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Cereali al Neon

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di Gabriele Merlini

«Il futuro che ci aspetta è diventare bidimensionali?»

Ci penso un po’. La speranza, naturalmente, sarebbe evitare una simile opzione: rimango affezionato alle mie curve e questa blanda idea di tridimensionalità che abbiamo. Tuttavia qualche dubbio è lecito tenerselo, così proseguo nella lettura.

Contrarsi. Vibrare. Espandersi: ecco le tre sezioni cui è organizzato Cereali al neon, secondo romanzo di Sergio Oricci (Effequ 2018) che ha per sottotitolo «cronaca di una mutazione». Poiché di trasfigurazioni, metamorfosi e cambiamenti tratta, anche se da un’ottica decisamente particolare.

Le forme di vita giovani evolvono costantemente per sopravvivere e nel protagonista – che avverte una qualche urgenza di transitare attraverso molteplici stadi di consapevolezza – inciampiamo mentre galleggia dentro una teca di plexiglas con il peso sugli zigomi di un visore. Sassolini di musica elettronica lanciati in un oceano di linee rosse e piramidi traslucide attorno al corpo. Il gioco ultra-tecnologico è fino dall’incipit un ping-pong di aperture e chiusure con l’esterno, la materialità di un corpo che diventa qualcosa di nuovo, oppure è la realtà circostante che si plasma in altro. «L’immagine residua di me» a farsi «ricordo sciolto in un’acqua di cui non ricordo la consistenza. Sono una perla elettrica, nera» scrive Oricci, «con attorno una membrana impazzita. Più simile a una cellula, a un uovo, che a quel sottoprodotto della specie a cui, da qualche parte, ancora appartengo».

Come uno strano videogioco, Cereali al neon è dunque la cronaca di passaggi per livelli crescenti, l’interazione tra uomo e macchina – settore nelle arti bazzicato da diverso tempo ma che evidentemente presta il fianco a rinnovabili declinazioni – virata alle più attuali tecnologie (social compresi) e suggestioni. Spunti prossimi, la quotidianità più intima fatta di paure e relazioni ingarbugliate, assieme ad argomenti astratti, in apparenza lontani. Chiuso nella bara trasparente cui ogni tanto si ficca, il protagonista Silvano Rei cerca infatti comprensione, amore – «non sesso» sottolinea con specchiata onestà – e contatto con gli altri al fine di riscoprire sé stesso («quando ho perso la capacità di provare tenerezza?» è una tra le domande che si pone nelle fasi di emersione e sulla quale servirebbe riflettere, specie in tempi brutali tipo i nostri.)

Materiale scivoloso affrontato però con dimestichezza, un’apprezzabile propensione per i dialoghi (alcuni lunghissimi ma raramente faticosi) e capacità descrittiva: dall’arte classica al pop di più ampio consumo, i riferimenti e i parallelismi tra le pagine finiscono non per essere zavorra quanto utili momenti chiarificatori.

Cereali al neon è il flusso di coscienza di un tizio che decide di reinventarsi in profondità e con ciò creare nuove percezioni di quanto lo circonda, il rapporto con una donna che sembra conoscerlo al meglio e provare un piacere particolare a sistemarlo con cura sopra la graticola («è davvero questo, l’amore? Ne avevamo sentite tante, ma mai nessuno ce l’aveva descritto così. Due corpi in fusione, in viaggio verso un rapidissimo e doloroso decadimento. Ci destrutturiamo a velocità supersonica», noi.)

Da persona vergognosamente ignorante al riguardo, solo di recente ho scoperto un paio di cose: specifici punti fermi del cyberpunk – estetica decadente, linguaggio contaminato, innesti tecnologici artificiali nell’organico – e l’esistenza di una filosofia chiamata transumanesimo, abbreviata talvolta con la buffa formula farmaceutica >H o H+ o H-plus.

Com’è ovvio che sia, non saprei quanta consuetudine Oricci abbia con simili generi, né se pensi o meno di afferirci in qualche misura (a occhio: no) però Cereali al neon si direbbe allo stesso momento opera ben radicata in una tradizione e testo indipendente, ibrido e coraggioso specie in tempi di strazianti discorsi sulla massificazione del prodotto editoriale. Sotto alcuni aspetti distinguibile e attuale, quindi da accogliere (persino per i neofiti di trattazioni similari) come un segnale sul serio positivo.

Vincenzo Frungillo: lo spazio della poesia nel tempo della dispersione.

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di Vincenzo Frungillo

Nonostante la sua natura antologica Il luogo delle forze. Lo spazio della poesia nel tempo della dispersione segue un filone preciso della produzione poetica del nostro paese, qui infatti si  prova a ragionare sulla poesia successiva agli anni zero con una precisa vocazione poematica. Questa tensione massimalista, troppo frettolosamente considerata minoritaria, è portatrice di un’esigenza specifica: lo spazio poetico non è più la sola espressione dell’io o la messa su carta di un’elaborata operazione linguistica, è anche il tentativo di dare forma alla prismatica esperienza del mondo. La sfida quindi non è assecondare la proliferazione dei segni, atteggiamento tipico della sensibilità postmoderna, ma tracciare una propria cosmogonia. Tale tendenza, detta genericamente neo-epica, non è un recupero inattuale della tradizione, pur mantenendo vivo il dialogo con gli archetipi della tradizione letterarie, essa invece prova in modo programmatico e consapevole a rimettere in gioco il senso del testo. Se la memorabilità dell’epica antica nasce all’interno dello spazio comunitario per scongiurare l’oblio causata da una forza estranea, oggi la dispersione è  rappresentata dalla proliferazione indistinta e indifferenziata dei segni, ci interroghiamo sulla fine della poesia e in genere sulla fine della comunità letteraria, proprio perché ci sentiamo sopraffatti dal compiersi del destino occidentale tecnologico e ideologicamente nichilista. Il rischio riguarda la fine dello spazio della parola come depositaria di una memoria di specie, affrontarlo significa costruire opere complesse, ma rigorosamente strutturate, proprio come farebbe un architetto o un artista che lavora in relazione con l’ambiente che lo circonda. La forma testo diventa un elemento fondamentale da opporre alla disseminazione. A questo punto dovrebbe essere chiaro che se diamo per valida la definizione di neo-epica, non parliamo di poesia che evochi fatti  storici trascorsi e appartenenti al passato, ma di poesia programmatica, volta al futuro, che ha però memoria della possibilità della dispersione. Ciò che dobbiamo recuperare nella parola è il rischio della perdita e quindi il problema del senso. Negli ultimi anni molti autori si sono cimentati con la composizione poematica, hanno abdicato alla scelta del frammento lirico o raccolta di versi, questa esigenza comune non può essere una mera coincidenza, di certo ci sono ragioni extraletterarie che hanno motivato questa scelta.

 

Il modo biologico dell’epos

In un breve scritto autobiografico Pagliarani ci ricorda che i modelli per la scrittura poematica in Italia, a partire dagli anni quaranta, sono per lo più stranieri, The Age of Anxiety di W. Auden, The Waste Land di T. Eliot e i Cantos di E. Pound; sulla base di queste nuove spinte, a riparo da equivoci formali nati durante il ventennio fascista, torna così anche nel nostro Paese la necessità di scrivere poemi. In Italia vengono pubblicati i poemetti di Pagliarani, di Giancarlo Majorino, La capitale del nord, decenni dopo, negli anni sessanta, Roberto Roversi, scrive Dopo Campoformio e Descrizioni in atto, Roberto Sanesi scrive L’improvviso di Milano, Giorgio Cesarano dà voce ai suoi paesaggi disperati e raggelati di Il sicario e l’entomologo, Ghigo vuole fare un film e i Romanzi naturali, Andrea Zanzotto realizza quello che forse è il suo libro più complesso, Il galateo in bosco, più di recente Antonio Porta pubblica Il giardiniere contro il becchino, Giuliano Mesa scrive Poesie per un romanzo d’avventura e Tiresia. La rinascita dell’esperienza poematica cerca una relazione possibile tra io e mondo, il testo diventa un raccoglitore nel quale definire i segni rilevanti di un’esperienza personale e collettiva. Il punto teorico da affrontare è la modalità di relazione con il mondo. Torna l’interrogativo sullo spazio ossia sulla abitabilità della parola. Abbiamo visto come la memorabilità, il corpo e lo spazio fossero tre pilastri dell’esperienza poematica antica, come in Elio Pagliarani fossero evocati per essere messi in crisi alla luce di nuove realtà teoriche e storiche, fino ad essere ridotti a flebile traccia; ora è possibile restare su questo passaggio seguendo le parole di Gianfranco Contini che aggiunge una significativa indicazione sulla commistione dei tre capisaldi antichi e sulla loro permanenza nell’esperienza poematica di oggi quando parla di “modo biologico”:

«Il segreto, di questo modo biologico di Dante consiste nella sua ugualmente intensa partecipazione, e addirittura nell’identificazione successiva con gli oggetti, perfettamente chiari alla coscienza.»[i]

La capacità percettiva del poeta è il mezzo che permette una poesia “locale”, ossia poesia degli spazi e delle concrezioni di realtà. Alla base di questa facoltà narrativa c’è l’equilibrio tra “lo stadio liquido e lo stadio solido della materia”[ii],  non un’assoluta liquidità, cosa che porterebbe ad una spirale barocca dell’io che collassa su se stesso, né un’assoluta solidità, fonte di indistinzione dalla realtà, il rischio cronachistico del racconto. L’autore deve farsi carico, e risolvere formalmente, il contrasto tra il fluire degli eventi biologici, cognitivi, percettivi, e lo spazio condiviso, lo spazio simbolico o culturale in cui è calato. Si potrebbe aggiungere che le due deviazioni possibili si scontano nella poesia contemporanea con il biologismo, e di conseguenza con la retorica del corpo e della carne che sostituisce quella dell’io e dell’anima, o nella depressione della parola a favore del reale, il feticcio dell’oggettività o della realtà. L’equilibrio sta proprio nella relazione tra bios e mondo, tra temporalità del singolo e storia. L’intento critico di Contini è di riabilitare il poema dantesco, messo in discussione negli anni addietro dalla critica crociana. Croce aveva interpretato l’elemento descrittivo della Divina Commedia come una cornice, la struttura, o addirittura un limite della capacità lirica dell’autore fiorentino. Le descrizioni del “poeta divino” erano per Croce un momento di “pausa” dal suo magistero lirico[iii]. La grandezza di Dante sta invece, a parere di Contini, proprio nel saper unire la temporalità esistenziale, quindi l’intuizione, con lo spazio storico. I personaggi e i luoghi danteschi sono il frutto di questo equilibrio, sono il nodo in cui si innesca, si incardina il rapporto tra vita e mondo, tra vita e storia:

«La realtà su cui la versatilità e la disponibilità di Dante si precipita è storicamente sentita anche quando è eterna e ripetibile, tanto più manifesta allorché si scende verso le entità individualmente determinate.»[iv]

Stando alle indicazioni di Contini, Dante è riuscito a riscattare il singolo dalla caducità della Storia, allo stesso tempo però ha sottratto la Storia al pericolo della monumentalità. La temporalità del bios e della storia si attivano l’un l’altro nella relazione. In questo passaggio del testo di Contini si intuiscono ragioni politiche oltre che formali. Furio Jesi ci ricorda che funzione avesse durante il ventennio fascista la retorica del milite ignoto. Tra le due guerre il soldato senza nome diventa l’eroe della nuova collettività, la ricaduta politica di questo processo è evidente: le politiche totalitarie eludono il bios, la temporalità del singolo, per accomunare la collettività nella figura di un corpo anonimo, lontano nello spazio, privo di tempo, intangibile e per questo idealizzabile. Solo così la politica può essere trasformata in retorica, la tradizione in kitsch sublimato. Per questo motivo, ma non solo, tra le due guerra, i poeti italiani hanno guardato con sospetto alla grande tradizione poematica, hanno adottato misure poetiche volte all’ermetismo e, per così dire, all’economicità dei mezzi; si sentiva nei poemi della tradizione, nella narrazione in versi, l’eco della retorica mortifera dell’unità nazionale. Dopo la seconda guerra, i poemi della tradizione sono stati letti tutt’al più sotto la luce della nuova èra dei senza patria (Giorgio Caproni, Il passaggio di Enea). Scrive Jesi:

«Per la stessa ragione il cuore, il nucleo pesante, della Mostra della Rivoluzione fascista (1932-’35) era il Sacrario dei Martiri che recuperava al regime l’aura sepolcrale della retorica del Milite Ignoto, ma che nello stesso tempo per una carenza di stile e, se così si può dire, di temperatura mitologica risultava molto più un baraccone allestito con destrezza di coreografi, che il santuario o la cripta di una religione di morte». [v]

Del resto, già negli anni venti, il poeta russo Osip Mandelstam, nella sua stimolante produzione critica, sottolineava un aspetto del poema simile a quello messo in evidenza da Contini. Mandelstam parla della “chimica organica” di cui è fatto il verso di Dante, definisce Dante un “direttore chimico”. Nella Divina Commedia non esistono metafore ma condensazioni chimiche, tutto il poema è un organismo vivente che si fa narrazione, le terzine dantesche sono il camminare stesso del poeta:

«Perfino una sosta è una concentrazione di moto accumulato: la piattaforma d’una conversazione viene creata con sforzi da alpinista. Il passo –espirazione e inspirazione- è il piede del verso. Una falcata che deduce, vigila, sillogizza.»[vi]

Per Mandelstam il verso, la forma del poema deve misurare la materia e deve condensarla: il metro, la scelta formale, deve essere rigoroso perché la posta in gioco è la stessa relazione tra bios e Storia, è la forma che mantiene in potenza il rapporto tra temporalità e mondo:

«Dante non entra mai in singolar tenzone con la materia senz’aver predisposto un organo per agguantarla, senz’essersi armato di uno strumento per misurare il tempo che è trascorso goccia a goccia o si è liquefatto. In poesia, dove tutto è misura, tutto parte dalla misura, ruota intorno alla misura e grazie alla misura gli strumenti di misurazione hanno facoltà particolari, sono portatori di una speciale funzione attiva.»[vii]

L’Ulisse omerico è interpretato come il tentativo dell’uomo di afferrare il tempo in quanto storia, mentre la parte animale, il nostro limite naturale contrasta la sfera simbolica con una forza che possiamo chiamare filosoficamente alterità. La radice che richiama l’uomo al suo limite, non è più quindi divina o religiosa, non si sublima più nelle Idee, ma è naturale. Il rimando e l’equilibrio tra le due parti permette la scrittura e le dà potenza. In questo modo di può pensare di scongiurare le retoriche totalitarie del corpo idealizzato, di qualsiasi segno esse siano, anche la retorica a noi più familiare della virtualità assoluta dei soggetti sociali. È chiaro quindi che l’aspetto biologico, compresa la deteriorabilità dell’organismo vivente, è elemento consustanziale al mistero della parola. Il poetico è ricordo dell’incrocio di simbolico e naturale. Per questo motivo le pagine di Mandelstam e Contini valgono anche per lo scenario attuale:

«Nel canto di Ulisse la terra è già rotonda. È un’esaltazione del sangue umano, nel quale è contenuto il sale dell’oceano. L’inizio del viaggio è iscritto nel sistema cardiovascolare. Il sangue è planetario, polare, salino. Con ogni circonvoluzione del proprio cervello Dante disprezza la sclerosi, come Farinata disprezza l’Inferno.» [viii]

Nei personaggi del poema la storia torna ad essere con-divisa esperienza del tempo, la storia viene messa, per così dire, “sotto giudizio”. Leggiamo ancora nelle pagine di Mandelstam:

«Lo stesso metabolismo terrestre si compie nel sangue […] Il tempo per Dante è il contenuto della storia, intesa come un atto unitario e sincronico; viceversa il contenuto della storia è un con-tenere il tempo, un sostenerlo in comune da parte di compagni, co-cercatori, co-scopritori del tempo stesso.»[ix]

Dal punto di vista formale, la tendenza poematica degli anni del nuovo millennio non stabilisce un vero e proprio canone, perché la stessa forma-testo, il metro, la strofa e il ritmo, costituisce un mondo a sé stante, un mondo possibile. Anche se si parla molto di neoepica, di romanzo in versi, si cerca una definizione adatta alla tendenza, non direi antilirica (l’anelito lirico è presente anche in queste opere), ma anticonfessionale della poesia italiana più recente, sembra che la differenza la faccia il rigore con il quale l’operazione in versi riesce a creare un meccanismo complesso, chiuso in sé, ma al contempo allegorico. Qui, tutt’al più, si può solo attestare una esigenza comune che ha dato vita nell’arco di pochi anni ad una produzione diffusa di opere poematiche, di opere mondo. Si torna quindi a narrare con strutture forti e organiche, torna la necessità d’indagare la Storia, il tempo comune. Gli esempi da fare sono molteplici e ci si limita a segnalare alcuni dei più significativi della recente produzione italiana.

Ivan Schiavone, con Cassandra. Un paesaggio, ripropone il personaggio mitico-letterario, sventurata figlia di Priamo, sorella veggente di Paride ed Ettore, con una della opere più complesse e ricca di richiami del panorama poetico a noi più prossimo. Il testo, diviso in quattro parti descrive la visione della sacerdotessa destinata a profetizzare catastrofi, e a non essere creduta. Così il viaggio d’inverno (il Winterreise) della prima sezione, richiamo esplicito al libretto di Müller scritto per l’omonima opera di Schubert, è privo di una vera meta. Procediamo tra i versi a gradoni della composizione come se avanzassimo su lastre di ghiaccio franti o sul punto di spezzarsi del tutto. Basta leggere l’inizio di questa sezione per capire:

dopo che (dopo che

neanche una parola fu

se non rotta

dopo di che neanche una parola fu retta

serrata la porta che alle tue spalle

richiuso, imboccata la via

in indistinto sfuma il contorno preciso del tuo corpo e affonda

in un paesaggio d’ombre

dal mondo giunge un’eco labile

solo a tratti percepibile

come un brusio che piange

un rumore bianco[x]

La rinuncia al significante si traduce in un percorso di avvicinamento graduale ad un oikos irraggiungibile. Cassandra è la donna privata degli affetti familiari, privata della casa, costretta a girare il mediterraneo avendo visioni di catastrofi, il suo cammino non fa altro che rinnovare la misura della lontananza; questo movimento ad elastico circoscrive uno spazio in cui il topos epico e il tragico si uniscono ad una sensibilità del tutto contemporanea. Ciò che è in gioco nella composizione, più che uno sfoggio delle possibilità tecniche della poesia, tanto caro ai postmoderni, è la necessità di  un disegno riconoscibile del mondo, diremmo un ethos, solo a patto però che questo termine venga colto nella pienezza del suo significato e si ricordi l’allusione del suo etimo al luogo in cui vivere. Schiavone reitera per l’intero libro le spezzature del verso tradizionale (esempio su tutti l’endecasillabo con l’accentuazione di quinta) per creare un paesaggio desolato, un paesaggio geografico, ma anche psichico, biologico e storico su cui noi tutti ci incamminiamo:

cos’è che in noi             che fa noi                    s’è rotto?

che cos’è (le parole

che cos’è che rompe le parole?

si arrestano sulla soglia

e non entrano

perché sulla soglia?

perché non entrate e state

seduti sullo scalino?

quando passò lo sciancato

ma anche prima che lo sciancato passasse

le parole erano (anche prima che lo sciancato passasse

le parole erano rotte?

sì, le parole erano

anche prima

anche ora

e in mezzo

la soror mystica venuta con calzari fenici e con voce

(tu che ascolti sai dire se fu vera agnizione?

