Il selfie, o del passaggio al discorso diretto nella narrazione dell’io attraverso le immagini

di Ornella Tajani

It’s a new world, so make sure
Should you go on tour to Greece or New York or the Fens
To be in the swing:
Never look at a thing
Except through a camera lens

– The Entertainment of the Senses, W.H. Auden, 1973

Premessa e discrimini

Col boom della Apple anch’io ho comprato un Mac e ho scoperto quella subdola lusinga alla vanità che è Photobooth: il programma collegato alla webcam del computer con cui scattarsi foto all’infinito usando una varietà di effetti e filtri grazie ai quali raggiungere l’immagine ideale, provando e riprovando finché la faccia in questione non somigli a quella desiderata.

Mi sembra che col prolificare della tecnologia digitale ci abituiamo sempre di più a un numero limitato di versioni del nostro volto, perché, nella stragrande maggioranza dei casi, siamo noi a scegliere quale sarà la versione da rendere pubblica; e sceglieremo quella in cui maggiormente “somigliamo a noi stessi”, direbbe Barthes, cioè quella in cui assumiamo la posa che pensiamo ci corrisponda, esaltandoci. Anche qualora sia qualcun altro a scattare, avremo spesso parte in causa nel decidere quale immagine non ci convince e va dunque cestinata (“Qui sono venuta malissimo, cancellala”. Quanto più forte e denso di implicazioni era invece il gesto di stracciare una foto su pellicola, azione ben più rara anche perché l’oggetto-foto aveva un suo costo). In un certo senso, disimpariamo progressivamente che faccia abbiamo, perché gli scatti che sfuggono al nostro controllo sono sempre di meno; l’aumento considerevole del numero di ritratti posseduto è inversamente proporzionale alla sua varietà.

È, almeno in parte e con tutte le precauzioni ipotetiche del caso, il passo verso una più povera conoscenza di noi: personalmente ho scoperto spesso proprio dalle foto – quelle su pellicola soprattutto, ma anche quelle che mi hanno scattato a mia insaputa con supporti digitali – di possedere delle espressioni che ignoravo di avere, o di riconoscerne e identificarne alcune che mi erano meno familiari. Era importante, soprattutto per chi, come me, nel corso degli anni e in maniera perfettamente alternata, si è sentita dire dai vari partner “hai un viso che cambia in continuazione” e “hai quasi sempre la stessa espressione”. Quelle foto rubate al mio controllo potevano aiutare a farmi un’idea di chi avesse ragione – sebbene la tentazione sia sempre stata quella di ritenere i primi più innamorati, attenti e imaginifici dei secondi.

Chiacchierando della moda del selfie è saltato spesso fuori l’argomento della non-novità della pratica, che rientrerebbe nella lunga tradizione dell’autoritratto pittorico. A me sembra, stavolta, che l’ipotesi di tracciare un continuum storico-artistico non serva quasi completamente a niente, se non a mettere in luce delle minuscole associazioni lapalissiane e intuitive. Se l’autoritratto pittorico serviva a lasciare ai posteri un’immagine dell’artista, l’autoritratto fotografico, che ha visto quasi sempre il fotografo ritrarsi con la macchina fotografica in mano, spesso riflesso in uno specchio, potrebbe considerarsi una specie di firma artistica, lo scatto a margine di un lavoro compiuto. In entrambi i casi, gli autoritratti significavano “Io sono un pittore/un fotografo ”, mentre il selfie significa ”Io esisto”. Nello schermo dello smartphone io mi contemplo, mi controllo, mi guardo mentre mi sto fotografando, anzi: scatto soprattutto per guardarmi scattare – diversamente dall’artista, che scattava per lasciar traccia di sé.

Il selfie è, innanzitutto, celebrazione di un momento, e la ritualità è uno dei suoi tratti fondamentali, come vedremo meglio tra poco. «Il più logico degli esteti ottocenteschi, Mallarmé, diceva che al mondo tutto esiste per finire in un libro. Oggi tutto esiste per finire in una foto», scriveva la Sontag nel saggio Sulla fotografia. In una foto, oppure in un selfie.

