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Poesia e militanza nel Misantropocene. Una conversazione con Lorenzo Mari

di Isabella Bignozzi

Cristina Campo, in una delle sue Lettere a Mita (Adelphi, 1999), dice: «Ed io penso che non si debba più aspettare, ormai, ciò che il mondo, forse, non può più darci. Il silenzio, lo spazio, non è da lui che lo avremo». C’è qualcosa di questo, di questa consapevolezza, benché declinata con portamento lontanissimo dalla ricercatezza eterea di Cristina, nell’opera poetica di Lorenzo Mari. La percezione di una mancanza di asilo, di accoglienza, che rende inefficace la parola, ridondante a prescindere; parola che, in ogni caso, chiede di essere detta e, ancor prima, meditata, recuperata, riesumata da fondali nascosti, oltrepassando l’alienante superficie che ci ospita e ci ottunde, come una nutrice tossica e allucinatoria:

«Scendere, guardando / il mobilio – finto esercito allineato – / fino alle tubature, scalfendo; / raschiando oro in pellicola; cercando acqua / come rabdomanti ignoranti, avidi. Si troverà / l’acqua che di regola ci portano, con il suo prezzo / e con l’ordine del flusso. Più sotto / i maiali: liberi, sozzi, grufolanti. Bisognerà allora / riscrivere ciò che non esce, per un barlume / di vita, occorrerà ripresentare / il possibile, per un momento allibito / di nascita […] e credersi, in ultimo, per il sogno, / innestati su terra e speranza, / in qualche modo.»[1]

Quello che in Campo, inevitabilmente, assumeva le tinte di una disciplina della grazia, dell’essenza, di un solitario cammino di ascesi, in Mari prende un’attitudine rivoluzionaria, apparentemente strascicata, indolente, perché fiaccata dal disincanto, ma che porta in sé un’indocile perseveranza politica, una recondita ambizione di partecipata collettività:

«Chiaro rifugio / l’ansa della parola / la casetta dispersa / il grande fiume che va lento /verso casa – / non si capisce senza l’ardire / di appiccare il fuoco / in questa golena / (e poi fuoco, /e poi acqua) // l’impossibilità di dire con secchezza / il momento, di vivere // il disastro completo / con poco, eppure / contestare – amare // e a tempo presente.»1

Ma l’espressione del percepito e dell’essenziale, in Mari, è tutt’altro che agevole, e nasce da profondità ustionate, che giungendo in superficie si ammantano di pudore, nel gesto dell’ironia:

«sulla pelle / più profonda, sulla lingua riscossa / e bruciata – se è arrivata / sino a questo santuario di fuoco e acqua / in forma di risma bianca // ora lo lascia / con qualche grido, / con qualche piegolina.»1

La parola è infida, spesso insufficiente a esprimere un presente inospitale, e dunque, se inadeguata, è provvisoria; presenta una continua «necessità di riconsiderazione», rifiutando «l’inganno del punto fermo»; bisogna piuttosto trattenere a sé la «spezzatura», «la riserva di voce», la fonte inesaurita di «ciò che non è stato / ancora detto».1

Rimane il fatto che dire qualcosa, che abbia peso e valore, essendo immersi in quest’epoca svuotata, da eredi di una tradizione che tutto ha già detto e tentato, sia impossibile:

«A cosa potrà servire – / non alla mano del padre, / non all’etimo del nonno: / casomai potrà addurre motivo / soltanto al taglio // e all’abrasione. E con il vuoto / dell’incavo nudo, dei nudi semi, / contribuire, infine, a / piovere il niente – oppure / a colmare la terra.»[2]

E comunque lo stesso destino di insolvenza e disfatta colpì chi tentò prima di noi: «Non restano che le spoglie / di chi salì alla linea gotica cantando», ogni singolo essendo «punto» isolato, «mancato alla linea, alla storia».2

La conseguenza è una resa, lirica ma desolata, che è ricerca di sollievo, e ritorno al sé come soggetto pavido, ferito, chiuso, assetato di un personale, sterile conforto:

«La fatica di smettere i panni di guerra / si misura al tramonto, con una luce / sempre di taglio, implacabile / sul corpo. Orecchio proteso, in fondo, / che cerca musiche, come sempre: / una consolazione, per le beatitudini sole».2

