Hebron e altri inediti, di Elisa Alicudi

Hebron

Come si astraggono le voci, si disperdono
insieme ai rumori della città,
i motori come scompaiono quando la casa è un rifugio
e conforta la calura che s’incunea nelle crepe del cemento:

ma le piazze sono buie, quando cade il coprifuoco,
e solo il fischio si sente e sono fissi i recinti
che di giorno assediano i colpi del pallone, o le reti
che frenano la pioggia dei rifiuti
mentre scivola il piscio per le maglie o tra la frutta

e le torrette sorvegliano tribù di anonimato –
spazi vuoti di sepolcri e di prodigi.
Come è alto il muro ogni giorno più alto.

 

 

Con l’ossigeno nella pancia
poi rimargina
ossida
che l’ossigeno
vibra nell’ancia
delle ossa
con l’ossigeno che manca
non si vive,
polmoni all’azoto
e di vuoto
si respira fino a morire

 

 

Che il magma di parole sprigioni un volto
non vuol dire sia l’aspetto a tenere fede al mondo,
che quel magma di parole imprigioni nel volto il mondo,
non c’è dubbio lo princìpi
come il volto che lo affiora e lo scompare
nel cammino e se rimane, non ha nulla
di morale, se rimane

 

 

Quanta strada padana si allunga come un elastico da cranio a cranio
(finché dura senza sale lasciamo che galleggi), ma a tirare di forza
la strada rimbalza e batte sulle scapole, tra le righe, nella pancia
(troppo sale fa male, poco sale fa saliva e ripostigli
che nascondono spazi profondi e a volte scadono).

Quanto strano e scuro è il profilo della notte, così vuoto di lancette,
viene voglia di stare nudi, di smuovere stelle,
a negare consiglio come col desiderio.

 

 

Gli esploratori

Riproduci il buio in ogni soffitto,
rimandi le cose, le stesse che pescano alcuni
a rovescio. Lo spazio dell’oggi
non lo riconosci, è intonaco bianco
ma è il tuo orizzonte
l’unica orbita ad averti, forse, quando sei in relazione,
Eros ti porta, l’accesso a occhi chiusi,
vaghi nell’oltre, che ti scagiona.

Riproduci il vuoto in ogni galassia,
ma non basta una zona abitabile
a dare la vita, serve spazio per domani
serve liberare le cose rimandate
senza chiedere spiegazioni, avere ragione,
gli errori sono la fortuna degli esploratori.

 

 

Mentre cammini in strada verso casa
e sembra una via qualunque di Pechino,
non ti sorprende che il livello delle polveri
sia lo stesso. Pensi globalmente
all’aria che respira il tuo vicino, pensi
a come caricare la muraglia in ascensore,
poi sul balcone.

Le agenzie di viaggio non offrono soggiorni
con topi o epidemie. Sali le scale,
non c’è febbre, né malaria,
ma continui a pensare la terra globalmente,
a calpestarla accumulando vita
in scala rimpicciolita
e non c’è quasi niente che sia diverso
dall’odore di vernice.

Non ci sono viaggi sul Nautilus,
tigri che non hai visto, lingue, lombi,
Lolite che non hai inseguito
almeno una volta in foto,
perché in compenso sono
tutti fotografi improvvisati
e ci sei tu, che pensi la terra velocemente
come un’unica biglia arcobaleno,
che più gira più diventa grigia.

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Renata Morresi scrive poesia e saggistica, e traduce. In poesia ha pubblicato le raccolte Terzo paesaggio (Aragno, 2019), Bagnanti (Perrone 2013), La signora W. (Camera verde 2013), Cuore comune (peQuod 2010); altri testi sono apparsi su antologie e riviste, anche in traduzione inglese, francese e spagnola. Nel 2014 ha vinto il premio Marazza per la prima traduzione italiana di Rachel Blau DuPlessis (Dieci bozze, Vydia 2012) e nel 2015 il premio del Ministero dei Beni Culturali per la traduzione di poeti americani moderni e post-moderni. Cura la collana di poesia “Lacustrine” per Arcipelago Itaca Edizioni. E' ricercatrice di letteratura anglo-americana all'università di Padova.
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