Per delineare un quadro più preciso partirò da ciò che distingue il selfie dalla vecchia foto-ricordo; il viaggio è un evento da ritrarre, come lo sono una festa o un pranzo al ristorante. Eviterò di considerare il selfie allo specchio, tendenza a mio avviso marginale e destinata a sparire in breve tempo: la specificità del selfie sta nel fatto che la vista del supporto scompare dal risultato finale. Laddove prima l’artista si fotografava allo specchio, ora lo schermo-specchio fotografa me.

C’era una volta

Sono ad Atene e vado a visitare il Partenone. L’idea di scattargli una foto mi ha sempre vista recalcitrante: innanzitutto perché mi importa guardare, vivere il momento, il trionfo dell’esperienza romantica, del singolo istante di assoluto e via dicendo, e poi perché ritrarre –probabilmente in maniera mediocre- un monumento del genere è perfettamente inutile, dato che su Google posso trovare mille immagini molto più belle della mia. Ma di frammenti di lucidità è lastricata la via del sentimentalismo: una volta tornata a casa non mi verrà mai il desiderio di andare a cercarmi una foto del Partenone per ricordarmi quello che ho visto, mentre potrà essere bello, nell’insieme di foto della cartella “Grecia”, ritrovarne anche una del Partenone, da me ritratto sotto il sole, in sovraesposizione, con inquadratura sbilenca e un gruppo di cappellini che mi copre la colonna a destra, ma insomma, una foto mia, che abbia davvero qualcosa del momento vissuto, non foss’altro che la stessa età del mio ricordo.

La mia indulgenza verso la foto-souvenir risiede nell’identificare nel selfie il sintomo di una mania peggiore, in confronto alla quale la prima è un trionfo di Erlebnis. Adesso, davanti e con il Partenone (se non dentro), devo esserci anch’io. Certamente, c’ero già prima: prima il mio compagno di viaggio mi scattava una foto vicino al nugolo di cappellini, o, se si era in gruppo, si chiedeva a qualcuno il favore di ritrarci. Al limite si facevano i turni, per poi avere due foto quasi identiche da cui solo un personaggio scompariva per farsi momentaneamente fotografo, dando vita quasi a un gioco delle differenze. Ora il problema non si pone più perché, da soli o in gruppo, ci facciamo un autoscatto (gradevole parola che fa ancora il rumore di una Polaroid).

Tra il selfie e la foto di gruppo con l’elemento ballerino mi sembra ci sia uno scarto rilevante: il selfie non è più ricordo, è dimostrazione, per me non meno che per gli altri. Io c’ero, io sono qui, adesso, al Partenone, come potete agevolmente vedere su Facebook o Twitter – dato che il selfie è pensato per essere immediatamente condiviso. Il selfie è più incollato al presente di quanto sarebbe una mia foto scattata da altri, perché ritrae la mia espressione mentre mi sto facendo una foto. Il selfie, forse, è ipermoderno, perché contiene tutte le contraddizioni legate all’ipernarcisismo di cui scrive Gilles Lipovetsky, come l’essere diventati, al contempo, più adulti e più instabili, più critici e più superficiali; e anche, aggiungo io come ipotesi, più esigenti verso la nostra immagine e più accomodanti verso quella degli altri.

Adesso so che sono arrivata in un posto nel momento in cui mi faccio una foto. E, quando rivedo il mio selfie, non è più per ricordarmi di quando sono andata al Partenone; ma per ricordarmi di quando sono andata al Partenone e mi sono fatta una foto. Il linguaggio cambia o cambierà a breve: da “ti ricordi quando siamo stati al Partenone?” a “ti ricordi il selfie che ci siamo fatti al Partenone?”.

Il selfie è un rito che consacra il mio essere qui, come già scriveva la Sontag sulla fotografia in generale: è un modo per certificare la mia esperienza mentre, in effetti, la sto limitando perché vado alla ricerca del fotogenico, come si diceva un attimo fa a proposito della riduzione della varietà dei ritratti. Se già per la Sontag il viaggio era una strategia per accumulare foto, oggi, col selfie, si trasforma in un pretesto di narrazione dell’io. E quello del viaggio è solo un esempio: qualsiasi momento, incorniciato in un selfie, diventa un valido frammento narrativo.