Viola Amarelli, in Notizie dalla Pizia, compie un’operazione poetica accostabile nel tema a quella di Schiavone, così come possiamo leggere dalla prefazione di Gianmario Lucini: “Il vero protagonista del testo poetico si rivela un ambiente sociale e umano senza tempo, quello di una civiltà che si muove molto più adagio di quanto rappresentino le scansioni storiche contraddistinte da date, avvenimenti cruciali e grandi eventi che in qualche modo formano e fermano il corso della storia per tappe e coordinate spesso arbitrarie. Questa narrazione in versi si svolge in monologhi: le indovine si presentano, raccontando il loro tempo ed esponendo il pensiero magico che attribuisce loro un ruolo, una funzione sociale, a prescindere dalle coordinate temporali e persino dalle loro stesse intenzioni. È, insomma, il mondo mitico-magico che crea le profetesse per una sua esigenza di stabilità volta a evitare la propria dissoluzione”[xi]. Scrive in uno dei prosimetri Viola Amarelli:

E anche dopo, quando tutto storicamente è finito, decaduto in siccità, niente è perso: benché nell’evidenza foucaultiana che di metamorfico e a tenuta perenne c’è solo il potere.

XXII – Finale di partita

Muta la fonte, desolato il tempio,

secco l’alloro

il dio, deo gratias, non abita più qui

chiusa la faglia rimane cicatrice

lembo d’orgoglio, demone nutrice.

Curiamo olivi, tenere le foglie

spremiamo i frutti per addolcire i gironi

alla brace rovente sotterranea

liberamente scaldiamo figli e cuori.

Più non sappiamo,

ci dicono i ricordi che nulla è perso

come mai nulla si perde, solo il potere

è trasmutato altrove dove ugualmente

nasce e, nel vivere, muore[xii].

I termini “faglia”, “cicatrice” rendono bene il confinare di mondi differenti, le stesse espressioni tornano significativamente nell’opera d’ispirazione eliotiana di Roberta Bertozzi, Gli enervati di Jumièges. Quest’ultimo è un testo esemplare per la capacità di porre domande al contemporaneo tramite una vicenda risalente all’alto medioevo. La storia è quella dei figli di Clodoveo II, colpevoli di aver cospirato contro il padre e per questo condannati ad andare alla deriva su una zattera con i tendini delle gambe bruciati. La simbologia del poema è già indicativa: il padre, il Re, che condanna i figli all’ignavia. La tradizione schiaccia, annichilisce[xiii]. Bertozzi scrive un’epica del rivolgimento[xiv], il suo dramma in versi suggerisce un ulteriore passaggio rispetto alla scomparsa dei padri e del corpo esemplare; qui i padri stabiliscono una tanatologica, vampiresca, relazione con i continuatori della specie.  La forza cantata dall’epica degli anni sessanta e settanta ora ha una natura distruttiva:

Intorno non è la decadenza

fino a quando la faglia non prende a puzzare

e ci si chiede quale motivo, dove fa – tarlo.

Dietro il perimetro del labirinto,

dietro le figure-contorno stanno altri muri, altri nomi,

spesso altro e ancora

limo.

Difficile dire

quale carosello ci si pari davanti.

[…]

Heimat! Quanti ne mancano all’appello – quanti

nel repertorio dell’Istituto Luce ingialliscono trinciati

a tocchetti, a puntate, per le lame della moviola?[xv]

La decadenza non è tale fino a quando la “faglia non riprende a puzzare”. La faglia è la matrice temporale che il nostro organismo porta nella narrazione collettiva dei fatti. In questo incipit c’è un vero e proprio monito: “Quanti ne mancano all’appello?” Quanti vanno salvati dall’ingiallirsi della pellicola dell’Istituto Luce? Ci si perde gradualmente per “tocchetti”, “a puntate”: l’anestesia è l’indolore. L’interrogativo resta centrale.

Federico Italiano con I mirmidoni, poemetto d’ispirazione audiana, ambientato nella pinacoteca di Monaco di Baviera, appronta la messa in scena di una nuova arca russa (il riferimento è al film di Sokurov) in cui custodi del museo, giovani visitatori delle sale, e i guerrieri di Achille intrecciano le loro vicende.

Altrove infuriava la battaglia.

Rosenstoltz, il custode dalle cravatte cobalto,

tornò nelle sue stanze

e Maerten ordinò la pils pomeridiana.

«Hai letto l’articolo dello SPIEGEL sull’ambra?

Che roba! Due paleontologi tedeschi

Hanno beccato un geco,

tutta una testa ben conservata. Un buon pezzo,

più grande di un pugno.  Resina pietrificata,

un indurimento di milioni di anni.»

«E qui torna il Baltico. Non ti dicevo che lì girano

forze strane, un magnetismo raro?»[xvi]

I calchi linguistici sono qui palesati come stratificazioni geologiche da cui emerge la voce del poeta e la scrittura è cesellamento di una realtà calcaria. Si fa ancora più chiara la poetica di Italiano nella raccolta L’impronta, titolo di per sé emblematico, che si apre con un traduzione dal Richard II di William Shakespeare:

E non possiamo dire nulla nostro

se non la morte e questo

calco d’infeconda terra che serve

 

da collante e da guaina alle nostre ossa.[xvii]

I codici e i miti del passato sono il calco che bisogna tradurre per sostanziare la nostra forma. Il dialogo con la lingua e la tradizione è qui presa d’atto della funzione originaria della parola, ma anche in questo libro c’è una doppia lettura, l’impronta è quella del padre, il testimone che abbandona il proprio transito terrestre per farsi voce in lontananza. Italiano ritorna sul lascito della tradizione antica e ritrae Aiace, l’eroe più solitario e severo della guerra di Troia, colui che rimane fedele ai riti d’onore, e lo raffigura sulle rive dello Scamandro mentre cerca la porta del tempo che trasbordi il passato nel futuro.

 

In verità, sono solo un po’ stanco,

respiro dal naso, seguendo l’onere

dei bronchi con riguardo quasi clinico.

 

Siedo su una panca di legno, alla destra

del fiume, dove biciclette e corpi

eliotropici striano la quiete,

 

mentre i volani perlustrano il verde

-topografia pensile

di una placida domenica e fragile.

 

Aiace è morto. Sono cinque estati

ormai che sono morto.

Come fuggono i vuoti

 

di bottiglia nelle mani degl’uomini

raccoglitori …

I sassi mi mancheranno – l’ottusa

 

resistenza della selce sul letto

dello Scamandro – e gli arrosti frugali

che precedono vittorie o disfatte.

 

Ma non c’è più spazio per chi arrossisce

a punture d’orgoglio: questo è il tempo

delle giustificazioni, degli alibi.

 

In verità, sono calmo e respiro

dal naso. Odore d’erba e di crema

solare: Aiace è morto.[xviii]

 

La poesia per dirla con le parola di Benjamin assume “il compito di intendere ogni vita naturale in base a quella più ampia della storia”. Così fa Alessandro Rivali, che con La riviera del sangue, titolo dantesco, e La caduta di Bisanzio cerca una soluzione messianica agli orrori della Storia, partendo dalle catastrofi antiche per arrivare a quelle a noi più vicine e per il poeta personali. In La caduta di Bisanzio fanno da soggetto poetico le città distrutte da catastrofi, Pompei, Bisanzio, Persepoli, Atlantide. Rivali attraversa queste vicende e con tono poundiano e  traccia una linea verticale del tempo:

Raccontami ancora di Plinio,

l’ostinazione della scrittura,

la prua verso la scogliera.

 

Come avrebbe fissato i segni,

impressioni, fatti notevoli

e la fine giunta inattesa.

 

Ricordami la seduzione del fuoco,

il vortice dei vapori, il veleno

che serpeggiò tra le caviglie,

l’aria tramutata in siero.

 

Padre, adesso che non puoi,

riprendi il filo del sangue versato,

la danza macabra di Barcellona,

le lingue di fiamme dei rosoni

e la fuga dei Rivali nel ’36.[xix]

 

Verso Itaca[xx] di Daniele Ventre (pubblicato nel 2015), opera ambiziosa e mirabile per perizia metrico stilistica, racconta la storia di Telègono, figlio di Circe, alla ricerca del padre. La tematica del rapporto filiale è qui restituita con una prosodia che “tende a restituirci le sonorità dell’esametro “eroico” dell’epica greco-romana”, per dirla con le parole di Viola Amarelli.[xxi]Anche in questo caso l’ucronia mette insieme ambientazioni e tematiche classiche con scenari postmoderni, i videogiochi o le saghe fantasy.

Il poema per recitativi Cefalonia di Luigi Ballerini narra l’eccidio dei soldati italiani sull’isola greca successivo all’armistizio dell’8 settembre del 1943. Se si evita la monumentalità del ricordo, cosa resta? Ballerini mette in scena una commedia, nulla di quell’eccidio ha il tono alto della narrazione epica, assume piuttosto la modalità di una cronaca calcistica, come se la conta dei morti fosse il risultato di una partita tra Italia e Germania. Qui la storia, la violenza, la forza, il sangue, chiede di essere osservata, ma non si traduce mai in tragedia. Così recita una delle due voci del poemetto, l’italiano Ettore B. :

“l’acquisto del senso tragico da parte

di genti meccaniche, confinate per secoli al romanzo,

è l’opposto dell’insabbiare, azione creata per ribadire

che non è accaduto quello che non sarebbe mai dovuto

accadere”. Oggi specialmente, che l’uomo si evolve da

burocrate a faccendiere. Per la resa dei conti non resta

che aspettare la volta buona, leggere, senza battere ciglio

il bollettino di guerra  dettato da un dio che si estingue,

vulgato dai più ricamati tra i capitali di una fedelissima

(inceppatissima) legione.[xxii]

Luigi Nacci, con il suo Poema disumano, compie un’operazione di metricizzazione della storia più recente, calando eventi tragici in un’atmosfera non dissimile da quella delle lasse di Ballerini. Anche qui c’è una percezione fonico sillabica degli eventi condivisi, una metabolizzazione della storia. Ciò che qui manca rispetto ad altre esperienze è l’organizzazione strutturale del poema. La cornice è la stessa cantabilità, fruibilità pubblica del testo. Diverso invece il discorso per il suo lavoro più recente in cui la fabula è il ritrovamento di un manoscritto in Sud America passato per le mani di ex-nazisti sfuggiti dall’Europa (Mengele, Priebke, Eichmann). In questo testo troviamo inni, canti e madrigali dei criminali di guerra. Autore della scoperta, della cura e della traduzione del testo è lo stesso poeta che qui compare sotto la firma Dott. Luigi Nacci. Anche questo espediente è il modo di affrontare un’interpretazione diretta con il male[xxiii]. Si potrebbero fare tanti altri esempi, come il Canto di una ragazza fascista dei miei tempi[xxiv] di Anna Lamberti Bocconi,  un lungo poema confessione che dà voce ad una donna caduta nell’eversione di destra durante gli anni settanta; o La stazione di Bologna[xxv] di Matteo Fantuzzi testo che dà voce alle vittime della strage del 2 agosto del 1980 quando una bomba messa dall’eversione di destra in accordo con i servizi segreti fece saltare in area parte della stazione ferroviaria del capoluogo emiliano causando 85 morti e duecento feriti. Francesco Filia con il suo poema in frammenti La zona rossa[xxvi] racconta invece per lasse e frammenti poetici gli scontri tra manifestati e polizia per il G8 di Napoli del maggio del 2001, fatti che avrebbe anticipato quelli più clamorosi di Genova e che sarebbero poi quasi del tutto dimenticati dopo l’evento epocale dell’11 settembre. Proprio alla data simbolo della generazione a cavallo tra i due millenni è dedicato il lavoro di Federico Scaramuccia Come una lacrima[xxvii], che con grande perizia metrica ripercorre gli eventi dell’attentato di New York restituendo l’ambigua sensazione dello spettacolo della morte tanto caro a Baudrillard. La lacrima del titolo è sia la dolorosa compassione verso le vittime della tragedia che l’obiettivo della macchina da presa, così come viene chiamato nel gergo televisivo. Il metricismo ha la capacità di restituire l’ambiguità dei media, il sentimento tragico e luttuoso è restituito con l’alta precisione tecnica, è un dolore filtrato di secondo o terzo livello. In questa corrente di rilettura di fatti storici più recenti rientra il bel poema di Marilena Renda Ruggine[xxviii], un racconto a più voci sul terremoto che distrusse Gibellina nel 1968. Le voci dei testimoni, con accenti e complessità linguistica differente, formano le lasse del testo, il poemetto è una Spoon River meridionale con i toni mitici del Vittorini di Conversazione in Sicilia. Anche Novembre di Domenico Cipriano è un poema per frammenti incentrato sul terremoto che distrusse l’Irpinia nell’ottanta. Il testo ha una struttura interna meditata che asseconda una numerologia carica di senso, è lo stesso autore che ci dà i parametri per decifrarla: «ventitre poesie come la data del sisma, tutte composte da “stanze” di sette versi (poesie eptastiche) e un prologo di trentaquattro: l’ora serale che spaccò l’Italia: 7,34. Ciò accadde un novembre lontano ma sempre presente, da cui il titolo e l’introduzione di due versi (il numero corrispondente al mese di novembre)». Sullo stessa tema è lo scritto di Fabio Orecchini Per os[xxix], dedicato al terremoto dell’Aquila del 2009. Orecchini è più attento alla trama metrica e all’oralità dell’esecuzione della sua scrittura, la pagina diventa una partitura spaziale, una registrazione delle voci nascoste, che riemergono da una nuova faglia delle terra. Ma, aldilà dei più smaccati richiami alla storia, esistono altri esempi di scrittura in cui la questione centrale resta la presenza nel tempo condiviso, la presenza nello spazio. Così accade in quello che all’apparenza sembra essere un canzoniere d’amore, La divisione della gioia di Italo Testa. Il titolo del libro, oltre a citare il famoso complesso della scena new wave inglese degli anni ’80, allude al padiglione riservato allo “svago” per i soldati tedeschi durante la seconda guerra mondiale all’interno dei campi di concentramento, occupato per lo più da ragazze ebree. I due amanti protagonisti del libro vivono le scene del poema come se risorgesse da un perimetro di morte; tutta la narrazione, la messa in scena, è fondata sulla luce aurorale. Più che l’amore, il protagonista di questo testo è proprio la gioia, ossia il modo di guardare le cose, sapendo della loro fine. L’esperienza storica del campo di concentramento impone il modo dello sguardo sul presente.

o sulle poltrone in prima fila,

davanti a un sipario grigio

segui in allerta la scena vuota,

come una macchina nera in quadro

lo spazio deserto lo incornicia

In questo scenario la parola è mossa dalla vicinanza fisica all’altro e diventa un arto prensile appena utile a segnare i limiti del proprio ecosistema:

l’indifferenza naturale

appena ti ho lasciato torna,

emerge nel gelo animale

come una pelle mi contorna:

 

immune al mondo, freddo e ostile

striscio nel buio senza meta

con l’avambraccio irto di squame

uncino il fianco di una preda.

Lo stesso panorama disumanizzato tornerà nella raccolta i camminatori, una vera partitura modulare che riprende scenari urbani. Siamo ora all’esterno, lontani dalla camera che ha visto protagonisti i due amanti de La divisione della gioia:

camminano

rasenti ai muri

sugli autobus

si siedono tra i primi

non parlano

tenendosi le mani

si voltano

di scatto a un tratto

ti guardano

gli occhi grigi

campeggiano

poi scartano di lato

si alzano

serrando i pugni

e scendono[xxx]

Le brevi composizioni presentano soggetti denudati da qualsiasi connotazione identitaria che si muovono all’interno di un’ideale megalopoli. Il progetto poetico di Testa si chiarisce definitivamente come descrizione iperealistica del circostante, lo sguardo, la vista, è l’organo principale:

NULLA SUCCEDE PRIMA O DOPO

le sillabe sulle labbra

lambiscono le immagini

i segni nella mente

intersiano i muri

 

NULLA SUCCEDE PRIMA O DOPO

vuoto i vasi

e i pensieri maturano

lucido le foglie

e le foglie si staccano[xxxi]

Esiste una vera linea di scritti poematici che affrontano il problematico rapporto tra scienza e natura. Questi lavori allegorizzano la problematica relazione dell’uomo con l’ambiente. Nel poema Le api migratori Andrea Raos, attraverso la vicenda dello sciame di api assassine, parla dell’eccedenza della scienza ibridando i modelli classici sull’apicultura con un immaginario pop. Scrive Raos: «Nel 1956 alcuni membri della comunità scientifica brasiliana importarono in Amazzonia dall’Africa api di quel continente, più robuste, e le incrociarono ad api produttrici di miele, inoffensive, meno aggressive. L’obiettivo era rendere queste ultime più produttive dal punto di vista economico e industriale. Una terribile serie di mutazioni non volute produsse le cosiddette api assassine”».[xxxii] Il corpo debordante del testo è lo sguardo postremo che fatica a ritrovare un suo centro.

Non sarà certo questo disquilibrio

A trattenermi in vita-

Annuncia al contrario la mia fine

Puramente pura ed individuale:

in distinzione verso in distinzione.

 

Non così lo sciame.

 

Che pure muore, e finirà, dopo di me –

Soltanto un po’ più piano

I testi che sondano il limite del linguaggio in quanto limite della specie antropica sono soggetti di un nuovo florilegio a partire da Darwin[xxxiii] di Luigi Trucillo. L’eccezione alla catena evoluzionistica è una chiara riproposizione del senso profondo della poesia in quanto presa d’atto della legge naturale e sua simbolizzazione. Di certo la diffusa sostituzione della parola uomo con specie asseconda la sensazione di trovarsi in una fase epocale di crisi delle categorie umanistiche, in un grado zero fin troppo evocato in cui gli esseri forniti di parola si contendono lo spazio con le altre creature.

Accanto all’oceano

le specie

dimenticano in fretta

i propri ricordi.

La salsedine

stacca chele e membrane

come se fossero sogni,

unghie agitate

dal fantasma di un sauro.

Il sole batte,

ma l’onda è un mattino

o una notte allungata

da un ritmo

che mugghia i suoi inganni?

Il mio sguardo è spaccato

da strane libellule

come fossero nomi,

suoni sciamanti dall’acqua

che mi fermano il sangue:

può la scienza

essere aperta

fin dove la mente finisce

e poi aprirsi ancora

nel lampo, nella ventosa purpurea

in cui la visione si accelera

pulsando

in una scia di vapore?

Di nuovo

accade tutto così all’improvviso

da essere lento.

La sabbia spazzata dal vento

mi acceca,

mi penetra.

Stanotte ero estraneo

e oggi non potrò più diventare

un uomo

irrimediabilmente lontano.

Questo eccezionale libro di Luigi Trucillo ripercorre una sorta di biografia spirituale del famoso scienziato riuscendo a restituirci la complessità di una storia umana che cerca di darsi nella parola e con la parola una proprio ecosfera. Darwin viene pubblicato in Italia poco dopo Vom Schnee oder Descartes in Deutschland del tedesco Durs Grünbein che a sua volta scrive un poema epico sul filosofo Cartesio bloccato dalla neve nella città di Ulm. Anche qui come in Trucillo la biografia intellettuale di un filosofo serve per ragionare sugli strumenti umani e sulla possibilità dell’uomo di afferrare il mondo. Da prospettive diverse, si mette al centro di un poema la complessa relazione tra individuo e ambiente. Dopo l’importante opera di Trucillo arriva quindi il poemetto di Bernardo Pacini La drammatica evoluzione[xxxiv], che fa dei Pokemon, creazione fantastica e mitopoietica di origine giapponese, allegoria della rottura della linea consequenziale dello sviluppo creaturale. In questo stesso topos andrebbe forse letto il testo di Lorenza Mari L’ornitorinco[xxxv] che, con una chiara ispirazione filosofica tra Eco e Kant, pone la poesia sul piano delicato, ma decisivo, del linguaggio in quanto finzione. Questi esempi, anche se non hanno sempre una cornice unitaria che gli dia statuto di poema, sono di certo opere a tema, portatrici di una visione del mondo.

