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Una notte sul Monte Stella

Immagine quasi caravaggesca di un piccolo racconto nel buio della notte milanese in cima al Monte Stella.
Immagine quasi caravaggesca di un piccolo racconto
nel buio della notte milanese in cima al Monte Stella.

MARATOWN 24 Ottobre 2015
Ascensione al Monte Stella.

di Orsola Puecher

Negli anni sessanta una bambina per mano al suo papà andava ogni tanto sul Monte Stella. Si fermavano un poco prima di prendere l’Autostrada dei Laghi verso Casnate, dov’era una casa di vacanza, in affitto, con un grande parco inselvatichito. Scendevano dalla Flaminia coupé, grigio metallizzato, usata, e, inerpicandosi per i gradoni spogli, con qualche stecchiolino striminzito di albero rachitico qui e là, salivano sulla strana collina, che, arrivati in cima, a quella bambina sembrava altissima. Anche l’aria era diversa, più fresca, più ventilata. Sotto le case rimpicciolite, le auto lontane, la planimetria della città che si stendeva remota nella foschia, con qualche cuspide in lontananza, il Pirellone, la Torre Velasca, la Madonnina, d’oro sulla sua guglia, come fossero un altrove lontano e rarefatto. Qualche volta se il cielo era limpido si vedevano i picchi innevati delle Alpi a corona. Il Monte Rosa.
 

 

[ Nel film “Ratataplan” di Maurizio Nichetti è possibile vedere
com’era il Monte Stella intorno agli anni 1977-1978.]


In un romanzo, in un film con la speranza di un possibile lieto fine, un padre avrebbe potuto dire alla figlia:
– Vedi un giorno tutto questo sarà tuo!
In questa storia invece il padre diceva alla bambina:
– Vedi qui sotto c’è tutto quello che non è stato e mai sarà tuo… c’è la mia casa distrutta dai bombardamenti. Perché nulla è veramente nostro in cielo e in terra.
Alla bambina che disegnava le case sopra le colline, con il tetto rosso a punta, le finestrine quadrate con i vetri a croce e un albero di fianco, questo mondo a rovescio sembrava inverosimile e allora gli chiedeva di raccontarle di quella casa, che immaginava intatta e capovolta, dei suoi giocattoli, dei suoi fratellini, dei giochi che facevano. E il vuoto silenzioso della collina si riempiva di voci, di immagini, di ricordi. Qui sotto i nostri piedi, dalle radici di alberi e fili d’erba in giù, se potessimo avere il dono di penetrare il terreno in una ipotetica immaginaria stratigrafia, vedremmo i resti di una città ferita dai bombardamenti con le macerie composite che sono la base della collina, ora così diversa e rigogliosa di vegetazione. Travi, mattoni, balaustre di finestre, tegole, mobili, vestiti impolverati, umili suppellettili insieme a preziosi manufatti, giocattoli amati, libri, polvere alla polvere. Qui sotto i nostri piedi, per un archeologo immaginario che mai li scaverà, riposano i piccoli oggetti futili ed essenziali di tutte le case e di tutte le vite, che compongono questa architettura viva su cose morte, nata nel dopo guerra da un sogno dell’architetto ⇨ Piero Bottoni.

Questa collina brulla che con il passare del tempo è diventata un giardino, sembra un giardino, ed è e deve restare un giardino, è il memoriale di una città ferita e dolorante e insieme il superamento della morte e della distruzione nella visione pacifica e composta di una architettura naturale di viottoli ed essenze arboree, che negli anni silenziosamente, nonostante tutto, senza curarsi di chi c’è e di chi ormai non c’è più, sono cresciute e ancora continueranno a crescere dopo di noi, modificando in vivo con sobria armonia il sogno e l’assetto originario di questa architettura vegetale.

La famiglia Puecher abitava in via Broletto 39. Giorgio e Anna Maria Gianelli con i tre figli Giancarlo, Virginio e Gianni. Le domestiche Rosa, Berta e Vanna.

