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Il segreto e la maschera -Colpa del mare e altri poemetti di Bruno di Pietro

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di Daniele Ventre

La raccolta Colpa del mare e altri poemetti (Oèdipus, Salerno, 2018) ci fornisce il quadro pressoché completo della carriera poetica di Bruno di Pietro, se si esclude la recente silloge Impero (sempre uscita per i tipi di Oèdipus, nel 2017).  L’intero libro, appartenente alla collana Intrecci, consta di dieci sezioni, in origine indipendenti, ognuna delle quali connotata da una propria specifica identità formale, ognuna centrata su uno specifico nucleo tematico, tutte però unificate e rese omogenee da un dettato e da una poetica di fondo, che si strutturano attorno a due tratti identificativi: la nitidezza compositiva, che agisce a tutti i livelli del tessuto verbale e fonico, e la costruzione della persona loquens secondo la trama di un soggetto storico identificabile ma decentrato, rispetto alla luce che delimita il focus delle scene che la memoria storica si rappresenta.

Il corpo centrale dell’opera, il vecchio Colpa del mare (Oèdipus -collana Megamicri-, Salerno, 2002), parrebbe evocare banalmente, nel suo titolo, l’idea uniforme di un’ontologia liquida, sfuggente e acquorea, non fosse il primo tassello dell’opera, pronto lì a richiamare atmosfere parmenidee e severiniane (a dispetto della reminiscenza eraclitea dell’esergo), secondo il gioco di una contraddizione calcolata. Le Eleatiche si presentano all’orecchio del loro avventurato fruitore con un incipit odissiaco e meridiano, in cui campeggia un “tu” lirico da monodia greca alto-arcaica; nello stesso tempo, nella struttura da mottetto, l’esordio in cui l’emittente è in apparenza al suo dégré zéro, pura voce strutturante, la sua presenza si afferma nonostante l’ordito di prefissi negativi che accompagna tutti i capisaldi semantici del messaggio: “l’indisciplina degli eventi”, “l’incerto dire inesistenti/l’identico la trama la ragione”. Così l’essere qui si afferma sin da subito, per quanto sia “disadorno il divenire”, nel tema della persistenza che si fa ritorno, circolarità, nietzscheana ma già stoica, e saldamente ancorata al cuore incrollabile della verità ben rotonda di cui alle reminiscenze parmenidee. Il gioco del ritorno procede per inclinazioni ontologiche spontanee, senza ragioni astute a prevalere (“inclinano all’esistere anche i sassi… inclinano ad esistere le sere”) e senza trionfi escatologici (“cospirano le cose a un solo scopo/dirti che non sei aquila ma topo”); per contrasti di luce e buio estremi, come da tradizionale doxa plausibile della natura (“l’aurora illumina di luce greca/la linea dei cipressi e la ferita…/ nel trapasso fra la cieca// notte la solitudine e l’invidia”), nella quale “l’evidenza delle cose” candita nel blocco di luce-ombra, rimane “immobile impronta/ benché il vento agiti mimose”; per negazione del principio di verità-origine-fondamento, a fronte della dimensione esistenziale deiettiva e frammentaria, isolata e isolatrice (“ma quale origine gli vuoi trovare/ a quell’affanno che ci affatto soli” ma cfr. anche, più avanti, in Colpa del mare “io rifiuto la questione trita/per cui una cosa debba avere inizio”) con negazione montaliana della dicibilità: “e non so dirti il poco né l’intero/ (le parole confessano indigenti/ la poca confidenza con il vero)”; per ironizzazioni di senhals tradizionali consacrati dalla tradizione poetica dalla quercia e dalla roccia o meglio dal faggio di virgiliana memoria e dalla luna di leopardiana rimemorazione, “tu sai che ho provato, ombroso faggio,/ a credere alla meta più che al viaggio…// verde in viso l’invidiosa luna/ alle frasi formate sospirando”, in cui la personificazione selenitica si rovescia nel suo opposto e l’immagine sottende al contempo l’orizzonte archetipo dello phthónos tôn theôn e la negazione del primordiale istinto umano di personalizzare l’universo. L’intera sezione delle Eleatiche si connota per questo moto pendolare fra negazione, teologia negativa, problematicità, e affermazione della presanza di una quiddità-haecceità del reale (“la via dell’essere è acquitrinosa/al posto del nulla c’è sempre qualcosa”). La stessa struttura formale denuncia in sé questa duplice anima in conflitto dialettico. Alcuni dei componimenti della sezione incipitaria sono metricamente normati in modo uniforme, e comunque tutte le poesie eleatiche sono articolate in terzetti di quartine endecasillabiche variamente rimate, in quella che abbiamo accennato essere una struttura da mottetto; il secondo componimento è l’unico a sottrarsi a questa formula tre per quattro, ma si ripartisce comunque in quattro terzine non incatenate, rispettando in ogni caso la convenzione interna della super-strofa dodecastica. Ma su un piano più sottile, l’endecasillabo che Bruno Di Pietro usa, spesso e volentieri è internamente minato da anacrusi, è ipermetro o ipometro, o si sottrae di quando in quando alla legge di Bembo e al suo vincolo accentuale, o si ricompone all’orecchio solo tramite dialefi, sinalefi e sinafie estreme, o ammette la metaritmisi col doppio quinario il cui primo membro è sdrucciolo, secondo un uso metrico ben noto alla tradizione novecentesca non francamente versolibera o atonale. La via del ritmo, nelle Eleatiche, è ominosa.

Se è la nitidezza compositiva che segnava la messa a punto del dettato poetico della prima sezione, con Colpa del mare viene precisandosi l’altro connotato specifico dell’autore, cioè, come si è detto, la costruzione di una persona loquens storicamente definita; questa costruzione dell’ethos non si manifesta sin dall’inizio, ma viene emergendo, in modo sfumato, sulla scia di una tranche iniziale che sembra semplicemente proseguire la meditazione ontologico-esistenziale delle eleatiche. L’orientazione dei testi, che assumono via via un tratto più marcatamente versolibero, di una metrica di unità brevi, verticali, dagli spazi bianchi e dalle pause vaste, viene assestandosi sul tema della meditazione pitagorica del numero come cifratura del reale, e centrale diviene qui la figura di Ippaso di Metaponto (“Ippaso svela il numero infinito/ e dice ‘chiunque può essere arconte…’”). La centratura dell’io lirico come io narrante segna qui il passaggio evolutivo fra la trama obbiettiva delle eleatiche e “la semplice struttura del reale” che in essa si squaderna acquitrinosa e segreta, e nel contempo limpida e palese, e la progressiva scoperta di un soggetto poetico di nuova stoffa, che emerge in modo aperto nel canto di Liside. Il Canto di Liside, terza sezione dell’opera, segna questa emergenza della maschera come travisamento/manifestazione. La maschera di Liside, come tutte le altre maschere che seguiranno, è un’epidermide fittizia che l’autore traccia come calco di sé sul reale e impronta timbro del reale sopra di sé. In questo senso è l’ultimo componimento della sezione a essere, in qualche modo, rivelatore: “…Liside… nulla poteva insegnare/ se non…/…di quella ruga che divide/ dalla sapienza i molti./ Dirai che era graffiato/per aver lasciato/ il mare/ indietro”. La linea di sviluppo tematica dei primi tre tempi della raccolta, scandisce il resto dell’opera e definisce una chiave di lettura omogenea: da un lato, il reale acquitrinoso, che “si ama se segreto” (separato, nascosto), e ne sono traccia i misteri di Eleusi di cui alla terza lirica di Colpa del Mare; dall’altro la maschera, che segna l’interfaccia, la pellicola, la membrana osmotica di separazione permeazione del soggetto (poetico-)ontologico con il reale, maschera le cui rughe inseguono l’orogenesi dell’esperienza, si imprimono di traccia del secretum demetrico, inconscio generatore, misterioso, del reale, per poi dissolversi in esso.

Prima dell’articolarsi definitivo per maschere ed eteronimi, tuttavia, la raccolta fornisce una sorta di pausa autobiografica centrale, lo spazio che l’autore come individuo empirico concede a sé stesso e alla sua immediata prossimità affettiva ed esistenziale. Ne fanno fede i componimenti epigrammatici di Velieri in bottiglia, Avari fiori, Iscrizioni (etimologia letterale di “epigramma”) e Piccola suite. Se Velieri in bottiglia è la traduzione degli universali delle Eleatiche nel mondo delle piccole cose, in Avari fiori il rapporto con il “tu” dell’interlocutore, spesso nominato e identificabile, dà luogo a una poesia dell’immediata vicinanza affettiva, che ricorda certa maniera breve di età ellenistica, né è priva di accenti neocrepuscolari; gli epigrammi di Iscrizioni procedono sulla stessa linea, a partire dai versi dedicati al nome del padre, in una Spoon River minimale; la Piccola Suite conclude l’eterogenea sezione centrale con una sinestesia fra rappresentazione visuale e accenno sinfonico. La poetica della maschera e dell’eteronimo sembrano cedere qui, momentaneamente, a un altro tipo di ethos, un’altra persona loquens, un’altra pellicola di travisamento poetico, la cui interfaccia col segreto del reale si parcellizza, si pointilizza in una pluralità di atomi esperienziali minimi, dando luogo a un sorite ontologico in cui il rumore dell’esistenza viene progressivamente eroso grano a grano, sfumato nel suono e nella luce del mondo tramite la sinestesia, infine ridotto a silenzio.

