Articolo precedente
Articolo successivo

… nella notte lo guidano le stelle…


 
Felice Cascione
[Imperia, 2-5-1918 – Alto, 27-1-1944 ]


Devo affrontare subito la questione dei doveri del medico. Se c’è nel medicare gli uomini per i loro mali fisici da incontrare aspre difficoltà, brutture ed egoismi sporchi, io lo so e chiaramente comprendo il meccanismo di questa tragica realtà. Non esagero per niente e tu lo sai ad usare parole così grosse. Sono pronto con ogni mia forza, con tutto me stesso ad impugnare le armi che volontariamente ho scelto per quella tremenda battaglia. Però, prima di mettermici, ti faccio una domanda: stimi tu in questo preciso momento più necessaria la mia opera negli ospedali che ricoverano malati nel fisico che nel nostro di gran lunga più grande ospedale che è l’Italia?
Credo che non sempre essi si scanneranno tra di loro.
Credo che non sempre, anzi mai, chi tutto da nulla riceve.
Ho quel che ho donato.
Come so quanto gli uomini soffrano per la loro impreparazione.
Come so che bisogna lottare e che dura è la lotta.
Di questo credere e di questo sapere ne soppeso la responsabilità mia intima, sino al massimo limite, se massimo limite è la morte.
Perché essere l’avvenire e poter rischiarare la strada, come nella tenebra il raggio del sole, non è sacrificio.
Giuro che andrò avanti per questa via, con fede e coraggio.
Per la vita e per la morte.

[ Felice Cascione Lettera testamento spirituale
all’amico Giacomo Castagneto – 1943
]

di Orsola Puecher


 
Nella notte d’inverno le stelle scintillano, ancora più nitide, fredde nel freddo apogeo. Al fuoco del bivacco, appoggiato alle pietre, nude, del muro a secco, il dottore [‘U Megu] non parla e dentro di sé sente la sventura vicina. Come degli animali senza fuga, braccati dalle sagome incerte del buio silenzioso, che aspettano la fine nell’ombra che avanza.

Ho solo te al mondo, figlio mio.
Madre mia, si muore una volta sola.
Il figlio le risponde mentre guarda lontano.

 
La Maestra Maria aveva una sciarpa rossa e questo figlio biondo da crescere da sola. Orfano del padre a cinque mesi, delicato e taciturno. Nato nell’anno mille novecento diciotto. Lei disegna aste e cerchi sulla lavagna nera, ma il saluto fascista non lo vuole insegnare, non celebra il sabato, balilla e moschetto. Qualcuno del paese organizza l’agguato.

Eccola… addosso! O vincere, o morire!
Uno degli “arditi” la riconosce.
E’ la mia maestra… e non la si tocca!

 
Il ragazzo timido a soli quattordici anni lascia la casa, per frequentare il ginnasio, a Genova, al collegio Cristofoto Colombo degli orfani di Guerra. Ogni volta che parte, piange di malinconia. Scrive lunghe lettere alla mamma lontana: nonostante il clima e il cibo pessimo, nella stanza nemica, pieno di nostalgia, cercherà di studiare e di diventare uomo.

Mi sento così solo lontano da te,
dalla casa di cui ho il profumo nel naso.

 
Gareggia nella Squadra Nazionale di Pallanuoto. Ma sulla Spiaggia d’Oro non indossa la maglia con la scritta del GUF, unico nella foto, fra i compagni ridenti. Per salute e forza si sente invincibile. Nell’acqua intorbidata dalle bracciate fitte esce alto a mezz’aria, sopra il gorgo e la mischia. Vince la coppa Orti contro l’Ungheria, nell’ultima stagione prima della guerra.

Mia carissima mamma, non puoi immaginare
in quale stato d’animo mi trovi quest’oggi.

 
A Imperia conosce il Segretario ed entra nel Partito Comunista clandestino. Dalla madre ha imparato a essere antifascista. Nei due anni a Genova, Facoltà di Medicina si espone per le sue idee e deve andare via. Altri due anni a Roma e viene individuato. E’ scoppiata la guerra.