Milano Via Broletto 39 prima e dopo il bombardamento del 15-16 agosto 1943
Milano via Broletto 39
prima e dopo il bombardamento del 15-16 agosto 1943

Nella notte tra il 15 e il 16 giugno 1940 Milano subisce il primo attacco aereo inglese, dopo solo 5 giorni dall’entrata in guerra dell’Italia. L’allarme antiaereo suona alle 1.48. Le incursioni notturne continuano per tutto l’anno. Mio padre Virginio si rifiuta di scendere in cantina e osserva i bombardamenti da un abbaino della soffitta, come fossero uno spettacolo pirotecnico. C’è l’oscuramento: si fissano con puntine da disegno all’interno delle persiane fogli di carta oleata blu copiativo.
Il 1941 invece passa senza nessun altro attacco.

Nell’Ottobre del 1942 riprendono i bombardamenti su Milano. Il 24 Ottobre alla 17.57 suona improvvisamente l’allarme antiaereo. La gente è disorientata, non si erano mai verificati attacchi in pieno giorno. L’allarme inoltre viene dato in ritardo e dopo solo tre minuti le bombe cominciano a cadere: 73 aerei Lancaster ne sganciano a ondate successive 12 da 2000 chili, più di 2.000 bombe incendiarie di grosso calibro e più di 28.000 di piccolo calibro. Viene abbattuto anche il muro del Carcere di San Vittore. Gli attacchi continuano di giorno e di notte. I milanesi cominciano a sfollare dalla città.

Nell’estate le condizioni di Anna Maria, la madre, si aggravano. Ginio costruisce una specie di grande ventaglio a pedale per alleviare le sue sofferenze e la assiste per lunghe ore leggendo ad alta voce per lei. Giancarlo studia come un matto frequentando due anni in uno, per conseguire il Diploma di Maturità il più presto possibile. Anna Maria muore il 31 luglio di quella caldissima estate di guerra. La zia Lia detta Szà resta sola ad accudire ai nipoti. La perdita della presenza forte, vitale e piena di entusiasmo di Anna Maria è un vuoto tangibile e getta il notaio Giorgio Puecher in una disperazione profonda e silenziosa. I Puecher si rifugiano nella casa di campagna a Lambrugo.

8 agosto
Vengono colpiti: il Teatro Filodrammatici, corso Garibaldi, l’ospedale Fatebenefratelli, S. Marco e S. Francesco di Paola, Brera, il Circolo Filologico, il Castello, la Villa Reale, il Museo di Storia Naturale.
13 agosto
Vengono colpiti: la Galleria, Palazzo Marino, Palazzo Reale, Palazzo Serbelloni, l’Arcivescovado, il Duomo lateralmente, la Stazione Centrale, il Conservatorio.
15 agosto
Vengono colpiti: il Teatro Manzoni, la Biblioteca Civica, l’Ambrosiana, Santa Maria delle Grazie, il teatro Lirico e il Dal Verme, il Duomo, la Scala, San Fedele e di San Babila, il Policlinico, la Ca’ Granda, la Rinascente.

Le vittime furono tante, oltre i 1.033 morti accertati, molti corpi non furono mai estratti dalle macerie.
Chi lavora torna in città di giorno. Nella notte tra il 15 e il 16 agosto 1943 anche la casa di via Broletto 39 viene colpita e distrutta.