Certo, il reale è inenarrabile, a volte sfugge alle categorie mentali disponibili per rappresentarlo (come l’ornitorinco di kantiana memoria); in questo la radice prima di ogni afasia, inasprita da strutture sociali asfittiche, che obnubilano e blandiscono, allontanandoci dalla riflessione unica e nucleare, facendo perdere all’individuo contezza di sé stesso e dell’altro:

«Eseguo, come càpitano, / gli ordini: ascolto il mio corpo, // mi faccio tutto ipocondriaco / fino al rantolo, fino al broncospasmo – // non rifletto nulla dall’esterno, / poi mi tuffo. Qui dentro è la storia, // dicono, se fuori nevica: / è sotto la coltre – in albo vitro – // che lottano le classi (oppure, poco oltre, / nell’angolo cieco, che proprio non vedi)».[3]

Ma abdicare non è la strada, né la noncuranza o il distacco possono essere percorsi dal poeta, che richiama sé stesso duramente a una parola che, benché franta e spuntata dalla cattività, tenti di narrare l’immedicabile, di riportare i crimini inversi (del carceriere), le contrite mancanze:

«Passano sempre carta e penna, / tra le grate, a ogni ora. Affinché / tu dica, io dica: nessuno si fermi / tra le quattro mura – senza pane // se c’è fame è una fame da poco / che non spacca il ghiaccio: / né con l’ascia, né di stura – / raggruma il sangue, nel cemento // creato alla bisogna. La parola è ispirata, / in corpo, a sanare il debito, alla cura. / Passano sempre carta e penna, per qualcuno: / una dose, come credono; poi portano altro // o se ne vanno».

e il grido muto del trascurato, dell’inconsapevole, dell’apolide:

«Loro non sono, in quanto loro, / però chiedono con forza / che anche questo sia scritto: / un luogo – supplicano – /una forma di tempo».3

In Querencia[4] si sviluppa e prende piena forma la dialettica, presentissima nella poiesis di Mari, tra movimento di inesausta ricerca (quaero) e inazione difensiva; la sospensione avviene in un recesso che consenta il riposo, il riparo, utilizzando come allegoria la corrida (quaerencia), ma anche – in minor misura – altri impensati luoghi, come il campo da tennis o la grotta di Chauvet: territori abitati da riti collettivi contraddistinti da fatale urgenza, affollamento, e tensione alla rappresentazione, dove sono inesauribili la contesa e il confronto con un avversario inafferrabile, che non permette vittorie univoche o definitive conquiste. Ancora una volta la parola è inabitabile, se non per un ritorno al gesto primordiale, all’unità fondamentale della comunicazione e dell’esistenza – ammesso che esista – che è lallazione e resa; costante diviene allora il tentativo di non ricadere in una mistica illusoria, inattendibile, che pertiene forse unicamente all’immenso esistere in sé stesso, allegorizzato nella massa primordiale e illimitata del mare:

«smettendo gli occhiali e la posa intellettuale: / non era una caverna ma più ancora, al fondo / né arena né chiesa né un libro di poesia / a dire il vero: rinascendo prete tennista / torero scendendo al mare dove non c’è nulla / da dire se non fosse per quel genere, detto / implacabilmente, di sconfitta: in ginocchio / – in ginocchio! – allo scopo di evitare in tutto / e per tutto la mistica: lallà, dice, poi lallà // risponde il mare».

E infine, in Tarsia/Coro[5], Mari ribadisce il tema dell’ineffabilità, ponendo in risalto mezzi e inadeguatezze della scrittura, non trascurandone le possibili derive autoritarie, allargando poi la riflessione (mediante l’archetipo di Malco il servo di Caifa cui, al momento dell’arresto di Cristo, Pietro recise l’orecchio destro) alla matrice coercitiva del rapporto tra padre e figlio, tra potere e individuo, e mettendo in dialettica unità e scissione, sia sul piano fisico (interna all’individuo), sia sul piano sociale (tra un l’individuo e l’altro), e su quello epistemologico (tra l’individuo e il reale):

«Temo di uscire là sulla soglia / dove l’osservazione e chi osserva / si separano in fretta».5

Ma se la prima parte è percorsa da una separazione non riparabile: «non si compone», la seconda – racchiusa in apertura e chiusura dai versi di Wallace Stevens – recupera la perizia tutta femminile del riunire, dell’allacciare e del ricomporre, evocando l’opera di Maria Lai (Legarsi alla montagna commissionata dal comune di Ulassai quale monumento ai caduti):