Le maschere rivelatrici tornano nel culmine della raccolta con acque/dotti (il poeta tardoantico Massimiano Etrusco), Il fiore del Danubio (Ovidio esiliato a Tomi) e Della stessa sostanza del figlio (l’eretico fiorentino Francesco Pucci). Tutte queste maschere si definiscono per una dimensione comune, la parziale marginalità o lateralità, visto che Liside è un pitagorico tardo, e minore, Massimiano Etrusco ci parla dallo sfacelo della periferia temporale dell’evo antico, Ovidio non è più il poeta delle Metamorfosi, o il Naso magister degli Amores e dell’Ars, ma l’esiliato e antagonista senza volerlo, e Francesco Pucci appartiene alla storia minima e atroce delle persecuzioni di eretici riformati dell’Italia alla seconda metà del Cinquecento, in un Rinascimento in contrazione. Questa frequentazione del confine e del margine è particolarmente evidente proprio nel personaggio di Massimiano Etrusco: “ho sognato la bussola/ ma non l’invento/ e non mi oriento/ fra il mezzo e il fine/ (frequento ogni giorno/ un confine”). Tuttavia essa traspare ampiamente anche nella ridefinizione della figura di Ovidio esule, frequentatore di “cose impure”, relegato, condannato a una veglia perpetua ai confini del nulla: “l’insonnia è impazienza/ attesa di sopravvivenza/ tempo utile/ a squarciare la coltre (previsione dell’oltre)”; la stessa dimensione liminare, sulla soglia della morte, chiude l’opera nella figura di Francesco Pucci, pur non ancora pronto a “vedersi passare”. Così nell’opera di Bruno Di Pietro la maschera limite fra reale e soggetto poetico, sia essa forma o eteronimo storico o scomposizione dell’immagine in un sorite di esperienze minime, si trasforma in diaframma fra il sé e il nulla, in un rapporto ambiguo in cui la buccia del fenomeno scarnificata nel travestimento diviene l’unica sostanza concreta e certa.

Ne risulta una forma di espressione in forte controtendenza, essa stessa liminare, sussurrata, come sussurrata è la gnome in parentesi che spesso chiude, firma stilistica dell’autore, i componimenti di Colpa del mare e altri poemetti, in un verso che si muove in punta di piedi come ultima voce di una linea poetica laterale, atipica, residuale, di lirismo dissimulato, molto oltre il tempo del grande tramonto dell’io lirico.

 

After Lorca, di Jack Spicer – una prima traduzione italiana

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Caro Lorca,

Vorrei poter fare poesie di oggetti reali. Che il limone fosse un limone che il lettore possa aprire o spremere o assaggiare – un limone reale, come un giornale in un collage è un giornale reale. Vorrei che la luna nelle mie poesie fosse una luna reale, che all’improvviso possa essere coperta da una nuvola che non ha niente a che fare con la poesia – una luna completamente indipendente dalle immagini. L’immaginazione dipinge il reale. Mi piacerebbe indicare il reale, rivelarlo, per fare una poesia che non abbia suoni al suo interno se non l’indicare di un dito.

Abbiamo entrambi provato ad essere indipendenti dalle immagini (tu sin dall’inizio e io solo quando sono diventato abbastanza vecchio da stancarmi di provare a far sì che le cose si connettano), a rendere le cose visibili piuttosto che a farne delle immagini (phantasia non imaginari). Com’è facile, in una rimuginazione erotica o nella più vera immaginazione onirica, inventare un bel ragazzo. Com’è difficile prendere un ragazzo in un costume da bagno blu, visto non meno casualmente di un albero, e renderlo visibile in una poesia tanto quanto un albero è visibile, non come un’immagine o un dipinto ma come qualcosa di vivo – catturato per sempre nella struttura delle parole. Lune vive, limoni vivi, ragazzi vivi in costume da bagno. La poesia è un collage di reale.

Ma le cose decadono, ribatte la ragione. Le cose reali diventano spazzatura. Il pezzo di limone laccato sulla tela comincia a sviluppare muffa, il giornale racconta di fatti incredibilmente antichi in uno slang dimenticato, il ragazzo diventa un nonno. Sì. Ma la spazzatura del reale continua a penetrare il mondo attuale, rendendo i suoi oggetti, a sua volta, visibili – il limone chiama il limone, il giornale il giornale, il ragazzo il ragazzo. Ciò che decade riporta il proprio equivalente all’essere.

Le cose non si connettono; corrispondono. È questo che rende possibile ad un poeta di trasportare oggetti reali, di portarli attraverso il linguaggio con la stessa facilità con cui li può portare attraverso il tempo. Quell’albero che avete visto in Spagna è un albero che non avrei mai potuto vedere in California, questo limone ha un odore diverso e un diverso sapore, MA la risposta è questa – ogni posto e ogni tempo ha un oggetto reale per corrispondere al vostro oggetto reale – quel limone può diventare questo limone, o può persino diventare questo pezzo d’alga, o questo particolare tono di grigio in questo oceano. Uno non deve immaginare quel limone; deve scoprirlo.

Perfino queste lettere. Esse corrispondono a qualcosa (non so cosa) che avete scritto (forse così poco chiaramente quanto quel limone corrisponde a questo pezzo d’alga) e, a sua volta, qualche futuro poeta scriverà qualcosa che corrisponde ad esse. Questo è il modo in cui noi morti ci scriviamo l’un l’altro.

Con affetto,

Jack

 

 

*

 

 

Narciso

Una Traduzione per Richard Rummonds

 

Bambino,
Come continui a cadere nei fiumi.

Sul fondo c’è una rosa
E nella rosa c’è un altro fiume.

Guarda quell’uccello. Guarda,
Quel giallo uccello.

I miei occhi sono caduti
Nell’acqua.

Mio dio,
Come stanno colando! Ragazzo!

– E io stesso sono nella rosa.

Quando ero perso nell’acqua
Capii ma non ti dirò niente.

 

 

*

 

 

La Ballata della Fuga

 

Una Traduzione per Nat Harden

 

Tante volte mi sono perso lungo l’oceano
Con le orecchie piene di fiori appena tagliati
Con la lingua piena d’amore e d’agonia
Tante volte mi sono perso lungo l’oceano
Come perdo me stesso nei cuori di alcuni ragazzi.

 

Non c’è una notte in cui, dando un bacio,
Uno non senta i sorrisi della gente senza volto
E non c’è nessuno che toccando qualcosa appena nato
Possa dimenticare davvero gli immoti teschi di cavalli.

 

Perché le rose cercano sempre nella fronte
Un duro paesaggio d’osso
E le mani d’un uomo non hanno altro scopo
Che imitare le radici che crescono sotto campi di grano.

 

Come perdo me stesso nei cuori di alcuni ragazzi
Molte volte mi sono perso lungo l’oceano
Lungo la grandezza d’acqua vago cercando
Una fine alle vite che hanno provato a completarmi.

 

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Venerdì 13

Una Traduzione per Will Holter

 

Alla base della gola c’è un piccolo marchingegno
Che ci rende capaci di dire qualsiasi cosa.
Sotto di esso ci sono tappeti
Colorati di rosso, blu, e verde.
Dico che la carne non è erba.
È una casa vuota
In cui c’è soltanto
Un piccolo marchingegno
E grandi, bui tappeti.

 

 

*

 

 

Caro Lorca,

La solitudine è indispensabile per la poesia pura. Quando qualcuno si intrufola nella vita di un poeta (e ogni improvviso contatto personale, che sia a letto o nel cuore, è un’intrusione) questi perde momentaneamente l’equilibrio, scivola nell’essere che è, usa la sua poesia come si usa il denaro o la simpatia. La persona che scrive la poesia emerge, esitando, come un paguro dal suo guscio. Il poeta, per quell’istante, cessa di essere un uomo morto.
Io, per esempio, non ho potuto finire la lettera che vi stavo scrivendo sui suoni. Eravate come un amico in una città lontana a cui di colpo non ero più in grado di scrivere, non perché la struttura della mia vita fosse cambiata, ma perché d’improvviso, temporaneamente, non ero nella struttura della mia vita. Non potevo parlarvene perché entrambi, questo ed io, eravamo momentanei.
Perfino gli oggetti cambiano. I gabbiani, il verde dell’oceano, i pesci – diventano cose da scambiare per un sorriso o il suono di una conversazione – gettoni più che oggetti. Niente importa, se non la grande menzogna del personale – la bugia a cui questi oggetti non credono.
Quell’istante, dicevo. Può durare un minuto, una notte, o un mese, ma ve lo assicuro, García Lorca, la solitudine ritorna. Il poeta incista l’intruso. Gli oggetti tornano al loro posto, accigliati, in silenzio. Comincio di nuovo a scrivervi una lettera sul suono di una poesia. E questa cosa immediata, quest’avventura personale, non sarà trasferita nella poesia come lo erano le onde e gli uccelli; apparirà, tutt’al più, nel delicato disegno delle crepe, in una poesia in cui l’autobiografia è andata in pezzi ma non ha distrutto del tutto la superficie. E l’emozione incistata diventerà essa stessa un oggetto, da trasferire infine nella poesia, come le onde e gli uccelli.
E io diventerò di nuovo il vostro speciale compagno.

Con affetto,
Jack

 

 

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Jack Spicer (Los Angeles, 1925 – San Francisco, 1965) fu poeta, studioso di linguistica, libertario – perse la cattedra per aver rifiutato il giuramento di fedeltà agli Stati Uniti – vicino a Robert Duncan e Robin Blaser con cui diede vita al San Francisco Renaissance, insegnante, ispiratore dei language poetsinsofferente nei confronti di definizioni ed etichette.