E dopo quella notte di fuochi, visibili anche da lontano come un bagliore di luce a scoppi che avvolgeva Milano, una mattina, tornati in città da dove erano sfollati, ebbero la sorpresa di trovare che dell’edificio era rimasto in piedi solo lo spaccato lugubre di una casa di bambola spalancata. E da uno degli occhi aperti delle stanze dondolava, inclinato sul vuoto della distruzione, un armadio, miracolosamente in bilico, con le ante aperte che svelavano il suo contenuto: giocattoli, sui ripiani, oramai irraggiungibili. Violata intimità che mostrava l’istante fermato delle vite che vi avevano custodito gelosamente i propri tesori, in quell’illusione di stabilità, di proprietà privata assoluta, di continuità eterna del tempo e delle generazioni propria solo dell’infanzia. O dell’arte. Per questo, forse, poi, il ragazzo, diventato grande, per tutta la vita si rifiutò di comprare muri, mattoni, pezzi di terra. Imparata la caducità grazie a quell’armadio, sarcasticamente in bilico, appoggiato ad una trave maestra del perimetro pericolante della stanza dei bambini; dietro il composto scenario impolverato dei lettini perfettamente rifatti, delle appliques con i pendagli di vetro; di fianco la stanza da bagno, i riquadri lustri delle piastrelle, lo specchio intatto, addirittura un asciugamano di lino con le frange, ben ripiegato sull’apposito sostegno. Il sapone nella conchiglia portasapone. Del salotto rimaneva soltanto la tappezzeria con i quadri appesi dritti: il pavimento si era aperto in una voragine che aveva digerito ogni mobile e suppellettile. Il pianoforte. Ma, beffardo e solo, l’armadio dei giocattoli offriva allineati i suoi trenini, macchinine di latta, soldatini, cubi di legno con le lettere. La tanto sempre rimpianta scatola N. 5 del Meccano, con cui i nostri padri bambini si sognavano ingegneri, costruttori con i pezzi forati rossi e verdi e i bulloncini, di un progresso futuro di radiosi e geometrici ponti, stazioni, torri Eiffel, grattacieli, mulini in miniatura, e non case rase al suolo da bombe. Fucili a tappo che non avrebbero ammazzato un moscerino e schettini con cui volare per i viali del parco e un mappamondo, con la sua geografia mondiale piena di certezze, senza truppe in movimento sulla sua curva superficie di paralleli e meridiani, fra i rombi e gli scoppi infuocati, i pezzi di carne, le torme di profughi nella neve, i prigionieri, che avanzavano cancellando i confini dei suoi stati dai delicati colori pastello. Eccolo lì, lo spaccato borghese della sua casa borghese. Tutte lì le cose di una vita. Ora così misere. Ma per la cui perdita, si accorse, non senza vergogna, di non provare lo stesso dolore che le donne di casa mimavano levando verso il cielo larghi atavici gesti disperati. Lui si sentiva in se stesso forte, più forte di quell’ammasso di calcinacci. La demolissero pure quella casa. La mamma non l’avrebbe più riavuta, avrebbe perso suo fratello Giancarlo, partigiano, fucilato il 21 dicembre di quello stesso anno, suo padre deportato in Germania per rappresaglia e mai ritornato Il suo dolore vagava fra quegli oggetti rimasti e così fu che ad esso voltò le spalle, lasciandolo nelle pietre, sotto il tumulo delle macerie. Lui non era quel dolore, quella casa, quella vita. Avrebbe abitato altre case che nemmeno immaginava. Altre storie. Altri sogni. La vita andava avanti. Solo quell’armadio scampato per miracolo, se lo sarebbe sempre portato dentro, quello soltanto, come una scatola magica.


.         
Se il Monte Stella è nato, ha cominciato a crescere, si è conformato, si è coperto di alberi e di erba, di viotttoli e di strade, insomma è divenuto qualcosa nella fisionomia della città, e se ora è in progressivo divenire, è perché fu un sogno ed una poesia e perché io vi ho creduto. Giacché sogno e poesia muovono, malgrado le apparenze, il mondo.

Piero Bottoni “Ascensione al Monte stella” [pag. 457-476]
in Una nuova antichissima bellezza Laterza [1995]

L’idea di una montagna a Milano nasce da un sogno di ragazzo.

La prima ascensione alla montagna di Milano l’ho fatta in sogno. Non saprei precisare quando fu, ma certo dopo il 1926, perché in quell’anno mi laureai architetto. […] Fatto si è che sognavo montagna e architettura. [ibidem]

Nel dopo guerra durante la progettazione del QT8, un nuovo quartiere residenziale a Nord di Milano, vista la presenza nella zona di molte cave di ghiaia abbandonate, l’architetto Piero Bottoni, ebbe l’idea di trasformarne una in un lago per attività sportive all’interno di un parco. Ma in questa cava venivano man mano scaricate le macerie delle guerra.

Ad un certo punto la massa dei detriti portati in luogo coi più svariati mezzi di trasporto, meccanici, animali e persino uomini, divenne tale che l’impresa incaricata dello sgombero delle macerie verso la periferia credette conveniente realizzare un collegamento fra il parco Sempione e la zona del QT8 addirittura con una ferrovia a scartamento ridotto. ibidem]

.    