«Cercata sirene tanto forte e a tal punto che sono / janas […] e quella musica, Maria, se non sono / sirene ma janas – quei telai?».5

Al gesto rituale del legare, del tessere, si unisce quello della danza: «Non è per la nostra fame la danza» e al suono essenziale dello [schwa], che riporta alle radici della nostra civiltà indoeuropea e del nostro esprimere e rappresentare, come accadeva in Querencia, nei riferimenti alla lallazione e alla Grotta di Chauvet:

«e parlare una lingua / che al fondo della terra / nelle viscere forse / non è diversa / da una lallazione da / un finissimo ossesso da / una ninna nanna».5

Una ritirata del poeta, una lingua a ritroso, che tenta di liberarsi dalle prescrizioni patriarcali, dalle ipocrisie borghesi, dal ricatto della società del consumo. Una scrittura che si protende in uno sfibrante tentativo, spesso inane, di messaggio politico: «Né avrà fine la parola che nella maglia / del verso come caduta perfetta / non s’è mai peritata di dire/ più di nulla. Meno di / tutto», ma lanciando comunque il proprio grido libertario, che rivendica la creatività come mezzo di insubordinazione: «Quale blu resta possibile / oltre marx oltre vertigine»; se pur consapevole dell’inesauribile contraddittorio tra unità e frantumazione individuale, riproposta in chiusura da un coro che enuncia, egli stesso, la scissione come matrice costitutiva del reale:

«(coro, più che tarsia)

perché qui, qui c’è, c’è che è uno e uno: e non noi non»5

Una poiesis che coniuga riserbo e ricerca implacabile del vero, dove abbiamo l’immagine di un poeta profondamente tragico, che dissimula e irride sé stesso, e a tratti si ferma, cerca riparo dalla tauromachia, per poi eternamente riaffacciarsi con un verseggiare contratto, connubi lessico-sintattici criptati, e asserzioni in levare, fino al ritorno al gesto linguistico primordiale, all’unità fondamentale della comunicazione e dell’esistenza, un lallà che riluce di possibilità ultima perché chiude il cerchio con quella iniziale.

Ma se il non allineamento esistenziale di Mari è intimamente gentile, e prende, nei suoi versi, la forma di una pacata manifestazione di dissenso, che esita in un’afasia improntata al rigore, la traduzione di #Misantropocene, 24 tesi[6] si pone agli antipodi di tutto questo. Per questo la curiosità ci induce a fargli alcune domande, nel tentativo di comprendere il significato più esteso e profondo di questo gesto di scelta e traduzione:

 

Lorenzo, la prima domanda parte da lontano, dalla poetica che hai espresso in questi anni, che sembra attraversata da una forma di sfiducia nell’altrui ricezione. Questa sfiducia è nella compliance dell’interlocutore oppure nello spazio che ci unisce e separa dagli altri? Si tratta di un ambiente dove la parola può ancora risuonare dei suoi significati e meta significati, oppure essa trova un tutto pieno, opaco ed estinto, che la rende afona?

Credo che si tratti più di una sfiducia nella possibilità di uno spazio comune che non in quella della ricezione tout court. In fondo, è dai tempi di Baudelaire, e poi di T.S. Eliot, che il lettore moderno è individuato come “mon semblable, mon frère!”: né migliore né peggiore, nel mio intendimento, rispetto a chi scrive. Resta certamente la possibilità dell’afonia e della mancanza di comunicazione – come de-formazione radicale della forma, nella sua accoglienza – ma questo esito non può derivare unicamente da una dinamica di potere così evidente e univoca come quella che esigerebbe, ad esempio, la compliance dell’interlocutore.

In ogni caso, cogli nel segno sottolineando una sfiducia che è, effettivamente, andata maturando nel tempo, fino ad emergere in quella ricerca di e sullo spazio che è alla base di Querencia (termine della tauromachia che, non per caso, identifica uno “spazio” preciso dell’arena, nel quale il toro si rifugia, durante la corrida: uno spazio difensivo, in origine, che si rivela, per me, spazio dell’apertura) e che in Tarsia/Coro diventa disamina di una possibile soggettività collettiva, forse già sconfitta e disgregata, e al tempo stesso sempre capace di dire, di dirsi, almeno per via residuale o negativa.