Parentesi. L’aura Kitsch

Nelle prime pagine del romanzo White Noise di Don DeLillo il collega Murray chiede al protagonista Jack Gladney di accompagnarlo a visitare un’attrazione nota come la stalla più fotografata d’America. Lungo il tragitto in auto i due contano ben cinque cartelli recanti l’indicazione «The most photographed barn in America». Una volta a destinazione, dopo aver parcheggiato accanto a numerose altre vetture, raggiungono uno spiazzo sopraelevato creato apposta per fotografare; in un angolo, un edicolante vende foto e cartoline che ritraggono la stalla vista dallo stesso spiazzo. Tutti i presenti fotografano, attrezzati di filtri vari e treppiedi. Dopo un meditativo silenzio, Murray conclude: «La stalla non la vede nessuno […]. Una volta visti i cartelli stradali, diventa impossibile vedere la stalla in sé» (Rumore bianco, Einaudi, 1999, trad. di M. Biondi). Quel che Murray intende dire è che la fama del posto ha superato di gran lunga l’oggetto cui viene conferita: l’unica caratteristica per la quale quella stalla si distingue da altre stalle è che si tratta della stalla più fotografata d’America, e l’unico modo per perpetuare questa sua aura è continuare a pubblicizzarla, a visitarla e a fotografarla come la stalla più fotografata d’America. Il gioco di DeLillo si fa sottile: i riferimenti all’aura e alla religiosità dell’esperienza presenti nel testo indicano l’apertura di una dialettica con Benjamin. L’aura dell’opera d’arte, sembra volerci dire l’autore, non è scomparsa a causa della riproducibilità tecnica: si è modificata in maniera speculare. Oggi è proprio la quantità di riproduzioni prodotte e vendute che consacra l’opera o il soggetto artistico. La religiosità non impone più alcuna distanza ma, al contrario, invita ad avvicinarsi. Nessun compiacimento, però: Murray definisce la visita alla stalla come una resa spirituale; lui e Jack non stanno vedendo nient’altro che quello che vedono gli altri – e gli altri, che fotografano il fotografare, non stanno vedendo assolutamente nulla. Il rito collettivo cui prendono parte si svolge dunque intorno a un oggetto sconosciuto: se quello che conta è celebrare, senza troppo curarsi dell’altare al quale ci si sta genuflettendo, vuol dire che anche la contemplazione è vissuta per procura; l’aura è diventata Kitsch.

Mythologues di noi stessi

Dopo questa parentesi è facile spingersi a dire che col selfie è l’identità stessa a essere vissuta per procura: ciò che di noi ritraiamo e mostriamo con lo smartphone, previa accurata selezione, va a costituire l’identità che viene ricevuta, “fruita” dagli altri e che, con un giro completo, ci viene restituita dai social, in modo tale che somigliamo sempre di più alla nostra immagine.

Il selfie consacra il mio istante d’esperienza, ne dà prova al mondo e, indirettamente, a me stessa; al contempo, io divento l’artefice della mia narrazione. Niente di cui stupirsi, in fondo: la narrativa contemporanea viaggia sempre più di frequente sui binari dell’io, e le foto mediate dai social network fanno parte della narrazione di noi. Il selfie significa che siamo passati alla prima persona anche con l’immagine; e, a pensarci bene, il passaggio non è neanche stato rapidissimo, anzi: la sua velocità è stata inferiore a quella con la quale abbiamo sostituito la prima alla terza persona che inizialmente usavamo su Facebook (“Sta scrivendo un articolo per Nazione Indiana”, avrei ad esempio scritto adesso in bacheca, accanto al mio nome e cognome, come per un personaggio di finzione). Ora siamo passati al discorso diretto anche con le immagini, e questo vale per tutti, basti pensare ai selfie degli attori durante la notte dei Oscar: se da un lato il selfie è più intimo e “arriva” di più al pubblico di fan, dall’altro anche i divi hanno voglia di raccontarsi alla prima persona, di autonarrarsi invece di essere continuamente narrati dai media.