La casa editrice Gwynplaine, la rivista Argo, nella figura del curatore Fabio Orecchini, e l’impresa creativa non-profit Nie Wiem hanno sostenuto la traduzione di After Lorca (1957), la prima importante pubblicazione del poeta Jack Spicer in Italia. C’è ancora tempo per aiutare il progetto:

https://www.produzionidalbasso.com/project/after-lorca-di-jack-spicer-prima-traduzione-italiana/

 

After Lorca (1957) di Jack Spicer 
Edizioni Gwynplaine, collana Argo, 2018

Con una introduzione di Federico Garcia Lorca
Traduzione e Nota di Andrea Franzoni
Post-fazione di Peter Gizzi
A cura di Andrea Franzoni e Fabio Orecchini – Rivista ARGO

 

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Malcolm Morley (1931-2018)

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Rinaldo Censi

Di Malcolm Morley, deceduto qualche giorno fa a ottantasei anni, prima della carriera di artista, mi ha sempre colpito l’infanzia disagiata, quasi dickensiana. Frequenta una scuola navale. Ha una gran passione per i modellini. Durante la Seconda Guerra Mondiale rimane traumatizzato. Una notte, il suo palazzo viene bombardato. La corazzata H.M.S. Nelson che stava costruendo finisce polverizzata, come la parete di casa. Viaggia in nave. Viene arrestato per furto e condannato a tre anni di prigione. Mentre li sconta, legge il libro di Irving Stone sulla vita di Van Gogh. Inizia a dipingere. Si iscrive a un corso per corrispondenza. Quando esce, si arrabatta, dipinge acquerelli, frequenta il Royal College of Art, a Londra. Arriva il primo choc: la mostra degli espressionisti astratti americani alla Tate. È il 1956. Della mostra alla Tate ricorda l’impatto con le opere di Clyfford Still, Rothko e soprattutto Barnett Newman. Parte per gli Stati Uniti. Raggiunge una ragazza ebreo-russa che aveva conosciuto su un bus. Si sposa e si separa. Torna a Londra per diplomarsi. Viaggia in transatlantico. Si trasferisce a New York. Dipinge. Cerca una sua “casa”, cioè una modalità espressiva propria, che lo affranchi dalle correnti, dalle mode. Sono i tempi dell’espressionismo astratto e della Pop Art. Warhol si era preso le bottiglie di Coca Cola, Lichtenstein i fumetti, Wesselmann le labbra e i grandi seni. Morley ci prova con i transatlantici.

Scende nel porto e cerca di dipingerne uno. Le dimensioni sono enormi, sfuggono. E poi c’è la faccenda meteorologica. La luce cambia, o piove: è un casino. Così decide di lavorare a partire da fotografie, cartoline, depliant. Le copia letteralmente. Trasferisce non il transatlantico, ma la fotografia, su tela. L’ingrandisce, facendole fare un enorme salto di scala. Lo chiameranno Iperrealismo, Foto realismo, o – come preferiva Morley – Superrealismo. Con lui cui sono Chuck Close, Ralph Goings (e prima di loro Richard Artschwager). Rispetto ai mezzi di riproduzione meccanica della Pop Art, gli “iperrealisti” compiono il gesto inverso. Dipingono a mano. Morley utilizza una lente di ingrandimento e una griglia fittissima. Capovolge il quadro e lo nasconde, fatta eccezione per la minuscola porzione da dipingere. Vuole restare distaccato. Vuole: «far affiorare la superficie della tela, ma senza provocare onde». Tutto è piatto, il tocco invisibile, cancellato.

Un marinaio sa che senza vento non ci saranno onde. Morley invece farà i conti con qualsiasi corrente atmosferica. Col tempo il suo tocco cambia, come i mezzi utilizzati. Performance, sculture, combined painting. Ma su tutto resta la pittura. Rispetto alla nettezza superrealista, il tratto si allarga,  si fa a volte impreciso, astratto, brutale. Sembrano quadri dipinti da un marziano. Una volta Dalí gli dice: «Malcolm, lei ha un occhio fantastico; dovrebbe dipingere cose che nessuno abbia mai visto ma che siano reali». Credo l’abbia preso alla lettera.

 

 

Overbooking: Primo Levi

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Nota

di

Alida Airaghi

Di Primo Levi (Torino, 1919-1987) tutti conoscono i capolavori narrativi, testimonianze tragiche dell’esperienza vissuta nel campo di Auschwitz, in cui fu deportato nel 1944 in quanto ebreo: Se questo è un uomo, La tregua, Se non ora quando?, I sommersi e i salvati. In pochi sanno invece che Levi fu anche autore di versi, scritti tra il 1943 e il 1987, anno del suo suicidio, e pubblicati da Garzanti nel 1984, con il titolo Ad ora incerta. Il volume, ristampato più volte, contiene 63 poesie e dieci traduzioni (perlopiù da Heinrich Heine), ed è introdotto da un’epigrafe tratta da Coleridge: “Since then, at an uncertain hour, / That agony returns… (“Dopo di allora, ad ora / incerta, / quella pena ritorna”), utilizzata già come esergo in un romanzo.

Il libro, che nel 1985 vinse il Premio Abetone e il Premio Giosuè Carducci, aveva suscitato pareri critici contrastanti: piuttosto negativi quelli di Cases, Fortini e Mengaldo, più positivamente solidale quello di Giovanni Raboni, che così si espresse in una recensione su La Stampa del 17 novembre 1984: “A me sembra che la scrittura poetica di Levi abbia, sin dall’inizio […], lo stesso solenne acume morale, la stessa forza di memoria, ammonimento e pietà, che rendono così sostanziosa, così giusta, così naturalmente memorabile la sua prosa. […]. In Levi lo scatto, l’impulso iniziale di ogni singola poesia […] nasce dalla ragione, dalla lettura morale della realtà, da quella capacità di capire la propria sofferenza e di vivere la propria indignazione come patrimonio comune a tutti gli uomini, che formano la peculiarità e oserei dire l’insostituibilità della sua prosa”.

Primo Levi stesso, tuttavia, aveva dichiarato, con sorniona ironia: “[…] conosco male le teorie della poetica, leggo poca poesia altrui, non credo alla sacertà dell’arte, e neppure credo che questi miei versi siano eccellenti”. Aggiungendo, nella prefazione al volume, di aver ceduto al richiamo della poesia “ad intervalli irregolari, ad ora incerta. […] in rari istanti (in media, non più di una volta all’anno) singoli stimoli hanno assunto naturaliter una certa forma, che la mia metà razionale continua a considerare innaturale”.

Come nei romanzi, l’imperativo che sembra guidare la scrittura in versi di Levi è decisamente comunicativo; ciò che preme all’autore è poter raccontare ai lettori le esperienze vissute, i sentimenti e le riflessioni che lo animano. Una sorta di lascito e insegnamento etico, da esprimere con radicale onestà: “È poco redditizio, e poco utile, scrivere e non comunicare… l’importante per essere compreso da coloro a cui si dirige la pagina scritta è di essere chiari”.

Chiarezza che nelle poesie di Ad ora incerta viene perseguita con coerenza, con l’intendimento severo di trasmettere un monito a chi legge, senza raggiri stilistici o adulterazioni letterarie: il tono classicheggiante, biblico-dantesco, sospeso tra l’ironico e il perentorio, non rifugge da arcaismi e formule desuete, ma è sempre e comunque finalizzato a un coinvolgimento ammonitore del pubblico (“Voi che vivete… Considerate… Meditate… Ripetetele”, “O tu che segni, passeggero del colle”, “Dimmi: in cosa differisce / questa sera dalle altre sere?”). Uno stile quasi profetico, dunque, con una palese finalità didascalica, che si riflette anche nei contenuti.

I temi ecologici risultano evidenti nell’attenzione rivolta non solo al mondo animale e vegetale spesso antropomorfizzato (gabbiani, corvi, lucciole, formiche, chiocciole, topi, buoi, dromedari; ippocastani, agavi, licheni), ma anche nell’appello indirizzato all’umanità perché non persista nella distruzione cieca e masochista dell’ambiente, convincendosi invece che l’evoluzione della specie dovrebbe perpetuarsi in un perfezionamento materiale e morale, e non in una degradante regressione (Autobiografia).

L’ateo Primo Levi, pur orgogliosamente partecipe del proprio ebraismo (“popolo di altera cervice, /Tenace povero seme umano”), non crede a una divinità provvidenziale e benevola. Crede invece

nell’indifferenza del cielo verso il destino degli uomini, condannati all’infelicità, inghiottiti in una notte senza riscatto che accomuna tutte le creature nella sofferenza: “Forse è questa l’eternità che ci attende: / Non il grembo del Padre, ma frizione, / Freno, frizione, ingranare la prima. / Forse l’eternità sono i semafori”, “E tutti noi seme umano viviamo e moriamo per nulla, / E i cieli si convolgono perpetuamente invano”, “Signore, a fare data dal mese prossimo / Voglia accettare le mie dimissioni. / E provvedere, se crede, a sostituirmi”.

Si salvano i rapporti affettivi con i familiari, con i compagni di una vita, con gli amici: “Cari amici, qui dico amici / Nel senso vasto della parola: / Moglie, sorella, sodali, parenti, / Compagne e compagni di scuola // … A voi tutti l’augurio sommesso / Che l’autunno sia lungo e mite”.