“Un’ora segnata dal destino
batte nel cielo della nostra patria!”
Urla testa di morto dal balcone.

 
“Guerra! Guerra! Ecco il grido pazzesco di oggi. Che tristezza, mamma. Come vorrei a essere a te vicino. Perché tanto odio verso i nostri fratelli d’oltralpe? Cristo ci insegnò ad amare il nostro prossimo. Io penso che solamente i buoni, solamente coloro che si adoperano con tutte le loro forze per il trionfo della pace, possano dirsi veramente suoi seguaci. Le guerre di oggi sono una follia di uomini crudeli, ambiziosi, egoisti. La pace crea, la guerra distrugge. La prima affratella gli uomini, la seconda li spinge a dilaniarsi a vicenda.”

[ Roma 29 Maggio 1940 – lettera alla Madre ]

 
La “giovinezza” dell’inno cerca un’altra “primavera”. Delusa quella “di bellezza”, del “marciam verso l’avvenire”. Nel paese allo sfascio, in balia della crudele ritirata dei nazisti, viene meno ogni speranza di futuro. La virile mistica giovanile dell’interventismo della Prima Guerra Mondiale, dello squadrismo, della marcia su Roma è lontana. I giovani si staccano dal fascismo. La gioventù colta si sottrae al regime. E’ il momento della scelta. O soccombere, o ribellarsi.
 
Il ragazzo ora è dottore e fa la sua scelta. Raccoglie sulle colline sopra Imperia un piccolo gruppo di giovani. Dopo il primo scontro a Monte Grazie vengono catturati due repubblichini, un ufficiale e un milite. I compagni vorrebbero ucciderli subito. Li picchiavano. Il dottore li ferma. “Se tu fai così, sei come i fascisti.” Li interroga. Li tengono con loro due mesi. Era convinto di recuperarli. Sembrava che volessero diventare partigiani.

Ho studiato vent’anni per salvare
la vita di un uomo e ora voi volete
che io permetta di uccidere?

 
Se c’era un bambino ammalato, faceva anche 20 chilometri per curarlo. La sera si riunivano, qualcuno aveva portato il Manifesto di Marx ed Engels. Leggevano e poi lui spiegava. Era il suo un comunismo di valori etici universali. Il giorno di Natale scendono a Corennna. E’ finita la Messa delle 11 e vengono invitati due per famiglia a dividere il pranzo.

Io sono venuto in montagna,
non per ammazzare la gente,
ma per farla vivere meglio.

 
Dall’ottobre del ’43 al gennaio del ’44, nei momenti di pausa il dottore scrive le parole di una canzone. Tutti ci mettono qualcosa. Sull’aria della malinconica Katjuša, portata da un reduce dal fronte russo. C’era chi la voleva più dura. Il dottore la voleva più umana e sostituisce “rossa” con “nostra” per “primavera” e “bandiera”, perché possa essere, come sarà, la canzone di tutti i partigiani. La Maestra Maria correggerà “soffia” in “fischia”. Il 6 gennaio 1944, giorno dell’Epifania, la cantano tutti insieme sulla piazza di Alto.
 
Alla fine uno dei due prigionieri repubblichini scappa e conduce i nazisti e i fascisti al rifugio. Lo scontro inizia al mattino all’alba e dura per tutto il giorno. Le munizioni finiscono. Si ritirano più in alto. Il dottore decide di tornare giù, per recuperare carte e documenti e viene ferito. E’ a terra dietro un muretto, nascosto, ma quando i fascisti torturano il suo compagno per fargli dire dov’è il capo, si alza e dice ”Il capo sono io.”. La raffica di mitra lo falcia immediatamente.
 