Che ci si autoritragga davanti a un monumento o al tavolino di un bar con gli amici, il discorso non cambia: stiamo guardando gli occhi del protagonista di una narrazione su Facebook, o su un altro social media. Guardiamo gli occhi di colui che viaggia, gode, si diverte, si annoia sul divano per via della febbre. “Sto guardando gli occhi che hanno visto l’imperatore”, scriveva Barthes all’inizio della Chambre claire, parlando del ritratto del fratello di Napoleone. Forse è qui una delle differenze con l’autoscatto vecchio stile in cui si vedeva la macchina fotografica: lì la nostra attenzione era catturata dall’oggetto/soggetto che si scattava una foto; nel selfie, dal momento che lo smartphone scompare dal riquadro, vediamo semplicemente “l’oggetto che vive”, quasi dimenticandoci che egli sia anche l’autore della foto, e però fruendo di un effetto di realtà amplificato. Il selfie mostra e include tutto, e la sua immediata condivisione sui social è l’hic et nunc del vissuto: si passa dal ça a été con cui Barthes delineava la differenza tra ritratto pittorico e ritratto fotografico – poiché quest’ultimo, rispetto al primo, garantiva la veridicità del soggetto – al c’est: quello che vedi nella foto sta succedendo adesso e il fatto che io sia al contempo l’operator, cioè l’autore della foto, e lo spectrum, ossia il soggetto, fa sì che la fruizione guadagni in immediatezza: riprendo me stessa, non è un altro a riprendermi, dunque c’è un passaggio in meno.

Se la foto è l’Evento, come scriveva la Sontag, il selfie rappresenta allora il dominio sull’Evento, il tentativo di controllarlo, di impadronirsi di un frammento di tempo; e se, con Barthes, è la morte asimbolica e al di fuori di ogni religione che la fotografia produce per perpetuare la vita, chissà che dietro il diffondersi del Selfie non si nasconda quel desiderio, tipicamente kitsch e delilliano, di provare ad anestetizzare il senso di dolore per la caducità umana. D’altronde, scrive Lipovetsky, «oggi l’ossessione di sé si manifesta nella paura della malattia e della vecchiaia, più che nella smania del godimento. Narciso, più che innamorato di se stesso, è ormai terrorizzato dalla vita quotidiana». Il selfie, forse, gli serve anche da ansiolitico.

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14 Commenti

  1. (Mi spiego meglio così il motivo per cui, scattato un selfie, non resisto alla tentazione di modificarlo graficamente. Devo inserire degli oggetti estranei vistosi e improbabili – una volta ho messo dentro una finestra alle spalle un aereo in picchiata prossimo allo schianto – o devo cambiare sfondo trasportando la mia figura dentro paesaggi lontani e improbabili. Sento la necessità di eliminare un certo scarto…)

  2. Complimenti articolo molto interessante

    In poche parole,le persone ritraggono i momenti migliori della loro vita per avere la prova della loro felicità ! Lo trovo veramente triste.I bei ricordi quelli legati alle belle emozioni rimangono comunque,nella mente e nel cuore.Cosi come i brutti.Basta guardarsi dentro.La pittura,la fotografia andrebbero a mio avviso utilizzati per dare spessore ad altre cose…..La fotografia ha l’audacia capacità di trarre il reale in modo fedele,sia nel dramma che nella bellezza.Mentre la pittura si adatta praticamente a qualunque espressione le si voglia dare.

  3. Forse, a conferma di quanto diceva, tra le altre cose, ormai tanto tempo fa, la cara Babsi jones, la fiducia ha un trend non proprio crescente, e le fotografie dobbiamo farcele da soli(magari anche per non farci fottere il dispositivo deputato a cio` dal nostro amico del cuore)

  4. La Tajani ha preso mezza Sontag e mezzo Barthes. Una volta ben amalgamati ha aggiunto il selfie e ha infornato a 200° per 10 minuti. Il risultato è un articolo molto interessante…

  5. Il selfie è al tramonto. Passerà di moda anche questa specie di surrogato digitale narcisistico di quelle storiche foto che si facevano nelle macchinette a cabina con la tendina delle stazioni, pigiandosi nel maggior numero possibile, e aspettando che la striscetta ancora umida uscisse, per sventolarla in attesa che si asciugasse, e che fortunosamente ancora esistono.

    Il self+ie, suffisso diminutivo-vezzeggiativo, una specie di -uccio, -ino, come gli infestanti momentino, attimino, mostra un se stessuccio ad hoc. Vuol narrare non tanto se stessi e affermare la propria esistenza in assoluto,  ma mostrare il se stesso migliore in cui si spera, socialmente accettato e inserito, nei luoghi giusti, con il look giusto, con il filtro giusto, o accanto ai personaggi giusti del momento, siano essi Renzi, il Papa o alia.

    Albeggia il siderale prospettico dronie a rimpicciolire l’io e a dirci quanto siamo piccoli fino a sparire nell’universo infinito

    [ gia avvistati droni – che costano poi non così tanto – svolazzare anche qui – in sperdute zone della regione rurale e collinosa…]

    ,\\’

    • Non sono sicura che si tratti di un vero passaggio o sostituzione. Il dronie è detto anche “sky selfie”, per cui mi sembra piuttosto un’evoluzione del selfie: uno strumento che consente non più foto, ma video, e che inoltre mi permette di inserire nella scena anche il paesaggio, le décor, il che renderà la narrazione di me ancora più cinematografica.
      E’ vero che, guardando i video dimostrativi dei dronie disponibili oggi, vien da pensare a una futura riduzione dell’io, così piccolo in mezzo al mondo – ma il video dimostrativo serve a farci capire quanto alto volta il dronie. Chissà quali saranno poi gli usi più frequenti una volta che si sarà diffuso, chissà se continuerà a volare così in alto.
      [“hai visto il dronie di Francesca nel souk a Rabat, ma quanta roba si è comprata? Però che posti…”]

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Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia e storia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ora insegna in scuole d’architettura a Parigi e Versailles. Poesia Prove d’inconsistenza, in VI Quaderno italiano, Marcos y Marcos, 1998. Inventari, Zona 2001; finalista Premio Delfini 2001. La distrazione, Luca Sossella, 2008; premio Montano 2009. Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, Italic Pequod, 2013. La grande anitra, Oèdipus, 2013. Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016, collana Autoriale, Dot.Com Press, 2017. Il rumore è il messaggio, Diaforia, 2023. Prose Prati, in Prosa in prosa, volume collettivo, Le Lettere, 2009; Tic edizioni, 2020. Quando Kubrick inventò la fantascienza. 4 capricci su 2001, Camera Verde, 2011. Commiato da Andromeda, Valigie Rosse, 2011 (Premio Ciampi, 2011). I miei pezzi, in Ex.it Materiali fuori contesto, volume collettivo, La Colornese – Tielleci, 2013. Ollivud, Prufrock spa, 2018. Stralunati, Italo Svevo, 2022. Romanzi Parigi è un desiderio, Ponte Alle Grazie, 2016; finalista Premio Napoli 2017, Premio Bridge 2017. La vita adulta, Ponte Alle Grazie, 2021. Saggistica L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo, Dipartimento di Linguistica e Letterature comparate, Università di Cassino, 2003. La confusione è ancella della menzogna, edizione digitale, Quintadicopertina, 2012. La civiltà idiota. Saggi militanti, Valigie Rosse, 2018. Con Paolo Giovannetti ha curato il volume collettivo Teoria & poesia, Biblion, 2018. Traduzioni Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008, Metauro, 2009. È stato redattore delle riviste “Manocometa”, “Allegoria”, del sito GAMMM, della rivista e del sito “Alfabeta2”. È uno dei membri fondatori del blog Nazione Indiana e il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.
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