All’amata moglie Lucia, cui è dedicato il libro intero, sono riservate parole commosse e grate, dall’epoca del fidanzamento fino all’età più avanzata: “Abbi pazienza, mia donna affaticata //… Accetta, dopo tanti anni, pochi versi scorbutici / Per questo tuo compleanno rotondo //… Sono il mio modo ispido di dirti cara, / E che non starei al mondo senza te”.

Il mito, la Bibbia, la storia universale e la scienza sono presenti in tutta la raccolta, che cita Aracne e Lilit, Plinio il vecchio e Galileo, la lotta partigiana cui Levi prese parte attivamente in gioventù e i cui ideali teme siano stati abbandonati o traditi.

Ma ovviamente è la tragedia della Shoah, rivissuta nella memoria lacerata e mai più ricomposta, a risuonare come un basso continuo in questi versi, insieme al dovere morale di rendere testimonianza di quell’orrore. Ecco quindi il ricordo dei milioni di vittime innocenti, dalla bambina incenerita a Pompei fino ad Anna Frank, “Poiché l’angoscia di ciascuno è la nostra”, quando “Ognuno è nemico di ognuno”: sempre con il terrore che l’abominio possa ripetersi, e di dover riascoltare “Il percuotere di passi ferrati” o “Il comando dell’alba: / «Wstawać»”. Per questo la notissima esortazione civile di Shemà, anteposta a Se questo è un uomo, rimarrà valida in eterno: “Voi che vivete sicuri / Nelle vostre tiepide case, / Voi che trovate ritornando a sera / Il cibo caldo e visi amici // Considerate se questo è un uomo, / Che lavora nel fango / Che non conosce pace / Che lotta per mezzo pane / Che muore per un sì o per un no”. Nella stessa maniera rimangono legittimi anatemi e maledizioni, rivolte sia ai torturatori nazisti come Adolf Eichmann (“Tu creatura deserta, uomo cerchiato di morte //… O figlio di morte, non ti auguriamo la morte. /… Possa tu vivere insonne cinque milioni di notti”), sia ai pavidi che non si sono opposti: “Vi si sfaccia la casa, / La malattia vi impedisca, / I vostri nati torcano il viso da voi”.

Demoni e “fantasmi immondi”, incubi e paure incontrollabili continueranno a tormentare Primo Levi, nonostante il desiderio più volte espresso di trovare sollievo dall’angoscia e dal tormentoso senso di colpa per essere scampato all’Olocausto. La voglia giovanile di tornare a cantare, “di camminare liberi sotto il sole”, di recuperare un impegno di lotta contro ogni sopruso, lentamente si ammorbidisce in una più docile e rassegnata aspirazione alla pace: “Felice l’uomo che ha raggiunto il porto, / Che lascia dietro sé mari e tempeste, / I cui sogni sono morti o mai nati…”.

Ma nell’ultima composizione del volume (Almanacco) torna desolata la constatazione che di fronte all’eternarsi indifferente degli elementi naturali, solo l’uomo è capace di intestardirsi nello scempio e nella devastazione: “Noi propaggine ribelle / Di molto ingegno e poco senno, / Distruggeremo e corromperemo / Sempre più in fretta; / Presto presto, dilatiamo il deserto / Nelle selve dell’Amazzonia, / Nel cuore vivo delle nostre città, / Nei nostri stessi cuori”.

 

 

 

Discorsi per un grande amore il giorno del suo funerale

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di Elena Tognoli

Cercavo una tua foto

(odiavi farti fotografare

come d’altronde ballare)

LA VERA ETA’

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di Giacomo Sartori (fotogrammi: film di Trapani-Sartori)

Si dà per scontato che l’età della gente

aumenti mano a mano

cambi di continuo

milan l’è un gran falò

1

di Pino Tripodi

ultimo esercizio di letterosofia

 

qualcosa si può fare.

che cosa.

non lo so ma qualcosa si deve fare.

si deve è un’esagerazione. facciamo quel che si può. c’è sempre qualcosa che si può fare.

che differenza c’è, scusa, tra il si deve e il si può.

non so, ma quel si deve a pelle mi sembra un po’ inquietante. si può è più ragionevole, o no.

ma non è vero. a far quel che si può non si fa mai niente.

forse, ma a far quel che si deve si finisce a far sempre cazzate.

non c’è una via d’uscita?

non so. pensiamoci su, dai.

forse ho trovato.

sarebbe?

facciamo come si vuole. è  meglio, che ne dite?

come si vuole chi, scusa.

come si vuole noi che ne parliamo.

ti sembra più facile?

più facile non so. certo più curioso, più entusiasmante a spanne.

magari ha ragione gig, che ne dici geg?

avrà pure ragione, ma a far ciò che si vuole bisogna pur voler qualcosa.

giusto.

e noi cosa vogliamo?

il punto è tutto qui, gag. vogliamo? e se vogliamo, cosa vogliamo per davvero.

non facciamo le cose complicate. siamo solo in tre. iniziamo da qualche parte a dire cosa vogliamo poi se troviamo la strada valichiamo la frontiera della situazione altrimenti ci fermiamo sul bordo delle parole sbiascicate.

bravo gag. ben detto. ma se non vogliamo niente basta lamentele e pianti. si torna a pedalare e via andare in attesa di una rotaia che per pietà di noi ci tranci dalla vita infame.

giusto geg. però non drammatizziamo. siamo qui al parco di ravizza. c’è il gelso grande. guarda che meraviglia. e quante more rosse che attendono di essere assaggiate. basta che lo vogliamo.

vogliamo eccome. da dove iniziamo.

da noi, no. è inutile cercar lontano.

d’accordo. allora cosa vogliamo da noi, gig.

io vorrei la luna servita nel piatto. e voi?

bello. a me piacerebbe vivere guardandomi da lontano.

io invece vorrei tutti gli uomini ai miei piedi dire geg sei la più bella donna del pianeta.

bene. adesso che conosciamo la volontà generale possiamo metterci in cammino.

dov’è che andiamo, gig.

entriamo nel particolare, no, così la volontà impasta il suo corso.

giusto. allora inizio io se non vi spiace.

dicci. cos’è che vuoi, gig.

la ruota nuova. questa sculetta troppo. mi fa impazzire a pedalare quando consegno pizze a domicilio coatto.

vediamo. la ruota nuova. ma è assurdo gag. guardala la tua bici.

lo so. è sgangherata.

sgangherata è niente. è tutta scassata, non la vedi?

sgangherata o del tutto scassata, non fa lo stesso?

e no, mio caro. condisci le parole col cervello. non basta l’olio di rotula per le nostre pedalate.

fosse solo sgangherata potresti rimetterla nei cardini, ma se è tutta scassata la ruota nuova non la fa girare meglio. o cambi tutti i pezzi uno per uno o fai prima a prenderne una nuova.

ma non mi è possibile, gig.

non ti è possibile, vero? ti credo. io ti credo sempre anche quando dici l’asino vola. ma tu ci credi veramente?

perché non ci dovrei.

te lo spiego io gag, facile. perché ragione vuole senso e che senso ha a maggior ragione cambiare ruota se poi la bici continua a non andare.

forse hai ragione. che fare?

aspetta che decidiamo. adesso però dobbiamo andare all’assemblea.

giusto. così vediamo cosa fanno nei nostri panni gli altri rider fattorini.

andiamo allora, presto. c’è riunione generale al circolo della bellezza.

guarda geg. quanta gente.

che dicono gig. c’è qualcosa che ci può interessare?

sì, certo. c’è il sindacato. dice che ci devono lievitare il salario a ora.

ah e poi. chi c’è.

c’è l’esponente di un partito della sinistra fievole. dice che le tutele minime con qualche gradualità e con prudenza massima andrebbero col condizionale d’obbligo garantite.

e poi?

poi c’è uno della sinistra sinistrissima che più a sinistra sbanderebbe altrove, quel solito attivista dei diritti umani. dice che morire per strade non è giusto. accusa i padroni. criminali dice.

e poi. cos’altro vedi, gig.

c’è quello del precariato collettivo che protesta. non è giusto dice che andiamo a lavorare a nostre spese con scooter e bici nostri e nostro telefonino. le ditte ci devono fornire il materiale, la mensa e se ho sentito bene anche i cerotti per quando ci facciamo male.

e poi, finisce qui?

non geg, c’è l’ultimo, esponenente della carità cristiana. dice che se moriamo almeno l’assicurazione ce la meritiamo.

gig, attento. adesso mettono assieme le proposte per consegnarle al voto.

noi che vogliamo.

cosa vogliamo? una parola. è arduo pensar qualcosa tra tutta questa folla.

vabbè! lo so, ma non possiamo svicolare. ricordi? abbiamo detto che qualcosa vogliamo.

giusto. se non vogliamo niente stiamo muti senza perdere il tempo e  le lamentele.

ma noi vogliamo, no? cosa vogliamo. dai, pensiamoci su per bene. spremiamo le meningi per fare un succo neuronale ben cremoso.

non è semplice geg. bisogna sapere bene cosa vogliamo veramente perché volere è facile. anche il mio pollame nell’aia della nonna magari sa cosa vuol mangiare se avanzi di lattuga o mais a chicchi geneticamente modificati. volere veramente è un’altra cosa.

cos’altro è.