Come ho cercato di scrivere nel mio contributo per la collettanea La radice dell’inchiostro[7], si tratta, più che altro, di una sfiducia storica, nella possibilità di uno spazio non soltanto per la poesia del singolo autore, o di un gruppo di autori – di una generazione, ad esempio – ma nella mancanza degli spazi da aprire in una sorta di compattezza più generale. Permane sempre una residuale possibilità di farlo, però: basta accettare la sfida dell’aperto, della poesia come esposizione, non come imposizione di parola.

 

Il poeta che, per definizione dà forma al mondo, quali doveri ha verso la sua epoca e verso chi lo legge? Il suo compito è soltanto quello di abitare un estetico splendore della parola oppure deve avere, secondo te, un ruolo attivo di testimonianza sociale e/o politica?

Quanto ci si può avvicinare con la poesia all’essenza del reale? Lo si fa più con le parole o con i silenzi?

Non credo che si tratti di un’alternativa dicotomica, né che sia possibile una qualche forma di sintesi: quest’ultima era forse possibile in passato, ma ora apparirebbe come un esito eccessivamente pacificato, se non anche consolatorio. Silenzio e parola, bianco e nero della pagina, concetto e ritmo, battere e levare si danno, per me, in una sorta di compresenza sempre dinamica… Del resto, anche Celan è generalmente riconosciuto oggi come “poeta dell’inesprimibile”, ma bisogna anche ricordare come sia stato uno dei poeti che con più costanza, quasi ossessività, ha scritto testi indirizzati a un “tu”, per quanto un “tu” non più lirico in senso tradizionale…

 

E ora veniamo al pamphlet. Che cosa significa per te #Misantropocene? Perché hai scelto di tradurlo? È un’opera che ti rappresenta?

Tradurre è sempre – in partenza, durante il percorso e anche una volta che questo è finito, provvisoriamente, con una pubblicazione – un confronto con l’alterità: spesso chi traduce i propri simili, o anche i propri antecedenti letterari, procede a una forma di auto-legittimazione particolarmente sterile, se non anche irritante.

Per me, #Misantropocene. 24 Tesi dei poeti, saggisti e militanti statunitensi Joshua Clover e Juliana Spahr rappresenta certamente la prosecuzione di una riflessione e di una produzione creativa nell’ambito “post-antropocenico” del progetto collettivo TINA. Storie della grande estinzione[8], alla quale aggiunge, forse, alcune componenti più spiccatamente politiche e immediatamente disponibili come tali.

Il “misantropocene” di Clover e Spahr, infatti, non è soltanto la constatazione di una misantropia diffusa – così come si potrebbe intendere, in prima battuta, il loro neologismo – quale esito nichilista di certe sconfitte politiche, nella storia recente, ma anche una particolare declinazione del Misantropocene come Capitalocene. In questo, il testo di Clover e Spahr mi sembra affine, ad esempio, alle posizioni – nonché a certe immagini, come quella dell’attacco alle infrastrutture, vedi alla voce How to Blow Up a Pipeline[9] – di Andreas Malm, ecologista svedese appena pubblicato in Italia da Ponte alle Grazie…

Allo stesso tempo, però, #Misantropocene, per la sua qualità poetica ma anche panflettaria, come sottolinei giustamente tu, rimane un testo certamente lontano dai miei strumenti e dai miei orizzonti creativi: mi interessava, e continua a interessarmi, proprio per questo!

 

In effetti, la modalità dell’invettiva a monologo si può dire che sia la postura opposta a quella che hai mantenuto negli anni in poesia: un preparare il campo semantico per poi non dire, un sincopare e sottintendere. Questa andatura lieve, accennata, in #Misantropocene è rovesciata: nel pamphlet l’affermazione è costantemente oltre, uno sviscerare furioso, un esagerare liberatorio simile all’invettiva. Tu stesso, nella breve introduzione al libretto, sconsigli come colonna sonora l’universo onirico galleggiante e benevolo di Grimes (che pure ha usato Miss Anthropocene come titolo del suo album del 2020) e indichi piuttosto un brano come Nazi Punks Fuck Off dei Dead Kennedys, gesto musicale a suo modo dall’enunciato etico ma ammantato di un format concitato, nichilista, appena edulcorato dalla versione banjo di Eugene Chadbourne.

Dunque, un immaginario molto diverso da quello cui ci hai abituati. Tradurre è catartico a volte? È riuscire a dire con la parola d’altri cose per le quali non abbiamo una forza propulsiva sufficientemente irosa e ineducata? Infine, il gesto politico, evidente nel testo, è presente anche nella forma?

Sicuramente l’understatement fa parte della mia attitudine personale e anche della mia formazione, con la frequentazione delle letterature di lingua inglese, nelle quali l’understatement è spesso un tratto culturale decisivo. In questo senso, l’incontro con l’invettiva di Clover e Spahr non mi è sembrato utile in quanto momento catartico, né come l’opportunità di poter dire qualcosa che di solito non posso o non voglio dire, bensì come l’instaurazione, ancora una volta, di un campo di tensioni all’interno dell’operazione traduttiva, un campo di tensioni dalle risultanti talvolta imprevedibili… In fondo, lo stesso riferimento al banjo che citi nella domanda è, ad esempio, il frutto di una precisa strategia umoristica di “alleggerimento” già all’interno del testo originale di Clover e Spahr – un testo, per altri versi, che è spesso cupo e ricco di affondi, alle volte violenti, o apparentemente tali, su molti livelli. Uno di questi affondi riguarda sicuramente il rapporto delle avanguardie artistiche con la militanza politica; a quel punto, ricordando l’esperienza musicale avanguardistica di Eugene Chadbourne, noto anche come anarchico suonatore di banjo, non potevo perdere l’opportunità di citarlo, nella mia breve introduzione!

 

Questo piccolo grande J’accuse si inscrive in un ambito ormai nutrito di pubblicazioni e suggestioni culturali, ma a un tempo se ne distacca. Tu citi il blog La Grande Estinzione e ribadisci l’importanza di «mettere a disposizione un arsenale non solo critico, ma anche immaginativo e creativo» che sia «un esercizio» che travalichi «il senso di ogni singola tesi e del loro insieme», riportando il senso pieno della «misantropia individualista» che stiamo vivendo, insieme a tutti gli imperativi che essa induce, nel tentativo di acquisire prospettive multiple, ma soprattutto di riacquisire una prospettiva di classe – anzi, osi dire coscienza di classe – o semplicemente provarci, facendo di questo pamphlet e dei suoi echi nelle coscienze una sperimentazione collettiva.

Citando il testo: «Il ritmo del misantropocene ha ricevuto la sua misurazione esatta dal declino del movimento operaio. Un andirivieni di ore zero. Sempre più melancolia occidentale».

Manca l’unità di classe? Ci stiamo spegnendo in un’agonia di smunte false solidarietà, false ripartenze? È ancora possibile superare la separazione e l’avversione, come dimensioni interumane costitutive della nostra attuale società, o si tratta di una nostalgia fuori tempo massimo?

Nell’introduzione di #Misantropocene ho voluto sottolineare la capacità maieutica del testo: credo che nell’intendere l’Antropocene come Capitalocene – come Clover e Spahr, del resto, sembrano fare – la prassi dell’autocoscienza come base di una nuova coscienza di classe sia, se non necessaria, perlomeno ancora disponibile come tale. Certamente, un tuffo nostalgico in un passato che non può tornare, così com’è designato già nel testo come “melancolia occidentale”, è un rischio da tenere ben presente, per il suo portato idealizzante, utopico e deresponsabilizzante. Allo stesso modo, lo scarto tra individuale (e per “individuale” intendo anche: la prassi politica ecologista come atto individuale, spesso autoriferito e autolegittimante) e collettivo (come militanza non solo ecologista, ma orientata anche su tanti altri temi che definiscono il conflitto politico così com’è attualmente, a partire dal “declino del movimento operaio” da te citato) è un passaggio altrettanto necessario.

 

Quando la voce narrante inizia a prendere distacco («Fanculo Robert Berger Mounir Haidar e Scott Hutchinson») da soggetti di natura culturale, imprenditoriale, istituzionale che considera veri nemici, scivola poi nello stesso atteggiamento verso i finti o parziali amici (gli attivisti) per arrivare fino alla auto condanna. C’è un lungo elenco di elementi sociali o culturali o abitativi o creativi che hanno una patina buonista ma rivelano un nucleo tossico di ipocrisia.