NOTE

[i]Contini Gianfranco, Un’interpretazione di Dante, pubblicato per la prima volta nella rivista Paragone nel 1965, ora in Un’idea di Dante, Einaudi, Torino, 1976, p. 98.

[ii]Ivi, p. 72.

[iii]Ivi, pp. 73-75.

[iv]Ivi, p. 99.

[v]Jesi Furio, Cultura di destra, 2011, Nottetempo, Roma, p. 55. Le conseguenze di questo processo Jesi le indica nel saggio Il linguaggio delle idee senza parole, in Cultura di destra, op. cit. , pp. 158-159, dove tra l’altro dice a proposito delle celebrazioni massoniche della poesia di Carducci: «Così si estenderà il più possibile il numero degli italiani che avranno come cultura  il rapporto con un mucchio indifferenziato e sacrale di roba di valore, che è il passato della patria. Essi stessi diverranno sempre più culturalmente indifferenziati, massa, e un sacramento tipico di questa comunione con il valore indifferenziato sarà poi tutto il rituale culto del Milite Ignoto, significativo anche per il fatto preciso di porre implicitamente la coincidenza tra quell’anonimato e la morte.»

[vi]Mandelstam Osip, Discorso su Dante, in La quarta prosa, Editori riuniti, 1982, Roma, p. 124.

[vii]Ivi p. 126.

[viii]Ivi, pp. 139-140.

[ix]Ibid.

[x] Schiavone Ivan, Cassandra, un paesaggio, Oédipus, Salerno, 2014.

[xi]Lucini Gianmario, Prefazione a Notizie dalla Pizia, di Viola Amarelli, LietoColle libri, Milano, 2009.

[xii]Amarelli Viola, Notizie dalla Pizia, LietoColle libri, Milano, 2009. Accostabile per ispirazione all’opera dell’Amarelli è anche il poemetto di Luigia Sorrentino, Olimpia, Interlinea, 2013.

[xiii]Bertozzi Roberta, nel risvolto di copertina del suo libro, Gli enervati di Jumièges, PeQuod, Ancona, 2007, scrive: «Nel suo significato originario il termine “snervato” indicava qualcuno a cui erano stati tolti o tagliati i nervi, così da renderlo apatico, incapace di reazione. Nella disciplina della macellazione l’enervazione consiste nella recisione del midollo spinale, prassi idonea a provocare più velocemente la morte dell’animale.»

[xiv]Devo questo termine al libro di Federico Scaramuccia, Canto del rivolgimento, Oèdipus, Salerno, 2016.

[xv]Ivi, p. 33.

[xvi] Italiano Federico, I Mirmidoni, il Faggio editore, Milano, 2006, p. 13.

[xvii] Italiano Federico, L’impronta, Aragno, Milano, 2014, p. 9.

[xviii]Ivi, pp. 10-11.

[xix] Rivali Alessandro, La caduta di Bisanzio, Jaca Book, Milano, 2010, p. 19.

[xx]Ventre Daniele, Verso Itaca, d’If, Napoli, 2015.

[xxi]Amarelli Viola, http://www.carteggiletterari.it/2016/01/22/verso-itaca-daniele-ventre-2/

[xxii] Ballerini Luigi, Cefalonia, Mondadori, Milano, 2005, pp. 47-48.

[xxiii]Nacci Luigi, OdeSS, pp. 117- 166, in Poesia contemporanea. Decimo quaderno italiano, a cura di Franco Buffoni, Milano, Marcos y Marcos, 2010

[xxiv]Lamberti Bocconi Anna, Canto di una ragazza fascista dei miei tempi, Transeuropa, Roma, 2010. Una sorta di diario racconto al femminile è anche il poema di Florinda Fusco, Thérèse, Edizioni Polìmata, Roma, 2011. Qui la voce è quella di un personaggio degli anni zero e la composizione segue una scansione per cori e recitativi, vicina alla prosodia di Giuliano Mesa.

[xxv] Fantuzzi Matteo, La stazione di Bologna, Milano, Feltrinelli, formata Epub, 2017.

[xxvi] Filia Francesco, La zona rossa, Il laboratorio edizioni, Nola, 2015. De Santis Alessandro con Metro C, Manni, Lecce, 2013, usa una tecnica compositiva molto simile a quella di Filia, articola un racconto per frammenti, con vari personaggi, con una scansione temporale esibita in ore e minuti, sulla città di Roma, ambientato nella metropolitana linea c della capitale, che in verità non è mai stata realizzata.

[xxvii]Scaramuccia Federico, Coma una lacrima, d’If, Napoli, 2011.

[xxviii]Renda Marilena, Ruggine, Com Press, Milano, 2012.

[xxix]Orecchini Fabio, Per Os, Sigismundus, San Benedetto del Tronto, 2016. Di Fabio Orecchini bisogna ricordare anche il testo sul mondo operaio e le morti per amianto Dismissione, Sossella editore, Roma, 2014. Sempre sul mondo operaio è il poemetto di Sara Ventroni Nel gasometro, Le Lettere, Firenze, 2006.

[xxx]Testa Italo,  I camminatori, Premio Valigie Rosse, Livorno, 2013, p. 11.

[xxxi]Testa Italo, Tutto accade ovunque, Aragno, Milano, 2016, p. 21.

[xxxii]Raos Andrea, sul retro di copertina, Le api migratori, Oèdipus edizioni, Salerno, 2007.

[xxxiii]Trucillo Luigi, Darwin, Quodlibet, Macerata, 2009.

[xxxiv]Pacini Bernardo, La drammatica evoluzione, Oedipus, Salerno, 2016.

[xxxv]Mari Lorenzo, L’ornitorinco, Prufrock, Costa di Rovigo, 2016.

 

Vincenzo Frungillo, Il luogo delle forze. Lo spazio della poesia nel tempo della dispersione, con tavole di Francesco Balsamo, Carteggi Letterari le Edizioni, Messina, 2017. Pagg. 141, !8 euro.

Forma e colpa

7

(a seguito del dialogo fra Alberto Giorgio Cassani e Gianfranco Tondini inerente il crollo del ponte Morandi, e dei commenti che ne sono seguiti, l’architetto Andrea Tonus ha voluto mandarmi un suo approfondimento che qui volentieri pubblico. G.B.)

di Andrea Tonus

Ora dirò come è fatta Ottavia, città-ragnatela.

C’è un precipizio in mezzo a due montagne scoscese:

la città è sul vuoto, legata alle due creste con funi e catene e passerelle […]

Sospesa sull’abisso, la vita degli abitanti d’Ottavia è meno incerta che in tante altre città.

Sanno che più di tanto la rete non regge.

Italo Calvino, “Le città invisibili”

 

Apro con questa citazione da Italo Calvino, che immagina una città apparentemente fragile, mantenuta in funzione invece dall’umiltà dei suoi abitanti. La città non è fragile, ma regge solo fino ad un certo punto, che non va oltrepassato.

A fianco di questa citazione voglio ricordare anche la descrizione della città di Sofronia, contenuta nello stesso libro meraviglioso di Calvino, dove a essere provvisoria e smontabile, accanto al luna park fatto di tende e baracche è la città di pietra .

Le due citazioni assieme costruiscono per me le due parti di un assioma: se vogliamo conservare la città dobbiamo essere umili e amorevoli nei confronti di ciò che essa ci tramanda, anche se sembra esso possa durare in eterno. Illudersi di questa eternità è atto di hybris, come direbbero gli antichi.

Vorrei mettere in luce il fatto che da un lato vi sono ragioni che portano a chiedere la conservazione del viadotto Morandi (ovvero di ciò che ne rimane) e dall’altro come il progetto del suo abbattimento per far posto ad un nuovo ponte sia in un vero e proprio atto di hybris attualmente in corso.

Non è vero, come scrivevo pochi giorni fa in un commento su questo sito, che nessuno invoca la conservazione di quanto rimane del viadotto . In realtà le voci contrarie all’abbattimento ci sono, e la cosa più sorprendente è che concordano certamente su un punto fondamentale: non c’è monumento più consono alle vittime del crollo che il ponte stesso.

Non fosse altro che per questo motivo, il tentativo della conservazione di ciò che rimane del ponte andrebbe fatto. In realtà non è un caso che questa voce provenga da questo ambiente. Se ci si pensa, non può essere un altro ponte a rappresentare la memoria di ciò che è accaduto, come a Berlino è conservato ciò che rimane della chiesa commemorativa del Kaiser Guglielmo I a ricordo della tragedia della guerra, o la ancora più drammatica prefettura di Hiroshima, deformata e liquefatta dalla bomba atomica. Oppure, con un esempio forse ancora più parlante a noi italiani, come la sala d’aspetto di seconda classe della stazione di Bologna, mai cancellata dai cittadini dopo la strage del 2 agosto 1980, dove il muro lacerato e il pavimento incavato stanno a testimoniare quanta violenza l’uomo riserva all’altro uomo. E si vengano a vedere le commemorazioni annuali per capire quanta condivisione di quella ferita c’è ancora! Altro che i simbolici ricordi sulle nuove opere! Sul fronte opposto, purtroppo non si può che constatare una volontà di cancellare la tragedia che non si intona certo con il bisogno di ricordare le vittime.

Ci sarebbe da considerare seriamente anche i segni casuali, come l’infortunio all’atto di presentazione del modellino del nuovo ponte, perchè comunque sono in accordo col fatto che si sta mettendo in atto una cancellazione che servirà a coprire le responsabilità, o meglio ad accollarle infine a qualcosa che non può reagire, è muto testimone (finchè c’è) di tutta la tragedia: il ponte stesso, con la sua strana e drammatica forma.

Ora per arrivare alla conclusione bisogna osservare bene la forma del ponte di Morandi, poiché è in essa che si concentra l’atto critico creativo, che infine è forse l’unico rimedio contro la hybris, perché è consapevole della sfida che l’uomo fa alla natura mediante la sua opera.

L’ingegner Morandi non è nuovo alla messa in scena drammatica delle forze che agiscono nelle sue strutture: è nella sua poetica, rendere attraverso la forma la fragilità dello sforzo delle strutture contro le forze soverchianti della natura. Si pensi ai pilastri meravigliosamente inclinati del salone dell’auto di Torino. Le strutture dell’ingegner Morandi chiedono attenzione anche all’uomo comune, dichiarando la propria fragilità mediante la forma, come la città fatta di corde di Calvino. Tutt’altra cosa rispetto all’altro grandissimo ingegnere italiano del novecento, Pierluigi Nervi, con le sue strutture che invece mettono in evidenza e dichiarano la loro forza nella ripetizione e nell’imitazione delle strutture naturali (celle, nervature). A me il linguaggio poetico di Morandi ha sempre attratto di più di quello di Nervi. Tuttavia proprio la forma così drammatica, così parlante della fragilità umana contro la potenza della natura, ora forse sarà la condanna del ponte.

Infatti, fin dalle prime ore assistiamo alla critica della forma del viadotto. Si sostiene che è proprio la tipologia di ponte costruito da Morandi ad essere sbagliata, portando a riprova il fatto che non è stato replicato sovente, e che anche un altro viadotto costruito nello stesso modo ha avuto un incidente.

Questa critica, che pare oggettiva, perché il crollo è sotto gli occhi di tutti, è però totalmente al di fuori del campo dell’ingegneria, e perciò al di fuori del campo delle responsabilità verificabili. Significa porre sotto accusa l’intera opera dell’ingegner Morandi. Un progetto ingegneristico infatti non può essere sbagliato per forma: l’ingegnere opera continuamente supportato dalle leggi della scienza delle costruzioni, il progetto risultante non può dirsi neanche interamente suo. Dire che il ponte sul Polcevera è sbagliato per forma significa dire che Morandi non sapeva applicare le leggi della scienza delle costruzioni e che indirettamente tutta la sua opera è sbagliata da questo punto di vista. Infatti Clemente Mastella, sindaco di Benevento, trovandosi di fronte ad un altro ponte dell’ingegner Morandi, per prudenza l’ha chiuso al traffico. Infatti da più parte si insiste sul fatto che la tecnica e la scienza costruttiva hanno fatto passi avanti dagli anni della costruzione.

Niente di più falso, e le prove sono sempre sotto i nostri occhi: andate a vedere le piramidi di Giza, o i ponti romani o medioevali. Ogni epoca della scienza costruttiva ha costruito le sue opere durevoli. Gli argomenti addotti da questi critici sono capziosi, si infrangono contro l’evidenza del fatto che le altre parti del viadotto sono ancora in piedi nonostante l’enorme sollecitazione subita dal crollo, che gli altri viadotti costruiti da Morandi sono ancora li, che tutte le altre opere di Morandi sono ancora in piedi. In più aggiungo ancora con un brivido che il tratto crollato non era quello sopra le abitazioni, il che ha limitato grandemente il numero di vittime. Basta una foto di ciò che rimane del ponte per capirlo. Non grido al miracolo: forse la manutenzione è stata più accurata su quei piloni. Il viadotto è additato come un mostro, ma forse è stato più amorevole di noi. Morandi non ha progettato e realizzato un castello di carte che crolla al primo soffio di vento. Nonostante l’apparenza.

Ora si parla di demolizione, di costruire un ponte che duri mille anni (con tutte le tristissime memorie che mi evoca questa frase) di riqualificare urbanisticamente il quartiere sottostante. Questi atti sono atti di superbia, che illudono consapevolmente facendoci credere invulnerabili alle ingiurie della natura e dell’uomo. Il ponte Morandi invece è testimone, parlerà per sempre della tragedia. La sua demolizione corrisponde alla cancellazione della memoria pubblica, e il risultato sarà per l’ennesima volta la solitudine dei familiari delle vittime e degli sfollati dalle case sotto il viadotto a patire il dolore senza una collettività che li sostenga.

 

Elezioni svedesi: la solita disinformazione

5

di Monica Mazzitelli

(ho chiesto alla mia amica Monica di permettermi di postare anche qui su NI un pezzo bello e chiarificatore sulla situazione svedese. Monica vive in Svezia da tempo, parla la lingua ed è attenta a quel che accade. La ringrazio anche qui. A.S.)
In questi giorni ho letto alcuni articoli di giornali italiani sedicenti comunisti a proposito delle elezioni qui in Svezia, e sono rimasta abbastanza sbigottita dai contenuti. In sostanza, tutti ripetono di fatto la stessa identica vulgata del partito nazionalista e xenofobo Sverigedemokraterna (“Democratici di Svezia”) ovvero che gli svedesi siano “stufi dei problemi della criminalità causati dall’immigrazione” e “stanchi di dover sostenere economicamente la pressione fiscale generata dai costi dell’immigrazione”.
Vorrei rassicurarvi su una cosa: qui in Svezia non c’è alcun tipo di fenomeno che possa essere descritto come un problema di criminalità come lo conosciamo noi in Italia. Il livello è semmai paragonabile a quello di una cittadina altoatesina. Inoltre anche qui come in Italia i crimini sono in continua discesa, omicidi compresi. Aumentano quelli afferibili alla sfera sessuale non tanto perché ne aumenti la portata in termini assoluti (a eccezione di quelli legati all’eccessivo consumo di materiali pornografici, su cui ho scritto in passato), ma soprattutto perché la giurisprudenza in materia di crimini di natura sessuale si fa sempre più aspra – fortunatamente – e sanziona praticamente qualsiasi tipo di comportamento che non sia frutto di una piena e consensuale scelta adulta.

Della liquefazione del “tu”

7

di Mariasole Ariot

“Un senso di decadenza ci deprime, se opponiamo allo scatenamento senza misura, all’assenza di paura, il calcolo.”
G. Bataille

Esiste una zona vuota, in perdita, all’interno della quale i soggetti si muovono attraverso la parola – nella quale i soggetti muovono e sono mossi dalla parola, incisi, marchiati, tracciati, modificati dalla parola, parola che proviene dalla propria bocca, come dalla bocca dell’altro. Il presupposto quindi per cui un soggetto venga in qualche modo prodotto e sia in continua produzione è in primo luogo il fatto che vi sia parola, in secondo luogo, che questa parola venga ascoltata o sia ascoltata, in terzo luogo, che questo incontro si dia all’interno di una zona vuota.

Dove abita il troppo, non può darsi nulla, se non l’incessante ripetizione di ciò che già c’era. È questo forse il più difficile nodo da aggirare: significa spogliarsi, denudare gli spazi, creare nuove pareti e nuovi confini, aprire interstizi atemporali e aspaziali. Qualunque incontro avvenga all’interno di un dispositivo già ammobiliato, già previsto, già costituito – dove nulla c’è da attendersi se non ciò che già ci si attende – non produce movimenti significativi nei soggetti. Al contrario: siamo di fronte alla caduta della soggettività e alla presa di potere del potere stesso, un potere fine a sé stesso, che non ha più bisogno di niente, che si basta da solo.
Se cade la soggettività, cade anche, di conseguenza, la possibilità di produzione di nuovi significanti e significati e il passaggio liquido di produzioni attraverso la porosità dei corpi della lingua.
Non si tratta di uno svuotamento, del porsi come esseri vuoti, ma di saper aprire zone vuote all’interno di corpi pieni.
Quando ciò non accade, quando corpi e spazi restano come masse informi di carni compatte, non c’è più incontro con l’Altro ma piuttosto un incontro con la devitalizzazione di una possibilità mancata – che a sua volta produce non perdita dell’io ma perdita del vitale.

Il soggetto si immobilizza, diventa ossa, sasso, pietra, ombra di sé stesso.
Se questa devitalizzazione si realizza fino al compimento, se nasce da un incontro già previsto, che non contempla stupore, non possiamo credere che questo passi sotto traccia senza incidere i soggetti dell’incontro: piuttosto li scarnifica. Un “non è” non significa che quel “non è” non sia attivo, che non agisca sui corpi e sulle soggettività in causa: agisce per difetto, portando a desertificazione.
Eppure: non siamo forse al centro di un’epoca in cui il tu non è più un tu soggetto singolare ma piuttosto un tu espanso fino alla sua dissolvenza? In cui si smette di parlare ad un singolo (in una danza tra il dire e l’ascolto) e si parla solo alla moltitudine in una produzione di un incessante rumore di sottofondo che scarnifica la parola fino a farla diventare l’ombra di ciò che potrebbe essere?

Un’esigenza di spalancare la bocca di fronte a un tutti che in fondo è un nessuno, un proliferare di frasi, elementi, tracciati rivolti a una platea in forma di corpo unico che non ha teste.
Perdute le teste degli altri, cade anche la propria, scollata dal contingente, scollata dall’infinito, testa che si addobba di decori e si dilata fino ad occupare tutto lo spazio presente.
E dove lo spazio è chiuso, dove non esiste più spazio all’interno dello spazio, là muore il linguaggio, là muore l’incontro, là muore il dire, là avviene l’indicibile: miliardi di io cantano sordomuti della parola.

La linea automatica produce trecento piani cucina

1

di Francesco Terzago

La linea automatica produce trecento piani cucina
al giorno, ogni giorno, senza sosta. Ventiquattro ore
su ventiquattro. Trecentosessantacinque giorni
all’anno (o trecentosessantasei, se necessario) – le lastre
di pietra da tre-quattrocento chilogrammi sono mosse
dai bracci meccanici con la stessa semplicità
con la quale io posso sollevare un giornale
o una corteccia di betulla e usarla come
un ventaglio; il foro dove sarà ospitato il lavello
è ricavato con un getto largo come uno spillo,
un getto d’acqua ad alta pressione
e graniglia: sabbia né troppo sottile, né troppo spessa,

dieci validi motivi per ammazzare i poveri più uno francamente pretestuoso.

1

di Pino Tripodi

conviene iniziare con l’undicesimo motivo, quello pretestuoso. ciò si deve alla semplice coincidenza che lo scrivente è un povero anche lui, quindi se afferma che ha dieci buoni motivi di ammazzare i poveri significa che quei motivi sono validi anche per lui. se fosse onesto per coerenza logica dovrebbe essere ammazzato. ora, voi potreste dubitare della sua onestà, ma vi sbagliereste perché finito di redigere quei dieci validi motivi per ammazzare i poveri l’autore si fa ammazzare veramente. c’è solo un unico problema materiale da risolvere per rispettare la saggia decisione. avendo lui stesso scritto del problema chi è che dovrebbe farlo fuori? sembrerebbe una difficile faccenda ma invece è veramente una quisquilia. ecco la risoluzione. è  lui che di sua propria mano uccide il povero che è in sé. con quali mezzi non è difficile congetturare. sarebbe inutile, incoerente e dispendioso provvedere con sistemi che richiedono una certa frequenza col denaro, l’eutanasia in olanda, la clinica della morte in svizzera, la pistola, i farmaci o l’iniezione letale. esclusa la morte in sintonia col capitale occorre cercare gratuiti mezzi per porre fine all’esistenza.  ciascuno si direbbe saggiamente è meglio che muoia nel suo brodo, quindi, anziché provare truci soluzioni, buttarsi dal balcone, tuffarsi in mare con uno scoglio al collo o giù di lì – rimedi, è bene dichiararlo, che ostano alla sensibilità umanitaria dell’autore -, la più semplice mossa è abbandonarsi alla propria condizione, lasciarsi cioè morire d’inedia e fame. chi ha l’abitudine forzata a centellinare il pane e il companatico della sopravvivenza in ciò non riscontra particolare resistenza. la consuetudine da fame di prassi attenua alquanto i crampi e la sensazione rotatoria della testa quando il proposito dell’inedia diviene cosciente e radicale. si arriva alla fine lucidi di raziocino e illuminati di mente. la dipartita dalla povertà affrontata con lungimiranza avviene serena come il sonno se il corpo non è oberato da funzioni digestive complicate come quando fa incetta di lardo e fave irrorati a volontà da una ciofeca che è scandaloso assai chiamare vino. cosicchè, anzichè protrarre gli incubi della fame che lo devastano ogni qualvolta serra gli occhi, oltre la propria morte il povero può sognare di vivere felice con la sua bella magari ancora sconosciuta in barba a ogni ristrettezza.

risolto il problema della fine, dell’undicesimo motivo francamente pretestuoso, ci possiamo concentrare sull’inizio, sui dieci validi motivi per ammazzare i poveri.

a mo’ di avvertimento, prima di iniziare, occorre rendere palese che i dieci motivi non sono dettati certo da invidia o da rancore. come si potrebbe se chi scrive appartiene a quell’umana condizione.

essendo come già detto anche lui povero l’autore se scrive le seguenti cose è  per puro spirito di conoscenza basato sulla profonda esperienza maturata dal momento in cui senza chiedergli permesso è stato per caso più che per spasso gettato nella vita. le considerazioni svolte pertanto non sono sterili elucubrazioni intellettuali ma semplici constatazioni oggettive, fotografie scattate per mostrare il vero senza le lenti e i trucchi delle ideologie. il suo unico intento è che la verità si faccia strada. il resto non interessa perché privo di secondi fini.

 

il primo valido motivo è davvero lapalissiano. i poveri sono troppi nella miseria ma ancor di più nell’opulenza. non c’è tempo, società o regione del mondo dove non sia così. non c’è individuo, famiglia, governo o religione che non abbia avanzato programmi davvero razionali per eliminare la povertà. ma tutto è stato inutile. la ragione è presto detta. i poveri sono i parassiti della ricchezza. più cresce l’albero dell’abbondanza più i poveri vi allignano come funghi velenosi che rendono amara la vista ai ricchi. cercare di potarli è inutile. meglio ammazzarli dal primo all’ultimo esemplare. così il paesaggio della ricchezza diviene uniforme e chi ha i mezzi per natura non viene umiliato nel guardar cose che sono francamente indegne di essere osservate.

 

il secondo valido motivo non ha meno evidenza. i poveri non sono tali per disgrazia o sfiga. è un’ingiustizia davvero grande pensarla in questo modo. poveri lo sono per colpa e per natura. la colpa è antica e la natura non perdona. da poveri nascono poveri. è una legge incontrovertibile dell’umana specie che se si rispetta va bene a tutti, ma se qualcuno pensa di fare il furbo sovvertendo le leggi basilari del creato a pagarne le spese sono proprio loro, i poveri, e chi altrimenti. qualcuno poveretto pensa se sono nato povero la colpa è del ricco, ma non ci vuole una gran logica per capire che tale congettura non ha senso.  i poveri son poveri perché la povertà ce l’hanno nel sangue. chi nasce povero non ha ragione alcuna di recriminare. a render complicata la faccenda c’è quella piccola eccezione di poveri ricchi per caso. sono davvero pochi ma l’indagatore attento non fatica a snidarli di modo che il caso venga senz’altro smascherato. i poveri ricchi per caso sono quei poveri che per qualche scherzo di natura – anch’ella, checché si dica, non è del tutto esente dall’errare – si trovano nel torbido a gozzovigliare con mezzi di proprietà e d’uso geneticamente non propri. quando questa vergogna accade, i poveri non stanno a proprio agio e allora non passa molto tempo che restituiscono non sempre volentieri il maltolto pagando il fio con qualche decennio di prigione, con l’infamia a vita o con la morte.

il secondo motivo si rafforza per un’altra ragione.

l’intelligenza non si addice ai poveri –  nei loro geni è dimostrato che la stupidità prolifera balzando ben oltre i limiti della decenza – eppure un qualche  barlume di ratio alligna pure dove meno te l’aspetti. se così non fosse molti poveri non avrebbero coscienza che sono poveri per colpa e per natura e invece conoscono davvero bene la verità tant’è che  passano la vita a odiare i genitori che li hanno gettati nella vita in questo stato. l’odio cresce con l’età tant’è che se i poveri meno scemi potessero agire impunemente nessun loro genitore sopravviverebbe alla furia che hanno generato. se l’odio maturato dalla nascita si raggruma più spesso nell’astio atavico anziché nell’omicidio dei genitori è per viltà, per la paura che ammazzando il padre o la madre toccherebbe qualche annetto di galera in più. ma questa frustrazione dell’inibirsi a volta di ammazzare mamma e papà a causa dei natali socialmente indesiderati si scatena contro il prossimo, infatti è cosa nota che i poveri si ammazzano tra di loro alla prima occasione. il secondo motivo umanitario rafforzato per ammazzare i poveri è dunque di necessità per cancellare questo scempio liberando in un colpo solo odio, viltà e astio che non si addicono certo al resto dell’umanità.

 

 

il terzo motivo è che nel vizio innato che i poveri hanno d’ammazzare capita che ci vada di mezzo qualche innocente ricco. i poveri si ammazzano tra di loro, è vero, ma qualche volta nel loro furore umanicida c’è qualche onesto cittadino che ci capita di mezzo. non è più per volontà classista che i poveri ammazzano qualche ricco – ormai questa vergogna è stata per fortuna quasi completamente eliminata dalla faccia della terra – pur tuttavia qualcuno dei ricchi ripeto non proprio di proposito ci capita tra gli ammazzamenti dei poveri. se i ricchi non fossero mai toccati i poveri dovrebbero essere lasciati liberi di ammazzarsi tra di loro così parte della fatica di farli fuori tutti sarebbe risparmiata e il terzo motivo verrebbe volentieri a mancare.

 

il quarto motivo è il commercio carnale a cui i poveri si danno nel goffo  tentativo di accalappiar qualche ricchezza. vendere il proprio o l’altrui corpo dovrebbe essere attività da perseguire duramente, ma così non è perché purtroppo vi è qualcuno anche tra i ricchi che compra ciò che non andrebbe mai venduto. qualcuno potrà dire che non tutti i poveri si donano alla prostituzione e quel qualcuno avrebbe sicuramente la ragione dalla sua. l’autore non intende negare che fra i poveri vi è chi non si prostituisce. assodato il fatto, tuttavia, non si può non constatare che la prostituzione è esclusiva facoltà dei non aventi. da ciò ne discende che con l’ammazzamento dei poveri il commercio carnale si estinguerebbe per la prima volta nella storia dell’umana specie.

 

il quinto motivo è che i poveri sono tarati eticamente. con quel deficit che hanno non c’è bisogno di diventar malvagi. lo sono di costituzione. nella malvagità congenita sviluppano un senso di colpa davvero originale che gli occupa la totalità della materia cerebrale. il senso di colpa non rivolto alla propria persona, sia beninteso, ma a quella altrui. la loro mente non si pervade come sarebbe sensato e giusto della coscienza della propria colpevolezza, ma della scriteriata sensazione della colpa altrui. sono davvero maniacalmente bravi a trovare la colpa di altri nella bugiarda presunzione di essere innocenti sempre. se sono povero il povero pensa la colpa non è mia. e non essendo sua il povero si trova qualche nemico da colpevolizzare tra la folla. la società, la chiesa, lo stato, il ricco, il vicino, non importa chi. il povero non pensa sia merito suo la sua povertà. il ricco invece è di gran lunga più intelligente. sa che non ha nessuna colpa per la sua condizione, non va cercando colpe a caso ma meriti circostanziati e per coerenza estrema ritiene giustamente che l’avere assai è esclusivo merito suo. i ricchi dunque sono per il giusto merito, i poveri invece non riconoscono la giustezza di questa fondamentale priorità dell’umana condizione. senza avere merito alcuno pensano di appropriarsi degli altrui averi, ma questo notoriamente è un furto che andrebbe sradicato.

 

l’invidia compare come sesto ma è tra i più validi motivi per ammazzare i poveri che giuro sono invidiosi di natura. sembrano servizievoli e fedeli, si strusciano sui ricchi come fossero gatti in calore, rispondono a bacchetta sissignore appena intravedono un abbiente disponibile a sganciare la moneta ma non è onesto quel che fanno. anche quando sembrano fedeli più del cane fido sono soltanto opportunisti pronti a tradire al primo segnale di profitto. l’invidia dell’altrui ricchezza gli scorre nel sangue che circola in ogni corporea parte della persona per cui da quell’invidia primigenia il povero sviluppa una natura invidiosa  di ogni cosa. l’invidia è il sentimento generale della povertà. i ricchi si sa non sono affatto invidiosi, perché dovrebbero provare invidia davvero non si capisce, per cui si può dedurre senza probabilità d’errare che una volta ammazzati i poveri anche l’invidia sarebbe definitivamente debellata.

 

il settimo motivo riguarda il sistema della pecunia. tutte le società sopportano con cadenze sempre più vicine crisi devastanti che scuotono l’umano agire mettendo a rischio davvero grande ogni colonna della società. eppure  la causa generale di ogni crisi non è un mistero per nessuno: sono loro i poveri senza dubbio alcuno l’origine del male. per chi, per pregiudizio veramente irriguardoso verso le scienze che studiano con meticolosa precisione come e perché l’economia va in crisi, conservasse un residuo dubbio l’autore consiglia un supplemento d’informazione. il dubbioso a quel punto non potrebbe disconoscere le ciclopiche risorse che sono dilapidate con l’obiettivo  di tenere i poveri in vita. inoltre, la ragione umanitaria esagera fornendo oltre il necessario per  la sopravvivenza anche i mezzi immeritati per condurre esitenza dignitosa a tutta la canaglia.

tra prigioni, scuole e ospedali, tra il circo e il pane, quel dubbioso così saprebbe quanto costano i poveri alla comunità che a un certo punto è naturale non ce la fa più a sopportare quell’immenso peso e crolla come la pera un tempo molto aggraziata e bella ma resa fragile in breve dal beccare di corvi e merli che in compagnia di mosche, formiche e altri insetti la bacano così tanto che al primo fievole vento si butta a terra dalla disperazione anche se non è poi così matura. senza l’ingiustificata poverofilia che porta le società a spese così vertiginose le crisi non scuoterebbero più il mondo. la poverofilia fa male al resto del creato, dunque se per ragioni umanitarie è duro abbandonare i poveri al loro colpevole destino, l’autore deduce che è meglio ammazzarli tutti così da estirpare all’origine la sorgente delle crisi.

 

l’ottavo valido motivo è di ordine demografico. i poveri sono come i conigli, più sono poveri e più fanno figli. nel tempo in cui la poverofilia non era così in voga il problema si risolveva spontaneamente. l’innata pulsione proletaria del poverume era bilanciata dalla provvida natura che decimava i frutti della povertà in eccesso. se ogni povero senza pensiero generava dieci e più figli in media ne restavano due a perpetuare con generazioni successive la vergogna. ma adesso la natura non è lasciata libera di fare il suo mestiere perché i poverofili l’hanno espropriata della sua facoltà massima, quella di selezionare il buono e di sopprimere il marcio. se come tutti dicono la natura va aiutata sarebbe logico e giusto sopprimere il marcio in vece sua che è impedita da circostanze veramente disgraziate. questa missione è avvalorata da un’altra considerazione. i poveri non è che fanno i figli e basta. non si contentano di riempire il mondo di problemi, pretendono anche che a mantenerli non siano loro che li hanno a casaccio generati  ma quelli, i ricchi dico, che stanno bene attenti a partorir la prole perché si sentono, è ovvio, responsabili di ogni loro azione. dunque, ammazzando i poveri come da programma l’equilibrio demografico sarebbe assicurato.

 

 

il nono motivo è davvero cruciale. in tutto il mondo esiste la questione criminale.  tra mafie di diverso colore e stile, tra bande di farabutti che studiano ogni modo per truffare, tra ladri bambini giovani e vecchi che ruberebbero pure la preghiera sopra l’altare, non c’è spazio della vita che non sia contaminato dalla furfanteria. l’insicurezza endemica fa molto male alla salute, con la canaglia in giro non è in stato precario solo la proprietà privata ma l’intera sfera della vita in ogni momento è resa insicura, vilipesa, minacciata.

in più c’è un crimine sottile che si dovrebbe evidenziare anche se quel crimine più fastidioso di tutte le mosche e le zanzare non è non si capisce per quale insana ragione trattato sempre come tale.

l’autore si riferisce alla questua e alla sua variante, il barbonaggio. vedere le città colme di parassiti che lasciano puzze, orine ed escrementi in ogni angolo,  che si attaccano alla coscienza della gente fin quando stufa di lamenti e piagnistei si scuce la moneta sudata con fatica è una pena quotidiana assai gravosa. vi è chi per compassione si sente d’elargire una moneta, un vestito usato o un sorriso a caro prezzo, ma non è questo il giusto piglio d’affrontare la questione. l’elemosina non è come lo sprovveduto crede un modo gentile di chiedere. è invece un furto con destrezza compassionevole. la questua e il barbonaggio sono altri modi di rubare.

eppure, niuno disconosce il grande utero che partorisce il crimine. ognun sa che il povero più onesto è un ladro patentato. di più. è un criminale nato. le scienze di diverso indirizzo e tipo hanno tentato di curare la situazione col farmaco, con la catena, con l’educazione. ma ogni sforzo è risultato vano. chi nasce criminale non si può emendare. l’unica soluzione è quella finale. solo ammazzando i poveri in un baleno del problema criminale non si avrebbe realtà e neanche memoria, aspetto quest’ultimo tutt’altro che da minimizzare perché quando il crimine appare la memoria diventa un male assai difficile da curare.

 

 

il decimo motivo è davvero intuitivo. i poveri non si sa per quale genetica ragione hanno la pulsione di muoversi in modo convulsivo. qualcuno va dicendo che amano migrare per questioni di guerra o di lavoro, ma non è vero niente. si muovono per pulsione innata come fanno le mosche o le zanzare. provate se volete a servirle di sostanze zuccherose e di sangue. zampettano giusto per riempirsi la pancia a sbafo approfittando delle scorte altrui, ma poi che fanno, se ne stanno forse fermi o continuano a mordicchiare a destra e a manca senza omettere di scacazzare? la risposta al facile quesito va da sé.  anche quando sono abboffate di reddito e di lavoro non perdono il gusto di fastidiare il prossimo per puro spirito persecutorio. come le mosche e le zanzare i poveri sciamano ovunque. la genetica ragione glielo impone. e dove vanno portano in dono tutti quei problemi trattati negli altri nove validi motivi. cercare di fermarli, respingerli, spedirli al mittente non serve proprio a niente. anche riempire le prigioni è un errore colossale. l’unico rimedio ormai lo sapete, dunque che ve lo dico a fare.

 

per ultimo occorre segnalare le perplessità di un caro amico il quale venuto a conoscenza dei qui presenti dieci validi motivi per ammazzare i poveri mi ha redarguito. dieci son troppo pochi. in verità lui dice i validi motivi sarebbero infiniti, infatti per quanto il caso nella storia sia stato a lungo studiato nessuno ha mai trovato un motivo davvero serio perché i poveri debbano rimanere in vita. il caro amico ha ragione, non lo si può negare, ma per difendere l’autore almeno parzialmente dall’accusa tocca segnalare che se avesse dovuto stilare anziché dieci tutti i validi motivi l’impresa iniziata con dedizione e cura non avrebbe conosciuto fine. perciò la scelta di limitarsi ai dieci che sono senz’altro validi non ha pretese che siano quelli gli unici motivi per ammazzare i poveri. d’altronde ciascuno può trovare i suoi, chi glielo impedisce, il menu dei validi motivi offre possibilità di scelta illimitate.

ciò che conta per davvero è che il presente scritto sia ultimo nel suo genere. il più famoso data quasi trecento anni or sono. ma swift, il grande maestro dell’umile autore, scrivendo la sua modesta proposta in due cose certamente si sbagliava. la prima è prevedere di ammazzare solo una parte dei bambini nati in povertà col che il problema si attenua certo ma non si risolve affatto. il secondo consiste nel trattare quei bambini da ammazzare come cibi prelibati la qual cosa non si può negare ma non corrisponde in pieno ai gusti alimentari dell’autore.

i dieci validi motivi invece dovrebbero godere di unanime consenso e di legittime aspirazioni a divenir prassi reale per l’umana specie nel sol dell’avvenire.

se nei prossimi secoli qualcuno contrariamente alle speranze dell’autore avrà l’ardire di affrontare la questione vorrà dire ahimé che anziché estinguersi per sempre i poveri non si sa per quale assurda ragione saranno stati almeno in parte risparmiati dall’essere ammazzati.

 

 

Voci della presenza. Rossana Abis

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Pubblico alcune poesie inedite tratte dalla raccolta Voci della presenza di Rossana Abis, accompagnate dalla nota introduttiva di Franca Mancinelli, uscita per la rivista Poesia, maggio 2017.

Non è facile sintonizzarsi sulle frequenze della poesia di Rossana Abis, così alte da creare attorno uno spazio di attesa perché la parola sprigioni tutta la potenza da cui è stata generata. Per questo ogni verso sorge sulla pagina come dilatato nel bianco, lasciando spazio al silenzio, «voce maestra che interviene», in un ritmo naturale e necessario quanto il respiro. Questi testi nascono da un’esperienza della poesia vissuta come istintivo esercizio di ascesi, pratica spirituale. Si nutrono di pensiero, di auscultazioni e veglie, di un meditare lucido e febbrile. Costantemente sporta oltre se stessa, Abis è alla ricerca di quei particolari stati in cui è possibile accogliere il ritmo interno delle cose ed entrare in vibrazione con esso. Allora giungono «le voci della presenza», la realtà è restituita al suo mistero, alla sua nascita incessante. In questo atto di fedeltà e di tensione verso l’origine, la poesia è ciò che è più prossimo a una lingua primordiale, che precede e sta oltre le parole, nel contatto con la vita stessa. È nostalgia di appartenenza a una totalità che può ancora affiorare «quando cediamo il passo / a ciò che realmente ci sostiene», quando lasciamo che la nostra individualità si dissolva per tornare a essere la «buona presenza onnisciente / dispersa e ritrovata in ogni luogo».
Il cammino percorso dai primi testi a questa silloge inedita è nell’aumentata capacità di abitare la materia della parola proprio mentre si misura con l’ineffabile e con l’invisibile. Rispetto alla sua precedente raccolta (La cifra del nulla, Zonza editori, Cagliari, 2007), la lingua ha preso pienamente corpo, un corpo che vive di percezione, e si fa evanescente tramite della visione. Per una poesia come questa che nasce da una condizione di spossessamento e di vacanza dell’io, accogliendo la fitta trama delle voci, il lavoro deve essere stato nel riconoscersi e fondarsi dentro una propria voce. Forse è anche per questo che sulla pagina arriva così scandita, in una dicitura nuda e concentrata sul singolo verso, come rispondendo a un’armonia nascosta nelle cose: «Si va a capo / attratti da un gesto / da una luce che appare / improvvisa / e scompare nella nebbia». Questo rapporto con un mistero che affiora dalla realtà ai suoi «occhi infallibili» attraverso un’attenzione potenziata, conferisce ai suoi versi la forza trasparente dei cristalli. Il dato biografico è fin dai primi testi polverizzato da un’ansia di oltranza e da una ricerca di verità che coinvolge le fondamenta dell’essere. Eppure il punto di partenza resta affidato al corpo, al «muto / approssimato / intraducibile / sentire», come tramite di conoscenza. In questa direzione sono maturati i testi di questa silloge, superando il rischio di una parola sospesa nell’astrazione che apparteneva a una parte del libro precedente, debitore di un’esperienza intellettuale sorta attorno alla faglia da cui scaturisce la propria esistenza (Placido Cherchi, nell’ampio saggio introduttivo, ne ha tracciato le coordinate nei termini di un pensiero sciamanico-gnositico e ha riconosciuto, con Julian Jaynes, la natura «bicamerale» di questa visione poetica). Eredi di quel legame magico tra la parola e la realtà che la sua terra, la Sardegna, vive nella tradizione dei Brebus, questi versi attingono a quell’ancestrale forza capace di trasformare noi stessi, di determinare le cose. La forma contratta e memorabile che assumono a volte i testi, può discendere da qui, come anche dalla tradizione degli Improptus, pratica di presenza viva che accoglie un bagliore e gli dà fiato.

Franca Mancinelli

Voci della presenza

Io cado ogni notte – e mi spoglia

e possiede la mia nudità.

Rivelazione della carne,

sacramento della notte,

svegliarsi è avere un'età,

cessare di appartenersi.


*** 


L’orologio segna un’ora

che non esiste più,

o forse un’ora ancora a venire.

Un istante raccolto e narrato

solo attraverso i gesti.

La vita è atto, l’oscuro tempo

del suo compiersi irrisolto.


*

Quando ero piccola le voci

cercarono inutilmente di iniziarmi

alla poesia.

Ora il tempo è trascorso

e io dipingo gli occhi

che non vedono,

riempio di fori le orecchie

che non sentono.


*


Riassetto stabile.

Ma per poco.

La tua fissità è a misura

D’un raggio moltiplicato

densità del movimento

la cui spinta decisiva

dipende dalla profondità

del centro.

*


Riassetto stabile.

Ma per poco.

La tua fissità è a misura

D’un raggio moltiplicato

densità del movimento

la cui spinta decisiva

dipende dalla profondità

del centro.


**** 


Se la cronologia dell’esistenza

avviene scorrendo

in duplice binario

tu sai che in controtempo

il tuo vero destino va cercato

come il gatto bambino

che in tondo si rincorre

mordendo nella coda

il suo avversario.




( amare le creature abolire le frontiere)

9

di Gian Piero Fiorillo

Se sono giovani e stanno bene ti danno fastidio perché li vedi palestrati

Se chiedono l’elemosina li disprezzi perché sono mendicanti

Se protestano per vedere riconosciuti i diritti sul lavoro ti indignano perché loro almeno un                                                                  lavoro ce l’hanno e tanti italiani no, e poi tre euro all’ora per noi sono pochi ma in                                                                     Africa sono molti e le famiglie africane diventano ricche a nostre spese

Se vivono nelle baracche puzzano che non hai idea

Se dormono sulle panchine sono senza decoro

Se sono magri e allampanati facevano meglio a starsene a casa

Se rubano sono criminali

Se vestono all’occidentale sembrano scimmie del circo

Se portano i loro vestiti sono sospetti

Se occupano uno stabile sono fuorilegge

Se abitano in dieci un appartamento dividendo le spese devono essere sfrattati perché                                                                            rovinano l’immobile e lo deprezzano e poi in questo modo salgono gli affitti anche per                                                              mio figlio che va in città a studiare

Se mettono su un negozio sono foraggiati dalle mafie

Se rischiano di annegare per salvare un bagnante o si arrampicano per le balconate di un                                                                       palazzo per afferrare un bambino appeso alla ringhiera, che ti dicevo sono palestrati

Se muoiono dopo aver salvato un bagnante italiano, due piccioni con una fava

Se sono laureati, perché c’hanno pure l’Università in Africa?

Se sono poveri io che ci posso fare

Se vengono coi gommoni portano terroristi

Se dormono alla stazione portano la scabbia

Se sono negri come fanno a essere italiani, dico io – Io

 

Io non sono razzista ma prima gli italiani

Io non sono razzista ma ognuno deve stare a casa sua

Io non sono razzista ma le armi i soldi per comprarsele ce l’hanno

Io non sono razzista ma diciamocelo i neri hanno un odore tutto particolare

Io non sono razzista ma si scopano le nostre donne a tutto c’è un limite

Io non sono razzista ma ridono!

e con quei denti bianchi che se penso quanto ho speso di dentista mi viene il nervoso

Io non sono razzista ma questi ci hanno il cazzo quanto un manganello

Io non sono razzista ma aiutiamoli a morire a casa loro

Io conosco tante brave persone negre ma mica mi fido ciecamente, eh no

Io quando salgono i rom mi sposto dall’altra parte dell’autobus e ci sto molto attenta

Io i rumeni e polacchi sai che ci farei, ci hanno tutti l’aiddiesse se va bene

Io quelli che si trascinano i bambini sulla metropolitana per farti venire il senso di colpa e                                                                              spillarti un euro li metterei in galera e butterei la chiave

Io buoni i mendicanti, stanno meglio di te e di me, te lo dico Io –

Io che non sono razzista ma la mia è la razza italiana – e chi favorisce lo straniero è razzista al   contrario

Io questi buonisti di merda perché non se li prendono in casa vitto e alloggio tutto a spese loro

Io trentacinque euro al giorno per trecentosessantacinque giorni consecutivi chi li ha mai visti

Io un albergo di lusso a spese dei contribuenti me lo sogno

Io ai terremotati italiani chi ci pensa nessuno

Io non ce l’ho con loro ma bisogna difendere la nazione

Io ero di sinistra ma la sinistra a me mi ha deluso

Io in questo mondo di merda siamo diventati che chi viene da fuori detta legge

Io questo ius soli ma che cazzo voldì

Io altro che previdenza, nero è il colore del loro lavoro se no che sarebbero negri a fare

Io gli farebbe la castrazione chimica preventiva

Io al caporalato ci darei una medaglia, li facessero schiattare uno per uno sarei contento – Io

 

Io che non sono razzista ma l’infermiere nero non voglio che mi tocca

Io che non sono razzista ma se fossero pochi pure pure

Io che non sono razzista ma questi qui ci invadono il suolo

Io che non sono razzista ma si moltiplicano come le mosche

Io che non sono razzista ma portano un sacco di malattie

Io che non sono razzista ma me lo dici perché le carceri sono piene di stranieri

Io che non sono razzista ma mi ribolle il sangue quando vedo che i neri godono e gli italiani esplodono

Io quelli di seconda generazione sono i più pericolosi

Io lo dico per loro, è una deportazione programmata per abbassare il costo del lavoro

Io se muoiono in massa mi dispiace ma sono proprio tanti, nemmeno se ne accorgono

Io anche quelli che muoiono purtroppo si rimpiazzano

Io flussi programmati, vengono lavorano e quando finisce il lavoro tutti a casa, marsch, che ci                                                                          restano a fare qui, a rubare spacciare e molestare le donne?

 

Invece io radical chic

Invece io buonista dei tuoi coglioni

Invece io veterocomunista

Invece io mezzo liberale e mezzo socialista

e mezzo anarchico

Invece io ateo

Invece io cristiano

Invece io buono samaritano

Invece io crociano hegeliano marxista sensista

Invece io che mi si accappona la pelle quando vedo  

Invece io che ho buttato la televisione perché non voglio nemmeno più saperle certe cose

Invece io che vivo nella disperazione di un paese suicida per rancore, dove un Marcel diventa                                                                  ogni villan che parteggiando viene

Invece io, i miei giorni felici da bambino Marco Polo e Giulio Verne

            Ulisse Enea viaggi sentimentali e donchisciotti dietro a Dulcinea

             Furore e Joshua Slocum

Invece io,

              lo sai che cosa penso mentre mangio alla mensa della Caritas?

           

                                                 io penso che gli umani hanno un solo dovere

                                                 adesso, non domani, abolire le frontiere

 

 

***

 

 

Su “Fábrica de la seda (Con-memorias)” di Miguel Ángel Curiel

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di Ida Grasso

Si ritorna in certi luoghi per ritrovare tracce del proprio passato, per scrivere, ritrascrivere la propria vita a partire dalla consapevolezza di quanto, perduto per sempre, può nostalgicamente rivivere solo in una rimembranza intima e segreta. Esistono poi altri luoghi, in cui magari non si è mai stati, luoghi che malgrado l’ineluttabile scorrere del tempo resistono per testimoniare l’ombra di quanto, accaduto una volta, permane sul presente. Qui si va in pellegrinaggio non per tessere il filo della propria archeologia sentimentale, ma per prendere parte simbolicamente ad un lutto più grande, dentro il tempo della Storia e degli uomini: qui, come spiega Didi-Huberman, si va per vedere oltre le ferite e i segni impressi nello spazio, tra le scorze che, nonostante tutto, restano.
L’antica Fabbrica della seta di Talavera de la Reina, comune spagnolo nella regione di Castiglia-La Mancia, potrebbe essere uno di questi luoghi. Tra le mura dell’edificio, che gli anni hanno trasformato in una scuola, alla metà del 1937, in pieno conflitto civile, furono deportati oltre cinquemila prigionieri repubblicani, più della metà dei quali morirono per malattia ed esecuzioni.
A questa dimora del tempo, in cui è sepolto il destino e dolore di un gran numero di uomini, Miguel Ángel Curiel, una tra le voci più rilevanti del panorama poetico ispanico contemporaneo, intitola il suo ultimo libro, che il lettore italiano può leggere nella splendida traduzione di Paola Laskaris, impegnata da anni ad affiancare la docenza universitaria con la pratica della traduzione e della divulgazione dell’attuale lirica spagnola.
Lugar símbolico, la Fabbrica della seta è, come osserva Paola Laskaris nel prologo al libro, «fábrica de palabras donde se fragua el recuerdo de las heridas del pasado, para poder cauterizar y finalmente exorcizar su dolor»: luogo attraversato dal racconto, in cui la scrittura si fa strumento di analisi e di riparazione.
Il lettore, chiamato a farsi testimone di questo racconto – Con-memorias si intitolano non a caso le pagine introduttive della curatrice del volume – è introdotto all’opera, costituita da due prose liriche, per mezzo di soglie progressive, segnalate, oltre che dal prologo, da un folgorante esergo da Primo Levi («Porque la angustia de cada uno es la nuestra»), e dalle raffigurazioni di Juan Carlos Mestre, che potenziano nella loro allucinata visionarietà la dimensione tragica e luttuosa che avvolge il libro. Al centro, Golpes de sol e Fábrica de la seda, due distinti brani poetici, che sembrano originarsi da un unico fluire lirico: bagliori di luce improvvisi (colpi di sole) riscattati al nero fondo della memoria.
Posto di fronte al dovere e all’urgenza della testimonianza («He querido escribir de esto antes que sobre otra cosa») il poeta non arretra ma sin dall’inizio esita («Nunca sabré como comenzar a escribir esto») ritenendosi incapace di trovare nelle risorse del mezzo lirico la distanza necessaria per una narrazione compiuta e straniata («No guardo odio y mi memoria se parece cada día más a la ceniza que al dolor»). In questa desolata ammissione d’impotenza non va letta una rinuncia o una sfiducia nei confronti del genere lirico, quanto piuttosto una critica ad certo tipo di poesia commemorativa, facile, che si alimenta di frasi fatte e di circostanza, riflesso a-problematico della pratica odierna (e sempre più massiva) di istituzionalizzazione di quelli che Violi chiama i siti del trauma. Paradossali «lugares de paz», puliti e ordinati in modo osceno e quasi provocatorio («¿Acaso no sean estos lugares de paz obscenos y demasiado limpios?»), gli spazi in cui si è consumato il dolore si trasformano in «lugares sin memoria», dove il passato resta racconto vuoto, indicibile, «espacio sin palabras».
Curiel riscatta il luogo della memoria dal processo di sacralizzazione, trasformandolo nel codice poetico in soglia simbolica di un racconto, che travalica la dimensione privata e si fa meditazione ampia e consapevole sulla necessità della testimonianza.
La Fabbrica della seta di Talavera de la Reina non è un canonico luogo di pellegrinaggio: il poeta ci arriva per caso, un giorno, mentre sta remando lungo il fiume, come faceva da bambino.
Il potere evocativo del luogo trascende subito la dimensione autobiografica e soggettiva e si proietta all’esterno, nello scenario naturale, che si anima di morte presenze e di perturbanti richiami. Non nel luogo, che resta chiuso, ma fuori di esso, dentro il paesaggio, nei confini concreti di quello che Zanzotto ha definito l’«universo percettivo totale», prende corpo la voce del poeta che tra «palabras rotas» e «hilos de seda» corre lungo la pagina per sfuggire le trappole della poesia monumentale. Dal buio (yo este poema lo escribo a oscuras) s’origina un racconto frastornato, smarrito, sussurrato «en voz baja», dove brandelli di luce e di memoria s’inseguono vorticosi e assediano il soggetto imprigionato in una «noche larga, con un sol azul desencajado». Il poeta, testimone di secondo grado, ritrova dentro di sé i racconti ascoltati in passato («sólo oí, y ahora debo ser testigo de lo que oí»), dove i nomi di chi formava i plotoni d’esecuzione («sus nombres de pila») si mischiano a quelli dei prigionieri, per riemergere in modo confuso («ahora mezclo esos nombres, son tan parecidos entre sí, y los rostros tan iguales»), mentre l’angosciosa prossimità tra vittime e carnefici è come amplificata nello scenario naturale, dove l’eterno ripetersi di un tempo ciclico sembra nascondere ma non cancellare le tracce di ciò che è stato.
La proiezione del luogo all’esterno non indica affatto un depotenziamento della sua carica memoriale; al contrario, non solo le mura della Fabbrica della seta parlano del suo recente passato, ma si sedimentano di altre memorie, di altre storie di deportazioni e di persecuzioni, intessute tra loro come fili inestricabili («hay otras historias hiladas aquí»): quella di un liceo di Rue de Rosiers a Parigi, in cui una mattina del 7 aprile 1943 più di trecento bambini ebrei furono costretti ad uscire per essere trascinati nell’abisso della morte; quella di uno studente francese di Architettura, che in fuga a Jaraíz de Vera, cade nella neve, è fatto prigioniero, e muore ammazzato di percosse da un gruppo di fascisti.
Dunque Curiel, «poeta de muchos lugares», per usare la felice espressione di Laskaris, non ci parla di un solo luogo e di una sola storia. La Fábrica de la seda è soltanto uno dei tanti, anonimi, sconosciuti posti in cui la Guerra ha cancellato le vite di tanti, anonimi, uomini senza volto e senza memoria. A costoro, a «los desaparecidos», va riconosciuta la dignità del ricordo, come sottolinea nell’epilogo che chiude il libro, Emilio Silva Barrera, Presidente dell’Asociación para la recuperación de la memoria histórica. A queste donne e questi uomini, che «dieron un ejemplo al mundo modernizando a un país y enfrentándose en armas contra el fascismo», il libro di Curiel è idealmente dedicato, insieme a tutti quelli che contribuiscono a perpetuarne il ricordo, a eternarne la memoria: «más que un poeta, necesitamos ahora testigos».

M. A. Curiel, Fábrica de la seda (Con-memorias), ilustraciones de J. C. Mestre, Epílogo de E. Silva Barrera, traducción al italiano y edición al cuidado de P. Laskaris, Madrid, El sastre de Apollinaire, 2017.

Parole e basalti

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di Romano A. Fiocchi

Ezio SinigagliaEclissi, Nutrimenti, 2016.

Ci sono libri che si legano reciprocamente attraverso un’immagine:

1) “Passarono alcuni minuti prima che qualcuno accorresse in aiuto dell’uomo che si era accasciato su un lato della poltrona”

2) “Lo trovarono così, aggrappato a se stesso come una roccia, qualche minuto dopo che la luce era tornata sul mondo, e che gli uccelli avevano ripreso a gracchiare e a cantare”.

Si tratta di due finali, la descrizione dell’avvenuta morte dei due rispettivi protagonisti. Il primo, memorabile perché ormai cristallizzato nella categoria dei classici. Il secondo, di pari bellezza, memorabile per quei pochi che hanno avuto la fortuna di leggerlo e di poterlo così associare al primo. Titoli e autori: Morte a Venezia di Thomas Mann ed Eclissi di Ezio Sinigaglia. Il Gustav Aschenbach di Thomas Mann muore così, contemplando la bellezza di Tadzio. L’Eugenio Akron di Sinigaglia, trovando la risposta alla domanda che lo assilla da cinquantun anni e due mesi.

Ma al di là di questa analogia, ad accostare i due testi è un insieme di fattori: la compostezza e l’eleganza stilistica, il fluire lento del ritmo narrativo, la solitudine interiore dei protagonisti, la lettura attenta e indagatrice dell’ambiente circostante, la capacità, infine, di creare un racconto dall’azione quasi nulla ma di straordinaria atmosfera.

Torniamo alla morte di Akron, immagine potente che da sola merita la lettura di tutto quanto la precede. L’architetto triestino Eugenio Akron muore nel buio, nel silenzio dell’eclissi, nella consapevolezza di farsi “un duro, muto, ottuso basalto”, di impietrirsi nell’attesa dell’ultimo istante. Nelle battute che precedono il momento finale la voce narrante inocula il sospetto che possa accadere qualcosa di improvviso, che Akron possa inciampare sul castello di poppa del peschereccio e cadere accidentalmente in mare, estinguendo finalmente l’antico rimorso in quel morire annegato come l’amico Beniamino. Invece Sinigaglia opta per una soluzione tutt’altro che eclatante: Akron se ne va seduto su uno sgabello, con una compostezza appena appena disturbata da “quel morso di belva nel petto”, si piega in avanti, si aggrappa a se stesso come una roccia, e si impietrisce nell’attesa del momento supremo quasi fosse una nuova eclissi – dopo aver colto la luce nell’oscurità dell’eclissi in corso.

A fare da contrasto alla staticità della scena è la figura di Mrs Clara Wilson, ottantenne ed eccentrica vedova americana, con le sue iridi d’erba che si riempiono di lacrime alla vista dell’immobilità innaturale di Akron. Mrs Wilson è un personaggio singolare, pedante e nel contempo poetico, e un inconsapevole deus ex machina in grado di dare una svolta al dramma interiore di Akron. Ma soprattutto è il personaggio che permette a Sinigaglia lo strano gioco linguistico del dialogo tra i due, con Akron che parla in inglese e Mrs Wilson che risponde in italiano. Un italiano anglicizzato, pretesto per giochi di parole e ironie di pronuncia. Gioco linguistico anche le battute in dialetto triestino che Akron scambia al telefono con il figlio, e quelle che tornano nei ricordi della sua amicizia con Beniamino, nei loro incontri sulle banchine del Porto Vecchio, nelle uscite in barca a vela, nell’osservare il cielo notturno sopra Trieste. Non sembra, ma queste incursioni in altri moduli linguistici alleggeriscono i dialoghi e li arricchiscono di immagini vivaci e di musicalità. C’è tutto il gusto di Sinigaglia per la parola, per il rapporto significante-significato, per le corrispondenze nascoste, come i diminutivi Ben e Eu (Beniamino e Eugenio) con cui i due amici rincorrono “attraverso la fausta parentela dei significati un arcano vincolo di sangue o un destino gemellare”. Infine il gusto per il suono della voce umana, da qualsiasi parte del mondo provenga.

Ma veniamo all’ambientazione. L’intera vicenda si svolge in una sconosciuta isola nordica, “latitudine sessantadue gradi dieci primi Nord, longitudine pochi gradi meno di zero”. Toponimi e nomi di monumenti possono essere danesi norvegesi svedesi (Mikkelkirke, Storbygd, Nykonnergily) ma non esistono. Eppure tutto è di una concretezza e di una solidità tridimensionali, come la descrizione del paesaggio:

“I basalti emersero nudi e crudi in tutta la loro bellezza. Visti da lontano apparivano lisci, come immensi animali di favola, più grandi e possenti del più gigantesco titano, che dormissero torpidi e sazi, con la pelle ben tesa, solo punteggiata di pori e solcata di rughe sottili, il muso puntato all’oceano, stirandosi inerti nel piacere inatteso del sole. Ora invece, venendo incontro alla prua a pochi metri dagli occhi, mettevano in mostra la trama variegata e complessa della loro primordiale tessitura: quella levigatezza apparente era fatta punto per punto di grumi, di nodi, di buchi, di dolci fossette che sembravano scavate da un dito e di cavità più profonde che aprivano squarci nella materia e rami di vuoto nel pieno”.

Già, i neri basalti. Sono il leitmotiv di tutto il libro. Non solo, sono metafora della scrittura di Sinigaglia. Anch’essa “levigatezza apparente” ma in realtà scrittura granitica, incisa nel nero basalto. Una scrittura dove forma e sostanza si fanno un’unica materia che non si può plasmare ma solo scolpire. Appunto come il basalto. Una scrittura elegante e carica di energia. Mi si consenta di parafrasare De Sanctis: la grande maniera di Sinigaglia.

E qui tocchiamo un tasto che lascia perplessi. Più sopra ho parlato di “quei pochi che hanno avuto la fortuna di leggerlo” perché Sinigaglia, forse per la sua riservatezza e il suo essere controcorrente, è autore misconosciuto. Il suo esordio letterario risale a oltre trent’anni fa con Il Pantarei, una sorta di metaromanzo sul romanzo del Novecento. Il testo, dopo aver collezionato decine e decine di rifiuti, uscì nel 1985 per una piccola casa editrice di Milano, SPS, poi Sapiens. Qualche apprezzamento, quindi più nulla. Sinigaglia ha continuato a scrivere e a svolgere varie attività nell’ambito editoriale e educativo senza più pubblicare un solo volume. L’uscita di Eclissi per l’autorevole editore Nutrimenti l’ha riportato alla ribalta, tant’è che Il Pantarei verrà ripubblicato da TerraRossa Edizioni nei primi mesi del 2019 (Nazione Indiana ne parla qui). Non so se servirà a rilanciare la figura di questo straordinario scrittore, ormai settantenne, ma so che tra gli scaffali della mia libreria il suo nuovo Pantarei ha già uno spazio riservato.

Gamba tesa: Lotta di classi (prima puntata)

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immagine di Beniamino Servino
ceci n’est pas (encore) un livre

 

 

 

Hip-Hop, Urrah

di

Francesco Forlani

C’è una lunga strada che attraversa la foresta che unisce e separa le due scuole in cui ho insegnato quest’anno. Per percorrerla tutta ci metti circa un quarto d’ora, precisamente sedici minuti e cinquanta a una velocità di cinquanta chilometri all’ora. Quanti chilometri è lunga la strada? Ma saperlo è davvero essenziale al nostro racconto? E se l’essenziale fosse altrove, ovvero nel fatto che una distanza separi le due scuole, una qualificata REP + e l’altra no. REP ( Réseaux d’Éducation Prioritaire) sono quegli istituti che secondo l’Education Nationale ( La Pubblica Istruzione, in Francia) sono confrontati a situazioni culturali e sociali particolarmente critiche e difficili al punto di richiedere la messa in opera di diversi dispositivi d’aiuto, economici e professionali, per tentare di combattere la diseguaglianza sociale con l’obiettivo di offrire anche ai ragazzi “svantaggiati” una pari opportunità di successo nella vita scolastica e a seguire professionale.

Io per un anno ho lavorato in una REP + dove il piccolo segnetto finale stava ad indicare in realtà un meno, ancor più meno fortuna dei REP semplice, controbilanciato da un più di mezzi a disposizione della direzione e del corpo docente.

Tutto questo vorrei diventasse un racconto che in realtà sto già scrivendo in francese e che vuole descrivere attraverso questa metafora della foresta, una fase della vita, l’adolescenza, che nelle scuole medie incarna la grande incognita dell’unica vera lotta delle classi che abbia una qualche importanza ai nostri giorni, una lotta che nella migliore delle ipotesi tutti vorremmo che finisse con un bel pareggio, égalité appunto delle opportunità e della libertà di scegliere davvero cosa fare della vita. Mai come ora ho vissuto sulla mia pelle – in realtà sulla pelle spesso nera dei miei studenti –  cosa volesse mai significare una frase sentita per anni, quella frase d’eco nietzschiana che più o meno invocava di fare “della necessità e del caso della vita l’esercizio della volontà e della libertà del destino”.

Questa premessa mi è servita per  tentarmi di spiegare  perché quando chi dal centro si avventura nelle periferie caschi nella maggior parte dei casi nella trappola mortale della tristesse dei luoghi, conferendo al proprio racconto una ulteriore tristezza dello sguardo, che per lo più e ai più rende ancora più insopportabile quella realtà.

Il caso ha voluto, poche settimane fa che due narrazioni completamente agli antipodi di uno stesso luogo si presentassero alla mia attenzione e  come lo scontro delle due – lotte di classe anch’esse – mi facessero capire che cosa mi accadeva quotidianamente, quando da una scuola all’altra, dall’al di qua all’al di là della foresta, passavo da un paesaggio all’altro della mia personale éducation nationale.

Quando Giuseppe Schillaci, cineasta, scrittore, nonché amico e redattore di Nazione Indiana mi aveva mostrato l’anteprima di alcuni videoclip girati dai nuovi migranti, materiali per un suo documentario per il canale franco tedesco ARTE,  avevo pochi giorni prima visionato sul sito di Repubblica Lo speciale, Prof in trincea: viaggio nelle scuole di frontiera. Il caso, sempre lui, ha fatto che dello speciale vedessi proprio la puntata sicula che è possibile seguire qui.

Partiamo allora da questa prima parte ma per arrivare da quell’altra, cominciamo da Caporetto peró magari con la testa già oltre il Piave. Quello che mi ha colpito di più nel materiale di presentazione del documentario su Arte era questo passaggio: « J’ai déjà joué pour des gens qui étaient arrivés depuis trois jours et qui trouvaient la force, après tout ce qu’ils ont vécu, de danser, de chanter et d’être heureux ! » ( Mi è già capitato di suonare per gente  sbarcata da tre giorni e che  trovava la forza, dopo tutto quello che aveva vissuto, di ballare, cantare, essere felice.) Quando ho visto alcune delle puntate dedicate alla questione dei REP italiani, ovvero di quelle scuole, soprattutto di primo grado, sorte nei quartieri periferici più a rischio, la prima cosa che mi ha colpito è stato il contrasto netto tra la vivacità dei ragazzi ripresi, per lo più non in chiaro, dalle telecamere e le espressioni disfatte, sconfitte, anche se non completamente, degli insegnanti. Prima di esporre allora la mia teoria devo dire che quella faccia la conosco, e conosco e ammiro l’impegno di chi lavora in questa realtà che il resto del mondo vorrebbe dimenticare per sempre.

Dal REP al RAP

La mia riflessione a questo punto riguarda il tono che la sinistra, l’ideologia detta di sinistra o quel che resta, utilizza per la narrazione del sociale.

(continua)

 

 

 

 

 

Luigi Luca Cavalli Sforza

3

di Telmo Pievani
(è scomparso il 31 agosto scorso Luigi Luca Cavalli-Sforza, grande scienziato e grande uomo per il quale nutro una grandissima stima, per averlo sentito raccontare le sue idee e per aver letto molti dei suoi scritti. Ho chiesto a Telmo Pievani, ordinario di filosofia della biologia all’Università di Padova e collaboratore e amico suo, di scrivere per Nazione Indiana un post che ricordi un così importante maestro. A.S.)

Un maestro lo vedi dalla libertà e dalla curiosità. Di lui ricordo un insegnamento cruciale: quando intravedi un tema di ricerca promettente in cui ancora nessuno si è cimentato – diceva – quella è la direzione in cui puntare senza remore. Io ci ho provato con la mia filosofia della biologia, e mi è andata bene. Lo devo anche a quel consiglio, benché Luca Cavalli Sforza fosse molto sospettoso sul ruolo e sull’utilità della filosofia. Lo rassicuravo dicendogli che nella mia di filosofia c’era ben poca metafisica, ma non bastava. Provavo a cavarmela dicendogli che nella sua opera di ricercatore c’era un sacco di ottima filosofia della scienza, da lavorarci per anni. Ed ecco che allora tornava per un attimo quel suo sorriso intriso di curiosità e di sempre nuove domande di ricerca.

Mrogn

1

di Federico Federici

(dintorni: topografie, corsivo)

Rimandata la partenza.
Senza indizi. Senza inizio
i dirupi, l’abitato, il campo.
Per segnarlo o cancellarlo
sulla carta ogni luogo è
un altro, ogni casa tronco.

Siamo già nel bosco?

***

(la casa cantoniera)

Pochi passi al muro
ben piantato in terra.
Ha pulito la radura l’ascia,
corre a filo d’erba il vento.

Non si penetra nell’ombra.
Entra in noi l’ombra del bosco.

***

(presso una casella sul pendio)

La radice sotto i piedi
penetra nel mondo.

Sembra quasi che sia
lì tra i sassi il passo,
i passi dove siamo
già passati.

***

(altri rilievi, non prove)

Che parola mise sulle tracce,
o che parole erano le tracce?
Chi parlò,
senza coprirsi di silenzio?
Le radici, i fili, i rami,
dure dita di insepolti,
non trattengono le frane.
Non ha ossa il bosco.
Non c’è luogo nel paesaggio,
strada o varco: solo buchi
nella polvere dei gechi,
solo fischi dietro ortiche
e sterpi: aria o serpi?
Ogni tanto a una spari,
per vedere se sia viva
o ha forma, se esca fuoco
o sangue. Mentre salta
ancora da quel colpo colta
in testa, pensi: siamo tutti
serpi?

***

(secondo testimone: un veterinario)

«L’altra cosa aspetta
noi che la cerchiamo
dove fa la tana, vera
o falsa, forse cieca
all’ombra che la copre,
al passo che la sfiora
inerme, si compatta
alle radici, ferma
il cuore, fa una crepa,
asciuga la saliva in terra.»

Testi tratti da Federico Federici, Mrogn (Zona, 2017)

Eroi del nostro tempo

2

di Giorgio Mascitelli

Ho sempre pensato che l’unica vera lettura generazionale di quanti facevano le superiori negli anni ottanta siano stati i fumetti di Andrea Pazienza. Non so se tale impressione sia fondata o, come talvolta accade, frutto di uno sguardo falsato, di nicchia, ma per me era chiaro fin da ragazzo che quelle storie parlavano del mio tempo. Ciò vale in particolare per le storie di Zanardi, anche se questo personaggio in un senso rigorosamente sociologico non è certo un prodotto realistico ( un malavitoso di estrazione borghese, di giovane età, eppure, già consumato in tutte le astuzie e le crudeltà di un criminale incallito che  però si muove in un ambiente studentesco), d’altra parte sicuramente realistica è l’ambientazione. Era però proprio il personaggio di Zanardi a sembrarmi intensamente contemporaneo, tant’è vero che era l’unico fumetto che allora annoverassi tra le mie letture importanti.

Il fascino di Zanardi stava nella sua sicurezza esistenziale, nella sua spregiudicatezza e nel suo saper vivere, che facevano passare in secondo piano non solo gli orribili ricatti e i commerci che intesseva, ma anche il suo sostanziale nichilismo che si giustificava con il perbenismo e l’ipocrisia delle società intorno e talvolta delle sue vittime. Per esempio nella boccaccesca Cuore di mamma ( boccacesca non solo per la tematica del ricatto erotico, ma anche per la crudeltà dissimulata sotto le apparenze della beffa da un understatement del narratore) la madre giustifica il piacere provato nell’amplesso estorto con il ricatto di pubblicare fotografie osé della figlia da Zanardi e dai suoi inseparabili compagni Colasanti e Petrilli con il sacrificio per difendere il buon nome della ragazza, in questo modo, però, narrativamente giustifica l’azione di Zanardi e sodali con il proprio perbenismo.

Se mi fosse stato chiesto allora cosa aveva di profondamente contemporaneo, di così legato alla società italiana degli anni ottanta questo personaggio, è probabile che avrei risposto, come molti,  la ricerca del piacere e la noia come moventi unici delle sue azioni, in altre parole l’assenza di valori. Eppure se guardiamo alla letteratura non mancano certo personaggi cinici e annoiati, ma non privi di un loro fascino negativo, e l’elenco non comprenderebbe solo figure recenti o contemporanee. Anzi forse il più vicino di tutti a Zanardi è Grigorij Pečorin, il protagonista del romanzo russo intitolato non a caso Un eroe del nostro tempo di Lermontov, la cui data di pubblicazione è il 1839. Anche in Pečorin domina lo stesso impasto di cinismo e di azioni negative, naturalmente in chiave russa e romantica, ma il suo è un nichilismo assolutamente affascinante come quello di Zanardi. Non credo peraltro che Lermontov abbia influenzato Pazienza e allora può essere interessante chiedersi come mai esistono due eroi dei nostri tempi dai tratti così simili e collocati in tempi così diversi.

Una prima risposta quasi banale sta nell’età dei due personaggi, che sono giovani. I giovani visti come portatori di una specificità umana e culturale a suo modo annunciante un futuro diverso sono uno dei frutti della rivoluzione wertheriana e roussoniana, che in vari modi introduceva nell’immaginario culturale quella del giovane come figura specifica e distinta dall’adulto e dal bambino. In qualche modo possiamo qui vedere in questa convergenza di due figure così diverse i tempi lunghi della cultura al di sotto dei cambiamenti storici più visibili.

Questi personaggi sono certo antiwertheriani nella misura in cui rifiutano la sensibilità e la tensione al giusto del loro implicito antimodello, ma allo stesso tempo ne mantengono un carattere fondante che è quello della ribellione alle convenzioni sociali. Naturalmente la loro non è una ribellione programmatica, ma è piuttosto una conseguenza del loro nichilismo ( si è visto come in Zanardi le sue malefatte risultino una cartina tornasole dell’ipocrisia della società e qualcosa di questo genere si può riscontrare anche in Pečorin senza esagerare troppo con i parallelismi), che tuttavia assume una posizione centrale nella loro rappresentazione di fronte al lettore. Questo ribellismo nichilista ha però anche una funzione abbagliante in quanto mette nell’ombra un’altra caratteristica saliente: infondo le qualità, la spregiudicatezza, la decisione nell’azione, la spietatezza e l’astuzia, che Zanardi e Pečorin spendono nelle loro attività antisociali potrebbero essere riconvertite e usate in forme più accettabili e meno criminali per fare carriera. Per intenderci, il sognatore Penthotal autocritico e in fuga da sé e dal mondo non sarebbe mai assimilabile alle logiche di potere come il suo successore Zanardi.

E’ essenziale però che questi personaggi non si mettano mai al servizio del potere vigente, perché altrimenti perderebbero il loro fascino di antimodelli ( non a caso Schnitzler, quando vuole distruggere Casanova, lo fa diventare un informatore della polizia veneziana),  ma che le loro azioni abbiano tratti comuni con quelle del potere conferisce a questi eroi un aspetto che sembra essere fortemente realistico, anche se in realtà nasconde una forma di idealizzazione. E’ l’invulnerabilità unita alla spregiudicatezza l’elemento idealizzato che si cela dietro al fatto che questi personaggi sembrano parlare la stessa grammatica del potere: la loro invulnerabilità di eroi conserva qualcosa dell’impunità degli uomini di potere. Questa è però anche l’altra ragione per cui essi ci appaiono sempre contemporanei: benché ciò che chiamiamo potere muti di epoca in epoca profondamente, alcune sue dinamiche relazionali restano uguali nel tempo e su questo crinale giocano la loro partita Zanardi, Pečorin e gli altri. La loro contemporaneità sta dunque nel loro nichilismo che richiama alla mente e adombra quello veramente invulnerabile e onnipresente del potere.

Il nichilismo è una possibilità logica, infatti, che si dà ogni volta che non si percepiscono prospettive e dunque è contemporaneo se non a tutte, a molte epoche.   In particolare tipico dell’età giovanile, ma non esclusivo, è quello eroico dell’individuo contro il mondo,  perché la giovinezza è il tempo in cui si ha molto da guardare avanti con un sentimento di sfida e paura; esso differisce profondamente da quello cinico di chi magari a vent’anni gridava ‘no future’ e dopo ha percepito la prospettiva di una poltrona o di altri benefit, imparando nel frattempo le leggi della convenienza. Il nichilismo di Zanardi e Pečorin pertanto si pone come intermedio tra i due perché rinuncia all’impeto ideale e autolesionistico in nome della sopravvivenza e di un certo calcolo, si pone cioè vicino alla vita che di per sé spontaneamente è nichilista.

Zanardi in particolare, però, in questo modo diventa una sorta di parafulmine che riceve su di sé il male di questo nichilismo della vita, consentendo al lettore di esserne risparmiato. Alla fine di Verde matematico al professore che gli ricorda che il destino di ciascuno può essere limitato soltanto da un impegno positivo dell’uomo Zanardi risponde con ‘Se il destino avesse una sua logica consequenziale in questo momento dovrebbero bussare alla porta, entrare due carabinieri e portarmi via’ ( ma naturalmente non succederà): in questo modo Zanardi prende su di sé questo male e ci consente di vivere una vita dotata di senso seguendo le opinioni del professore.

Interviste impossibili: Luigi Vanvitelli

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L’Intervista
[Antonio Buonocore fa le domande/SERVéN risponde con gli abiti di Luigi Vanvitelli]

Luigi Vanvitelli, nato Lodewijk van Wittel (Napoli, 12 maggio 1700 – Caserta, 1 marzo 1773)

Lei ha iniziato come pittore e poi è diventato architetto. La pittura ha avuto un’influenza nella sua professione?

Io ho iniziato come pittore perché mio padre faceva il pittore, e io, che non sapevo che cazzo fare, ho incominciato a fare il pittore pure io. Ma pittavo pittavo, senza passione, senza sangue. E mio padre allora mi ha detto: uagliò, vedi di trovarti un’altra arte chè come pittore non vali quattro soldi…
[ Delle volte la crudeltà dei genitori è necessaria. Ma lo capisci solo molto tempo dopo. All’epoca l’ho odiato odiato odiato…]

Nel 1750 il re di Napoli Carlo di Borbone le richiese il progetto di una nuova reggia che aveva pensato nella zona di Caserta, facilmente raggiungibile dalla capitale, ma separata da essa, come lo era Versailles da Parigi. Innanzitutto come fu l’incontro?
Come fu il rapporto con il suo committente durante la costruzione?

Allora, io prima di venire a Caserta stavo a Roma, alla corte di Benedetto XIV e facevo per lui dei lavoretti, ero sempre là, in giro. Al Papa però forse non andavo troppo a genio, non saprei dirti perché, non ci sono state mai esternazioni eclatanti, ma avevo come la sensazione, è vero!, che non mi sopportasse molto. Poi ci fu la situazione della cupola. Sai bene che la cupola del maestro Michelangelo aveva qualche problemino di stabilità. E io feci la mia proposta di consolidamento. Lui, il Papa, aveva già chiamato uno di Venezia, un certo ingegnere Giovanni Poleni che aveva fatto, è vero!, un progetto di consolidamento. Sai come sono gli ingegneri, aveva fatto una cosa molto sobria, manco si vedeva. Io invece avevo fatto un cazzo di progetto, impottante. Poi ho saputo, è vero!, che il Papa si era lamentato con il veneziano, diceva a lui che se mi avesse lasciato fare non si sarebbe più vista la cupola tanto erano massicci i muri che avevo pogettato per sostenerla. Ma erano solo dicerie… è vero!
Intanto però lui, sempre il Papa, chiese al suo amico Carlo di Borbone se mi prendeva. E Carlo per tenerselo buono, al Papa, mi mandò a chiamare.
A Napoli eravamo in tre, io il re e Ferdinando. Ferdinando Fuga. Ferdinando e il re erano molto intimi, affiatati, complici. A me non mi pensavano proprio.

[ Ferdinando si atteggiava: lui faceva le O O O P E R E S O C I A A A L I: l’albergo dei poveri, i granili, le 366 fosse… quel comunista! Intanto a Napoli piazza Vanvitelli è ‘na piazza grandiosa; piazza Fuga? una piazzetta!A Caserta poi, non ne parliamo proprio, via Fuga è una viarella sperduta…, quella, poi, la Madonna è giusta!]

Allora io mi lamentai con il Papa,
è vero! Il Papa chiamò il re, il re chiamò a ‘mme e mi disse: mò lo sai che facciamo caro vanvitello [ così mi chiamava, vanvitello! ]? Ci andiamo a fare una bella scampagnata a Caserta… e tutto ebbe inizio.

Oggi il complesso della reggia è visitato da un milione di turisti all’anno, ospita mostre d’arte e è sede della sovrintendenza e di alcune sezioni di uffici dell’esercito. Come crede che debbano essere utilizzati oggi i monumenti?

Oggi la reggia è troppo aperta. Tutta quella gente. I neri, gli ambulanti, gente che gioca a pallone, carrozzelle [ con quegli animali che urlano…]
Ma su! Un po’ di rispetto!

Scusi se mi permetto, ma a me personalmente piace l’immagine del palazzo da via Mazzini guardando verso via Mazzocchi, posto in cui se ne coglie uno scorcio, tra le case. Mi ha un po’ stancato l’immagine monumentale del fronte principale. Quali sono i punti forti della reggia?

Gli scorci? Ma gli scorci sono cose comuniste. La Reggia, il Palazzo, il mio Palazzo va visto da punti ben precisi, ordinati. Anzi, io avevo fatto un disegno di una città intera intorno al Palazzo. Ma, sai com’è, è vero!, il padreterno mi ha chiamato a sé e… addio!
Altro che scorci…!

Contestualmente alla reggia lei progettò l’acquedotto carolino: di particolare pregio architettonico, dal 1997 patrimonio mondiale dell’UNESCO. E’ il ponte che, attraversando la Valle di Maddaloni, congiunge il monte Logano (ad est) con il monte Garzano (ad ovest). All’epoca fu il ponte più lungo d’Europa.
Lo sa però che ora l’area circostante il ponte e il ponte stesso versano in condizioni di degrado e di abbandono, e spesso ospitano piccole discariche abusive?

Io, quasi duemila anni dopo i romani, ho fatto un acquedotto a un certo livello. Grandioso, come il Palazzo. Però, pure per i ponti della valle ci fu qualcuno che ebbe da ridire. Gli ingegneri…! Dicevano che non conoscevo l’idraulica…, che gli acquedotti non erano più necessari… Ma chi se ne fotte! Vuoi mettere tutti quegli archi! Impottante! È vero!



Si dice che, al momento dell’inaugurazione, l’acqua tardava ad arrivare alla fine della condotta nei pressi della reggia… è vero questo episodio? In quel caso lei tirò un sospiro di sollievo, ma quali sono stati gli errori più grossi della sua carriera?

Gli ingegneri, mi volevano sabotare, è vero! Quei invidiosi, ma la madonna è giusta!

La stazione di Caserta è stata inaugurata il 20 dicembre 1843 e si trova proprio di fronte alla reggia, sullo stesso asse che virtualmente la collegava a Napoli. Le piace questa posizione?

Vuoi sapere chi ha progettato la stazione di Caserta? Indovina! Poi dicono che esagero, ma sono sempre loro…! Gli ingegneri.

Alla sua morte suo figlio Carlo ha proseguito la direzione dei lavori per la reggia. Lei quanto ha contato per la formazione di Carlo? Cosa ne pensa dei figli che proseguono il lavoro dei padri?

Carlino ha incominciato a fare l’architetto perché io facevo l’architetto, e lui, che non sapeva che cazzo fare, ha detto mò faccio l’architetto pure io. E io, a differenza di mio padre, ho agevolato la sua scelta. Io faccio parte della nuova generazione di padri. Non duri, ma affettuosi. Quello vuole fare l’architetto?, fai l’architetto a papà!

Tra i suoi incarichi c’è stato quello di riprogettare Santa Maria degli Angeli e dei Martiri, una basilica romana che si trova in piazza della Repubblica a Roma in cui aveva operato nientedimeno che Michelangelo. Come si è rapportato con l’opera di questo grande maestro?

Michelangelo? Un’altra volta?! Lasciamo stare, già con la cupola…

I suoi edifici oggi sono tutelati e nessuna sovrintendenza si sognerebbe di modificare le fabbriche da lei realizzate. Ma se ci fosse la possibilità, come suggerirebbe di trasformare per usi contemporanei le sue opere?

Trasformare? Ma si pazzo! Quelle già non le hanno completate come io le avevo progettate. Conservate, devono essere conservate così come sono! Menomale che ci sono i sovraintendenti…! Se fosse per voi!
[Scusa, ma fossi comunista anche tu?]

Dopo la dipartita di Carlo di Borbone per la successione al trono di Spagna, re di Napoli divenne Ferdinando IV che per la sua giovane età non era in grado di prendere decisioni, quindi il potere passò a Bernardo Tanucci, presidente del consiglio di reggenza del regno. Dalla sua biografia si evince il difficile rapporto con Tanucci, il quale le preferiva l’architetto Ferdinando Fuga, toscano come lui. Lei come giudica l’opera di Ferdinando Fuga?

Aeeeh! Ancora quel comunista! Ma tu hai capito cosa dicevano all’epoca? Che io mi facevo spiegare le cose da lui… solo perché una volta mi feci dare un consiglio. Io stavo facendo la villa Campolieto a Ercolano. Lui stava lì vicino, stava facendo la villa Favorita. Lui veniva a sbirciare. Una volta l’ho fatto entrare e gli ho chiesto un consiglio su come attaccare un colonnato alla palazzina… ma come si atteggiava…!

Tornando alla reggia, abbiamo raccolto alcune opinioni discordanti sulle sue opere di alcuni architetti contemporanei casertani. Lei cosa risponde a chi pensa che la reggia e lo stile borbonico abbiano inquinato irrimediabilmente il nostro territorio?

Quella se non c’era la reggia, Caserta manco la mettevano sulle cartine geografiche, è vero…!

1217 stanze e 1898 finestre. Ha mai proposto al suo committente di fare la reggia un po’ più piccola?

Più piccola? Uagliò, ma allora tu veramente sei un comunista! Quella è così bella, impottante!

OCCUPAZIONE POPOLARE DEI MONUMENTI, Beniamino Servino

La tragedia del ponte Morandi

3

di Guido Caserza

LA TRAGEDIA DEL PONTE MORANDI

 

Dio Basko sta lassù meraviglioso,
a pochi passi dalla morte immoto:
il buon dio delle merci conosceva
l’istante e il luogo,
con la pioggia e il tuono:
allora Basko chiamò a sé i suoi buri
e “Spalancate le bocche” a noi disse,
“quest’oggi è il gran saldo di ferragosto”,
coi teschi e i meloni
l’Italia arrosto.
Per un istante sopra il vuoto sotto
il nulla Basko mostrò merci morte
alla fine del viaggio: fu l’orrore
dell’uomo nudo con sé stesso, spenti
la cassa e il tornaconto,
l’uomo nudo con le sue tasche, spenti
gli uomini e il rendiconto,
la cassa nuda con i suoi chiodi: ma ora,
chiuse le bare tra i fischi e gli applausi,
cantato il RIP,
torniam burini a te supplici, o Basko:
orsù, riprendi il moto,
mentre a saldo di offerte 2 x 1
ci recherai la morte ad 1 ad 1.

 

 

 

 

Da L’inganno della rosa (di prossima pubblicazione per la casa editrice Dei Merangoli)

 

 

Le tue calze potrebbero anche

donarmi. Non dire, no no, che io

sia folle, imitare una donna, sai, è arte

dell’amore: a te assomiglia quell’arte.

Che io sia folle

solo perché vado con le parole? Ebbene,

ovunque vado vado per

tam

burellare di te, anche il tuo

battito mi dona, oh sì, quanto mi dona:

bat ti to del tuo cuore, batti batti

tam

burello. Contempla

le mie calze, mio bel donnino,

belle calze di donna, bel

cuoricino a tamburello e piedi di poeta:

al monte di pietà ho lasciato l’elisir di baci,

ora me ne vado coi

tuoi piedini inguainati, sempre in cam

mino sempre in cam

mino e, mamma, quanta strada per

dirti t’amo.

Ma ciancia ciancia che ti passa

mio bel poeta: da seduto è assodato, non

diresti più che l’ami,

e un salice di versi

pianteresti a piangere, cretino,

per non aver capito

da seduto l’amore.

 

Ballata

1

George Oppen

 

Astrolabi e glossari
Un tempo nelle magioni –

Un povero pescatore di aragoste

Incontrato per caso
Sull’isola di Swan

Dov’era nato
Vedemmo la vecchia fattoria

Stagliarsi sulla cima della collina
Su quell’isola
Dove passa il traghetto

Un povero pescatore di aragoste

I denti anneriti

Ci portò per l’isola
Su di una vecchia macchina

L’ermeneutica poetica e i suoi limiti

11

di Daniele Barbieri

Non è vero che i cosiddetti contenuti non hanno alcun valore in poesia. Ma l’errore opposto a questo è peggiore e molto più diffuso. Nelle nostre scuole si studia il Pessimismo Leopardiano e pure quello di Eugenio Montale. Nei testi critici i poeti vengono presentati come filosofi (minori) che si esprimono in versi. Tutto il discorso critico si concentra su quello che nei loro versi viene detto.

Come se fossero versetti biblici da cui è necessario ricavare ermeneuticamente (così come ci insegnò a fare Origene nel Terzo Secolo) delle profonde verità nascoste, i versi dei poeti diventano profetici e ieratici: la sensualità della vita in D’Annunzio, le piccole cose quotidiane dei Crepuscolari, la follia di Dino Campana, il senso tragico della vita in Montale, i rapporti familiari in Saba, la tradizione gitana in García Lorca, lo svuotamento del senso della vita in Eliot, l’esaurimento storico in Sanguineti… Questo è – quando va bene – ciò che si deve ricordare dei poeti.

Proprio perché si tratta di grandi poeti, ciascuno di loro ha provocato in noi, prima o poi, almeno un fremito, e lo abbiamo amato per questo. Questo, io credo, è ciò che la poesia dovrebbe fare: provocare fremiti. Non si tratta di orgasmi da quattro soldi; la poesia non è eroina. Quando la poesia ci procura un fremito è perché ha smosso qualcosa di profondo; ha spostato delle pietre assestate sul fondo della nostra coscienza, pietre di cui talvolta nemmeno ricordavamo l’esistenza. Ma non è affatto detto che queste pietre concettuali che vengono smosse abbiano qualche campo in comune con ciò di cui la poesia parla.

Più volte mi sono ritrovato a pensare che amo Leopardi nonostante il suo pulcioso pessimismo, che adoro Montale nonostante la sua retorica del male di vivere (e quella, proprio quella, resta una delle sue poesie più belle, a dispetto del fatto che ne faccia il suo tema esplicito), che imparo a memoria García Lorca benché sia perfettamente consapevole che senza le sue poesie non avrei gran interesse per i gitani andalusi. Poi mi rendo conto che sto andando troppo in là, e che senza pulcioso pessimismo, retorico male di vivere e senza gitani andalusi, non avrei né Leopardi, né Montale, né García Lorca.

D’altra parte, nemmeno se non avessero respirato, mangiato e complessivamente vissuto, avrei i miei poeti. Ma questo non autorizza la critica a trovare il senso della loro opera nel modo in cui essi hanno vissuto (in verità certa critica a volte lo fa, ahinoi!), mangiato e respirato. Il problema della parola (a differenza della musica o della pittura astratta) è che per parlare sembra proprio che si debba parlare di qualcosa. E siccome normalmente quando si parla di qualcosa è per dirne qualcosa, ecco che pure la poesia viene trattata nello stesso modo: spiegata per quello che dice di quello di cui parla. È una soluzione facile ed efficace: una volta stabilito questo, potremo interpretare nel medesimo senso anche tutte le scelte che non riguardano i cosiddetti contenuti. Si tratterà di scelte formali finalizzate a una migliore espressione, a una più efficace, più memorabile espressione.

Si tratta la poesia come se fosse propaganda su un certo tema, insomma, magari libera propaganda (non asservita a un padrone o a un partito) ma pur sempre tale. Eppure, esistono modi migliori e decisamente più efficaci di fare propaganda (anche quella buona, libera, apprezzabile), che magari possono sfruttare espedienti sviluppati proprio in campo poetico. E certamente ci sono poeti in cui qua e là, la poesia sfuma verso la (buona) propaganda, ed è difficile dire dove sia il confine.

Ma non è per il suo eventuale fare propaganda che la poesia può diventare memorabile, e non è nemmeno per quello che la poesia esiste. Non so quanto sia chiaro che questa visione (anche troppo diffusa) della poesia è figlia del pregiudizio secondo cui la poesia è il prodotto di un soggetto che si esprime nei confronti del mondo, ed esprimendosi trasmette il proprio pensiero (ricco di tutte le sensazioni, emozioni ecc. che lo accompagnano). Si tratta di un pregiudizio che ha trovato nel Romanticismo la sua forma più compiuta, ma che serpeggia nell’Occidente greco e poi cristiano almeno da quando Platone ha inventato l’idea di anima.

Proviamo a leggere un testo poetico dimenticando che ha un autore. Quando ascoltiamo musica, mica la ascoltiamo come se fosse un discorso che il compositore ci sta facendo. Anche se un po’, da Haydn in poi, lo facciamo (e ci insegnano a farlo), la gran parte della nostra attenzione sta comunque nell’andamento della musica e nelle variazioni che vi si succedono, e in ciò che quell’andamento sta producendo in noi che, nell’ascolto, vi ci accordiamo. E questo accade persino quando ascoltiamo Boulez, o Grisey, o Francesconi.

In musica, i compositori parlano dei cosiddetti materiali. Si tratta di un termine generico, cui è difficile dare un contenuto preciso: potrà trattarsi di motivi, di semplici sonorità, di gruppi di rumori, di andamenti ritmici, di strutture. Materiali grezzi, comunque, abbozzi di elaborazione, spunti, frammenti; quelle cose che poi il lavoro di composizione assembla per montare l’opera vera e propria – e magari, proprio nel lavoro di assemblaggio, questi materiali fruttificano, producendo nuovi motivi, sonorità, rumori, ritmi, strutture… Ma i materiali non sono il senso dell’opera: ne sono soltanto i mattoni, anzi parte dei mattoni. Il senso dell’opera, sempre che abbia senso trovarlo, è un prodotto dell’uso dei materiali, semmai.

Io credo che dovremmo considerare i cosiddetti contenuti del testo poetico alla stesso modo dei materiali musicali. Sono mattoni da costruzione, come lo è la metrica, l’uso delle rime, l’andamento prosodico. Per questo certamente non è vero che i contenuti non hanno valore in poesia. Hanno il valore che hanno tutti i materiali da costruzione. Sono strumenti di cui il testo fa uso per permettere la dinamica di accordo e tensione e magari sorpresa che qualche volta produce in noi un fremito, smuovendo delle fondamenta assestate da sempre. Sono forme che attraversano la storia, né più né meno che quelle metriche, sistemi di possibilità di cui gli storici fanno bene a segnalare l’emergenza e le eventuali variazioni rispetto alle emergenze precedenti, ma poco hanno a che fare con il giudizio estetico – e infatti li ritroviamo nei versi di valore come in quelli da dimenticare.

Quanta parte della critica letteraria storica è da buttar via? Le poesie non sono la Bibbia. E anche il Libro, poverino, potrebbe forse guadagnare in capacità di sommuoverci se lo si potesse leggere disincrostato da due millenni di ermeneutica.

«La stiva e l’abisso», visioni e vertigini di Michele Mari

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di Antonella Falco

L’affabulazione, ossia un’invenzione favolosa, una costruzione della fantasia, ma anche l’organizzazione di un soggetto in un intreccio che si presti ad una rappresentazione scenica: quanto è forte il potere affabulatorio delle parole? Quanto è pervasiva la magia del narrare? Da dove provengono le storie che ci ammaliano? Come nasce la fascinazione imperitura che esse esercitano sulla nostra mente? Sembrano essere queste domande la scaturigine profonda di uno dei libri più belli e sbalorditivi di Michele Mari, La stiva e l’abisso, che Einaudi ha di recente ripubblicato restituendo al pubblico dei lettori un testo di cui molti sentivano la mancanza (la prima edizione, uscita per Bompiani, risale infatti al 1992, mentre del 2002 è la prima edizione einaudiana).

Il libro si presenta come un romanzo d’avventura marinara, di ambientazione seicentesca: un galeone spagnolo è costretto all’immobilità in mezzo all’oceano a causa di una misteriosa e perdurante bonaccia. All’immobilità della nave sembra corrispondere quella del suo capitano, il nobile e colto Torquemada, inchiodato al letto da una dilagante cancrena. Tocca pertanto al suo secondo, Menzio, uomo di modi triviali ed eloquio sguaiato, animato da crasse ambizioni, riferirgli tutto quanto accade a bordo. Le informazioni che il secondo fornisce al capitano sono però deliberatamente vaghe e obbligano Torquemada a sopperire alla mancanza di dettagli con la sua febbricitante fantasia e con quanto riesce a sapere dal giovane mozzo. Intanto la maggior parte dell’equipaggio, ad eccezione di Menzio e di pochi altri, riceve nottetempo la visita di bizzarri e coloratissimi pesci dotati di magiche virtù affabulatorie, i quali, mediante intimi e clandestini commerci con i marinai, trasmettono loro un variegato patrimonio di storie, a volte gioiose, altre volte dolenti, ma sempre estremamente ammalianti. Sono storie che queste misteriose e affascinanti creature marine hanno assimilato cibandosi dei cadaveri di marinai periti nel corso di naufragi o di battaglie. Complice la bonaccia che li costringe ad una protratta inattività, gli uomini della nave abbandonano qualsiasi occupazione che non sia il sognante vaneggiamento delle storie narrate loro dai pesci, e uno dopo l’altro si lasciano morire d’inedia. Ignorato dalle favolose creature, forse per via dell’indole triviale, Menzio è l’unico che conservi intatta la sua lucidità mentale e si ostina nella ricerca di un fantomatico tesoro nascosto, ricerca che lo impegna in efferate torture, giri di chiglia e propositi di ammutinamento.

Tra i personaggi, oltre alle figure chiaramente contrapposte di Torquemada e Menzio, raffinato ed erudito il primo, incline ad abbandonarsi ad iperboliche e deliranti fantasie relative alla propria gamba incancrenita e al modo di disfarsene (che dal punto di vista stilistico e lessicale rappresentano alcuni dei momenti apicali dell’intero romanzo), grossolano e illetterato il secondo, e non privo di una a volte inconsapevole comicità che si palesa soprattutto in talune sue uscite linguistiche, nell’invenzione di neologismi e nel sottile gioco degli equivoci (a loro volta i momenti più spassosi di tutto il libro), altri due personaggi spiccano sugli altri. Uno è l’ufficiale al sestante Emanuele Torriani, che chiuso nel suo studiolo, scrive il trattatello sul ‹‹pesce implicito›› e sul ‹‹pesce ottativo›› per poi calarsi in mare all’interno della ‹‹Batispecola››: un rudimentale prototipo di batisfera da lui stesso ideato e costruito incollando pezzi di vetro con pece, cera e catrame. A bordo della Batispecola, Torriani scompare tra gli abissi, congedandosi da Torquemada con una lettera nella quale fra le altre cose scrive: ‹‹io scendo per mera fascinazione, come una falena attirata da un lume››. L’altro è il clandestino Ismahíl – clandestino ‹‹per professione›› e con esperienza ormai trentennale – che così ci viene descritto: ‹‹avrà forse sessant’anni, anche se le fittissime rughe che gli scavano tutto il viso, unitamente alla prolissità della chioma e della barba, che gli giungono alle ginocchia, lo fanno sembrare molto più vecchio: una cert’aria da Matusalemme, a pensarci bene, ce l’ha. Ma ciò che ne fa l’unicità è il suo eloquio: Ismahíl, infatti, si esprime in quella straordinaria favella, parlata in alcuni lembi costieri dal Mediterraneo all’Oceano Indiano, che è la lingua franca, ove, come in una speziería, mescono i loro aromi un po’ di francese, un po’ d’arabo, un po’ di latino, un po’ di veneziano, un po’ di greco, un po’ di napoletano, un po’ di giudeo, un po’ di genovese…››

Per quanto riguarda i marinai, bisogna sottolineare come al loro progressivo decadimento fisico non corrisponda tuttavia una altrettanto evidente prostrazione morale: al contrario, le storie narrate dai notturni visitatori marini, liete o tristi che siano, innescano negli uomini dell’equipaggio un intenso processo di elevazione spirituale, corrispondendo viepiù al disprezzo delle cose materiali un crescente arricchimento della loro vita interiore.

Quello che viene a delinearsi a bordo della nave è dunque uno scontro tra le astratte istanze della fantasia, dell’affabulazione e del sogno da un lato, e le più concrete e materiali istanze del realismo dall’altro.

‹‹Sognare è vivere un’altra vita, altre vite…››, dice un marinaio a Menzio che tenta di venire a capo del mistero dei pesci. Ma è Torquemada, in virtù del suo nobile spirito e della sua indole speculativa, colui che più profondamente si interroga su quanto sta accadendo al proprio equipaggio: ‹‹è anche vero, però, che raccontarsi storie e storie su storie significa essere pazzi. Non è forse pazzia, un’ininterrotta vertigine favolosa, un delirante pascolo di forme che vogliono essere il mondo, che vogliono essere il Paradiso e l’Inferno? Sí, è pazzia, ma d’altronde, che favola è quella che s’affianca docile e inerte a questa nostra vita, che t’avverte prudente: attento, sono una favola, assaggiami e via, passa oltre, io qui peraltro finisco, ritorno la nebbiolina che fui, che favola è questa mi chiedo, che non ne genera altre con la collaborazione del tuo sangue già infetto, del tuo sangue ormai favoloso?›› E d’altra parte sono proprio le favole che fanno bella la vita e che permettono di lenire, con le pietose illusioni che regalano agli uomini, la dolente consapevolezza che sempre accompagna ogni umana sapienza: ‹‹più cose si imparano e più si è tristi››, constatano due marinai dialogando fra loro, e pressappoco le stesse parole rivolge il capitano Torquemada a Menzio: ‹‹il sapere è permeato di angoscia, sempre››.

Come anche altri critici hanno notato, i primi tre romanzi di Michele Mari, sebbene questa sia in realtà una considerazione estensibile, in maggiore o minore misura, all’intera opera dello scrittore milanese, costituiscono un omaggio agli autori, alle opere e ai generi letterari che più intensamente hanno influenzato il suo immaginario di precoce e famelico lettore. Così Di bestia in bestia (1989) costituisce l’atto di ossequio nei confronti del romanzo gotico, Io venía pien d’angoscia a rimirarti (1990) è il riverente omaggio al nume tutelare Giacomo Leopardi, e La stiva e l’abisso rende il meritato onore alla narrativa di mare e d’avventura. Fra gli autori ai quali Mari deve essersi ispirato vi è senza alcun dubbio Herman Melville, del quale vengono richiamati elementi di almeno due suoi romanzi: Moby Dick e Benito Cereno. Al primo sembra riconducibile l’impianto dell’opera, con la sua scrittura che speditamente trapassa da un registro cronachistico – da diario di bordo – ad uno lirico, ad un altro che risente del trattato scientifico, ma soprattutto viene naturale istituire una correlazione fra i due capitani, Achab e Torquemada: Achab, ‹‹che con la sua mutilazione e la sua protesi in osso di capodoglio porta in sé lo stigma del nemico così come lo interiorizza con i suoi deliri e i suoi farneticamenti›› (sono le parole di Mari ne I demoni e la pasta sfoglia), Torquemada con la ‹‹gangrena›› che gli divora la gamba, oggetto di reiterate e deliranti fantasie, si direbbe quasi delle vere e proprie allucinazioni, relative alle più bizzarre e improbabili modalità di amputazione dell’arto. L’ossessione di Achab è la balena bianca, di cui la sua protesi d’osso è simbolo e compendio; l’ossessione di Torquemada è la propria gamba incancrenita e la conseguente immobilità cui è costretto, simbolo a sua volta della stasi dell’intero equipaggio e della nave stessa, prigionieri, l’uno e l’altra, della misteriosa e interminabile bonaccia. E proprio la bonaccia, con il clima di sospensione fisica e metafisica che determina, e che fiacca le membra dei marinai, rappresenta il debito che Mari contrae nei confronti dell’altro romanzo melvilliano, il Benito Cereno, sebbene tanto la bonaccia quanto l’estenuante torpore dell’equipaggio appaiono riconducibili anche ad un’altra opera di un autore sicuramente caro a Mari, La linea d’ombra di Joseph Conrad. A L’isola del tesoro di Stevenson si devono invece i tratti pirateschi di alcuni personaggi e il mito ossessivo della ricerca di un tesoro nascosto: ovviamente l’omaggio, in quest’ultimo caso, trascende nella parodia. Per quanto concerne le favolose creature marine che visitano di notte i marinai, esse troverebbero facilmente posto nel Manuale di zoologia fantastica di Jorge Luis Borges e Margarita Guerrero, accanto ad esseri mitologici quali il Catopleba, l’Anfesibena e le Sirene (queste ultime citate non a caso poiché i pesci ammaliano con i racconti come le Sirene ammaliano col canto).

A parte queste ascendenze palesemente evidenti, ve ne è però un’altra, forse più carsica ma non meno feconda, quella nei confronti di Edgar Allan Poe. A veicolarla è il concetto di delirio. È lo stesso Mari a spiegarcelo in una pagina de I demoni e la pasta sfoglia in cui parla del Gordon Pym: ‹‹…l’intenzione avventurosa, o epico-marinara, o picaresca, è fin dall’inizio frustrata, o meglio corrotta, dal genio di Poe per il delirio. Il delirio è vago, solipsistico, morboso, dove l’avventura vuole robustezza e precisione di coordinate, oggettivazione di contrasti, ariosità di spazi; soprattutto, il delirio è narrativamente improduttivo, tende al lirico o al sublime, disdegna il principio di causalità››; e, poco più avanti, a proposito del personaggio di Arthur Gordon Pym, scrive: ‹‹La sua è una vicenda senza progresso e senza dialettica››. Potremmo dire lo stesso del capitano Torquemada, né occorre aggiungere altro circa la sua falotica attività onirica ad occhi aperti. Un delirio, appunto.

Gran parte dell’unicità de La stiva e l’abisso si deve agli aspetti linguistici e stilistici, alla filologica precisione del lessico marinaresco e mercantile e al rigore scientifico della nomenclatura relativa alla fauna marina, fino ai veri e propri virtuosismi verbali che sostanziano le fantasie di Torquemada intorno alle proprie carni marcescenti. E poi non mancano neologismi, iperbati, allitterazioni, nonsense. Appare ormai superfluo sottolineare come tale meticolosa accuratezza filologica, tale esuberanza verbale e tali virtuosistiche altezze di stile siano ormai da lungo tempo prerogativa pressoché esclusiva della scrittura di Mari, che in simili frangenti, dove altri impallidirebbero di fronte a tanta ardita impresa nomenclatoria, sembra divertirsi, avvezzo com’è a maneggiare la lingua quasi fosse duttile argilla da plasmare secondo il proprio ludico diletto.

Viene da chiedersi se Mari in questo romanzo che ha del tautologico – nella misura in cui le tautologie logiche ragionano circolarmente intorno ad un argomento, e qui si ragiona, e si scrive, circolarmente sull’arte dell’affabulare, in una sorta di grandiosa metanarrazione non esente neppure da rimandi al teatro cinque-seicentesco – non abbia costruito una sua personalissima teratologia dell’affabulazione. In fondo i pesci affabulatori sono dei mostri, non già per la spaventosità dell’aspetto che anzi ha un che di estetizzante e di barocco dovuto all’iridescenza dei colori e alla forma affusolata dei corpi, quanto piuttosto, nel senso etimologico del termine, per il loro carattere assolutamente prodigioso.

Visionario e vertiginoso, La stiva e l’abisso, è un romanzo nel quale Mari rende omaggio, fra i mostri che popolano i suoi libri, al mostro che tutti li sovrasta perché di tutti è l’origine indiscussa e indefessa: la letteratura, la quale facendo proprie l’iperbole e la morbosità che stanno alla base dell’arte moderna, si fa incarnazione di una realtà sfuggente e ambigua, nutrita di simboli onirici e votata a scandagliare gli spazi ignoti di quella landa brumosa che è la mente umana. Certo, sono solo storie, affabulazioni, sogni, ma il loro intento, come dice Magritte, non è quello di far dormire ma, al contrario, di svegliare.

Good Bye Keith Botsford

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Quando l’amico Zachary Bos mi ha inoltrato il messaggio accorato del figlio primogenito di Keith Botsford, Aubrey che annunciava, lo scorso 19 agosto, la fine di un’esistenza – per molti di noi Keith era l’essenza stessa del fare letterario come ricordava Massimo Rizzante qualche tempo fa proprio qui su Nazione Indiana – ho provato una grande tristezza e insieme l’ingiustizia di tale sentimento. Perché incontrare Keith a Torino era sempre una gioia, come la volta in cui in un albergo a pochi metri dalla casa in cui Xavier de Maistre aveva scritto il mitico Voyage autour de ma chambre, mi aveva raccontato del suo incontro con Cesare Pavese, proprio l’estate in cui avrebbe posto fine ai suoi giorni.

“L’ho incontrato a Torino la settimana della sua morte, nello stesso albergo dove mi fermavo. La voce? Un poco roca, quasi senza accento piemontese – cioè senza rullare le “r”, come un fumatore francese. Retrospettivamente, la si sarebbe detta una voce da abbandono. Per niente eccitata, capace di ascoltare. Era seduto sul bordo del letto. La voce roca, a ripensarci: una voce che veniva da molto lontano. Per niente sonora. Un micro deshonore. L’esatto contrario dell’amico Beppe Fenoglio, un grande scrittore che bisognerebbe riscoprire. KB”

L’eleganza dandy, i capelli lunghi da poeta maledetto, l’amicizia con Saul Bellow, una conoscenza assoluta della letteratura che andava difesa, raccontata, sostenuta e la straordinaria capacità di parlare tutte le lingue del mondo costituivano un universo in cui  era magnifico entrare, e sentirne l’odore, il profumo, significava accedere a un enorme e insperato privilegio conquistato grazie a un racconto da me pubblicato sull’Atelier du Roman e tradotto da Keith e Zachary  per la loro rivista News from the Republic of Letters. Ogni volta che chiedevo un pezzo a Keith per Sud o per altri progetti dada in cui volevo coinvolgerlo reagiva da fuoriclasse e sempre con grande generosità. Come quando curai la pubblicazione di un Dico’ Erotique per una casa editrice di Milano e insieme ai testi di una settantina d’autori potemmo fregiarci anche di uno, magnifico di Keith. Il gioco consisteva nella scelta di una voce ispirata al Dictionnaire edito da Pauvert nel 1962. Lui scelse la voce che ho voluto condividere con voi quest’oggi, per rendere omaggio al suo stile formidabile e per ricordarlo con la gioia nel cuore .

effeffe

 

Eunuque

di Keith Botsford

traduzione di Norman Gobetti

Era un castrato, almeno secondo il mio amico Philo, che non aveva preso il nome dall’impasto per torte o dalla città dell’Amore Fraterno, Philadelphia. Certo, era solito dire con disinvoltura, non è possibile togliere femminilità a una donna, sebbene sia possibile aggiungerne. Sottrazione contro addizione. Per gli autori di reati sessuali – vi chiedo, come si può compiere un “reato” con il sesso? Oppure la legge significa che il sesso è un reato? – si chiede a gran voce l’orchiectomia (rimozione dell’organo incriminato, l’orchis (Gr), che per qualcuno potrebbe anche essere un sollievo. Niente più pulsioni inopportune. Una soluzione per i preti?
Il problema, secondo lui, era che un eunuco non veniva necessariamente trasformato in donna. Al giorno d’oggi, vi diranno che si può essere tutto ciò che si vuole: si va in una clinica californiana dal Dottor X e si esce con i bigodini in testa e la mascella ridisegnata, con il seno adeguatamente modellato e una figa penetrabile che comunque deve essere ben lubrificata. Non fa per me, ha detto Philo. Io credo nell’Oeil, il grande occhio, l’io, lo Je e il mio jeux. Ecco il privilegio di un eunuco: penetrare, visivamente e sensualmente, la vita quotidiana delle donne, in modo molto più efficace di un qualsiasi uomo.

Il guardiano della Camera da Letto, il voyeur autorizzato! Basta sbarazzarsi di quei fastidiosi testicoli. Il mio sarto di Londra, molto stile Savile Row, direbbe: “Da che parte li porta, Sir?” All’inizio mi vergognavo a chiedergli, portare cosa? Ehm, sì. Le orchidee sono bellissimi parassiti, giusto? Perché noi greci astuti vedemmo una somiglianza nei loro bulbi. Ma quando una civiltà idiota ha deciso (il Duca di Wellington, mi è stato detto) che la culotte doveva diventare pantaloni (perché hanno deux trous) e gli uomini dovevano indossarli, mi sono ribellato. Ho preferito le garze e le sete delicate, il flusso ininterrotto di un indumento.

Ovviamente io vivo nell’epoca sbagliata. L’etimologia di Eunuco è che egli è, ha, protegge il talamo (Eunus, Gr). Nell’epoca in cui avrei dovuto vivere, i bei ragazzi circassi erano una delizia d’importazione: biondi e con gli occhi azzurri venivano immediatamente evirati e diventavano grassocci, con la pelle vellutata. Non sapevano che farsene dei rasoi Gilette o delle lamette, e imparavano a spettegolare in molte lingue – le lingue dei luoghi esplorati dai loro padroni (perché erano tutti schiavi) che non si erano mai presi la briga di preservare per la loro futura dispotica (despotes, Gr) progenie. Despoti perché “proprietari”, così pensano le donne di coloro che conservano le loro brutte sacche pelose. Invece, in Camera da Letto, noi eunuchi condividiamo in ogni momento tutta la libertà di cui godono le donne: a parte, ovviamente, l’ora o la mezzora in cui il despota le convoca per una rapida scopata. Francamente, può essere un piccolo prezzo da pagare per la libertà femminile, ma la cosa non mi riguarda. Nulla viene fatto a un eunuco, è lui che fa le cose per gli altri.

Siamo una specie di animale generoso, non- violento, mellifluo (che contro-tenori e soprani diventiamo!), e senza discendenza – quindi utile. Noi non generiamo rivali per il trono, non fottiamo i nostri padroni, se non mentalmente. Riconosciamo che alcune forme di schiavitù sono un privilegio, superiori alla più brutale schiavitù della gravidanza o del parto: schiavi dei nostri sensi, del gusto, dell’olfatto e del tatto, la vana routine imitativa dell’immortalità attraverso i geni. Non prendiamo e non emettiamo nulla, ecco perché siamo affidabili. Come donne abbiamo un atteggiamento servile nei confronti dei nostri padroni, ma come uomini, possiamo esercitare un potere reale, quello della manipolazione. E intendo in entrambi i sensi: manipoliamo la corte e le sue donne. Con questi attributi uniti, arriviamo ai posti più alti dello Stato, per non parlare del gineceo.

Spesso mi viene chiesto cosa prova un eunuco, ha detto Philo. Ci chiedono: vivete tra le donne e non ne siete tentati? Certo che lo siamo. Proviamo tutto ciò che le donne provano. Accarezziamo le loro voglie, condividiamo le penetrazioni dei loro padroni (ma senza il dolore annesso). Anche noi abbiamo qualcosa di indeterminato tra cosce e ombelico, profumiamo i loro vuoti e le sontuose preoccupazioni con i nostri flaccidi membri di seta. Invecchiamo con grazia e non dobbiamo fare tutta la fatica che fanno i nostri padroni quando invecchiano per ottenere un po’ di sollievo con orgasmi tremanti, insoddisfacenti e occasionali: tanto lavoro per un risultato così insignificante! Nei nostri alloggi non c’è né fretta né confusione. Preparare una nuova concubina per le visite notturne al padrone è un’arte: spingersi fino a un certo punto e non oltre, sentirne il sospiro, “Adesso basta, caro Philo!” e spostarsi dalle sue labbra, superiori e inferiori, ai capezzoli o ai piedi, la piega della braccia, la curva delle natiche, senza paura di fallire o delle conseguenze.

La nostra è la forma più alta di sessualità, se deve essere ridotta a questo. E una forma più alta e distaccata di governo. Gli eunuchi sono desiderati, lusingati e muoiono intatti. Noi diventiamo ricchi e opulenti.
Amico mio, quando mi guardo attorno e penso alla pelosa castrazione dei potenti e ripenso all’uomo che ero e che doveva dimostrarsi degno portandosi a letto serve e muscolose Amazzoni che correvano e sudavano, mi chiedo come mai più di un uomo non ammetta semplicemente di essere stato castrato e muova quel singolo passo verso la costante beatitudine del disimpegno dal ferino e reale atto sessuale. Liberarsi di esso, te lo assicuro, è la più elevata e gratificante forma di libertà.