è quella cosa che quando si vuole non sente inciampo. muri, montagna o mare risultano anziché ostacoli mezzi di propagazione.

ma tu che hai fatto l’esempio della ruota qualcosa ce l’hai in testa di sicuro. forza, pensaci su. spremi il cervelletto.

gig, aspetta. forse una strada radicata nella mente l’ho pescata.

figo. e che aspetti. mostraci il germoglio della nostra volontà, geg.

spero non mi fischiate.

giuro, non lo facciamo. dicci. al massimo ci seppelliamo di risate.

allora inizio a dire?

dici.

per prima cosa mettiamo in un cestino le delibere proposte, così una per una le vagliamo bene.

giusto. allora cominciamo, rapidi. ecco il cestino e queste sono le mozioni dell’assemblea. leggile, geg. a voce alta così entrano di prepotenza nel labirinto delle orecchie.

l’aumento salariale. lo vogliamo?

ma va gig, che ce ne facciamo.

sulle maggior tutele, che diciamo.

che fanno schifo, no!, cos’altro si può dire.

e del fatto che non si può morire di lavoro, è giusto, no, che dite!

gag, ma cosa dici. il tuo cervello s’è annegato nel banale. non me l’aspettavo, sai, da te.

scusa, geg, però non fare la figona. non è che il banale adesso che vogliamo qualcosa ce lo leviamo in un secondo come il sapone con l’acqua della doccia.

sì, me l’hai già detto, gig. il banale è il primo soldatino a mettere l’elmetto ed è sempre l’ultimo milite a morire. però, che gli diciamo a quello della mozione che non si può morire di lavoro.

digli che se lo sento ancora dire cazzate a quello là, lo prendo a botte, giuro.

rimane da dire qualcosa su bici e scooter. è giusto siano nostre o della  ditta?

ma che giustizia è questa, gig. noi ce ne freghiamo di tutto ciò, sbaglio?

vero. e dell’assicurazione sulla morte. e della pensione. non è magari giusto pensare cosa succede se moriamo.

basta, geg. mi fai vomitare se ripeti ancora quelle terribili parole.

calma, gig. rilassati, per favore. e riassumiamo. le proposte vagliate nel cestino non hanno il nostro gradimento. che ne facciamo.

le bruciamo, no? facciamo un piccolo falò che metta a fuoco tutte le imposture della nostra condizione.

bello. bruciamo le minchiate della vita. forza. aiutami  nell’incendio all’impostura.

e allora, cosa vogliamo, adesso è forse chiaro.

certo mannaggia a te. non lo hai capito?

ancora no, gig. se me lo spieghi ti ringrazio come amico.

non c’è più tempo, gag. adesso occorre andare là nel mezzo delle masse a fare la proposta decisiva.

dai, che aspetti. corri. vai a dire a tutti cosa vogliamo per davvero.

corro sì. guarda quanto sudo. adesso che son qua sul palcoscenico delle decisioni, scusatemi a nome mio di gag e geg io che son gig vi dico cosa vogliamo.

cosa volete. dite, svelti ché si va a votare.

primo. che di tutte le proposte messe ai voti si faccia un piccolo falò.

falò? ma tu sei matto, amico. sono le uniche mosse per  migliorare le nostre cose.

no. ci vuole un piccolo falò. chiedete a gag il mio amico se serve cambiar la ruota in una bicicletta ormai tutta sbrindellata.

non si capisce nulla. cosa vuoi dire. e voi di sotto, non fischiate per favore. lasciatelo parlare.

dico che a tentare di pedalare cambiando ruota quando la bicicletta è totalmente sbrindellata ci rende fessacchiotti, ha ragione la mia amica.

ancora non ci hai detto cosa volete.

vogliamo la luna servita nel piatto, vivere guardandoci da lontano e tutti gli uomini ai miei piedi dire geg sei la più bella donna del pianeta.

questo gig è matto. facciamolo tiessoare.

sicuro, mi faccio pure arrestare, ma prima ascoltate cosa vuole la volontà generale.

sbrigati. non c’è più tempo. occorre votare.

il tempo lo ritroviamo se lo vogliamo veramente.

se passa, non se ne fa niente.

il tempo torna, sai. m’ha detto gag che è una freccia veloce di direzione sconosciuta. può andare avanti o indietro a piacimento suo ma preferisce dice star fermo spesso e volentieri.

sarà come tu dici, ma cosa vuoi, si può sapere.

noi vogliamo.

anche noi vogliamo.

sicuro, ma voi volete quel che si vuole per migliorare la condizione che anche se migliora puzza così tanto che non c’è olfatto che la possa sopportare.

e voi?

noi vogliamo veramente.

cosa. per dio, rispondi o ti butto giù dall’impalcatura.

giuro che fino ad ora non lo sapevo, ma m’è venuto in mente una cosa che davvero vogliamo fare io gag e geg, non è vero?

vero, gig, diglielo cosa vogliamo veramente.

vogliamo, ecco, non mi fischiate per favore. vogliamo organizzare un falò grande e uno sciopero totale.

sarebbe?

sarebbe che invece di continuare a consegnare, adesso prendiamo le chiamate, ciascuno di noi va a ritirare sushi, pizza e carbonara e porta tutto sulla darsena di milano.

per cosa fare, prego.

come per cosa fare.

pizza, carbonara e sushi li diamo ai piccioni da piluccare e ai pesci d’acqua dolce da succhiare. senza la pizza e il resto del mangiar meschino dentro l’involucro di cartone rimane solo la vergogna di  concepire un atto alimentare così brutale. con tutto  quel cartone facciamo un gran falò che resta sempre acceso come la fiamma olimpica così a bruciare di giorno in giorno ogni ignominia della vita che i matti seguitano a chiamare lavoro salario merce o giù di lì.

se anche si accende il gran falò non migliora la condizione di noi rider fattorini.

geg, diglielo anche tu che non è vero. le cose possono migliorare se sono. ma senza semi il niente rimane tale e quale, non diviene zucca.

e i rider fattorini cosa sono, allora.

non sono semi da diventar zucchina. restano niente a vita condannati alla zucconeria.

ma cosa dici. offendi.

la servitù è come la morte. si può abbellire, ma nella servitù non si rinasce. si diventa mummie già prima di morire.

noi servi non siamo. noi prestiamo un servizio.

gig, ma che lo stai ad ascoltare. è un servo schiavo vestito da generale.

geg. smettila. non insultare. è nostro amico nella storia fatale. forza. vogliamo votare per il gran falò di milano e per lo sciopero totale.

aspetta. il gran falò lo abbiamo capito, ma lo sciopero totale. cos’è. dillo, prima di votare.

lo sciopero totale? è quello che proponiamo gig, gag e io.

cioè.

cioè cosa.

dicci cos’è, per dio.

lo dico, ma non t’arrabbiare.

sbrigati. dobbiamo votare.

ci sono cose che  non vogliamo fare né vivi né morti né in ospedale.

questo va arrestato di sicuro. ce l’ha con le ditte che ci danno il lavoro. e con chi torna a casa e stanco da morire chiede pizza, sushi e carbonara per non faticare ancora.

no, no ti sbagli totalmente. io gig e geg non ce l’abbiamo con la volontà dei committenti. loro giusto o sbagliato nobili e miserabili vogliono qualcosa.

con chi ce l’hai allora, non farci perder tempo.

ce l’ho con chi vuole ciò che vogliono loro.

ma loro ci dan lavoro.

gig, diglielo che va a caccia grossa ma non prende neanche una zanzara.

cosa vuoi dire tu che urli dal fondo della sala.

dico che siamo noi la chiave della loro volontà.

 

cantagli la canzone, gig. così convinci tutti.

quale canzone, gag.

la canzone di marte di lunedì. ricordi?

no, cantala tu, ti prego.

d’accordo. fatemi il coro.

 

se lo vogliamo veramente non c’è nemico che ci viene a mente.

il fuoco sale sul salario della città che sale della città che sale.

il sale della città nella città che sale non è nel mio salario di fattorino rider.   non è nel mio salario di fattorino rider

noi lo vogliamo veramente. mai più salario, mai più salario.

 

se lo vogliamo veramente

il raffreddore ci prende bene e gli intoppi della vita si scalano in fretta anche se la scalata appare infinita.

se lo vogliamo veramente.

se lo vogliamo veramente la miseria finisce nel burrone accompagnata da lamenti e questue che sono le sue dame preferite.  accompagnate da lamenti e questue che sono le sue dame preferite

se fai la merda e non lo sei diventi merda e non lo sai. e non lo sai. se fai la merda e non lo sei diventi merda e non lo sai.

 

se poi decidi di fare il servo non servirai mai a niente non servirai mai a niente neanche al servo che c’è pure in te.  non servirai mai a niente neanche al servo che c’è pure in te.

 

la volontà si pesa a chili. sotto il grammo si sniffa al parco come la maria, ma oltre la tonnellata la volontà diventa un muro invalicabile senza di lei. un muro invalicabile senza di lei

se lo vogliamo veramente la vita la prendiamo con le mani senz’affidarla al padroncin di turno che rende schiava anche la nostra aria. anche la nostra aria che cantiamo diventa schiava diventa schiava.

 

noi che vogliamo veramente non consegniamo pizza sushi e carbonara più per nessun salario. per nessun salario

bici e motorino noi li vogliamo per andare in città nella montagna al mare ma a fare i fattorini non ci stiamo più ci rifiutiamo ci rifiutiamo

se lo vogliamo veramente andiamo anche nella montagna al mare ci troviamo nella città che sale,  anche nella montagna al mare ci troviamo nella città che sale.

 

hai visto gag. senti quanti applausi. piace a tutti la nostra ballata.