La gente del paese di Alto, cessata la battaglia, sale pietosa a recuperare il corpo. Su di una barella. Scende la lenta processione. Gli orli dei prati velati di brina e le spoglie fronde gelate sembrano ritrarsi al passaggio. Lo portano nell’oratorio. Attendono una settimana. Non si riesce ad avvertire la famiglia. Così lo seppelliscono nel piccolo cimitero. La notizia e il vento della sua canzone soffiano dovunque. La Maestra Maria talvolta sale su a trovarlo. Come tutte le madri che restano vive ai figli.
 

Fischia il vento…


Katjuša [1938]
cantata da Lidiya Ruslanova
Musica di Matvei Blanter
Testo di Michail Isakovskij

 

Meli e peri erano in fiore,
La nebbia scivolava lungo il fiume;
Sulla sponda camminava Katjusha,
Sull’alta, ripida sponda.
      Camminava e cantava una canzone
      Di un’aquila grigia della steppa,
      Di colui che lei amava,
      Di colui le cui lettere conservava con cura.
O canzone, canzone di una ragazza,
Vola seguendo il sole luminoso
E al soldato sulla frontiera lontana
Porta i saluti di Katjusha.
      Fagli ricordare una semplice giovane ragazza,
      Fagli sentirla cantare
      Possa lui proteggere la terra natia,
      Come Katjusha protegge il loro amore.
Meli e peri erano in fiore,
La nebbia scivolava lungo il fiume;
Sulla sponda camminava Katjusha,
Sull’alta, ripida sponda.

 


 
da ‘U MEGU [2008]
di ⇨ Remo Schellino

[ che ringrazio in modo speciale per avermi spedito il suo bellissimo documentario, preziosa archeologia e conservazione della memoria dei luoghi, dei volti e delle parole dei compagni e degli amici di Felice Cascione: Silvano Alterisio, Nando Bergonzo, Francesco Biga, Carlo Cerrina, Cesare De Andreis, Paolo De Andreis, Antonio Forchero, Manfredo Manfredi, Adele Morelli Natta, Giovanni Roncallo, Tommaso Roncallo, Raimondo Ricci, Angelo Setti, Antonio Simonti, Carlo Trucco, della cugina Felicita Ponte, ancora, dopo tanti anni, piene della luce e dell’esempio della sua straordinaria figura, e capaci di rendere viva e presente la storia e di creare le suggestioni che hanno originato questo racconto, insieme alla lettura del prezioso libro di Francesco BigaFelice Cascione e la sua canzone immortale.” ⇨ Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Imperia, 2007 ]

 

FELICE CASCIONE
Medaglia d’Oro al Valor Militare
alla Memoria

Perseguitato politico, all’annuncio dell’armistizio iniziava l’organizzazione delle bande partigiane che sotto la sua guida ed al suo comando compirono audaci gesta per la redenzione della Patria. Arditi colpi di mano, atti di sabotaggio, azioni di guerriglia sulle retrovie nemiche lo videro sempre tra i primi, valoroso fra i valorosi, animatore instancabile, apostolo di libertà. Ferito in uno scontro contro preponderanti forze nazifasciste rifiutava ogni soccorso e rimaneva sul posto per dirigere il ripiegamento dei suoi uomini. Per salvare un compagno che, catturato durante la mischia, era sottoposto a torture perché indicasse chi era il comandante, si ergeva dal suolo ove giaceva nel sangue e fieramente gridava: « Sono io il capo ». Cadeva crivellato di colpi immolando la vita in un supremo gesto di abnegazione.

Val Pennavaire, 27 gennaio 1944.


 
Print Friendly, PDF & Email

16 Commenti

  1. la cosa che più mi emoziona è quella correzione materna: “fischia”; un abbraccio resistente a tutti

  2. La democrazia e l’entropia.
    La democrazia come prodotto a lunga scadenza, da consumarsi preferibilmente entro e non oltre un tempo sufficientemente virtuoso, poi si ricomincia da capo, si disarmano e, caso per caso cancellano i privilegi e tutti quei sedimenti dove le opportunità hanno creato feudi, caste e monopoli che non ridistribuisco opportunità e ricchezza, paralizzano il lavoro, la creatività e la crescita.
    Chi attiva la conseguente sintropia ?

