mi sembra metabolizzare bene questo modello, meglio ad esempio di Trevisan.
    L’ironia di tutto poi, che dà rilievo letterario a quella che si presenta come una sorta di “immediata” confessione è il tragi-comico finale.

  19. già. il carattere ha a che fare con lo stile. è il nostro “stile di vita”.

    ma a parte che non tutto è ugualmente lecito, o memorabile (non di tutto si può parlare in tutti i modi ottenendo lo stesso risultato; un racconto breve può essere abbastanza riuscito, ma non del tutto: in questo caso non è senz’altro un buon racconto breve, anche già solo sul piano semplice dello stile).

    qui oltre allo stile “non abbastanza tragico” (punto di vista trattenuto, sprezzante come lo è un ventenne che ha capito tutto) manca del tutto la sorpresa di cui parli. dov’è? nell’ammissione finale? tragi-comica? diciamo che la “sorpresa” è ampiamente attesa, è il minimo sindacale (in fondo il topos è il racconto tragico natalizio, la svolta intimistico auto-tragica anziché originale suona pedante), ed è oltretutto davvero poco scavata dallo scavatore, è cioè descritta blandamente. al contrario, non c’è suspense: sia lo stile che il senso sono monocorde.

    il tutto pieno/ripetitivo può suonare ossessivo, angosciante appunto, come bernhard appunto. barocco/stucchevole. non tralasciare niente intellettuale/nevrotico, come joyce ad esempio. e in tutti questi casi non è necessaria la sorpresa, perché il senso è durante.
    qui suona consumistico, “anni ’80”, superficiale, appunto.

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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