L’uomo ha voluto gestire tutto, ma ora è soffocato dalle strutture che si è auto imposto e che ha velenosamente somministrato a tutto il regno animale, ed è a tal punto plasmato da ciò che si è costruito attorno, dal sistema coercitivo della società del consumo, da capire che nessun pensiero che non trascenda ora i confini del logico, del lecito e del consueto potrà mai essere autentico o rivoluzionario. Il momento più alto della riflessione personalmente l’ho avvertito laddove si nomina una specie anfibia in via di estinzione, ponendo l’accento su ciò che ci accomuna a essa, la carne e il corpo, «la vulnerabilità della loro pelle la vulnerabilità della nostra pelle». Forse qui abita il senso più profondo del pamphlet? Un invito a ritrovare una comunanza sentita, fisica, viscerale, con l’altro da sé?

Il passaggio che citi – «la vulnerabilità della loro pelle la vulnerabilità della nostra pelle» – è una delle chiavi di volta del testo, poiché mostra la stratificazione delle “24 tesi” al di là della loro superficiale carica di invettiva. La coscienza di una vulnerabilità comune a tutta la specie, e a più specie, è un primo passo nello scarto dall’individuale al collettivo del quale parlavamo poco fa. È un momento epifanico al quale troppo spesso si reagisce facendo unicamente ricorso al proprio istinto di sopravvivenza, come abbiamo scoperto a nostre spese durante questa crisi pandemica. Crisi, tra l’altro, che è incredibilmente – ma, in fin dei conti, non così tanto incredibilmente – anticipata in #Misanthropocene, che è del 2014, da un passaggio come questo: «non sei in grado di immaginare che gli amici che ti vanno a genio stiano tutti insieme nella galleria e poi ricordi che non sei in grado di immaginare gli amici che ti stanno a genio tutti insieme in una stanza qualunque e che l’ultimo anno o due sono stati caratterizzati dall’impossibilità delle persone di stare insieme nella stessa stanza che ti andassero a genio oppure no». Nel testo, si tratta di una misantropia da ricollegarsi all’abuso dei social network (Twitter è menzionato immediatamente prima, e proprio per la sua capacità di sostituirsi alle relazioni sociali e plasmarle), ma a rileggerlo oggi sembra un passaggio quasi profetico. Ecco, l’istinto di sopravvivenza può risolversi in una misantropia egocentrata ed aggressiva – fomentata dalla trasformazione della comunità in community – ma non fornisce soluzioni, sul lungo periodo. Tra le righe, Clover e Spahr ci invitano a continuare a cercare queste ultime.

 

Se la riflessione è difficile, la scrittura lo è ancora di più: un cammino in salita nel già detto, negli agguati dell’ipocrisia, nei limiti dell’individuo. Ma scavando e riportando, cercando il rigore e l’autenticità, si arriva a capire che è l’odio il perno cui tutto ruota attorno. Un odio nucleare, che ha accanto come protoni il debito, il salario, il caldo, «forze oggettive» e gravitazionali, che creano orbitali attorno polarizzati in modo da creare repulsione e respingimento per l’altro; e dunque isolamento, fragilità, opacità di pensiero, personalismo. È questa l’oggettività del misantropocene?

Certo! Clover e Spahr lo dicono apertamente: «il tuo odio è reale il tuo odio è una forza oggettiva come anche il debito è una forza oggettiva e il salario e il caldo e la fine del mondo sono forze oggettive e le crepe sono oggettive e in questo senso e puoi chiamare questa oggettività misantropocene». Il processo di autocoscienza di cui parlavamo non si può avviare senza il riconoscimento di queste forze oggettive; in generale, poi, anch’io ritengo che, nei momenti di confusione e di disorientamento culturale e politico, il fatto stesso di chiederci se permangono “forze oggettive” con le quali dobbiamo misurarci quotidianamente resta sempre un’esperienza illuminante, dal punto di vista analitico.

 

#Misantropocene termina con un trionfo dionisiaco, coronato dall’immagine polivalente di Saffo, che da cantrice eterea e privilegiata dell’hotel a cinque stelle (com’era in apertura) diviene furia primordiale: simbolo di chi grida e incendia e taglia ma con il proprio corpo, in un duello biologico in cui persino le odiose creature artificiali e colossali sono fatte di lacerti di carne e organi senzienti (la membrana pleurica dei fusibili, la cloaca – organo riproduttivo femminile di alcuni pesci – attribuita alle navi container) in un incitamento alla rovina e alla dissoluzione di evidente matrice simbolica, in cui tutto tornerà alla carne, mescolandosi di nuovo nel caos di creazione e distruzione, ripudiando l’artificiale e il tossico, riaffermando l’epidermico, il corporeo, l’essere animale; ritorna, qui, come un pensiero fuggevole, Tarsia/Coro:

«[per quanto uno si sia letto deleuze e il suo divenire/diventare altro, con guattari che si limita – come félix – a rimare]»

Ma è davvero questo il significato della parte finale? Ritieni che un immaginario nichilista possa portare in sé invece un germe di fattività, un impulso non a demolire ma a mutare la realtà attuale in un avanzamento di civiltà?

La tua interpretazione della conclusione di #Misantropocene come “trionfo dionisiaco” e implicita possibilità palingenetica o pseudo-tale (tramite il ritorno all’epidermico, al corporeo, all’animale, etc., ma anche verso nuove configurazioni sociali ed ecologiche) mi piace molto ed è probabile che gli autori, come molti altri che si sono interrogati sull’Antropocene e la sua decadenza, abbiano operato all’interno di quest’orizzonte. Per quanto mi riguarda, lo stesso divenire-animale teorizzato da Deleuze e Guattari (e richiamato ironicamente nei versi che hai citato) non è proiettato nel futuro, né all’orizzonte di una particolare costruzione poetico-filosofica di stampo antropocenico o post-antropocenico, ma è in aperta contraddizione con la materialità del presente, rispetto al quale quella del “divenire-animale” è un’opzione che mi sembra talvolta appartenere a un passato irrecuperabile. Oppure recuperabile solo in chiave nostalgica, o melancolica: come già per Clover e Spahr, insomma, la “melancolia occidentale” si colloca al polo opposto del campo da gioco. Per poter affrontare a tutto campo questo gioco, è dunque necessario un movimento dialettico del pensiero e della scrittura che – è sempre questo il mio auspicio, sia come autore che come traduttore – occorre mantenere sempre attivo.

 

***

 

 

Estratto da Joshua Clover e Juliana Spahr, #Misantropocene. 24 tesi:

 

Decima. Fanculo chi pompa la sabbia dai fondali dell’oceano sparandola in un grande arco per costruire nuove isole. Fanculo il fatto che questo lo chiamino fare arcobaleni. Fanculo qualsiasi tipo di draga. Fanculo il fatto che i cavalli da corsa non riescano più a montarsi l’un l’altro ma allo stesso tempo si insegni allo stallone a montare un manichino di compensato e a scoparsi una vagina di plastica riscaldata. Fanculo i prìncipi da sempre e in qualsiasi nazione fanculo Palm Jumeirah e Palm Jebel Ali e l’atrazina. Fanculo chiunque abbia mai comprato un grande sacco di veleno per le formiche perché le formiche hanno uno stomaco sociale e bisogna essere degli egoisti figli di puttana se non si vuole che si spartiscano equamente le loro minuscole porzioni di cibo […].

Numero quindici. Incapaci di far fronte ai loro debiti gli studenti universitari e gli emarginati vanno alla deriva fuori dall’economia formale verso favelas studentesche gomito a gomito con le nuove leve della migrazione economica e noi fingiamo che questo processo di trasformazione nell’economia informale non abbia nulla a che vedere con il misantropocene e invece è esattamente questo il punto.

Numero sedici. E la nostra nostalgia per il tempo in cui gli studenti erano studenti e i lavoratori erano lavoratori in questa poesia equivale a livello formale alla pioggia. Fanculo la vostra melancolia occidentale.

Numero diciotto. […] e quindi te ne resti lì a sedere e a guardare nel vuoto a prendere freddo a pensare alle zampe corte e tozze e alle orecchie minute e agli occhi dei geomidi di yelm come si richiudono le loro labbra dietro i loro incisivi anteriori come usano i loro incisivi anteriori per scavare le tane al modo in cui la soffice penzolante pelliccia consente loro mentre scavano le tane di muoversi facilmente avanti e indietro nelle gallerie […] e a come il sito web della University of California Davis sottolinei il fatto che i geomidi di yelm sono mammiferi la cui caccia è vietata il che significa che chiunque li può controllare in ogni momento e in ogni modo che sia legale e quindi si raccomandano trappole ed esche ad esclusione delle esche tossiche a fumigazione cani chewing gum lassativi serpenti che vibrano e strumenti dotati di gas esplosivo e pensi a queste cose con la disperazione e con la rabbia di Saffo perché non riesci a sopportare il pensiero che si può realizzare qualcosa una qualunque cosa soltanto se la famiglia il debito il gatto e il pensiero delle tasche guanciali ricoperte di soffice pelliccia e quasi estinte te lo lasciano perlomeno intuire. Fanculo soprattutto quel momento.

 

 *

 

Isabella Bignozzi è medico odontoiatra, autore di pubblicazioni scientifiche internazionali. È presente con racconti, contributi critici, prose liriche e poesie su varie riviste letterarie. Ha pubblicato Il segreto di Ippocrate, romanzo storico a memoriale, per La Lepre edizioni e la silloge Le stelle sopra Rabbah per Transeuropa.

 

Lorenzo Mari ha pubblicato alcuni libri di poesia, tra i quali i più recenti sono Ornitorinco in cinque passi (Prufrock Spa, 2016), Querencia (Oèdipus, 2019), Tarsia/Coro (Zacinto, 2021). Traduce dall’inglese e dallo spagnolo; ha recentemente curato l’edizione di Zurita. Quattro poemi di Raúl Zurita nella traduzione di Alberto Masala (Valigie Rosse, 2019) e la traduzione di #Misantropocene. 24 tesi (2020) di Joshua Clover e Juliana Spahr per le autoproduzioni della Libreria Modo Infoshop di Bologna.

 

[1] Lorenzo Mari, Minuta di silenzio, L’arcolaio, 2009

[2] Lorenzo Mari, Nel debito di affiliazione, L’arcolaio, 2013

[3] Lorenzo Mari, Ornitorinco in cinque passi, Prufrock Spa, 2016

[4] Lorenzo Mari, Querencia, Oèdipus, 2019

[5] Lorenzo Mari, Tarsia/Coro, Zacinto, 2021

[6] Joshua Clover & Juliana Spahr, #Misantropocene. 24 tesi, traduzione di Lorenzo Mari, Modo Infoshop, 2020

[7] La radice dell’inchiostro. Dialoghi sulla poesia a cura di Giorgiomaria Cornelio, Argo, 2021.

[8] Tina. Storie della grande estinzione, a cura di Matteo Meschiari e Antonio Vena, Aguaplano, 2020

[9] Andreas Malm, How to Blow Up a Pipeline, Verso, 2021.

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L’intellettuale di fronte a casa o Gaza

di Adele Bardazzi
L'intellettuale, se è ciò che sono, è colui che parla in terza persona singolare, maschile. L'intellettuale che scrive e che voi state leggendo – perché l'intellettuale si...

Isole che si credevano perdute

Riccardo Socci e Tommaso Di Dio in dialogo attorno a Poesie dell'Italia contemporanea (Il Saggiatore 2023)

Gaza – “Sorge ora il suo sangue in un orizzonte di ferro”

di Hadi Danial, traduzione di Sana Darghmouni
Dall’ala della colomba / scelgo la piuma del mio inchiostro / la conficco nella vena. / Dove si è smarrito il mio sangue? / Ho detto: la conficco dunque in bocca. / Dov’è la mia saliva / il suo viscoso amaro? / Era piena della cenere di un nuovo incendio.

Memorie da Gaza #5

di Yousef Elqedra
Due scatole di fagioli, una di carne in scatola, due bottiglie di acqua, due vasetti di miele nero e due confezioni piccole di formaggio: questa è la razione che spetta a una famiglia con un numero medio di almeno sette persone. Viene portata alla famiglia da un padre sfollato che ha perso la casa, ed è felice di averla ricevuta. "Finalmente berrò un sorso di acqua dolce", dice, come se avesse raggiunto il paradiso.

Memorie da Gaza #4

di Yousef Elqedra
Viviamo di alternative finché queste non finiscono o non finiamo noi.
renata morresi
renata morresi
Renata Morresi scrive poesia e saggistica, e traduce. In poesia ha pubblicato le raccolte Terzo paesaggio (Aragno, 2019), Bagnanti (Perrone 2013), La signora W. (Camera verde 2013), Cuore comune (peQuod 2010); altri testi sono apparsi su antologie e riviste, anche in traduzione inglese, francese e spagnola. Nel 2014 ha vinto il premio Marazza per la prima traduzione italiana di Rachel Blau DuPlessis (Dieci bozze, Vydia 2012) e nel 2015 il premio del Ministero dei Beni Culturali per la traduzione di poeti americani moderni e post-moderni. Cura la collana di poesia “Lacustrine” per Arcipelago Itaca Edizioni. E' ricercatrice di letteratura anglo-americana all'università di Padova.
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