  3. belle queste nostre stelle….bella anche la scelta di diversi linguaggi per diverse storie che per troppo tempo abbiamo “imbalsamato” fino a dimenticare che noi siamo liberi grazie a loro. Oggi ricordiamo e festeggiamo, da domani riprendiamo a resistere.

  4. Grazie a tutti.
    E quando ancora si sente ciarlare di “querra civile”, a proposito della Resistenza, si rafforza, attraverso le parole e le storie di chi “scelse”, la certezza che fu invece una “guerra di civiltà”, di valori alti e condivisi e perduti opposti alla barbarie etica, mai perduta, invece.

    ,\\’

I commenti a questo post sono chiusi

articoli correlati

“Vittime senza giustizia, almeno la memoria” di Anna Paola Moretti

di Orsola Puecher
Anna Paola Moretti, storica della memoria e della deportazione femminile, in questa nuova indagine ricostruisce con la consueta accuratezza, fra documenti, archivi e ricerca di testimonianze sul campo, la vicenda di due giovani donne martiri del nazifascismo nel pesarese...

Colfiorito

di Nadia Agustoni

Colfiorito
(qualcosa di bianco)
Sera a Colfiorito
nel garrire di rondini
in un’amnesia di cielo
e penombra
sull’ascia dei temporali
portammo radici di voci
e alveari.

V. Ė. Mejerchol’d UN BALLO IN MASCHERA

di Anna Tellini
«A noi, compagni, sia a me, che a Šostakovič, che a S. Ejzenštejn, è data la pie­na possibilità di continuare il nostro lavoro e solo nel lavoro correggere i nostri errori. (Applausi). Compagni, dite: dove, in quale altro paese dell’or­be terraqueo è possibile un simile fenomeno?» Queste parole precedono solo di poche ore la firma dell’ordine di arresto di Mejerchol’d.

Manuela Ormea IL BARONE RAMPANTE

di Manuela Ormea
Razionalità ed invenzione fantastica costituiscono il nucleo del romanzo. In quest’opera è richiesta la capacità di guardare la realtà contemporanea ponendosi ad una giusta distanza.

Ricominciamo dalle rose

di Nadia Agustoni
mastica duro il cane della ricchezza
le ossa bianche del paese
le nostre ossa
spolpate

in memoria – per Cristina Annino per dopo

di Nadia Agustoni
è un minuto l’universo sulla città dei vivi
ma cresce a ogni uomo la terra
l’osso si fa parola
non si abbassa la grandezza
della morte.
orsola puecher
orsola puecherhttps://www.nazioneindiana.com/author/orsola-puecher/
,\\' Nasce [ in un giorno di rose e bandiere ] Scrive. [ con molta calma ] Nulla ha maggior fascino dei documenti antichi sepolti per centinaia d’anni negli archivi. Nella corrispondenza epistolare, negli scritti vergati tanto tempo addietro, forse, sono le sole voci che da evi lontani possono tornare a farsi vive, a parlare, più di ogni altra cosa, più di ogni racconto. Perché ciò ch’era in loro, la sostanza segreta e cristallina dell’umano è anche e ancora profondamente sepolta in noi nell’oggi. E nulla più della verità agogna alla finzione dell’immaginazione, all’intuizione, che ne estragga frammenti di visioni. Il pensiero cammina a ritroso lungo le parole scritte nel momento in cui i fatti avvenivano, accendendosi di supposizioni, di scene probabilmente accadute. Le immagini traboccano di suggestioni sempre diverse, di particolari inquieti che accendono percorsi non lineari, come se nel passato ci fossero scordati sprazzi di futuro anteriore ancora da decodificare, ansiosi di essere narrati. Cosa avrà provato… che cosa avrà detto… avrà sofferto… pensato. Si affollano fatti ancora in cerca di un palcoscenico, di dialoghi, luoghi e personaggi che tornano in rilievo dalla carta muta, miracolosamente, per piccoli indizi e molliche di Pollicino nel bosco.
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: