Home Blog Pagina 109

Pandemia: top ten

3

Playlist della pandemia ovvero il peggio che ci possa capitare nell’universo della musica contemporanea in dieci semplici passi (non oltre, non di più…)

di

Claudio Loi

 In questi giorni pandemici si passa il tempo a fare cose che non servono a nulla. Almeno apparentemente se si ragiona con lo statuto dell’efficienza a tutti i costi. Perciò ben vengano le facezie, le sottili e inebrianti perdite di tempo, il nulla che si avvolge in sé stesso e ci rimanda a uno stato mentale carico di rimembranze e sorridenti incertezze. Il virus è umanità che si autoflagella, è amore che uccide, un bacio che regala torture. Ci porta a uno stato di irrequietezza e instabilità, riscrive i canoni del vivere, del comunicare, dell’amore. Torneremo a non essere noi stessi? Torneremo ai nostri fasti quotidiani così gravidi di consumo e aperitivi all’alba? Non si sa ancora. Intanto vi propongo una playlist virale tanto inutile quanto bisognosa di terapie intensive.

 

  1. Renato Zero. Contagio. 1982.

Questa canzone di Renato Zero si trova nell’album Via Tagliamento 1965/1970 pubblicato nel 1982 e dedicato al Piper storico locale romano che immagino Renato abbia frequentato. Il testo è perfetto per i nostri giorni e sembra scritto proprio per noi: “Pericolo di contagio, che nessuno esca dalla città, guai a chi s’azzarda a guardare laggiù oltre quel muro, oltre il futuro… L’epidemia che si spande, l’isolamento è un dovere oramai… Dare la mano è vietato, se mai soltanto un dito e l’errore”. Il paziente Zero (cit.) è tanto disinvolto quanto sincero e profondo. Musica non così tanto leggera e dai risvolti imprevedibili.

 

  1. The The. Infected. 1984

Matt Johnson (The The) negli anni Ottanta faceva sfracelli ed era una delle menti più instabili del calderone post punk. Pochi punti di riferimento, nessuna direzione preconcetta, tante influenze da consolidare e approfondire: dal rock più schietto al blues rurale malaticcio e fuori sincrono. Passione smodata per le percussioni e relativi rimandi ai beat dell’africa meno didascalica. Il brano in questione da il titolo al suo secondo album licenziato nel 1986 e l’infezione è relativa ad amori che non lasciano tregua. Una palude di sentimenti da cui non si viene fuori facilmente. Ma è proprio un bacio che ci ucciderà…

 

  1. Front Line Assembly. Virus. 1986

Siamo in Canada in compagnia di un duo che ha lavorato con tenacia sulle possibilità offerte dalla musica elettronica nelle sue varianti più dark (tipo Biohazard per capirci). Una sorta di techno futuribile e polverosa con pochi sprazzi di onesta felicità. Ritmi pesanti e suoni oscuri che lasciano diverse scorie nel nostro organismo. Musica che richiede anticorpi che forse ancora non abbiamo creato.

 

  1. Contaminant PCB. 1993

Industrial music che rispecchia tutte le caratteristiche del genere con evidenti riferimenti ai Clock DVA e ai primi DAF. Un suono metallico e pressante che ci fa pensare alle fabbriche ancora chiuse. Chi ha nostalgia di suoni forti, dai brividi prodotti dalle grandi carpenterie industriali troverà conforto in questi solchi. Musica che crea qualche dissapore, che infesta il nostro organismo, scava caverne nella carne e ci sfinisce. Da ascoltare con le dovute precauzioni e con un controllato distanziamento sociale.

 

  1. Bad Religion. Infected. 1994

Una delle band storiche dell’hardcore punk americano. Nel 1994 sono al massimo delle loro possibilità e la loro musica è sempre piena di pathos, di urgenza comunicativa, dalla voglia di esprimersi senza troppe precauzioni. Il brano in questione è tratto dall’ottavo disco della band americana (Stranger Than Fiction) e si trova anche in formato singolo con la copertina che ci fa capire da che parte andare: una mano con un guanto da chirurgo che tiene un cervello palesemente infetto. “You and me have a disease / You affect me, you infect me / I’m afflicted you’re addicted / You and me, you and me”. Che altro aggiungere?

 

  1. Iron Maiden. Virus. 1996

Lo stupro della mente è un disordine sociale. I cinici, l’indifferenza. dell’essere sempre i migliori”. Il virus secondo gli Iron Maiden degli anni Novanta è qualcosa che ha a che fare con i rapporti umani e con i sistemi sociali contemporanei, un sorta di malattia sociale che intacca e destruttura. Siamo lontani dal fulgore metallico dei primi Maiden ma non manca l’onestà di sempre e la voglia di comunicare disagio, insofferenza, tradimenti. Insomma le solite menate della vita pre Covid-19.

 

  1. Infected. 2001

Barthezz, è lo pseudonimo di Bart Claessen disc jockey e producer olandese di musica trance. Quando uscì questa traccia lei era molto giovane e piena di vita, di esplodere e conquistare il mondo. Poi ha ripreso il suo vero nome e oggi è una delle più stimate producer della scena dance internazionale. Mi piace questo brano per il suo approccio superficiale tanto da essere quasi didascalico. Poche parole, solo suoni digitali creati in vitro con il solo scopo di far muovere i nostri corpi con sonorità che non producono preoccupanti effetti collaterali. Rimane una stolida sensazione di kitsch industriale e di indolente distrazione. Ci può stare.

 

  1. Pandemia. 2007.

Rap di razza dalla penisola italica. Lui è Marco Fiorito meglio conosciuto come Kaos One nome storico della scena rap romana (Cfr. Colle del fomento, DJ Gruff, Neffa). Questa traccia la trovate all’interno dell’album Karma del 2007 e rappresenta il rap dei nostri anni. Rabbia, furore, parole che pesano. “Nel nome del padre del figlio e dello spirito aspetta un momento qua c’è un equivoco quanto di santo in questa croce che è in bilico? darci il veleno e ricattarci con l’antidoto”.

 

  1. Pandemia Sonora. 2016.

Spagnoli di cui so molto poco. Il territorio frequentato è quello dell’elettronica cheap e sfranta, tribal, hard techno, mental e cosette così e i beat incalzano minacciosi come microrganismi che cercano alloggio all’interno dei nostri corpi. Siamo negli anni Zero e avanza minacciosa un’idea di mondo da ristrutturare, da ridefinire. Basta poco e tutto si fermerà. Per quanto tempo non è dato sapere.

 

  1. Andrà tutto bene. 2020.

Qui siamo proprio sul pezzo. Elisa, nobile e delicata cantautoressa triestina, si lancia con apprezzabile tempestività in questi giorni strani, malati, indefinibili. La canzone scivola leggera come polline di primavera in compagnia di Tommaso Paradiso (The Giornalisti). La canzone è stata creata attraverso interazioni social alla giusta distanza: questo richiedono i nostri tempi. Elisa cerca di consolarci e di farci star bene. Per un po’ funziona poi ti affacci alla finestra e qualcosa non torna. Andra tutto bene?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Piroclasti

0

di Andrea Cassini

Essere con la testa a venticinque chilometri di altitudine, le guance sfregiate da bufere di anidride carbonica ghiacciata ma gli occhi aperti, a sfidare i cristalli di polvere marziana che si conficcano nella sclera e le particelle cosmiche piovute tra le maglie larghe della ionosfera. Avere il corpo inscritto nella circonferenza del vulcano, la caldera che si è stratificata intorno al petto usando il torace come camino, pietre giovani del periodo amazzoniano. Affondare con le gambe nella crosta che è una buccia di basalto, sentire sugli stinchi i moti convettivi che spingono la lava in superficie accanto a fiumi di silicio, e il vento raduna i grani di ossido di ferro in mulinelli color ruggine che, quando si posano, fanno assomigliare Marte a un cimitero di rottami. Poggiare i piedi sul mantello di silicati, distinguere sulla punta degli alluci i tetraedri di ortopirosseno e le serie isomorfe dei granati, avvertire residui di magnetismo che pure fanno vibrare la cartilagine delle caviglie e innescare la fiamma del vulcano. Nimrod è alto quanto mille torri, piantato nel pianeta con testa e braccia che sbocciano dal cratere come un manichino, in cima a un monte tanto alto che l’orizzonte curverebbe prima che l’occhio possa inquadrarne la vetta, ma il gigante ha occhi di statua che non battono mai le palpebre perché Nimrod è un cacciatore d’anime e aspetta dal suo pulpito nella stratosfera il giorno in cui il vento gli porterà notizie. C’è un pianeta morto e un pianeta da costruire.

 

La camera magmatica che avvolge i polpacci comincia a brontolare, il tambureggiare del fuoco riverbera tra pareti di ardesia erette nel periodo noachiano e fa oscillare i peroni e le tibie sulle frequenze di un do. Il suono non si ferma, quando sembra che stia per dissolversi e riecheggiare si assottiglia invece in un fischio e poi si coagula in un ronzio, come un bordone suonato da corde di azoto e carbonio. Il magma ribolle e in ogni bolla ne esplode un’altra e un’altra ancora, si innalzano creste concentriche che s’inseguono e interferiscono e Nimrod pensa allo scalpiccio di zoccoli di animali mai visti o ancora non creati.

In cima al monte, sul petto e le braccia e il volto scoperti, ci sono due venti che tagliano l’aria: uno soffia da est, l’altro da ovest, quando s’incontrano fanno un suono affilato come due lame ma non si toccano, lasciano un corridoio vuoto in cui Nimrod tende lo sguardo e aguzza l’orecchio, perché si spalanca uno spazio limpido che è un periscopio lungo quanto mille fiumi, ma dall’altro lato della lente non vede anime né corpi, né ode lingue che gli vogliano parlare. Se sul pianeta vivono altri esseri, stanno lontani dallo sguardo del gigante e non hanno legna per costruire altari né bestie da offrire in sacrificio. Intanto i due venti si respingono e per evitarsi entrano in un moto circolare che monta in un uragano. Sotto, la terra mugghia di protesta. Tra i piedi di Nimrod si aprono porte sotterranee e il mantello sfiata un respiro roco e incandescente. Dalle spelonche fuggono voci di fantasmi che abitavano un tempo la regione di Tharsis, sepolti sotto i laghi d’acqua acida del periodo esperiano, ma prima che Nimrod possa decifrarle l’uragano le zittisce e stringe le spire, il gigante è nell’occhio calmo del ciclone e sopra la sua testa c’è un fulmine che vola in cerchio come un immenso rapace pronto alla picchiata. Si sente pizzicare le gambe, è la polvere rossa laggiù sul suolo marziano che si alza e galleggia nell’elettricità statica, i banchi di ghiaccio sfrigolano. Nimrod stringe i denti, il fulmine stride e tuba e ronza, ma non si scarica. Si taglia una via di fuga tra le nuvole e si dilegua verso altre montagne; il fulmine ha ripulito il cielo, ora c’è un’aura dorata e netta, c’è il sole che sembra una palla di neve appoggiata sull’orizzonte piatto. Il ghiaccio si spezza con un boato; le porte sotterranee tornano a tacere, sepolte, e con esse si ammutoliscono i sibili antichi.

 

Nimrod ora pensa i propri pensieri. Si amalgamano viscosi nelle camere cavernose del teschio, poi fanno attrito mentre passano tra i ventricoli cerebrali e la scala vestibolare dell’orecchio, e la linfa che scorre nel labirinto membranoso comincia a vibrare sulle frequenze di un sol. Nimrod sente il corpo scuotersi secondo un ritmo pari, una stasi che si risolve nell’allargamento dal centro. I pensieri escono dalle orecchie producendo il suono di un regno che nasce, abbracciano grandiosi le montagne circostanti e ne sbriciolano i picchi in valanghe che rombano e ruggiscono in una sinfonia a cui il vento fa da sipario, vi si proiettano nuovi fulmini che sono sottili come capillari celesti, schizzano trionfanti dalla terra verso il cielo e il cielo, ferito, si apre.

Il vento ora srotola un tappeto scostando e levigando i sassi frantumati e Nimrod immagina di percorrerlo, quel tappeto, i talloni che scavano crateri a ogni passo tra squilli di trombe soffusi da un cuscino di nuvole, i venti le gonfiano come vele maestose, come cornice o corona intorno alla sua testa. Nimrod arriccia il naso; il vento soffia da regioni lontane, sotto gli strati ricchi del suono riconosce l’odore maturo delle valli di Ophir Chasma o dei calanchi aguzzi di Tithonium, e sotto gli umori grondanti di quel suono c’è una voce che canta di musica e di arte e di vita, e c’è una lingua che Nimrod un tempo conosceva e poi ha dimenticato. Non sono solo, pensa Nimrod. Non sono solo. Poi una frizione: il vento trattiene il respiro, la voce si spegne nel timore schivo di essere udita e con essa tace la natura e i pensieri del gigante smettono di risuonare. Resta un gorgoglio cieco di sottofondo, il rumore bianco della gola del vulcano.

 

Nimrod muove lo sguardo a meridione, come il fascio di luce di un faro. C’è un fronte di nuvole bianche che rotolano sopra una prateria sterile. Avanzano morbide e inesorabili. Poi si sfaldano, attraversate da un cilindro di vento che porta con sé una nota calante, uggiolante, che si piega al modo minore e sussurra tiepida di mille morti in un ciclo di mille nascite. A Nimrod ora tremano le spalle, e il vulcano è scosso dai singhiozzi sulle frequenze piane di un mi, è la nota del passato e del rimpianto, ma il passato è una lingua incomprensibile. Il gigante interroga i venti, ritto sul pinnacolo del pianeta, ma su Marte i venti non hanno nome e gli dei non hanno templi e non c’è nessun’anima che voglia parlare con lui. Nel silenzio Nimrod è solo, altissimo ma muto. Il gigante piange una singola lacrima di sale che scioglie un solco nel fianco del vulcano. La nuvola ora gli s’infrange contro, è bagnata e pesante di pioggia mai caduta, è viola, le guglie di roccia acuminate la sfilacciano e piange anch’essa bordate di nebbia gelata. Poi una spina di vento la puntella di lato e la porta via, Nimrod vi ha lasciato intagliata la sua impronta come in un blocco d’argilla. Il nuovo vento ha con sé un latrato ma nessuna voce. Devo dare un nome al vento, pensa Nimrod, per potervi leggere le voci. E se gli esseri organici non parleranno, sussurrerò alle rocce inerti il nome di dio perché possano costruirmi una torre.

 

Nimrod attende. Nella stratosfera la notte non è diversa dal giorno ma è buia e fredda, le due lune sono dischi pallidi, ugole di fantasmi. Il gigante chiude gli occhi e il vento si popola di ululati, di spiriti che soffiano nelle fessure tra i denti e si arrampicano sulla nuca con zampe di lucertola. La terra è un mantice che si gonfia e a ogni sospiro che esala lui si sente più grande e più alto, si issa a catturare i suoni più lontani e ritrova quel canto e quei colpi di tamburo, una tribù che scappa forse dal suo sguardo, chissà quali razze e quali animali, e percorre i terreni caotici di Oxia o addirittura, più in là, le creste ondulate di Abalon. Marte ha un nome per ogni lingua o labirinto o serpentina di sassi morti, pensa Nimrod, ma non per i venti o gli organismi vivi. Non mi serviranno animali vivi e parlanti, decide. Le voci sono indovinelli, il vento è un alito vecchio, mentre la terra intorno ai suoi piedi esplode ora di turgore giovanile: ogni geyser e ogni fumarola e ogni solfatara sprigionano vapore sulle frequenze ascendenti di un la e Nimrod è elevato. Questa terra di sangue e ruggine è così nuova e forte, pensa, che plasmerò creature di materiale piroclastico. Nelle scaglie dello scudo vulcanico si aprono squarci ardenti, saltano i tappi di magma, i lapilli guizzano nelle mille direzioni e il gigante legge i venti e li ammaestra con un bisbiglio assordante per forgiare esseri di pietra. L’animo di lava, solidificandosi, si farà spirito e così nasceranno vite inorganiche con le bocche chiuse e prive di lingua, ma che parleranno un unico idioma modellando i venti con mani e dita. Nimrod ammira la prole di carbonio mentre nel gheriglio di noce del cervello un sibilo lo avverte di un mutamento. La terra ora sfrigola battendo in tempi dispari, il vapore che lo spingeva dai piedi a perforare l’esosfera si è arrestato e c’è un calore che gli abbraccia le ginocchia, cupo e grasso, vuole ungerlo e inghiottirlo. Il magma sotto la pelle strilla, vorrebbe eruttare risalendo il camino e proiettandosi dal cratere, Nimrod ha gli occhi protrusi e la fronte pulsante, sono io il vulcano, pensa, sono io la torre, deglutirò questa colonna di fuoco. L’esofago si strappa e il la scende di ottava in ottava fino a un territorio dove le onde sonore vibrano a intervalli di millenni e la sua struttura molecolare muta a ogni tremito, e durante uno di quegli intervalli di silenzio, Nimrod osserva con occhi gonfi di gioia e di pianto le creature piroclastiche popolare la terra rossa di forme mai viste: hanno aperto le bocche di pietra per cantare le lodi di dio.

Le convivenze elementari

2

 

 

di David Watkins

 

Opera grafica di Andrea Balietti

 

 

Sorvolano sulle faccende, lasciano fare, con quella specie di tatto e discrezione che li contraddistingue da sempre. Persino la lagnanza, in loro, si è come rischiarata via la pesantezza materica dei giorni. Le bollette, la pentola incrostata dentro il lavandino, la spazzatura ancora da buttare: mai sentito uno che aprisse bocca per così poco.

Hanno buone maniere. Non entrano nelle stanze, scivolano tra le cose. Fanno capolino dal quadernetto su cui prendi appunti, o sbucano nella voce di un passante, nel profumo delle strade. Li stani un po’ dappertutto, ti spostano il sorriso, mentre si iniettano in un clima. Ma poi se ne ritornano al fresco, in camera loro, si appoggiano lì da qualche parte, senza rumore, senza neppure chiudere la porta.

È che lasciano tutto aperto, sempre. Godono di un’integerrima distrazione. Tu parli parli, loro, finta di niente. Non ti resta che parlare come se tu non ci fossi. Alla lunga, finiscono per abituarti a un’altra forma d’ascolto con cui intendere le cose, a sentire come di traverso, senza star lì ad ascoltarsi troppo, quasi lasciando le parole, come una musica in lontananza, come qualcosa che si possa soltanto origliare.

Certo, sono molto più terra terra di quanto noi non si creda, ma agiscono teneramente, nella logica di un occhiolino. È come un cenno, come una volta che tenga assieme la prima e l’ultima, senza essere nessuna delle due. Ecco: la postura con cui tieni il bicchiere adesso, mentre te ne vai con le parole a vanvera tra le cose, quel modo di trattenere il gomito nell’aria, come in un vuoto di scena. Oppure queste gambe che si accavallano al momento giusto, sottolineando il loro stesso movimento, sì, ma senza dare troppo nell’occhio, senza fastidio.

Insomma qualcosa, nell’aria che ti circonda, mette in circolo una loro postura, una movenza qualunque. Ci si scambia di posto, il tempo appena di un’intesa, come in un’amicizia o in una piccola citazione.

Allora ti fa come ridere, questo modo che hanno di rimanerti addosso, li senti ancora ridere se ci pensi, i morti sono inquilini ideali.

Pandemia: Nicola Vacca

0

 

 

Inventario da una casa in quarantena

di

Nicola Vacca

 

 

 

Radio Londra: Il mio nome è Gesuà sive Salvadori Moisé chiamato Marco

2

La faccia nascosta della luna
di

Mirco Salvadori

racconto pubblicato sulla rivista Sud n°69

Giungevano dalla faccia nascosta della luna, non perché lì fossero nati ma più semplicemente perché il buio, l’indistinto, il non esser visti era la condizione fondamentale che permetteva loro di vivere.

Il sudore imperlava la fronte di quel padre forte come una roccia che spingeva sui pedali, mentre il figlio faticava a mantenersi in bilico sul ferro della vecchia bicicletta, prestata loro da un Santo che abitava sul confine tra la faccia nascosta e quella sempre illuminata della luna. Il tragitto era stato lungo e difficoltoso, Zenson di Piave – Venezia andata e ritorno con la bici caricata come fosse un musso, come dicevano da quelle parti. Mercato nero lo chiamavano ma, per chi era abituato a quel colore, chi da tempo aveva imparato a temerlo e, al tempo stesso a nascondersi tra le sue pieghe, il mercato nero era semplice scambio di merce clandestina in cambio della salvezza. In fin dei conti li avevano spinti a trasformarsi pure loro in clandestini nella propria terra in cambio della salvezza.

Senza nissùn Ulisse

2

di Fabio Franzin

Vento, fòra, che fa sbàter i balconi.
L’urlo longo de ‘na ‘nbueànzha
che passa, col só cargo de doeór
– fàea ‘rivàr in tenpo, fa che ‘l se
salve – e mì che lèdhe Walcott
intant che el mondo intièro
l’é isoeà, serà in quarantena.

“something still fastens us forever to the poor”
(calcòssa ne liga ‘ncora e par senpre ai poréti)

intant che ‘a desperazhión la ‘é colma,
e scumìnzhia ‘i assalti ai supermercati.

Quant lo ‘véneo dita, come Cassandre
ciapàdhe par seme, che cussì, cussì
sgaìva no’a podhéa pì continuàr?

El vent de stamatina el ne ‘o ricorda.
Basta dise i balconi che sbate, basta
a quei che sbàtoea de un profito che
no’ tièn de conto l’òn, che no’iuta
tuti quei che resta indrìo, che sofre.

Oh Walcott, nostro Omero de isoe,
de pòpoi servi e coeònie sfrutàdhe,
che te ‘à cantà el sudór dei s.ciavi,
‘a miseria de quei desmentegàdhi,
‘e tó paròe bate, toc toc, insieme
a ‘sti balconi che bussa tel fondo
dee nostre àneme straviàdhe,
‘e zhiga insieme ae sirene che canta
l’apocaìsse che ne fa tuti conpagni,
naufraghi persi in mèdho aa borasca
senza nissùn Ulisse a bordo, senza
nissùn scudo ‘ndo ‘scónderse drio,
senza pì nissùn dio che ne ‘scolte.

 
Senza nessun Ulisse

Vento, fuori, che fa sbattere i balconi. / L’urlo lungo di un’ambulanza / che passa, col suo carico di dolore / – falla arrivare in tempo, fa che si / salvi – e io che leggo Walcott / mentre tutto il mondo / è isolato, chiuso in quarantena. // “something still fastens us forever to the poor” / (qualcosa ci lega ancora e per sempre ai poveri) // mentre la disperazione è colma, / e hanno inizio gli assalti ai supermercati. // Quanto lo abbiamo ribadito, come Cassandre / prese per sceme, che così, così / dispari non poteva continuare? // il vento di stamani ce lo rammenta. / Basta dicono le imposte che sbattono, basta / a quelli che cianciano di un profitto che / non tiene conto dell’uomo, che non aiuta / coloro che rimangono indietro, che soffrono. // Oh Walcott, Omero del nostro tempo, di isole, / popoli servi e colonie sfruttate, / che hai cantato il sudore degli schiavi, / la miseria di quelli dimenticati, / le tue parole battono, toc toc, insieme / a queste imposte che bussano nel fondo / delle nostre anime distratte, / urlano assieme alle sirene che cantano / l’apocalisse che ci rende tutti uguali, / naufraghi persi in mezzo alla burrasca, / senza nessun Ulisse a bordo, senza / alcuno scudo cui ripararsi, / senza più nessun dio che ci ascolti.

Rubina Giorgi: in una lontana vicinanza

0
dav

 

[Ospito qui un ritratto che l’artista  Prisco De Vivo ha dedicato alla poesia di Rubina Giorgi, introdotto da un estratto dall’ultimo libro di Giorgi: Vite desideranti.]

 

 

Dire “Modello Amore” è come optare per uno strutturalismo dell’Amore. Si direbbe lo abbia concepito proprio Jakob Böhme. […] Böhme ha pensato e fondato l’Amore come struttura, inserendolo nei movimenti di reciproca generazione innovante e continua delle forme o essenze della Natura. Strutturalismo che rimane compreso e nascosto nel disegno cosmico dell’insieme rotante che cela e svela la vita e le vite come vertigine. (Quando il senso comune esclama: “la vita è una ruota”, lenta-veloce, che ci trascina con sé, ha dunque un’ignara ragione.) Qualcuno potrebbe domandarmi perché non aver chiamato Amore “idea” in senso platonico anzi che “modello”. Risponderei: per non introdurre qualche maggiore complicazione o equivoco in un contesto che ha poco e vuole aver poco di platonico. Come modello, abbiamo appreso dalla duplice Hadewijch e da Böhme che Amore è ineguagliabile, del tutto dissimile da affetti e pensieri convenuti, quindi inattingibile a meno che non muti la disposizione di chi lo ricerca.

[…]

Amore è un dio dissimile. Non possiamo assimilarcelo, lo piegheremmo a noi in modo blasfemo, anche se solo apparente. Dobbiamo piuttosto noi dissimilarci da noi per ascendere a Lui o affondare in Lui (il che è lo stesso). E attingere per noi rassomiglianza alla sua Dissomiglianza – come doni o rapine di forza prodigiosa. Divenire duplici, dissomiglianti/rassomiglianti per semplificazione e spogliamento. Il Dissimile assoluto assume tra gli umani l’aspetto dell’inverosimile. Dovrebbe entrare, più che nelle religioni, nelle letterature mistiche. Si potrebbe dire che Hadewijch seconda perfezioni Hadewijch prima: fa un giro completo tra sé e il Nulla divino. Poi riprende la corsa vertiginosa “in una lontana vicinanza” (Mgd. 17). Nell’inverosimile non manca il raro vivente che cerca, fin da tempi primordiali del mondo, di farsi dissimile. Mosè per esempio. Salomone, pur cadendo. Davide invece, suo figlio, non ci riesce, pur amato dal Dissimile per eminenza. Poi certo Maria di Nazareth, il suo sposo Giuseppe (un dissimile tacente), e suo Figlio Gesù. Terribili, gli umani, tentano invece l’umanizzazione del Dissimile, il suo sacrificio. Il mistico, la mistica tentano la disumanizzazione degli umani restituendo la loro dissomiglianza ai Dissimili. Occorre, in ogni era del tempo, ricreare e riordinare rassomiglianze e dissomiglianze. È una straordinaria avventura, che corre al di sotto e all’ombra di quelle che gli umani amano chiamare “narrazioni” delle loro vite.

 

 

Rubina Giorgi: sacrificio per la parola

 

di Prisco de Vivo

 

L’Angelo Ermetico (omaggio a Rubina Giorgi)

 

Tocca il mio sordo udito, Signore,

abbaglialo

separalo

da me

forse lo fai già

lo stai facendo

mentre io non comprendo.

 

(Invocazioni, 37)

 

Rubina Giorgi è una poetessa che ha a che fare con il silenzio, con la preghiera, con la trasparenza dell’acqua o del vetro, con un senso francescano della parola. Vi sono alcuni versi di Majakovskij in Flauto di Vertebre che dicono:

 

         Guardate

         sulla carta sono crocifisso

         coi chiodi delle parole.

 

Mi hanno fatto pensare a Rubina in atto di attraversare in pieno questa condizione:  crocifissa sulla carta con le parole.

Ombra di luce e Invocazioni sono i due suoi libri che mi hanno spinto a meditare e a scrivere sulla sua poesia. Sono testi che vanno attraversati con la giusta lentezza, per coglierne il senso interrogativo più profondo, quel desiderio di essere altro, l’immateriale, una spuma di rugiada che si scioglie sulla terra o una polvere divina disseminata dal cielo.

È il desiderio dell’Invisibile, che è al tempo stesso desiderio di un canto d’amore che riecheggia la vita, ma che non si arrende dinanzi alla coscienza della sua finitudine, la quale è pur sempre un miracolo, che ondeggia tra luci, ombre e buio completo.

Lo sguardo di Rubina Giorgi è rivolto dunque alla grazia di quell’Invisibile che non si può possedere, e cerca di rapirne barlumi e scintille tra le cadute arrancate dell’animo umano.

Noi, avvolti nella scarsa luce o nelle tenebre della quotidianità,  ci domandiamo con Rubina:

Cosa diventa nell’Invisibile

La Luce?

E posso io divenire almeno

         Tenebra fortunosa, deviata, tenebra,

         tenebra che vede?

                                                               (Invocazioni)

Se penso a Ombra di luce, vi trovo umane assolute bellezze, che tuttavia preparano a un cammino di sacrificio.

 

         Insieme,

         in stretta comunione

ai tuoi molti errori,

         la tua verità, il tuo semidivino seme.

Invocazioni accoglie l’implorazione di un’umanità che cerca più che una salvezza individuale e collettiva un rinnovato contatto con la propria radice divina obliata (Ancora una volta / mi arrendo a Te, Signore).

Nella poesia di Rubina Giorgi ravviso una trasparenza della visione e una rinuncia monastica agli ornamenti non necessari; al contrario, la capacità di affrontare impedimenti e smarrimenti umani è bella ricca, rigogliosa.

Riguardo alla trasparenza, questa si può evincere dalla perfezione minimale del dettato poetico, che mi sembra riportare all’enigmatica e vertiginosa poesia di Emily Dickinson. Inoltre, le atmosfere estatiche delle sue visioni mi fanno pensare ai monocromi blu e rosa di Ives Klein, che come Rubina aspirava a materializzare l’invisibile.

Storia di un pacco (Dipartire ai tempi del confino)

8

disegni e testi di Elena Tognoli

Il pacco scivolava veloce
su rotelle.

Pandemia: esperienze di sostegno reciproco a Barcellona

0
Il quartiere del Poble Sec diviso in 5 Zone

di Sara Beltrame*

C’era questo cartone animato giapponese, s’intitolava One Piece.

Rubber, il protagonista, era un pirata con il corpo di gomma e un cappello di paglia in testa, stile Sampei. Un giorno Nami, piratessa della sua ciurma, si ammala, ma, non essendoci un medico a bordo ed essendo tutti molto preoccupati per lei, la ciurma decide di sbarcare ovunque possibile.

La prima isola che incontrano è Drum, un luogo immerso in un inverno perenne. Presto la ciurma viene a conoscenza che nell’isola esiste solo una dottoressa molto anziana di nome Kureha (una specie di strega) che vive in un castello in cima a una montagna. Come fanno gli abitanti di quest’isola a curarsi se c’è solo una dottoressa? Ma, soprattutto, perché non ci sono altri medici?

In un flashback scopriamo che, quando nell’Era dei Grandi Pirati l’isola venne attaccata dai Pirati Barbanera, il re Wapol scappò senza nemmeno cercare di combattere per difendere i suoi sudditi e offrendo la possibilità di salvarsi solo a 20 persone: i migliori medici di Drum. Kureha è stata l’unica a non voler abbandonare l’isola seguendo il Re.

In questi giorni mi torna spesso in mente quest’episodio di One Piece.

Negli anni che sono passati dal 2008 in poi abbiamo assistito a una politica che, con l’intenzione di affrontare la crisi economica, ha smontato il nostro sistema educativo e il nostro sistema sanitario pubblico. Potevamo essere colti in questa nuova crisi sanitaria anche in situazioni peggiori, mi dico. Potevamo vivere nell’isola di Drum. Potevamo essere i vassalli del re Wapol. Poteva essere sempre inverno. Potevamo rimanere completamente senza medici. Invece i nostri medici, come la vecchia Kureha, hanno resistito e non si sono ritirati a vivere in cima a una montagna innevata.

Quelli di noi che si prendono il lusso di scrivere hanno un tetto sopra la testa; non hanno grossi problemi di salute; è probabile che non siano disabili; è probabile che non siano anziani rimasti soli al mondo in un edificio di cinque piani senza ascensore; hanno sicuramente un computer e un collegamento a internet; è molto probabile che non vivano dietro le sbarre; molto probabilmente non vivono con persone che abusano di loro o dei loro figli.

Per quello che mi riguarda ho anche la fortuna di vivere in una città che ha dimostrato in più occasioni di essere in grado di auto-organizzarsi nell’emergenza.

Questa volta, con una pandemia in corso, è successo lo stesso e tutto molto velocemente.

Il 15 marzo, a pochi giorni dall’allarme sanitario in Spagna, 8 persone del mio quartiere – il Poble Sec a Barcellona – decidono di trovare il modo per portare aiuto a chi ben presto rimarrà solo e senza poter uscire di casa. Pochi giorni dopo hanno aperto un gruppo in Telegram, chiedendo alle persone, invitate tramite un link, indirizzo e disponibilità oraria. Con questi dati il gruppo ha iniziato a creare una mappa del quartiere, dividendolo in 5 zone, e ha attivato un numero di telefono al quale chiamare per ricevere assistenza.

Il quartiere del Poble Sec diviso in 5 Zone

A partire dalle zone geografiche sono stati aperti altri cinque sottogruppi in Telegram con due persone responsabili di zona (uno per la mattina e uno per la sera) in contatto diretto con chi riceve le chiamate. Essendoci qualche medico nel gruppo, hanno scritto un protocollo sanitario con le misure da comunicare ai volontari e, infine, per informare le persone anziane dell’esistenza della “Rete di sostegno reciproco del Poble Sec” e del numero di telefono, il gruppo ha deciso di stampare cartelli da appendere nei negozi del quartiere, nelle strade e soprattutto all’interno degli edifici.

Chi conosce le iniziative sociali che le persone sono state capaci di generare in tutti questi anni, a partire dal Movimiento de los Indignados in avanti, non si sorprenderà di sapere che la rete del quartiere ha raggiunto più di 500 volontari in 20 giorni.

“Questa crisi – commenta Sandra, una delle prime ad attivarsi –, a parte tutta la tragedia che porta con sé, è anche una opportunità per fare una revisione del nostro sistema comunitario. Ci aiuterà a recuperare quello che avevamo perso: prenderci cura della nostra comunità, tessendo vincoli tra di noi.”

Continua spiegando che al numero di telefono attivato risponde una coppia che è al tempo stesso utilizzatrice e volontaria della Rete. E prosegue: “Abbiamo tradotto il cartello in arabo, urdu, cinese. Pochi giorni fa ci ha chiamato una persona che non parlava nessuna di queste lingue e così abbiamo mandato un messaggio nel gruppo e in poco tempo siamo riusciti a trovare qualcuno che potesse capire e aiutare questa persona.”

 

A partire da quest’esperienza le azioni di sostegno del quartiere si sono diversificate con il passare dei giorni.

Esiste un gruppo che si è proposto di cucire mascherine per i volontari, così come un gruppo che si occupa di raccogliere computer, telefoni, tablet da distribuire alle famiglie con bambini che ne sono sprovvisti. Ci si sta adoperando per contattare le grandi compagnie telefoniche e attivare linee di internet in orario scolastico per i bambini e i ragazzi che non hanno connessione.

“Ho chiamato la mia compagnia telefonica – spiega Lucia, volontaria della Rete – e ho detto che volevo condividere la mia linea con un bambino del mio palazzo, in orario scolastico. In due minuti è stata aperta una linea alla quale abbiamo dato il suo nome e attivata una password.”

Paquita e il suo cane Jaqui, Zona 3,
utenti della rete di sostegno

Mentre tutto questo succede sotto i miei occhi e inizio a prendermi cura di Paquita (84 anni) e del suo cane Jaqui (16 anni), mi viene spontaneo chiedermi quand’è che abbiamo disimparato ad aiutarci mutuamente.

Quando abbiamo iniziato a dare per scontato l’altro? Quando abbiamo chiuso le nostre porte pensando che, tenendo aperte solo quelle della tecnologia, ci saremmo bastati?

“Quando avevo 7 anni, nel 1970 – mi racconta Cristina –, mio padre è morto e mia madre è rimasta vedova con tre figli. La mia vicina, che non aveva figli, è diventata la nostra seconda mamma. Ci svegliava per andare a scuola perché mia mamma doveva correre a lavorare. Era il nostro angelo custode e quando è mancata anche lei tutta la mia famiglia ha pianto. In quell’epoca tutti si aiutavano, persino quando moriva qualcuno ci aiutavamo, figurati! Condividevamo anche le cose buone, non solo quelle tristi. A Natale, per esempio, la porta del vicino era sempre aperta e ci trovavamo sulla terrazza comune per far festa.”

Cristina ha una luce di ironia vitale nello sguardo che non si spegne mai, nemmeno in questi giorni che le cose si sono complicate e non può andare a trovare sua mamma alloggiata in una residenza per anziani. Ho chiesto a lei di aiutarmi a rispondere alla mia domanda perché, quando l’ho conosciuta, arrivando a Barcellona dall’Italia, mi ha accolta come se fossi una delle sue figlie. Non sapeva nulla di me e non mi ha mai chiesto “cose” prima di aiutarmi. Mai.

Se non fosse stato anche per Cristina e per la sua famiglia non avrei mai potuto rimanere a Barcellona per tutto questo tempo (sono già 12 anni) per scrivere ed essere spettatrice privilegiata di alcuni fatti importanti che sono accaduti in questa città e che hanno cambiato il mio modo di vivere.

E non solo il mio.

Sono cresciuta in una comunità e per me è normale conoscere i miei vicini e condividere momenti con loro, aiutarci mutuamente; ma, se potessi collocare un segnaposto nella memoria per sapere esattamente quando, come e perché tutto questo è iniziato qui nel mio quartiere, il Poble Sec, direi che è stato dopo lo sgombero de Los Indignados da Piazza Catalunya.

Era il 2011.

Qui la gente ha iniziato a ricordarsi di “come si faceva prima”, in quei frangenti.

A quelli che si sorprendono di vedere come il quartiere abbia reagito rapidamente all’emergenza generata dalla pandemia bisognerebbe raccontare una storia che inizia lì. Inizia nei giorni, nei mesi, negli anni che sono seguiti allo sgombero della piazza. Quando il movimento de Los Indignados si è riversato nei quartieri, le persone coinvolte nell’occupazione di Piazza Catalunya già sapevano che non avrebbero permesso che tutta l’energia generata da quell’esperienza venisse fatta sparire a colpi di proiettili di gomma. Già allora era sorprendente vedere come si fosse organizzata la gente in uno spazio così emblematico, con la sua stella bianca che all’improvviso appariva riprodotta sui muri della città, sull’asfalto delle sue strade, sui cartelli che invitavano alle assemblee pubbliche.

La stella riprodotta di Piazza Catalunya, simbolo del movimento de Los Indignados di Barcellona

È stato in quella piazza che abbiamo iniziato a sentir parlare dell’”Economia dell’assistenza” e ad alzare le antenne vedendo come gli Stati stessero smontando il sistema sanitario nazionale e il sistema scolastico. Si potrebbe discutere dell’efficacia e dei fallimenti di questo movimento, ma non c’è dubbio che ciò che si è spezzato con lo sgombero di Piazza Catalunya è stato ricostruito altrove in spazi più piccoli – e pur sempre pubblici.
Siamo esseri viventi.

Anche i nostri quartieri lo sono.

Anche le nostre città lo sono, sebbene a noi non sembri.

Respirano. Mutano.

Se potessimo guardare da lontano le esperienze di mutuo soccorso che sono fiorite in questi giorni in tutto il mondo potremmo renderci conto che le entità sociali e i collettivi che le hanno fatte rinascere funzionano come anticorpi.

Il loro obiettivo è mantenere in vita il corpo-quartiere e il corpo-città per farli esistere e resistere nonostante la distruzione dello stato sociale. La loro velocità di attivazione per contrastare le malattie generate dalle strategie capitaliste eccessive di questi ultimi anni è direttamente proporzionale alla loro presenza sul territorio, che esso sia rappresentato da una strada, una stanza, una casa, un quartiere, una città o l’intero pianeta Terra.

 

*Questo articolo è apparso in spagnolo e in forma parzialmente modificata qui.

 

Overbooking: Ferruccio Benzoni

2

Nota di lettura

di

Alida Airaghi

Marcos y Marcos ha da poco pubblicato in un unico volume organico tutte le poesie di Ferruccio Benzoni (Cesenatico, 1947-1997). Benzoni è stato una figura marginale, benché rilevante, nella storia della nostra letteratura novecentesca: non tanto per la qualità o quantità della sua produzione in versi, quanto invece per la sua irriducibilità caratteriale alle mode prevalenti in ambito letterario.

Nato e vissuto nella provincia romagnola, da essa non riuscì mai ad affrancarsi completamente, nonostante gli anni universitari vissuti a Bologna, e animati da un attivo e fervente impegno politico nella FGCI. In uno dei primi componimenti, aveva definito profeticamente la propria stanzialità esistenziale: “Qui ho vissuto e un male d’ombre ha attecchito / qui devo finire con la mia sete intatta”.

Nella sua Cesenatico, con un gruppo di amici appassionati di poesia (“i fratellini”, come si definivano tra loro), aveva fondato una rivista semi-clandestina, “volutamente alla macchia”, Sul Porto, che a dispetto delle previsioni si rivelò presto nucleo di aggregazione e di discussione, proponendo a un pubblico sempre più ampio poeti di calibro nazionale come Pasolini, Fortini, Raboni, Giudici, Sereni.

“La provincia può ancora essere una frontiera dove farsi pionieri di idee e contributi autentici e originali”, orgogliosamente dichiaravano questi giovani, che avevano fatto della poesia una ragione di vita, di incontro e scontro culturale, allargando i loro confini di intervento anche alle arti e al cinema.

L’esperienza vitalizzante della rivista si concluse dopo un decennio, nel 1983, e per Benzoni iniziarono anni di delusione e prostrazione, che lo spinsero nel tunnel della dipendenza alcolica, di cui diede testimonianza nella raccolta Sguardo dalla finestra d’inverno, uscita nel 1998: “Furono il mio lager / tanto che venutone fuori (dimesso) / d’ogni cosa ebbi paura: / tornare tra la folla che si urta, le ombre surrogare nella mia. // … Notti e giorni al riparo dall’esistere”.

La sua biografia giovanile fu segnata profondamente nel 1967 dalla morte della madre, cui dedicò versi struggenti, che nella prima sezione del volume, Canzoniere infimo, vengono marchiati dal reiterato proporsi del termine “figlio”, legittimato pure all’interno di relazioni sentimentali diverse (“È insistente il mio chiedere, terribile: arte di figlio”, “nient’altro che vaghezza o / un’ossessione di figlio”, “Dunque sono solo un figlio, enfatica radice”, “per te anche / fui figlio: m’hai dato amore in cambio / di stranezza”, “a puntar spilli alle veglie io solo fui figlio”). Il richiamo alla pasoliniana Supplica a mia madre riecheggia evidente nella struttura formale di alcuni versi (“Devo dire che non l’acqua mi manca / o il pane o il letto dove sfinirsi. // … Ho voglia di cose disamorate e vive // … È dentro il tuo viso che nasce la devozione / della mia solitudine”). E a Pasolini viene riservato l’omaggio di altre citazioni poetiche e filmiche.

I debiti che il primo Benzoni riconosce alla poesia italiana del secondo ’900 sono riscontrabili nella preziosità lessicale e in numerosi incipit montaliani, nei versi a gradino e nelle titubanti interrogazioni di Caproni, nella oggettiva discorsività sereniana (Vittorio Sereni fu per lui faro intellettuale e guida paterna), nell’esibita intenzionalità comunicativa di un “tu” a cui appellarsi (un tu con “valore individuale e insieme universale”, come giustamente sottolinea Massimo Raffaeli nella prefazione).

All’interno della produzione più matura, si emancipa invece dalle eredità letterarie del nostro dopoguerra, trovando una voce più decisamente sua, meno affabilmente espansiva e talvolta addirittura criptica, in uno stile più asciutto e nervoso, in una sintassi franta e complessa, in scelte formali innovative che introducono frequenti neologismi, anastrofi, paronomasie, allitterazioni (“affettata (ammetto) sfiatata / se spiove”, “Precipitando allucciolava”, “Libecciate petulanti lune”, “una luce una lucina latitava // … mi disfaceva in uno sfacelo”, “le stanghette / di similoro spettrali / per stornarti”, “in una gibigianna di / chiatte chete, bacilli, balsami”, “T’avviluppi, t’accartocci”, “e slogato snodato”, “aggallare all’alba”, ecc.). E poi l’uso frequentissimo di parentetiche e di gerundi che rimandano a un discorso sempre sospeso, volutamente aperto a soluzioni parimenti temute o sperate.

Tuttavia, ciò che più caratterizza la poetica benzoniana non sono tanto i requisiti stilistici, quanto il tono di assoluta e pudica discrezione, di rassegnata malinconia, di pacata umiltà con cui si rapporta all’esistere: cifre di un consapevole e desiderato appartarsi dal brusio confuso del mondo.

Francesco Scarabicchi ne intuisce con sensibile acutezza il tratto distintivo nel risvolto di copertina: “La sua poesia era ed è il passo notturno delle ‘musiche’ di attesa e stupore, d’una arresa triste dolcezza che guarda e ascolta il quotidiano andarsene del giorno”. Poesia domestica, comunque, perché proprio nella tenerezza dei rapporti familiari e quotidiani riesce a recuperare un legame con il brulicante tepore dei rapporti umani.

La mamma (“mia madre, esile filo di vita sfiorente. Ischeletrita, / arresi e grigi i capelli senza tintura, le dita / agitava ai saluti”). La zia (“Non sono per lei / un ragazzo per bene: sto fuori la notte, non rincaserei mai. //… Io la amo e fossi buono a pregare / per lei pregherei, per la poca vita di scricciolo”).La bambina che appare imprevedibile, improvviso miraggio, rimpianto di una paternità negata (“Mia figlia potrebbe essere avessi avuto cuore / allora”, “selvaggia figurina”, “una bambina cui aggiustare berretto e sciarpa”).La cagnetta Orazio (“Abituata al canile / randagia / sgranavi gli occhi ai rimbrotti / o li strizzavi / sciagurati e dolenti / timidissimamente / più che potevi / da farmi male”).Gli amori giovanili (“Ah, i tuoi capelli e come viziata li trascuri / ridendo degli specchi piccola strega e ridendo / come sai bene che a sfiorarli morirei”).La moglie Ilse, musa protettrice (“Nel verde dei suoi occhi aguzzi / riarde un mio futuro / di metrica e di vita”). Un universo tutto femminile cui aggrapparsi per continuare a sopravvivere nel confortante e banale dipanarsi dei giorni.

Nonostante il bene e il bello intravisto e riconosciuto, lo smarrirsi nel proprio inarrestabile dolore, la volontaria clausura entro confini avvertiti come invalicabili, in un continuo “deragliamento dalla vita”, è in questo poeta un lento, progressivo e inarrestabile avvicinarsi alla morte: “Ma resto solo / e vivo, picchio la testa, come vedi scrivo: / fossero viole le voci, sarei di primavera! / M’allontano invece, deraglio dalla vita”, “Verrà un crepacuore d’inverno”, “Cosa c’è tra questo paese e me / (tra questo involucro) / che tacitato infine non sia / confinato dentro un cortile. / Immagine io stesso di una camera / (piccola morgue di febbricole) / chiusa dal di dentro. / Invece d’un vetro una crepa – stucco / sui ragnateli dell’intonaco. / Ma l’anima costipata tossisce, / specie di notte, non so se d’amore”, “Riconosco – è mio – il dolore: gli faccio festa / neanche fosse un cane battuto”, “Ne morivo mia anima che accorrevi / ai brani di una giovanezza a pezzi”.

Con l’angosciante certezza che “non esiste grazia senza l’orrore”, Ferruccio Benzoni ci ha lasciato una delicata e sofferta testimonianza poetica, timorosa di qualsiasi stentorea e invadente sonorità: “Torna alto il silenzio. S’invola”. Al suo silenzio, raggiunto a soli cinquant’anni, rende omaggio questo volume curato con filologica perizia da Dario Bertini.

 

 

 

 

 

 

FERRUCCIO BENZONI

CON LA MIA SETE INTATTA. TUTTE LE POESIE

 

Marcos y Marcos, Milano 2020

A cura di Dario Bertini. Introduzione di Massimo Raffaeli.

  1. 399

 

 

BIBLIOGRAFIA

 

Ferruccio Benzoni:

Notizie dalla solitudine, San Marco dei Giustiniani, Genova 1986.

Fedi nuziali, Scheiwiller, Milano 1991.

Numi di un lessico figliale, Marsilio, Venezia 1995.

Sguardo dalla finestra d’inverno, Scheiwiller, Milano 1998.

Canzoniere infimo e altri versi, San Marco dei Giustiani, Genova 2004.

 

Andrea Afribo, Il «serenismo impressionante» di Ferruccio Benzoni, in Poesia italiana postrema. Dal 1970 a oggi, Carrocci, Bologna 2017.

 

Le Cose Note

0

di Domenico Talia

Hoda Barakat è una scrittrice libanese di lingua araba che vive a Parigi. È una cristiana maronita che ha lasciato il Libano molti anni fa anche a causa della guerra civile che in quel paese durò quindici anni e provocò più di 150.000 morti. Tra i suoi libri, Diario di una straniera e L’uomo che arava le acque. Lei, figlia del Medio Oriente, sembra volersi rifiutare di parlare del suo mondo, quello che è anche oggetto dei suoi romanzi: «Non riesco a parlare di cose che tutti conoscono già,

Nanof, santo con cellula fotoelettrica

1

 

in collaborazione con La Camera Ardente

 

 

In questi giorni lo Studio Azzurro ha messo a disposizione l’archivio dei suoi film. Le opere sono liberamente consultabili su Vimeo. Tra queste, segnalo L’Osservatorio Nucleare del Signor NANOF, dedicato alla figura di Oreste Fernando Nannetti astronautico ingegnere minerario nel sistema mentale– e al ciclo di graffiti dell’ospedale psichiatrico di Volterra.

 

“Corazzi / Nannetti = Fernando / nato / a / Roma il / 3 / 10 / 1927 / moro / spinaceo / castagno / alto / 1,60 / secco / bocca / stretta / naso / Y”.

 

Nella scheda del film si legge: «Un muro lungo circa 150 metri e alto due avvolge l’esterno dell’ex-manicomio di Volterra. La sua superficie è totalmente incisa, ricoperta da un immenso racconto fatto di parole e disegni, tabelle e planetari. Per dodici anni Nanof l’ha scalfito e lo ha abitato, costruendo il suo universo artistico e mentale. Il graffito è come un ritrovamento archeologico anticipato, da cui emergono tutti i temi della nostra epoca.»

 

Insieme al link Vimeo, ospito qui il testo che chiude il film, e due estratti da una conversazione di Fabio Cirifino, Paolo Rosa e Leonardo Sangiorgi con Valentina Valentini, registrata il 29 ottobre 1993 e il 12 e 13 febbraio 1994 a Milano presso la sede di Studio Azzurro. L’interlocutore che parla in prima persona è Paolo Rosa. L’intera conversazione è consultabile su Sciami.

 

 

da Temi e figure dell’universo estetico di Studio Azzurro

 

«Dall’atmosfera movimentata e un po’ trasgressiva alla “New American Cinema” di Facce di festa e di Lato “D” approdiamo – qualche anno- dopo ai toni rarefatti e metafisici di Nanof. Ho già affermato più volte che questo film ha rappresentato una delle più belle e significative esperienze fatte sino ad ora […].  Nannetti Oreste Ferdinando, detto Nanof, è stato davvero un grande modello. […] Dopo aver realizzato il film, in molti dissero che trovavano delle assonanze con il cinema di Tarkovskii.»

***

«Per un certo periodo, sollecitati anche un po’ dai deliri avveniristici di Nanof, delle sue tabelle spaziali, dei suoi missili a tubo catodico, delle sue piogge di stelle, abbiamo ricercato nella fantascienza (Ballard e Dick ad esempio), anche perché come spazio letterario sembrava assomigliare molto al territorio video che utilizzavamo: un genere che inglobava in sé molte delle altre espressioni letterarie, confrontandole con un immaginario scientifico ma restando tuttavia ai margini della letteratura colta. Una analogia che non poteva sfuggirci.»

 

***

da L’Osservatorio Nucleare del Signor NANOF

 

Ora che la mia ricerca ha raggiunto un livello soddisfacente e sono in grado di attraversare le frontiere del mio universo, vorrei trasmettere alcuni fatti relativi alla scoperta di un altro graffito del signor Nanof. In esso vi è raccolto tutto il suo sapere: stelle, lune, pianeti e carte geografiche delle fusioni territoriali. Suppongo che il linguaggio adottato sia una solidificazione del flusso di messaggi  che vengono  ricevuti e diffusi da Nanof attraverso il sistema telepatico. Io ne ho una conoscenza parziale. Delle sue vicende storiche posso però fornire una cronaca dettagliata. Situato in territorio di recente annesso all’osservatorio nucleare, il graffito era stato in origine proprietà della nuova marina zarista di Nicola III di Prussia, poi ceduto nel periodo in cui la luna è rossa e celeste alla stato nordico imperiale inglese, trafugato dal settantunesimo corpo di sbarco della marina francese,  con base di artiglieria astrale forte forestal mediante uso di proiettili indiani di lancio  ad attrazione sonora, conquistato dalla Prussia asiatica insieme alle nuove colonie dell’Egitto, Libia, Tunisia, Algeria e Marocco, custodito nella stazione spaziale ad intermittenza Zarco, venduto alla Spagna buddista in seguito all’acquisto della Grecia e dell’Albania, donato all’Africa orientale ex italiana ex inglese ex nuovo stato coloniale della Virginia austriaca americana […].

Prima di terminare, aggiungo a questi fatti  oramai noti che il signor Nanof, a tutt’oggi ancora impegnato a ricoprire il pianeta di notizie diffuse attraverso il sistema telepatico, trasmette mediante quadrante e per effetto naturale. Non so dove mi porterà questa strada; certamente non è del tutto percorsa. Anche per questo, io continuo.

 

L’Osservatorio Nucleare del Signor NANOF, 1985 – film from Studio Azzurro on Vimeo.

Vorrei poterti dire molto di più

8

di Francesco Borrasso

Portare i fiori nei cimiteri, è importante onorare i morti, le tombe, le spoglie, che sono tutto ciò che rimane di un uomo; poi, con il tempo, scompaiono anche quelle e non resta più niente. È quello che dicono: rispettare i santi, dare voce ai deceduti, renderli ancora vivi a forza di parole e ricordi, riguardare vecchie foto. Abbiamo tutti grandi colpe da scontare; l’abbraccio con una madre che ci ha messi al mondo e ha pianto per noi e più di noi quando le cose andavano male, perché c’è sempre un momento in cui la vita crolla, e se sei fortunato a spezzarsi è solo qualche osso.
La strada in salita mi porta verso casa, sulle pietre bianche e levigate del sentiero c’è un uccellino caduto dal nido, il cranio aperto, c’è sangue e riesco a vedere una parte del cervello; è ancora vivo, mangia bocconi d’aria ansimando con il becco, non vuole morire, muove appena un’ala, lentamente e poi sempre più piano, vorrei fare qualcosa ma non posso niente, proseguo perché non voglio vederlo mentre muore. La stanza è un gioco di ombre, sulla scrivania l’ultima lettera che mi ha mandato mio fratello Matteo: a Ernesto Simon. Mi è arrivata una settimana prima che morisse, cancro ai polmoni. Deve averla scritta mentre, disteso in un letto, sudava lenzuola tra iniezioni di morfina e bestemmie nella consapevolezza di dover abbandonare una vita che non voleva lasciare; c’erano due bambini: Alessio di dieci anni e Luca di sei, due bambini che avrebbero avuto bisogno di un padre. Apro la busta per rileggerla e un vento carico di sale entra dalla finestra, questo foglio di carta e inchiostro pesa come fosse di ferro:
Sto morendo, ma io non voglio morire, ma non voglio nemmeno continuare a sentire questi dolori e tutta questa sofferenza che mi circonda sui volti delle persone che mi sono intorno. Ti ricordi quel pezzo di legno che trovammo sulla spiaggia? Aveva la forma di un becco di un uccello. Sono sicuro che hai capito di cosa sto parlando, non puoi non ricordare. Ecco, ce l’ho adesso mentre ti sto scrivendo. Sono preoccupato per Alessio e Luca. È forse la cosa che mi spaventa di più. Quando non ci sarò più, non starò più male e paradossalmente non avrò più alcun tipo di problema; ma loro, i bambini, come la prenderanno? Mia moglie, sono certo, farà di tutto per assisterli, per non fargli mancare niente; ma ho molti dubbi. Desidererei poter assistere alla mia morte. Spero che un giorno entrambi i miei figli potranno fare affidamento su di te. Ti abbraccio forte, Matteo.
È venuto qui qualche mese fa, dicendo che un po’ di aria di mare gli avrebbe potuto fare bene, ho risposto che sì, forse poteva essere vero. Con il treno delle 6.40, da solo, senza moglie né figli, è arrivato alla stazione a pochi chilometri da qui ed io sono andato a prenderlo con l’automobile; al mio paese non arrivano treni. Quando l’ho visto aveva uno zainetto nero dietro la schiena, c’era dentro una bombola di ossigeno collegata alle sue narici tramite un sottile tubo di gomma trasparente. Quella, per me, era una visione nuova, non sapevo che la malattia avesse camminato così tanto. Mio fratello somigliava ad un relitto, un pezzo di carne e metallo. L’aria era bollente e il sole batteva sulle lamiere che coprivano la banchina, aveva i capelli tagliati molto corti e il viso bianco e camminava a stento.
«Fratellino», disse forzando un sorriso.
Provai ad abbracciarlo nonostante l’impaccio dello zaino. La sua pelle era sottile e sembrava sul punto di creparsi, sentivo la debolezza del corpo, della fatica che doveva fare per riempire e svuotare la gabbia toracica. Nel tragitto in auto non parlammo. Ricordo la luce che mi restava impressa nella pupilla e le chiazze bianche illusorie che mi pareva di vedere sull’asfalto. Matteo sembrava provasse vergogna per quello zaino, per quel prolungamento meccanico del suo corpo che non rappresentava una soluzione ma un semplice, miserevole, palliativo. Scendemmo sulla spiaggia di ciottoli camminando in fila indiana su una scala stretta di pietra. Possedeva dei movimenti che mi sembravano sempre al limite, provavo disagio, lo sentivo rompersi di continuo alle mie spalle, come se ogni gesto, per lui, fosse eccessivo; avrei voluto dirgli: Matteo, che cazzo succede? Come ci siamo arrivati qui? Quando eravamo bambini non ce l’ha detto mica nessuno che la vita era questa.
Succhiava l’aria dal tubicino di gomma, i suoi polmoni gonfi di cancro non erano più funzionali alla vita.
Da piccoli, su quella spiaggia, cadevamo sbucciandoci la pelle e ci rialzavamo subito, senza tentennare e ci buttavamo in acqua perché il sale avrebbe risolto tutto. Le cose impossibili sembravano non appartenerci, eravamo bravi ad avere fede nella magia, ad immaginare la nostra “isola che non c’è”; bravi a perdere, perché la posta in palio era sempre minima e molto spesso indolore.
«Questo cazzo di mare è sempre una meraviglia», disse sedendosi con accortezza, mentre senza scarpe aspettava di bagnarsi i piedi con l’andirivieni delle onde e non c’era chiasso e l’aria era fresca e asciutta.
«Senti dolore?», chiesi, furono le prime parole che mi vennero in mente.
«Un po’, ma ho portato della morfina, dovrebbe bastarmi per questi due giorni», rispose.
«Quanto ti resta?».
Non volevo stare lì a parlare di futilità mentre il mondo continuava a girare e noi stavamo perdendo; avevo bisogno di fare quelle domande ed ero sicuro che lui era venuto per darmi quelle risposte.
«Poco».
Mi accorsi di quanto la bellezza potesse essere devastante quando sai che non potrai più vederla.
«Se senti male possiamo rientrare, ti faccio una siringa».
«Qui è così bello, mi fa venire voglia di piangere, mi fa pensare a quando eravamo piccoli e so che questa è l’ultima volta che lo vedo, questo posto».
Le sue parole erano fatte di pietra, gli cadevano dalla bocca e rimbombavano e facevano chiasso dentro di me e il mio cuore batteva forte.
«È possibile che sia l’ultima volta».
«Ho paura Ernesto, così tanta paura che non saprei come parlarne».
Diceva quelle parole con il busto e la faccia girati verso di me che gli ero seduto vicino, avrei voluto dirgli che non c’era bisogno mi spiegasse nulla, che la sua faccia era un racconto perfetto, che la sua paura era ogni parte del suo corpo, puzzava la sua paura, infettava.
«Lo so, morire fa schifo, vorrei poterti dire molto di più, ma mi si strozza la gola».
Alcuni pesci nuotavano vicini alla riva e piccole barche stavano rientrando in porto e c’era una luce nel cielo che sembrava di carta.
«Ma tu devi scrivere, non voglio esserti di intralcio, se vuoi andare vai, io ancora ce la faccio a stare da solo», disse.
«Rientriamo insieme quando senti troppo male, altrimenti restiamo qui».
«Adesso va bene, a volte mi arriva qualche fitta che mi immobilizza, ma per ora possiamo restare».
Rimanemmo in silenzio a guardare i gabbiani e le loro evoluzioni a pelo d’acqua e il peso di tutto quello che ci stava crocifiggendo a quel momento, non c’era scampo.
«Ernesto?».
«Dimmi».
«Non voglio morire».
«Lo so».
«Riesco a non pensarci, a volte, riesco a fuggire, ma poi mi sento svenire, mi sento gelido e so che è tutto vero».
Non si vedeva quasi più niente e potevamo guardare le stelle che parevano vicine, un buio immenso e compatto ci teneva stretti.
«Com’è la morte, secondo te?», mi chiese.
«Non saprei. Forse è uguale a quel momento in cui ti addormenti ma ancora non sogni», risposi muovendo una mano nell’aria.
«Il nulla… nessun ricordo, nessuna immagine, quel momento di passaggio tra la veglia e il sonno», disse.
«Credo di sì».
Cucinai degli spaghetti con i frutti di mare, in tavola dell’acqua e del vino bianco, mangiammo senza parlare nella stanza che ci aveva visti diventare uomini, con le luci della lampada da terra, deboli, che provavano a mangiare le ombre, ad annullare gli angoli. C’era solo il vento contro le vetrate e lo scroscio del vino versato nel bicchiere e il metallo della forchetta nel piatto.
«Cos’hai detto ai bambini?», chiesi.
Matteo, prima di rispondere, mi guardò a lungo anche se il suo sguardo parve attraversarmi.
«Che tra un po’ di tempo non ci sarò più. Non ti dico, il primo, Alessio, ha iniziato a singhiozzare forte, ho avuto paura che potesse strozzarsi».
«E Luca?».
«Ha pianto, ma credo più per lo spavento di aver visto le lacrime sulla faccia del fratello».
«E Adele?».
«Mia moglie piange, piange quando non ci sono, o quando si allontana per andare in un’altra stanza, io me ne accorgo, torna da me con il viso paonazzo, torna dal bagno dopo essersi passata dell’acqua sulla faccia, gli occhi rossi e rotti ovunque. Pensa che io non la senta, e invece sento tutto».
Con una sorsata potente finii il bicchiere di vino, mi alzai a fatica, presi la siringa, la riempii di morfina e gli feci l’iniezione. L’ago gli attraversò la pelle con un rumore di plastica.
«Morire a quarantotto anni fa schifo», mi disse allontanando momentaneamente il tubicino dal naso, ad ogni respiro seguivano contrazioni anomale della gola, era destabilizzante vedere in che maniera un corpo smette pian piano di funzionare.
«Morire è una merda. Io ho tre anni meno di te», risposi.
«Già, niente moglie, niente figli».
«Sono stato sfortunato».
«No, direi che ti sei impegnato poco».
Mi sorrise e per la prima volta, durante quelle ore, il suo sorridere non mi trasmise disagio.
«Troppo impegnato a scrivere».
«So che vorresti accendere una sigaretta, non è indelicato, fai pure».
«Sicuro?».
«Certo, cazzo, fuma tu che puoi».
Arrivò la notte e la sua tosse continuava; stando disteso gli si accumulavano i muchi nella gola e rischiava di affogare. Lo feci mettere seduto posizionandogli due cuscini dietro la schiena. Parlammo di cose passate e di cose che non avremmo mai fatto e di quelle promesse che ci eravamo fatti da piccoli e dei nostri genitori. Della morte di mamma e poi di quella di papà, di quei primi lutti che ci avevano frantumato. Ricordammo tutto o forse ci sembrò di ricordare tutto, probabilmente tralasciammo molte cose che dovevano esserci sembrate poco importanti. C’era la finestra aperta e un bel fresco, c’era il frinire dei grilli che mi sembrava una marcia funebre, il cielo che brillava potente ed affaticato da troppe luci. Bevvi altro vino e fumai altre sigarette mentre Matteo pianse i giorni bambino e le cose che aveva rimandato; pianse il giorno in cui uno dei suoi figli avrebbe avuto bisogno di una sua parola e mi strappò la promessa di essere presente nelle vite dei miei nipoti. Eravamo dentro una linea di confine, non esisteva futuro, la luce della lampada gli riempiva gli occhi e lui tremava in maniera composta, sembrava un animale che torna stanco dalla caccia, una macchina guasta.
«Non si può competere con il tempo», dissi.
«La mia vita è passata davvero così velocemente?».
«La nostra», risposi.
«Ho la sensazione che tutto sia andato ad una velocità fottuta. Vedo lucidamente ogni giorno buttato a fare cose inutili, ad aspettare, senza capire che non c’è niente da attendere e che ti conviene vivere sempre tutto fino all’ultima goccia».
Le sue parole erano mischiate agli antidolorifici, avevano il sapore dei medicinali.
«Forse è la vicinanza con la morte che mette tutto sotto una luce differente», continuò.
«Non lo so».
Abbassai lo sguardo sul pavimento, gli occhi mi pesavano come se dentro avessi avuto dei ricordi di cemento.
«Credo che semplicemente ci accorgiamo di aver sprecato tempo e che ce ne rendiamo conto nel momento in cui qualcuno ci dice che di giorni non ne avremo più», continuai.
«Tu come la chiami questa cosa?».
«Disperazione».

Le anime dei ragazzi a Napoli: un colloquio con Maurizio Braucci

0

di Mario Schiavone

Quanti grammi pesa il cuore di un ragazzo di vita a Napoli? La domanda, forse poco legittima, ma comunque necessaria, risuona nella mia mente da diverso tempo. Un interrogativo, questo, che mi ha tormentato a lungo, dopo l’uccisione del giovanissimo Davide Bifolco nel settembre 2014 al Rione Traiano a Napoli. E che torna, prepotente nella mia coscienza, dopo una nuova uccisione. Quella del giovane Ugo Russo, un ragazzo di appena 15 anni.

Zibaldoni: divenire in stato d’eccezione

0

 

di

Enrico De Vivo

«Qual è colüi che sognando vede,
che dopo ’l sogno la passione impressa
rimane, e l’altro a la mente non riede,


cotal son io, ché quasi tutta cessa
mia visïone, e ancor mi distilla
nel core il dolce che nacque da essa
»

(Dante, Paradiso, XXXIII, 58-63)

 

L’idea di riprendere le pubblicazioni di Zibaldoni e altre meraviglie (www.zibaldoni.it) dopo oltre due anni di sospensione nasce – non c’è bisogno di nasconderlo – dallo stato d’eccezione nel quale stiamo vivendo. Saranno, dunque, Zibaldoni d’eccezione, quelli che vedranno la luce, in un duplice senso: per lo stato in cui sembrano piombare sempre più le nostre comunità, e perché siamo convinti che la letteratura, a maggior ragione in una situazione del genere, deve ancora di più fare eccezione, staccandosi dall’attualità non per annullare il suo sfondo naturale, ma per procedere con determinazione verso la comprensione della sua funzione e delle meraviglie del mondo. Anche la letteratura, in uno stato d’eccezione permanente, deve fare la sua parte. E la sua parte – se di letteratura si tratta – deve essere eccezionale in questo senso.

Ma tutto questo resta un’idea sterile, se non riesce a farsi comunità di scrittura o immaginazione di comunità. Voglio dire che Zibaldoni, fin dalle origini, ha potuto essere quello che è stato ed è soltanto grazie ai contributi di chi si riconosce nella sua storia e nella sua linea avveniristica o avventurosa (che significa: “sappiamo da dove partiamo, non dove arriveremo”). È anche per questo che si è distinta da altre esperienze solipsistiche e più o meno accademiche. L’invito, dunque, che rivolgo ai vecchi e ai nuovi amici della nostra rivista è a rifarsi vivi, e a condividere con noi questa idea minima, ma necessaria per continuare a credere nella letteratura come occasione privilegiata per “pensare qui”.

Nelle intenzioni, nei riferimenti e nelle ispirazioni, Zibaldoni resta lo stesso di sempre, pronto ad aprirsi e ad aggregare. Noi saremo qui, come in passato, ad ascoltare e a leggere tutto quello che riceveremo, discutendo sempre con tutti e andando avanti sicuri grazie alla capacità fantastica dei nostri lettori, dei nostri happy few.

Buone ed eccezionali letture a tutti.

 

Nota di effeffe

Caro Enrico, come sai ho deciso di aderire alla tua proposta di collaborare a questa vostra  ripresa con una rubrica, el furlèn, fatta di  interventi grafici, iconoclasti, situazionisti come queste che seguono. E ti auguro in bocca al lupo per questa vostra autorevole convalescenza.

 

Demone della decorazione

0

di Hilary Tiscione

Sulla nuca della scala in biada di legno resistevano i Pupi.
Dalle tre teste fiorivano come rami difettosi le loro colonne vertebrali in ferro scuro. Curvavano come uncini incarniti dentro l’intrigo forato delle loro menti.
La scala era fatta di undici gradini. All’ottavo gradino potevo guardare i Pupi negli occhi.
Sembravano impiccati. Con i colli sbranati dai ferri cacciati nel muro.
All’ottavo gradino mi fermavo un istante. Mi tenevo ferma alla sbarra e li osservavo. Poi contavo nove dieci undici con gli occhi oltre la scala.
Oltre la scala c’era il mio letto. La televisione. Una collezione di carillon. Un ombrello antico appeso a una carrozzina. Due tappeti con stampato il volto di due giovani uomini inglesi.
Quando spegnevo la luce la mia stanza si faceva la custodia supplementare dei cadaveri ben vestiti. I Pupi scendevano lungo la scala.
Un Pupo era il capo. Lui apriva il ciclo del ritiro. Batteva un polso contro il muro e cessava la debolezza del suo inutile riso e quello dell’ambigua coppia di storpi che lo proteggevano.
Vestiva una camicia in cotone imbevuto dell’essenza del limo e dei pantaloni in velluto bordeaux come il panciotto. Teneva una spada aggrappata all’avanbraccio con del filo di metallo e calzava un cappello di cuoio mangiato su un lato. Aveva i baffi di saggina e portava il rossetto.
Gli occhi del capo erano truccati di nero. Lacrimavano all’alba.
La mattina lo trovavo con le guance bagnate d’acquarello cattivo. I sui compagni le avevano sempre pulite.
Era l’unico soldato armato.
Il Pupo alla sua destra portava una giacca in velluto verde veronese con delle frange di trecce dorate che gli cadevano dalle spalle. Indossava pantaloni stretti attorno alle cosce, retti in vita da una fibbia in ottone. Come il capo aveva il rossetto, solo di un tono più vivo. Gli zigomi erano marchiati di un rosa scavato. Pareva il più giovane.
Il Pupo alla sinistra del Capo era bardato da una tragica polvere blu. Sogghignava lungo una crepa sul labbro superiore e aveva capelli neri come le braccia indurite dei ragni scarni.
Avevo chiesto a mio padre se mi era permesso toglierli dalla mia stanza. Mi aveva detto che non ne capivo il valore e la signorile apprensione. Aveva detto che non capivo l’estrosità della situazione. Neppure l’artificio e la tenerezza. Mi sfuggiva il modo in cui mi preparava a morire.
Non gli avevo detto che quando spegnevo la luce i tre sovrintendenti delle sagome scendevano la scala e aprivano la porta al piano terra della mia camera da letto e che la stoffa nera delle loro scarpe in panno era tanto sottile che sentivo battere le loro impronte sul legno. E mi soffocavo sotto la trapunta per non sentire la punta della spada del Capo strisciare sul parquet.
E nonostante il caldo e i sudori che regalavo a mio padre la sentivo lo stesso.
Non so cosa facessero nel resto della casa e se mai si fossero spinti oltre il corridoio dove si apriva una coltre di piante sintetiche, ma li sentivo rientrare e parlare con stravaganti varietà di codici mentre mi distraevo a cercare tre nomi per loro. Non ne ho mai trovato uno e non ho mai trovato la forza di venire fuori dalla trapunta che il domestico diceva essere troppo pesante per coprire una bambina. Diceva che mi sotterrava dentro il materasso e la notte si accaniva sul mio sonno rotto.
Mio padre non sapeva che quei Pupi marciavano su e giù per la scala fino ad esaurire le forze e venivano a sedersi ai piedi del mio letto per godere della sagoma di una creatura viva.
Il loro scheletro di metallo lagnava mentre osservavano il mio contorno. Non riuscivano mai a stare fermi del tutto.
A quel punto della notte si zittiva la molestia rude della paura e provavo tristezza per quei nani inariditi. Piccoli corpi mancati. Marionette piegate al ruminare dei tarli.
Qualche mese più avanti mi domandavo cosa avessero sotto i vestiti. Se il legno a contatto con il tessuto che li vestiva fosse più chiaro. Se avessero dei solchi sepolti e una memoria.
Ferma sul nono gradino avevo cominciato a toccarli.
Il residuo trattato di una mano. Il distacco di un polpaccio scavato. L’oblio incipriato sull’orlo dei pantaloni. La pelle tigliosa degli zigomi. I ferri corrosi delle caviglie pieghevoli. Non so che cosa avessero da sorridere.
E come erano educati nel meschino intervallo del vanto. Così ben amministrati al demone della decorazione.
Avevano sfiatato i sensi nella rotta clandestina del buio? Avevano imparato a colmare la fame nel trio? I superstiti del palco trivellato dalla sorte. Disgraziati introiti della compravendita. Perché restavano?
Qualche anno dopo, ferma sul nono gradino, avevo messo una mano sull’indole mostruosa di una marionetta e l’avevo baciata per lasciare traboccare il sospetto che fosse sulla terra come campione della tragica lirica dell’orrore e basta.
Da quel momento ogni volta che salivo la scala posavo le labbra sul becco rosso del Capo. A distanza di mesi non ghignava più. La notte non batteva più il colpo della sommossa curiosa.
I suoi valletti scendevano la scala e lo lasciavano solo a penzolare. Le lacrime dell’alba gli tagliavano la maschera come insistenza. In estate erano cicatrici accese dalla libidine fallita.
Toccavo il Capo sul petto e dove si faceva robusto il cavallo dei suoi pantaloni. Il garzone di destra rideva, quello di sinistra assaporava il collasso del Pupo debole.
Gli sfioravo le dita prive dell’unghia. Levigate dall’accidia. Le mani imperfette di un castrone con la spada.
La notte dormivo. Non sentivo più il loro ermetico gergo clandestino. Intanto il Capo ogni mattina mi guardava scendere la scala denudata.
Un giorno lo avevo costretto alla cecità appendendo la mia camicia da notte sul suo stupido cappello e gli avevo sfiorato l’anca fino all’interno coscia. Gli avevo abbassato i pantaloni sulle caviglie e lo avevo lasciato così tutto il giorno.
Era il giorno in cui avevo incominciato a fumare il tabacco aromatico del Kentucky. E lui, il tormentato Capo, coperto della mia droga nuova.
Era il paradosso del desiderio senza l’insopprimibile ragione del cazzo. Pornografia atrofizzata. Depressa pulsione mutilata delle bambole. Sconcio legname.
Oggi il corpo del Capo riposa malmesso in una scatola. I suoi compagni una notte lo avevano lasciato solo. Avevano bussato alla porta dove riposava mio padre che li aveva tenuti a lungo seduti sopra una panca accanto al guardaroba. Qualche anno dopo li aveva regalati a un collezionista che ci veniva a trovare nei giorni vicini alla Pasqua.
Il Capo non aveva mai avuto un nome. Quando l’accumulo delle sue lacrime si era seccato lo avevo raschiato con un dito portandogli via del colore. Prima di lasciare la mia stanza lo avevo coricato sul mio letto. Avevo chiesto al domestico di lasciarlo sulla mia trapunta qualche giorno.
Soccombente dello scontro vinto a metà, il Capo chino sull’esalazione della pelle mai approdata. Il fantoccio riposava l’appetito e la gradazione della cera morta per la fregola dei pupazzi. Capo della molestia, addomesticato alla rinuncia. Sognava sulla trapunta il suo approdo al muscolo e il domestico lo puliva ogni mattina della mia scomparsa.
Era giunto a vivere la mia stamberga di piume e respirare l’evaporazione dello sfizio o l’attaccamento all’impraticabile.
Lo pensavo lacrimare vernice spenta. E ricordare le vigilanze andate. Il Capo aveva capito bene che il traguardo è la più violenta e piacevole meschinità. Gli avevo tolto il cappello. Lo avevo poggiato sul mio comodino. Aveva pochi capelli. La spada invece la teneva ancora vicina al corpo. Gli avevo dato un ultimo bacio lento.
So che il domestico si è ammalato per un lungo periodo, ho smesso di chiamarlo per chiedergli del Capo. L’ultima volta mi aveva chiesto se dormivo bene. Gli avevo detto di sì.
Non sono più tornata a casa.

A lezione di pandemia: vi è una socialità non capitalistica nel cuore del capitalismo

21

di Andrea Inglese

Dall’inizio di questa crisi abbiamo già fatto incetta di lezioni. Due mi sembrano particolarmente importanti, e sono di ordine più conoscitivo che morale. Il virus non è soltanto l’irruzione dell’altro, il non-umano, nel nostro mondo, è anche un rivelatore fedele, sensibilissimo, del nostro modo di essere umani, e di accoglierlo, potenziandolo o indebolendolo. Inoltre, proprio il non-umano ha bucato la cortina ideologica, sollecitando dietro il sogno dell’individuo autonomo la realtà dell’appartenenza e dell’identità sociale.

L’oro della Turchia: come battere Erdogan con la lotta alla gentrificazione

0

di Giuseppe Acconcia

La giornalista Giovanna Loccatelli ne L’oro della Turchia. Il business dell’edilizia che ha stravolto l’aspetto del paese e il suo tessuto sociale (Rosenberg & Sellier, 2020, pp. 190, 14 euro), prefazione di Alberto Negri, traccia l’ascesa e il declino del presidente turco Recep Tayyip Erdogan attraverso il business del cemento. L’autrice che ha vissuto prima al Cairo e poi a Istanbul descrive con arguzia e precisione i progetti che hanno deturpato le città turche. Giovanna Loccatelli lo fa con originalità, andando oltre le ben note proteste del 2013 di Gezi Park in cui gli attivisti turchi denunciavano abusi edilizi e danni all’ambiente dei progetti per la costruzione di una caserma e di una moschea, con la distruzione completa del parco nella centralissima piazza Taksim. Per anni gli antichi palazzi della bella Istanbul sono stati demoliti per lasciare spazio a centri commerciali e compound. In parallelo all’ascesa politica del populista per eccellenza, i palazzinari della “borghesia religiosa” hanno conquistato l’Anatolia finché il boom dell’economia degli anni Novanta e Duemila lo ha permesso. Istanbul è diventata così una città cantiere mentre la gentrificazione galoppante favoriva le classi medio-alte tra i 53 mila metri quadri destinati ai duty free del nuovo aeroporto e i 400 operai morti nel cantiere per realizzarlo. E poi è stata la volta del terzo ponte sul Bosforo, Yavuz Sultan Selim Koprusu, e del tunnel che unisce la parte asiatica e quella europea della città, Avrasya Tuneli. Il tutto condito da una propaganda senza precedenti legata alle sfarzose cerimonie di inaugurazione delle grandi opere, la rivendicazione di primati architettonici, lo sfoggio del lusso chiarissimo nel centro commerciale Zorlu così come nel volto nuovo e snaturato del centralissimo quartiere di Beyoglu. Nel viaggio che Giovanna Loccatelli ha compiuto nella Turchia dell’edilizia e degli appalti, controllati dall’élite politica vicina al presidente Erdogan, non poteva mancare il Galataport la cui realizzazione sta cambiando interi quartieri. Un altro esempio di gentrificazione è il quartiere Tarlabasi di Istanbul che da zona popolare ha visto gli affitti crescere a dismisura negli ultimi anni. Con la legge del 2006 sull’edilizia urbana le autorità locali hanno assunto poteri senza precedenti anche nella gestione della popolazione residente. E così la Gap Insaat, del genero di Erdogan, Berat Albayrak, ha vinto l’appalto. Il gioco è fatto: palazzi di pregio a prezzi stratosferici che aumenteranno le disuguaglianze sociali nel quartiere. Per non parlare di veri e propri non-luoghi, come le gated communities, i compound di Gokturk, complessi residenziali chiusi dove sono “imprigionati” i turchi ricchi che, come espatriati, vivono in un “labirinto fortificato” e mai passeggerebbero per le strade del centro, se non per voglia di esotismo. Queste sono le realtà di cui ha continuamente bisogno di nutrirsi il mostruoso “neoliberismo in salsa turca” che ha permesso a Erdogan di estendere a dismisura i suoi poteri e di reprimere ogni forma di opposizione con il pretesto del fallito colpo di stato del luglio 2016. Un altro esempio in questo senso è il quartiere curdo di Istanbul Ayazma: un’area mal collegata che ha acquistato valore nei primi anni Duemila con la costruzione dello Stadio olimpico Ataturk. E così il Toki, gli amministratori per l’edilizia urbana, è subito intervenuto con il pretesto della possibile formazione di “cellule terroristiche” sradicandone gli abitanti. I curdi del quartiere nel migliore dei casi si sono ritrovati in abitazioni che hanno stravolto le loro radicate abitudini quotidiane, inclusi i divieti di camminare nelle aree verdi o per le donne curde di riunirsi davanti alle loro case. Eppure proprio l’artificialità della modernizzazione nel segno del mattone e dei mall promossa dal partito Giustizia e Sviluppo (Akp) di Erdogan è stata la chiave della sua più cocente sconfitta, realizzatasi grazie al discorso ambientalista del candidato sindaco alle elezioni amministrative del 2019, Ekrem Imamoglu, che ha scippato Istanbul all’Akp aprendo la strada al declino del suo populismo.

Conversazione con Gianluca D’Andrea su “Forme del tempo”

0

a cura di Gianluca Garrapa

Gianluca Garrapa: È uno spazio-tempo desiderante questo lavoro di Gianluca D’Andrea: Forme del tempo – (Letture 2016-2018), edito da Arcipelago Itaca nel 2019 nella Collana Sorgiva, non sembra avere una forma maggioritaria, né una cronologia che imponga una lettura lineare. Si apre con l’emergenza di una frattura, di una ferita: questa è descrittura degli stati transitori. Stati che sono anche Stati politici, ostinati nella stasi del confine che va, invece, enucleato, attraversato e, ci si augura, abolito.

Il rumore della fabbrica

1

 

di Francesca Rossi Brunori

 

Illustrazione di Giuditta Chiaraluce

 

Andrà tutto bene. Andrà tutto bene. Ci vogliono tutti morti ma andrà tutto bene. Ci vogliono tutti indispensabili, ma andrà tutto bene. Ci vogliono soffocati nelle nostre mascherine, ma andrà tutto bene. Andrà tutto bene. Una di quelle frasi che ti diceva tua madre il primo giorno di scuola. Andrà tutto bene te lo avrebbe potuto dire il tuo compagno il primo giorno di un nuovo lavoro. Andrà tutto bene sì. Per tutti ma non per noi. Perché noi siamo sempre esortati a sopportare a supportare i beni di prima necessità degli altri che pure loro non fanno altro che sentire, sì andrà tutto bene. Il loro dovere è rimanere dentro casa. Il nostro è di rimanere chiusi in fabbrica – a fare che? Vestiti. Vestiti. Le nostre clienti anche se sono in quarantena hanno bisogno di sentirsi bene. Per questo, andrà tutto bene, si potrebbe convergere in ho bisogno di sentirmi bene, anche se sto a casa. E in mezzo all’andrà e al potrebbe prende forma un essere. Io.  L’operaio. E in mezzo prende forma uno spazio – la fabbrica. E dentro la fabbrica ci siamo noi. Puntuali anche in tempo di disastro. Timbra il cartellino. Entro. Timbra il cartellino. Esco. Un ingranaggio che non cede. Nemmeno di fronte ad una pandemia. Infatti, hanno detto, siamo tutti uguali, questo virus non fa distinzione, che tu sia di aspetto minuto, che tu abbia una fronte sporgente, naso all’insù, non c’è differenza. Che tu sia ricco o povero, non fa differenza. Io non mi sento uguale per niente a chi se ne sta a casa sua ad indossare i vestiti che fabbrico io. Non mi sento uguale per niente io. Bisogna trovarsi al posto giusto al momento giusto. Per coincidenza di cose mi ci sono trovata. Nel luogo fisico che continua a muoversi nonostante tutto. Lo vedi come sei fortunata? Tu puoi continuare a lavorare. “Guardami ah guardami come sono andata vestita oggi. Ah puoi solo immaginarlo perché non posso uscire. Ma sai, mi piace stare a casa vestita per bene”. È giusto. Lo so che è giusto. Nemmeno io mi lascerei andare dentro casa. Non voglio mica mettermi ad odiare chi indossa i vestiti che… ma io punto la sveglia alle cinque – tutti i giorni – mi lavo i denti mi vesto velocemente ho smesso di bere il caffè perché non ho bisogno di svegliarmi data la paura. Esco di casa e mi disegno nella testa la strada, la mia immaginazione mi fa vedere il percorso che devo seguire per arrivare al mio posto di lavoro. Lo so a memoria. Sempre dritto poi giri a destra dove trovi la solita vicina che butta fuori l’acqua sporca, ancora avanti passi davanti alla farmacia, ancora avanti all’incrocio, lì dove di solito ci sono Mohamed e i suoi amici che vendono accendini e calze e collane, ancora avanti e poi subito a sinistra. Arrivata. Avevo delle coordinate. Ma oggi le ho perse. Le ho perse da quando è iniziata questa pandemia. Perché in giro non c’è più nessuno. Mi sembra di muovermi in strade che non sono le mie. Casa dolce casa tienimi a te. Fabbrica dolce fabbrica, prendiamo le distanze.

Il tempo del lavoro il tempo del denaro il tempo della produzione il tempo di mettersi a pregare perché nessuno ti possa attaccare niente. Nemmeno un raffreddore. Perché ci sono dei momenti in cui prima di entrare dentro quella fabbrica, anzi no, prima, prima di uscire di casa, prima di vestirmi e prepararmi, ancora prima, prima di andare a dormire, prima di oggi, ieri… dal giorno prima, io inizio a sentire che il mio stomaco si contorce, mi fa male, mi viene una specie di paura, mi basta mettere i piedi fuori da casa per sentire che l’aria anche se è più pulita, pare più contaminata perché mica ce la fai a respirarla davvero, è più pulita ma tu la senti più pesante. Ti prego fai che non mi tocca pigliarmi sto virus ti prego fai che non mi prenda ti prego se non mi prende… che faccio se non mi prende. Ma che sto dicendo?

Stiamo vivendo un evento storico catastrofico. Torneremo alla normalità con un atteggiamento diverso. La consapevolezza di tutto ciò che abbiamo … mi viene da ridere. Io certe cose le sapevo già. Non avevo mica bisogno di una pandemia per saper che stavo vivendo in un mondo terribile, feroce. Ma voi in che realtà credevate di essere ospitati? Signor presidente la prego pensi anche a noi. Le voglio raccontare Oh mio presidente, il suono che sento la mattina appena mi sveglio – il rumore delle macchine della fabbrica? No ancora no appena mi sveglio dico, – anticipo – anticipo – il suono che sento la mattina mentre faccio colazione – il rumore della macchine della fabbrica – anticipo anticipo – sto solo bevendo del tè – troverai molto da ascoltare lì dentro – sono rumori che conosco bene li ho segnati – impressi impressi impressi – uno segue l’altro. Arrivano prima. Prima che io arrivi a loro, loro arrivano a me. Come i canti di quelle voci maschili che sembrano arrivare da lontano – quella musica sacra che risuona e poi quel silenzio, io il silenzio non lo sento mai, nemmeno appena mi sveglio. Appena mi sveglio arriva il rumore della fabbrica.

Mamma ti prego posso rimanere a casa? Piangi e piangi ancora ma tanto le lacrime non servono a farti rimanere a casa. Da piccola ti inventavi il male di pancia per non andare a scuola. A me viene il male di pancia ogni giorno – ma lì ci devo andare lo stesso. Ogni giorno.

Andrà tutto bene sì. Ma solo se difendiamo i diritti dei lavoratori. Incrociamo le braccia per chiedere sicurezza e chiusura delle attività produttive non essenziali!  Appelliamoci alla pace solidale! Alla responsabilità nazionale! Noi stiamo ancora lavorando. Si vede che vi siete un po’ confusi tra cosa sia essenziale e cosa no. La sicurezza dei lavoratori, ma solo se non si scontra con gli interessi della produzione, dei profitti. Perché ci mettono così tanto tempo, aggirano aggirano, fanno un salto all’indietro, e si girano dall’altra parte quando si parla di sicurezza, s i c u r e z z a si estingue quando il profitto diventa la specie più forte.

Cerco di ricordare i giorni felici che ho avuto prima di questa quarantena, ma non riesco, non li trovo, scivolano via, stanno scomparendo, un po’ come la crema che ti metti per massaggiarti le mani. Ridatemeli. Per avere un appiglio. perché…

Oh signor presidente noi le distanze di sicurezza mentre lavoriamo le manteniamo. Per poco. Appena dobbiamo andare in bagno, non possiamo rispettare più niente. Siamo tanti sa. E il bagno è uno solo. E’ piccolo. Me lo può dire lei come faccio a mantenere le distanze di sicurezza e non creare assembramento? Mica possiamo stabilire un orario per i bisogni fisiologici. Possiamo andare uno alla volta e alzare la mano? Dice che il bagno non è un problema.

Oh signor presidente noi le distanze di sicurezza mentre lavoriamo le manteniamo. Ma poi la produzione prevede che si debbano portare i capi da un settore all’altro. Dovrebbe vedere i corridoi. Stretti. Molto stretti. Possiamo alzare la mano anche qui. Magari mentre io porto i vestiti lungo il corridoio da sola, l’altra va in bagno e tutto il resto delle operaie rimangono a guardare. E aspettano il loro turno. Per il bagno. Per il corridoio. Anche per continuare a lavorare?

E poi ci tocca nutrirci. In una piccola piccola mensa. Dove o mangi in piedi o in un angolo o molto vicina alla tua collega. Le mascherine dobbiamo tirarle giù. Se no, come entra il cibo dalla bocca? Ma dopo le dobbiamo cambiare? Buttare? Ma se le abbiamo abbassate tutte nello stesso momento, dice che è meno pericoloso solo perché siamo in pausa pranzo? Non ci aveva pensato? Possiamo fare i turni. Ricapitoliamo. Mentre una va in bagno l’altra porta i vestiti quell’altra ancora mangia e tutte le rimanenti stanno a guardare. Possiamo fare così? Continuate a lavorare.

La memoria è collettiva. Ma labile. Di collettivo non rimane niente. Nemmeno la spartizione delle mascherine. Perchè se proprio glielo devo dire non è che prima fosse diverso. Se facciamo la conta dei morti, di tutte quelle fabbriche che avete deciso di portare via lontano, se facciamo la conta dei morti, allora mi viene da pensare che più che morti di virus, si potrebbero chiamare morti sul lavoro. Forse ve lo siete dimenticato.

E’ domenica. Siedo. Aspetto. Un sindacato qualsiasi che mi dica se da domani posso stare a casa. Sostenuta. Senza morire di fame. I vestiti li ho. La spesa l’ho fatta. Rifletto. Ascolto tutte le comunicazioni. Scuoto la testa. Siamo noi i lavoratori di una specie diversa. Che non si estinguerà per il virus. Perché è riuscita a non sparire prima. Siamo la specie vincente darwiniana noi. Sopravvissuti a ben altro. Ad una assenza di cure. E non straordinarie ed eccezionali come quelle di adesso. Ma basiche. Quelle che ti permettono di lavorare in fabbrica senza avere paura.

Covid 19 – Opinioni non richieste

2

di Daniele Ventre*

Questa, ovviamente, non era una semplice influenza. Non lo era per una ragione tassonomica. Ci sono i virus influenzali (tipo H1N1) e ci sono i coronavirus, come quelli che provocano il raffreddore comune nel 17% dei casi.

Ho citato il virus influenzale H1N1, perché è ben noto, per due varianti pandemiche particolarmente famose: la spagnola del 1916-1918 (fra i cinquanta e i cento milioni di morti) e l’influenza suina del 2009.

Per i virus come l’H1N1, che tendono a dare un’immunità duratura (la nuova influenza che viene ogni anno, nasce da una nuova sottospecie di virus influenzale), è facile creare un vaccino. Ogni anno se ne crea uno nuovo.

Per i coronavirus non esiste vaccino: facili a mutare, a ricombinarsi, estremamente contagiosi, si sedano nei mesi estivi, per poi ritornare nei mesi invernali. A differenza dei semplici rhinovirus, e dei picornavirus delle gastroenteriti virali, i coronavirus sono virus a RNA molto più adattabili.

Il coronavirus della covid 19 sta ai coronavirus ordinari come il virus dell’influenza spagnola sta all’influenza ordinaria.

Questo vuol dire che, come l’influenza spagnola, può provocare polmonite interstiziale virale e alveolite, con potenziale consolidamento polmonare, in un numero piuttosto alto di casi.

Come per i coronavirus ordinari, è difficile creare un vaccino adatto a fornire un’immunità duratura. Anche dovesse trovarsi un vaccino per questa variante di coronavirus, la mutazione che renderebbe il vaccino poco efficace è sempre dietro l’angolo.

Nel frattempo, come l’influenza dura un po’, poi in una stagione il virus in auge si estingue, così la spagnola è durata un po’, ma poi si è estinta o inattivata, per la raggiunta immunità di gregge. La spagnola è come un’auto utilitaria prodotta dall’industrialismo fordista: crescita esponenziale dei clienti, saturazione del mercato, fallimento se non si inventa un prodotto totalmente nuovo.

I coronavirus non funzionano così: piccolo scoppio epidemico di raffreddore, che poi sparisce, ma torna in inverno, con il virus mutato. Allo stesso modo, il virus della covid 19 ci ha dato questo scoppio pandemico; poi si quieterà; poi al prossimo inverno potrebbe dare un nuovo scoppio pandemico, o epidemie locali, magari un po’ meno gravi, ma sempre col solito scotto di terapie intensive e casi fatali.

I coronavirus sono come i traders e le startup flessibili e adattabili dell’età post-industriale: diffondono un prodotto soft; in alcuni contesti si radicano profondamente, seguono una geografia dei clienti non prevedibile, possono fallire una volta per sempre, ma possono anche riadattarsi, rinventarsi, sono i Bill Gates e gli Steve Jobs del dominio acytota.

L’effetto che hanno sull’organismo è simile a quello della spagnola, ma reiterato nel tempo, proprio come gli scoppi epidemici dei raffreddori comuni in inverno.

Ciò significa che periodicamente si dovrà ricorrere a forme più o meno soft di confinamento sociale, accrescere il costo dei controlli, accrescere il peso del sistema sanitario, e nel frattempo si dovrà ricorrere a un profondo ripensamento della farmacopea degli antinfiammatori e degli immunomodulanti, mentre si cerca di trovare un modulo vaccinale versatile ed efficace quanto il virus (programmi di ricerca necessari, ma essi stessi rischiosi).

Nel frattempo, però, i contraccolpi saranno drammatici, sul piano psicologico, socio-antropologico, economico, politico, culturale. In primo luogo, si vivrà con un sottofondo di sospetto e di paranoia del soma (ipocondria) riacceso al primo starnuto o colpo di tosse nostro o del vicino, perché i rhinovirus e i virus influenzali saranno sempre lì, ma non sapremo distinguerli a tutta prima (scenario “Lo scopriremo solo morendo”), quindi ogni momento sarà carico di tensione, e ogni inizio di richiamo dell’epidemia sarà in sordina e latente, con tutto il carico di conseguenze che ne derivano.

La progressiva obliterazione delle distinzioni fra democrazie e sistemi a vario titolo autoritari, subirà una forte accelerazione. La distinzione si sposterà sullo sfuggente piano delle buone intenzioni, di cui la strada dell’inferno è lastricata.

Sul piano economico, l’insicurezza derivante dalle epidemie ripetute, e dalla necessità di confinamento in aree sempre mutevoli, costringerà l’interconnessione del sistema globalizzato a rimodularsi, e a subire una forte contrazione, almeno sul piano della trasportistica e dello spostamento delle persone in genere. Il complesso di previsioni, su cui si basa tanta parte dell’economia finanziaria, si sgretolerà poco a poco, o subirà una pesante batosta.

Si accentueranno soprattutto gli aspetti schizofrenici della globalizzazione: chi potrà assicurarsi una connessione (e non è detto che sia sempre possibile, perché il sistema può sovraccaricarsi, subire un down, e l’energia per reggerlo ha sempre bisogno di braccia per essere erogata, almeno in una parte della filiera, che si tratti di carburante, o di semplice approvigionamento alimentare), chi potrà assicurarsi una connessione, sarà ovunque a tempo di click. Nello stesso momento, però, crescerà esponenzialmente il sospetto verso l’estraneo, la reazione violenta, razzista, scomposta, che può tradursi nell’atto aggressivo individuale, ma può anche, con più funesti esiti, trasformarsi in risposta folle degli elettorati manipolabili e degli apparati di controllo statale.

La civiltà, una civiltà molto mutata, sopravvivrà a patto di saper limitare i provvedimenti di confinamento a mere funzioni operative, senza aloni discriminatori, e a patto di definirsi come sistema di mutuo aiuto economico flessibile, a seconda delle esigenze. Nel frattempo, si spera che una nuova classe di super-antinfiammatori e immunomodulatori tollerabili sia sviluppata e ci accompagni nel tempo del progressivo riassestamento, finché, in capo a tre, o forse cinque, o forse dieci anni e fra uno stillicidio di vitttime, non si raggiungerà un equilibrio biologico. Tutto questo ovviamente al netto di epidemie opportunistiche, che potrebbero trarre vantaggio dall’attenzione concentrata sulle varianti di covid più o meno severe, e al netto di un degrado sanitario collaterale, dovuto allo spostamento delle risorse dall’attenzione alle malattie cardiovascolari e ai tumori, verso le malattie epidemiche, in un ritornato Ottocento della medicina.

Nel frattempo, unica nota positiva, l’inquinamento potrebbe contrarsi significativamente: quel tanto che basta perché la nostra specie, iperproliferativa, non mandi all’aria il clima del pianeta, rendendo la vita quasi impossibile. Con esso, anche le aspirazioni di blocchi imperialistici ed egemonici potrebbero ridimensionarsi quel tanto che basta per evitare guerre locali e globali, o per ridurne, almeno, l’impatto sulla biosfera.

Una cosa sarà certa: se vorremo sopravvivere, non sarà un mondo per leoni da tastiera, terroristi fanatici, caos gratuito per vuote manifestazioni di piazza in nome del consumo, complottismi e bulli sovranisti in felpa e capelli scarmigliati. Né sarà un mondo per il machismo sessista, considerando che se sarà definitivamente accertata la minore esposizione delle donne all’epidemia (né sarebbe strano, da un punto di vista strettamente darwiniano, che il sesso forte sia quello deputato al maggior investimento parentale), a governare la ripartenza potrebbero esserci più donne, che uomini, come è già accaduto in parte nelle due guerre mondiali.

Sooprattutto, le élites liberiste ruba-latte dei tagli alla sanità avranno imparato per forza, da un virus, ciò che non hanno voluto comprendere per amore, dalla persuasione di scienziati e ragazzine svedesi ambientaliste.

_______________

Articolo già presente qui, per cortesia di Sonia Caporossi: https://criticaimpura.wordpress.com/2020/03/26/covid-19-opinioni-non-richieste-daniele-ventre/