Le macerie colmano la cava.

L’acqua diveniva limo, il limo fango, il fango pantano, il pantano terra: una terra umida, e poi sotto il sole, secca e scagliosa come la pelle di un coccodrillo.
Era come se un caimano ottuso e feroce, la guerra, dopo averli divorati, ora digerisse immobile e senza rimorsi tutti quei delicati organismi distrutti.
Il lago azzurro e romantico della nuova architettura spariva a poco a poco esalando i miasmi delle cose morte e della fogna. [ibidem]

Così nasce la montagna di Milano.

Bottoni delinea un progetto, in modo che le macerie vengano dislocate razionalmente, fermate da muretti di contenimento. L’altezza prevista doveva esse di 100 metri, con una funicolare che la collegava al quartiere sottostante. Poi per motivi tecnici si fermò agli attuali 50. Ideata nel 47, definita progettualmente nel ’53, la Montagnetta fu completata solo alla fine degli anni ’60, con infinte difficoltà e lotte, spesso nell’indifferenza delle diverse ammnistrazioni comunali. La massa del materiale di 4.660.000 di metri cubi è composta per i primi dieci metri dalle macerie dei bombardamenti, per i successivi strati da terreno di risulta e detriti di edifici demoliti dopo la fine della guerra, e dal ’49 in poi da materiali di scavo dei nuovi cantieri ella ricostruzione. Solo dopo il ’67 con la chiusura della discarica, inizieranno i lavori di rifinitura della collina, creando strade e viottoli, completando la semina del manto erboso e la piantumazione.

In tempi recenti un progetto di amplimento del ⇨ Giardino dei Giusti di tutto il mondo, felicemente ospitato in una parte della collina, che implicherebbe la costruzione di un anfiteatro per eventi e commemorazioni, e vari muri e dolmen di cemento, cambiando l’assetto naturale e armonioso del luogo, ⇨ ha scatenato molte polemiche. Sommessamente, non credo sia necessario aggiungere nulla al Monte Stella, che è già un memoriale in sè stesso. La memoria non ha bisogno di muri e cemento, è già in questo luogo condivisa, forte e presente e, ritornandovi dopo molti anni, anzi è cresciuta insieme agli alberi, all’erba verde, al profumo di terra a muschio, ed è ancora più viva e davvero vegeta. Salendo nel buio, scivolando sull’erba umida di rugiada, sulle radici sporgenti, nel silenzio, arrivando in cima, con la città lontana, basta una voce piccola, un racconto, a ricordare, a trasmettere emozioni.

Questa storia, cominciata con una bambina per mano al suo papà sul Monte Stella, finisce con altri bambini per mano al loro papà sempre sul Monte Stella, nell’appello di Piero Alessandro Bottoni e Stella Bottoni, figli di Piero Bottoni, perché il Monte Stella resti quello che è ed è diventato dal suo progetto/sogno originale.

Da bambini nostro padre Arch.Piero Bottoni ci portava ripetute volte sulla montagnetta che aveva un nome così a noi familiare : “Stella”.
Stella è stata un artista polacca e fu per moltissimi anni la prima moglie di nostro padre.
Dopo la Sua morte nostro padre si risposò e da nostra madre Giuditta nascemmo noi due fratelli Bottoni : Piero Alessandro e Stella.
Il grande amore che nostro padre aveva ancora per la prima moglie scomparsa e la grande generositá e elasticità mentale di nostra madre, permisero all’arch.Bottoni di avere ben due tesori della sua vita nominati con il nome di Stella : la figlia e la collina.
Solo questo può far capire a chi ancora non conosceva la storia e la vita dell’arch.Piero Bottoni quanto lui tenesse oltre alla figlia anche alla collina da lui creata con tanta fatica e amore e contro la resistenza di molti che, a quel tempo, non avevano ancora compreso l’importanza per Milano di un simile incredibile progetto.
La collina è stata studiata da nostro padre in ogni suo dettaglio, inclusa la scelta delle essenze, alberi, cespugli e ancora i sentieri.
Ogni dettaglio insieme compone l’intera collina, così come tante cellule compongono insieme e indissolubilmente un essere vivente.
Questa è la storia del Monte Stella e questa è la storia dell’arch.Piero Bottoni, suo unico ed indiscusso padre ideatore e realizzatore.