 

basta. la discussione è chiusa. ora si passa ai voti.

gig, la folla si esprime con le mani sollevate. urla, si agita, si divide. c’è un movimento infernale. a esigua minoranza geg la massa alla fine decide per il gran falò. per lo sciopero totale. la maggioranza gag ci rimane male. piange, si dispera per la delusione. adesso non sa più come umanizzare i mostri umani. ma gig gli dice pronto che i mostri se non hanno occasione di mostrare anche se non sono tanto umani non ha importanza alcuna. non si possono umanizzare.

la decisione è presa, gig. forza con l’algoritmo. ritiriamo il cibo maledetto. andiamo a pedalare sulla darsena. distribuiamo da mangiare alle bestioline.

geg, guarda che bello. neanche i pesci mangiano il sushi e i piccioni che spettacolo rifiutano carbonara e pizza.

fantastico, gag. adesso in amicizia di pesci piccioni e perché no zanzare  facciamo il gran falò per riscaldare la città.

e poi gig. cosa facciamo piccioni pesci e noi quando il gran falò è al massimo sviluppo.

ciò che vogliamo, non l’hai capito ancora?

ciò che vogliamo certo, ma che vogliamo ancora.

diglielo tu gag. io mi sono stancato di parlare.

si va in corteo per la città, no. finito il gran falò sulla darsena di milano, si forma il gran corteo che attraversa ogni angolo della città. gridiamo assieme ai pesci e ai piccioni e perché no alle zanzare. esponiamo i nostri manifesti con la scritta. sushi, pizze e carbonare cucinateli da voi pirla. nessuno ve li consegnerà più, chiaro. c’è sciopero totale contro la mancanza di volontà generale.

e poi, cosa vogliamo ancora.

chiediamolo a zanzare piccioni e pesci.

giusto. anche loro sono nella partita. sentiamo. gag che dicono.

dicono che da domani si fa picchetto generale. scooter e biciclette per le consegne sono vietati. chiunque non segua la vicenda finisce con il carico sequestrato nel gran falò di milano.

gig, nella città che sale il fuoco si alimenta di giorno in giorno. è questo che vogliamo?

vogliamo quel che si fa e poi si vede, geg. diglielo tu, gag.

glielo dico certo. cantiamo tutti in coro. milan l’è un gran falò. cantiamo in coro così pure zanzare piccioni e pesci si mettono a ballare milan l’è un gran falò.

Ancora domenica. La papera del tempo

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di Giorgio Vasta

(Nazione Indiana ha compiuto quindici anni a marzo, da allora molte persone e molte cose sono cambiate; testimonianza molto importante, e talvolta emozionante, di questa lunga storia è il suo archivio, del quale abbiamo deciso di ripubblicare alcuni post, che riteniamo significativi. Oggi proseguiamo con un brano di Giorgio Vasta, in passato redattore di nazione indiana. La redazione)

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Il pomeriggio della domenica è poroso e assorbe tutto. Il pomeriggio della domenica è un sentimento oleoso. Non c’è modo di resistere. Non è un tempo dal quale è possibile restare fuori (ce ne sono alcuni che ti permettono di scorrergli attraverso senza che prendano possesso di te, senza farti sentire il loro tallone sulla testa).

Il pomeriggio della domenica è un tempo di detenzione quieta (anche i suicidi, numerosissimi la domenica pomeriggio, avvengono quieti: solo qualche gocciolina di sangue che cade intorno al polso, poche e leggere, sangue leggero, nulla di troppo aggressivo – e il corpo dell’impiccato cedendo non scalcia, ha solo una lieve oscillazione, lenta e pesante, riposante).

Il pomeriggio della domenica corrisponde anche a un luogo, a una geografia riconoscibile, a un cosiddetto “paesaggio interiore” (qualcun altro dice “luogo dell’anima”): in qualunque posto ci si trovi si è sempre in casa, nella propria casa, nel punto più immobile della propria casa, un punto lontano, separato, isolato, conficcati lì come un chiodo in un asse di legno.

C’è poco da fare. Si può – se si vuole e lo si ritiene opportuno – cantare una canzone recente, o fischiettarla (se non si conoscono le parole o se si preferisce), si può andare a correre al parco, a visitare i genitori o gli amici, o semplicemente passeggiare per le vie del centro, magari mangiando un gelato o guardando uno di quegli artisti di strada che corrono in tondo sul monociclo facendo roteare nell’aria le clavette colorate (la clavetta rossa gli sfugge e gli cade, lui non la guarda nemmeno, continua a far roteare le altre clavette), o ancora si può fare una gita fuori porta, con tutta la famiglia, guidare attraverso le colline contemplando i crinali delle montagne lontane (su alcune c’è ancora un orlo di neve, guardando bene è percepibile il segno più scuro e sottile dei cavi della funivia, forse c’è anche qualcuno – addosso una giacca a vento bianca e blu e, per un eccesso di prudenza, anche un paio di guanti di lana rossi, nella lana del guanto sinistro sono rimasti impigliati un rametto e un insetto, una specie di coccinella di montagna, la coccinella cerca di muovere la corazza d’ali trattenuta dalla lana, ma non se ne accorge nessuno – che sta aspettando di venire caricato e salire fino alla cima), è possibile fermarsi a pranzare in un ristorante un poco nascosto che solo tu sai dov’è, dove si mangia un risotto come mai, si può tornare la sera stanchi e senza avere ancora del tutto digerito (ma che buono però quel rimasuglio di funghi nella bocca), addormentarsi pesanti e soddisfatti, senza nessun rancore – oppure si può rimanere in casa, guardare la televisione, tutti i programmi in una volta, leggere, fare una telefonata, scrivere a qualcuno, disegnare, riparare un vaso rotto da settimane del quale si sono conservati i pezzi in una ciotola di terracotta, la ciotola a sua volta imballata in un sacchettino di plastica, per evitare dispersioni casuali di cocci, che poi solo per una scheggiolina il lavoro non viene bene – oppure si può fare l’amore con il proprio amore, restare nudi a respirare forte e a sudare o a prendere freddo (che, dopo, la temperatura cambia sempre, quella del corpo e quella dell’aria), parlarsi piano, accucciati su un fianco, le bocche vicine (ogni bocca è bocca ma è anche orecchio), parlare degli anni, della paura, dei figli che crescono o dei figli da fare – che il tempo passa e non è bene che ci sia troppa differenza d’età – di un pensiero del mattino, di un progetto – una nuova casa un po’ fuori città, con il tetto di tegole e tutti gli infissi blu, cambiare la macchina, organizzare una cena per la prossima settimana e invitare anche quegli amici che non si vedono da un sacco – di un ricordo improvviso del giorno prima, sai quando andavamo al mare dai tuoi e c’era sempre quel bambino magro con il petto e le gambe pieni di grandi croste e le croste erano ancora più evidenti perché erano tutte ricoperte dal mercuro cromo e allora avevamo paura a fare il bagno anche noi dove lo faceva lui perché l’acqua poteva essere infetta e comunque anche se non fosse stato così non era esattamente una bella prospettiva bagnarsi nella stessa acqua di quel lebbrosetto tutto rosso, non so perché mi è tornato in mente, così, senza motivo – e poi, quando arriva il sonno, avere ancora la forza di sollevare con un movimento inconscio della mano un lembo del lenzuolo per coprire la schiena nuda dell’amore, perché riposando non abbia brividi – insomma, si può immaginare tutta la vita che si vuole, anche quella passata e quella futura (oltre a quella, è ovvio, del pressante assente presente), e viverla (e considerato che viverla significa in buona parte immaginarla, allora possiamo considerare i due termini pressoché come sinonimi), andare dappertutto o restare dappertutto, ugualmente il pomeriggio della domenica non ci abbandonerà, starà sempre con noi, comunicando penombra e lentezza a ogni cosa (una angoscia lenta), sgranando, sgranulando, conficcato dentro di noi, nel corpo e nell’immaginazione, come una perplessità, o una sfiducia naturale (come un chiodo arrugginito dentro un pezzo di legno, una cosa vuota che ci assorbe al suo interno, non vuole mai più darci alla luce).

Detto questo,
la domenica io resto nel mio letto
come una papera dentro al suo laghetto.

Le domeniche dagli Hettner

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di Kika Bohr

Quando ero piccola a Milano, la domenica andavamo a trovare gli Hettner. Prima abitavano in via Rugabella in un piccolo appartamento pieno di libri e di belle cose. C’era un soppalco di legno costruito da lui, da Rolando, e lì sopra veniva a rifugiarsi un gatto a pelo lungo e dalla lingua penzolante. Questo gatto era caduto giù dalla finestra ed era “rimasto un po’ scemo” come diceva con affetto la Jose, che era una strana maestra elementare. Sapendo delle nostre difficoltà a scuola ci diceva sempre, facendoci sognare: “ma tu dovresti venire nella mia classe! Abbiamo dei canarini e dei pesci rossi. E i canarini una volta al giorno li lasciamo svolazzare!” e ogni tanto ci faceva la linguaccia, tanto per scherzare e noi restavamo allibiti.
Roland Hettner ci portava al suo atelier, in via S Calimero e ci mostrava i suoi ultimi quadri, enormi quadri astratti che spesso ci facevano un po’ paura con i colori molto forti, o disegni con personaggi dalle mani nodose come rami d’inverno. Quando doveva andare al gabinetto diceva “vado al boschetto”, il gabinetto lì era sul ballatoio. E c’era anche un altro signore un po’ calvo, il Baumbach uno scrittore o un traduttore con il quale gli Hettner e i miei genitori parlavano di letteratura e di arte per ore e ore, e fumavano e bevevano whisky (appena c’erano un po’ di soldi per comprarlo), mentre noi giocavamo con quei loro strani oggetti preziosi. Oppure ci davano colori o creta per modellare. (Così è capitato che a quattro anni ho modellato in creta bianca il primo presepe.) Il Baumbach era veramente uno strano personaggio con quelle sopracciglia foltissime, non aveva mai conosciuto suo padre, che gli aveva pagato eccellenti studi nelle più famose università, forse era un principe, si diceva.
Ogni tanto i grandi venivano ad ammirare le nostre creazioni. Ricordo un commento serissimo della Jose : “Oh, sì questo è proprio uno scimpanzé che fa le uova!”
Hettner e Olaf, mio padre, erano entrambi molto alti e molto magri. Si assomigliavano anche nella loro aria sognatrice. Una volta ho sentito Jose dire a mia madre mentre i due uomini stavano tornando verso di noi :“Tiens! Voilà Don Quischotte et son fils”. Non mi ricordo in che lingua lo abbia detto, lì si parlava francese, tedesco e italiano anche misto nelle stesse frasi.
In primavera o estate si facevano “pique-nique” come li chiamava entusiasta Rolando e si andava a Castellazzo o in alti posti vicini della Brianza con la sua vecchia macchina azzurra che si chiamava Caroline e con la nostra vecchissima Mercedes che non aveva nome ma era una “Mercedes”. Poi da loro comparve il cane Bosco, uno spinone bianco salvato da maltrattamenti contadini. Dopo qualche anno comparve un altro cane, chiamato Frac per via del suo mantello nero con sparato bianco. Ricordo che ci sono state discussioni sulla sua razza perché a me sembrava che fosse una specie di barboncino ma gli Hettner lo volevano bergamasco, “un incrocio bergamasco piccolo” e gli parlavano in un maccheronico bergamasco. Alla fine si è rivelato che Frac era una cagnolina e così ho potuto stabilire tranquillamente la corrispondenza tra Bosco e Monsieur Hettner, e Frac e Madame Hettner. Finché e arrivato un altro cagnolino, piccolo e pestifero questa volta, un maschietto tipo volpino con delle macchie arancio: Carotte. Questo Carotte che già con la sua chiassosa presenza turbava, secondo me, l’equilibrio della famiglia Hettner, lo turbò del tutto quando riuscì, in barba a Bosco, a fare due cuccioli con Frac.
Hettner aveva scritto un libro di testo per l’educazione artistica nella scuola media e con i soldi aveva comprato un pezzo di cascina a Vaprio d’Adda: la Cascina Noce. Con i cani, i gatti e tutto lo studio si sono trasferiti lì. E ancora, ma un po’ meno spesso, ci vedevamo la domenica nel loro giardino. Io stavo diventando adolescente e uscivo con i miei amici. Era il tempo in cui facevo politica e andavo entusiasta alle manifestazioni. Quando glielo raccontavo e gli dicevo che secondo me l’arte dev’essere impegnata, Hettner sorrideva e qualche volta ci raccontava della sua giovinezza, quando aveva preso parte al movimento spartachista. E poi passava d’improvviso a quando i tedeschi persero la testa per Hitler e le madri, ”pensa un po’, le madri, prendevano in braccio le loro figlie e le tendevano verso il Führer che passava, così” e sollevava la mia sorellina (che aveva sette-otto anni) per le gambe e la scuoteva un po’ verso una specie di Gesù Cristo immaginario.
Un giorno i contadini che abitavano vicino a loro ci avevano invitato a vedere il loro nuovo asinello Era molto grazioso e noi bambini non riuscivamo più a staccarci dalla stalla. Allora per scherzo il contadino chiede a mia sorella se vuole portarsi via l’asinello. “Sììì!” – Allora dammi la tua treccina!
Questa storia della treccia che il contadino voleva portarle via si ripeteva ogni volta che andavamo dagli Hettner e incrociavamo questi vicini. Ogni volta quello ripeteva – Allora, me la vuoi dare la tua treccia? Dài, dammela! E giù a ridere, anche la contadina. Mia sorella rispondeva sempre un secco no! E scappava via .
Questa volta, per l’asino, rispose invece subito: “Taglia!”
E tutti risero ancora di più della sua ferma decisione.
Perché i grandi fanno di questi scherzi? Perché gli Hettner si erano messi vicino a quei contadini che oltre ad allevare conigli e galline mangiavano anche i gatti? Non i gatti degli Hettner, almeno, non ufficialmente. (uno dei gatti era sparito e io ero sicura che erano stati loro)
Un’afosa domenica d’estate (ero in seconda liceo ed ero stata rimandata in matematica) ci sono andata con mio padre. Avevo preparato una crostata di mele e pesche. La frutta era disposta in modo decorativo ed ero fiera della mia produzione. Con la teglia ben imballata siamo dunque arrivati là poco prima del pranzo. Quando Hettner vede il pacco che maneggio con attenzione, gli brillano gli occhi. “Hai fatto qualcosa in ceramica? – mi chiede. – No, molto meglio, è una crostata di mele e di pesche!” – “Ah..” risponde lui, deluso. Ricorderò sempre questo suo “ah..” così sincero che mi ha fatto male più di qualsiasi schiaffo e mi ha fatto capire che non tutti hanno gli stessi valori.

Wu wei / Ugo Coppari

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wu wei

Wu wei

di Ugo Coppari

wu weiStavamo fumando le nostre belle sigarette nell’unico spazio della casa a nostra disposizione, il bagno, mentre i nostri figli se ne stavano di là con le nostre mogli, noi professionisti spiegazzati non più trentenni ma neanche quarantenni, che quando ci vediamo per la solita cena settimanale – anche se è sempre più raro – fingiamo con piacere di essere ancora quel tipo di uomo villoso che viene meno ai doveri genitoriali, una finzione che dura il tempo di qualche tirata. È che se fossimo davvero quel tipo di uomo dovremmo parlare di calcio macchine e figa, e invece anche quella sera ci siamo ritrovati per l’ennesima volta a buttare lì qualche lampo di quello che ci aveva colpito nei giorni precedenti. In questo caso: la presunta inascoltabilità della trap, il fenomeno Liberato e il decrescente prestigio delle nostre professioni umanistiche.

Facevo notare quanto fossero più grandi le macchine degli invitati a un matrimonio a cui avevo partecipato nel fine settimana, e quanto fosse stata indifferente la reazione di questi impiegati geometri ingegneri e commercialisti nello scoprire che ero uno scrittore che insegna italiano a studenti stranieri. Dopo aver spento l’ultima sigaretta, il mio amico editore mi confessa che sarà anche vero che oggi gli insegnanti e più in generale le persone che si occupano di cultura contano meno di un sottobicchiere ma il bello di insegnare – come ora sta facendo lui, in un liceo – è che si viene pagati per poter continuare a studiare; il bello di lavorare nel mondo della cultura è poter continuare a cercare, mi ha fatto notare.

E allora andiamolo a vedere da vicino, questo mondo della cultura, mi sono detto. Uno degli amici del gruppo, che da qualche anno vive a Roma, mi è passato a prendere e all’alba siamo partiti per Torino, per fare un giro al Salone del libro. Alla cassa del bar incontriamo subito un autore che ci ha fatto discutere per un paio di settimane proprio su questo, sul nostro declino: Raffaele Alberto Ventura, nostro coetaneo. Quando gli vado incontro per fargli i complimenti, rimane sorpreso di essere stato riconosciuto: è che tempo prima avevo cercato la sua faccia in rete, volevo vedere come fosse l’aspetto di chi era riuscito a condensare in poche pagine la storia del nostro smarrimento. E visto che questo smarrimento ha a che fare con il nostro essere plurilaureati sottostimati, abbiamo continuato il nostro giro tra gli stand con il sospetto di aggirarci tra una marea di nostri simili, autori arrivati in fiera per trovare un appiglio che li faccia uscire dalla prevedibile normalità del destino; teoria confermata dalla presenza di una ragazza capace di portare al guinzaglio un maiale dal pelo maculato in cambio di un momento di visibilità.

Abbiamo visto Santoni, col suo abbigliamento da raver e uno zaino in spalla; Saviano, rinchiuso nello stand Feltrinelli come un pesce in via di estinzione; e Paolo Giordano, che avevo già avuto modo di conoscere tempo prima per questioni legate al mio ultimo romanzo. C’eravamo promessi di vederci per un saluto. E così è stato: gentile e affabile, è riuscito a divincolarsi dalle telecamere per riservarmi un saluto fraterno. Toh! Era questo il mio appiglio? Seicento chilometri per sentirmi incluso nel mondo che conta? E mentre ce ne stavamo là fuori a fumare tra fle di standisti esausti, il mio amico mi ha chiesto come mai da quando è a Roma né io né gli altri nostri amici siamo ancora passati a trovarlo per andare all’Olimpico. Abbiamo fatto seicento chilometri per venire a vedere dei libri – ragionava – e non siamo stati capaci di farne molti meno per andare allo stadio a urlare tifare e divertirci. Allora ha ragione Ventura?

***

Poi ieri sono stato con mia moglie in un bar della provincia più siderale, una sosta immotivata al termine di una giornata di lavoro. Entrati per un cafè, ci lasciamo convincere dal barista a provare un cocktail analcolico fatto con verdure solitamente inaccostabili, frutto di continui esperimenti; ci ha parlato di Milano, della riviera Adriatica, del loro coraggio di sperimentare dietro a un bancone; e mentre questo barista ultracinquantenne ci raccontava il suo incessante lavoro di ricerca, invitandoci a ripassare per assaggiare il suo cafè alle rose, ci siamo chiesti dove trovasse tanta motivazione, alle sei di un pomerigio feriale, un hotel abbandonato e cadente dall’altra parte della strada.