da ⇨ LE TRE “STELLE “… DI PIETRO BOTTONI … 4 ottobre 2015

[ Le immagini sono state reperite in rete da qui e da ⇨ qui, un bellissimo sito-forum che contiene cose preziose della memoria di Milano ]

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11 Commenti

  1. Commentare….? No. Una storia bellissima….dei cumuli di macerie,di dolore, di morte….che rinascono, germogliano, fioriscono….una narratio di prima mano che integra (sontuosamente)le succinte notizie di Wikipedia. Le deve integrare affinchè si sappia il come e il perchè. Un enorme grumo di dolore….divenuto un sogno, da stropicciarsi gli occhi. Altro che le amministrazioni comunali….Ecco nelle malversazioni quotidiane, nelle cronache sporche di un povero paese scopriamo che non siamo solo il malaffare, scopriamo…Le parole non sono più qui per dirlo. Scopriamo…un’intermittenza che parla diritta al cuore. Che vi è ancora una…Stella. Grazie, grazie finalmente….

  2. Grazie, Orsola. Una storia bellissima, ipnotica, le immagini, i suoni – e non solo per la storia, ma per quest’attitudine, questa posizione di sogno in cui la racconti. Fossi stata lì sarei stata tra i pezzetti citati da Sparz.

  3. Nella Milano da bere l’expo, Renzi piroettante…ma anche l’emarginato dal Sud del mondo che non-si-sa-perchè una mattina prende a picconate…
    Puecher allarga e penetra in profondità dentro un luogo….simbolico. Giustamente parla di stratigrafia…..La sua ‘memoria’ non è ossessione, tutt’altro. Tanto tutt’altro che è anche poesia, sopratutto poesia. Tanto tutt’altro che la sua narratio è variegata (ma assolutamente partecipe), tutto coinvolge perchè oramai nella temporanea fase degli smartphones siamo da tutto coinvolti (ma in superficie). E per questo o forse sopratutto per questo Orsola si è inventata il ‘suo’ linguaggio (poetico), uno ieri-oggi-domani…e anche qualcosa in più, quel qualcosa appunto che appartiene alla poesia (oltre che alla Storia). Ci vogliamo riflettere sopra?

  4. Grazie a tutti di aver colto così tante e diverse suggestioni. La pagina web è per natura un foglio mobile, impressionabile, vi si possono fermare i suoni, le immagini, il tempo e il suo scorrere, piegare lo spazio in pochi pixel, come su un piccolo palcoscenico imprevedibile, e portatile.

    ,\\’

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orsola puecherhttps://www.nazioneindiana.com/author/orsola-puecher/
,\\' Nasce [ in un giorno di rose e bandiere ] Scrive. [ con molta calma ] Nulla ha maggior fascino dei documenti antichi sepolti per centinaia d’anni negli archivi. Nella corrispondenza epistolare, negli scritti vergati tanto tempo addietro, forse, sono le sole voci che da evi lontani possono tornare a farsi vive, a parlare, più di ogni altra cosa, più di ogni racconto. Perché ciò ch’era in loro, la sostanza segreta e cristallina dell’umano è anche e ancora profondamente sepolta in noi nell’oggi. E nulla più della verità agogna alla finzione dell’immaginazione, all’intuizione, che ne estragga frammenti di visioni. Il pensiero cammina a ritroso lungo le parole scritte nel momento in cui i fatti avvenivano, accendendosi di supposizioni, di scene probabilmente accadute. Le immagini traboccano di suggestioni sempre diverse, di particolari inquieti che accendono percorsi non lineari, come se nel passato ci fossero scordati sprazzi di futuro anteriore ancora da decodificare, ansiosi di essere narrati. Cosa avrà provato… che cosa avrà detto… avrà sofferto… pensato. Si affollano fatti ancora in cerca di un palcoscenico, di dialoghi, luoghi e personaggi che tornano in rilievo dalla carta muta, miracolosamente, per piccoli indizi e molliche di Pollicino nel bosco.
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