***

E solo ieri ho capito che è tutta questione di wu wei, un concetto che ho scoperto grazie al suggerimento di uno studente che mi ha parlato del Tao. Secondo questo antico precetto dovremmo essere in grado di capire quando agire e quando non agire, ai fini del mantenimento di un equilibrio con la natura a noi circostante. E se da un lato il non agire può essere ancora più opportuno dell’azione, dall’altro risulta dannoso inseguire obiettivi che non sono alla nostra portata, poiché il loro mancato ragiungimento può causare sofferenza. Servono piccoli passi. Ma soprattutto dovremmo essere adattabili come l’acqua, quadrati in un recipiente quadrato, tondi in un recipiente tondo, leggeri nell’essere goccia, forti nel saperci riunire in una sola massa, prendendo la forma che ci consenta di penetrare in qualsiasi spazio.
E quindi ora scriverò a Ventura per dirgli che una soluzione c’è: perché se dietro l’attività scrittoria di migliaia di giovani destinati al fallimento (troppa offerta, poca domanda) ci fosse la costante ricerca di un appiglio all’eccellenza dello spirito, potremmo tutti continuare a scrivere e a leggere e a passare alla fiera di Torino con lo stesso entusiasmo di un barista che alle sei di pomeriggio sperimenta cocktails di fronte a un hotel in rovina.

GABRIELE DEL GRANDE Lettera al Ministro dell’Interno Matteo Salvini

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Da https://www.facebook.com/permalink.php?story_fbid=2105161009497488&id=100000108285082

Confesso che su una cosa sono d’accordo con Salvini: la rotta libica va chiusa. Basta tragedie in mare, basta dare soldi alle mafie libiche del contrabbando.

S’i fosse Prunetti, rovescerei lo mondo. Il basso e l’alto in 108 metri

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di Pietro De Vivo

In fondo, anche Shakespeare aveva detto che il succo della vita era quella roba lì: uno ti dà uno schiaffo, te glielo ridai, un altro rompe una bottiglia e minaccia di aprirti il collo. A quel punto non puoi perdere la faccia coi tuoi amici, è una cosa di orgoglio. Ti fai sotto e scoppiano le tragedie. Sono secoli che gli studiosi e i critici cercano di decifrare i segreti di Shakespeare. Basterebbe entrare in un pub di lavoratori il venerdì sera e il mistero sarebbe risolto. Orgoglio, Paura, Vendetta, Gelosia. Ci sono più cose tra il bancone e la latrina di un qualsiasi pub inglese di una catena in franchising, di quante ne sogni la vostra filosofia.

Aprite i porti: manifestazioni nelle città d’Italia

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Con la vicenda della nave Aquarius assistiamo alla negazione dei diritti umanitari internazionali,  che sta mostrando una faccia dell’Italia che mai avremmo voluto vedere. Diritto umanitario internazionale si traduce nel diritto elementare alla vita, ricordiamocelo bene. Il governo italiano lo sta negando a una nave che ospita 629 esseri umani, fra cui un bambino di pochi giorni e oltre cento minori. L’Aquarius non può approdare in Spagna: il viaggio fino a Valencia sarebbe lungo e rischioso. Qui tutti i dettagli al riguardo. Questo è un post breve, informativo e chiediamo condivisione e interazione nei commenti a chi può.

L’appello di ANPI, Arci, Azione cattolica italiana, Legambiente, Libera e Rete della Conoscenza: http://www.anpi.it/articoli/2002/si-aprano-i-porti-allarrivo-di-vite-umane-che-fuggono-da-conflitti-e-disperazione

Vi segnaliamo di seguito le manifestazioni in giro per il paese: andiamoci e diffondiamo. Facciamo un gesto e che sia un gesto di vita, speranza, solidarietà e fermezza nell’opporsi alla barbarie.

IERI

A Palermo un presidio al porto: https://www.balarm.it/news/aprite-i-porti-a-palermo-in-centinaia-vanno-al-porto-in-sostegno-della-nave-aquarius-21085

A Roma ritrovo metro Castro Pretorio: https://www.facebook.com/events/178314316168411/

Altre informazioni sulle manifestazioni di ieri: http://www.lettera43.it/it/articoli/attualita/2018/06/11/porti-chiusi-aquarius-salvini-migranti/220960/

OGGI

A Salerno, Piazza Amendola dalle 10.30: https://www.facebook.com/events/2029643097299558/ 

A Catania, Via Etnea alle 17.00: https://www.facebook.com/events/230238854246520/

A Napoli, ritrovo metro Toledo alle 17.00: https://www.facebook.com/events/647398708935860/

A Milano in Piazza Scala alle 18.00: https://www.pressenza.com/it/2018/06/apriamo-porti-presidio-piazza-scala-milano/

A Lucca, in Piazza Napoleone alle 19.30: https://www.facebook.com/events/255439755225845/

A Pistoia, in Piazza Gavinana (Globo) alle 18.00: https://www.facebook.com/events/205629793493516/

A Firenze, Via Cavour alle 18.30: https://www.facebook.com/events/1266053763524979/

A Pisa, Piazza Mazzini alle 19.00: https://www.facebook.com/events/174497606533681/

A Trento, Commissariato del Governo alle 18.00: https://www.facebook.com/events/239869463232709/

A Genova, Piazza De’ Ferrari alle 18.00: https://www.facebook.com/events/837839359742471/

A Ferrara, Piazza Municipale alle 18.30: https://www.facebook.com/events/726900704367573/

A Torino, Piazza Castello alle 18.00: https://www.facebook.com/events/1606544936138112/

Ad Ancona, Piazza della Repubblica alle 18.30: https://www.facebook.com/events/2061096144102342/

A Parma, Piazza Garibaldi alle 18.30: https://www.facebook.com/events/208516756432813/

A Modena, Largo San’Agostino ore 19.00: https://www.primopianomodena.it/politica/aprite-porti-umanitaperta-iniziativa-di-protesta-contro-la-chiusura-dei-porti-voluta-dal-ministro-salvini/

A Brescia, Prefettura ore 18.30: https://www.facebook.com/events/440071623071901/

A La Spezia, Porto ore 18.30: https://www.facebook.com/events/885722808281925/

A Como, Piazza Boldoni ore 18.00: https://www.facebook.com/events/2225196811035205/

DOMANI

Livorno, Porto Mediceo (Andana degli Anelli) alle 18.00

Venezia, Porto di Venezia alle 17.00: https://www.facebook.com/events/186734902160229/

 

In missione ( senza diaria)

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di Giorgio Mascitelli

Le sigarette mi cascano. Le raccolgo. Le sigarette mi ricascano. Le riraccolgo. Mi cascano per la terza volta. A questo punto cambio tasca. Mi cascano di nuovo perché ho tutte le tasche del cappotto bucate e di buchi grossi, grandi abbastanza perché vi passi un pacchetto di sigarette, pacchetto rigido. Ecco dov’è finito l’accendino, ecco dov’è finito il calepino, ecco dov’è finito il telefonino. Ora io rammendo o smetto di fumare. Non è un problema grave, non è la fame nel mondo, però è un problema che mi si presenta perché ho voglia di fumare e non posso rammendare, peraltro io non so rammendare. Ci vorrebbe una rammendatrice. Non necessariamente una sarta, ma una femmina di una volta che sa rammendare. Tra l’altro il problema delle tasche bucate non sarebbe un problema grave in sé, basta fare attenzione, ma il problema è cosa vede la gente, quali segnali mandi e i segnali delle tasche bucate non sono buoni. Le cose in realtà sono semplici, è che poi ci sono tutti questi casini prossemici. In realtà poi il problema sarebbe trascurabile, se fossi in un ambiente domestico e noto, ma non sono in un ambiente domestico e noto, sono a Taroccate per la prima volta in vita mia, dunque il problema non è trascurabile. In realtà poi il problema sarebbe trascurabile, se fossi qui per gli affari miei, per diporto, ma io ho una missione, cioè piuttosto un lavoro ovvero un impegno. Questo rende le cose obbiettivamente difficili. Contattare il geometra del comune; questa non è la missione, ma un preliminare della missione,  anche se adesso il comune è chiuso per pausa pranzo, dunque contattare il geometra del comune dopo. Magari dovrei mangiare anch’io adesso. In effetti non c’è nessuno nella piazzetta assolata dove ho posteggiato la macchina. Sembra quel sole d’inverno che non scalda, però illumina. Ci deve essere un ristorantino pure qui, c’è sempre un ristorantino ovunque. Prima però mi fumo una sigaretta, ma siccome ho perso l’accendino, devo chiedere da accendere a qualcuno, solo che non c’è nessuno. Faccio due passi in qua, faccio due passi in là, ma continua a non esserci nessuno. Meglio andare a mangiare.

Mentre sto assaporando le pietanze al ristorante, si avvicina a me uno un po’ disfatto con gli occhi spiritati e si siede al mio tavolo.

  • Così sei tornato.
  • Prego?
  • Così sei tornato dopo vent’anni e non ti conosco quasi più.

Cerco di spiegargli che è la prima volta che vengo a Taroccate, quello per tutta risposta mi dice di chiamarlo pure Argo. Io allora gli spiego che deve trattarsi di un caso di somiglianza fisica, lui afferma che non può trattarsi di un caso di somiglianza fisica perché allora ero alto e biondiccio e adesso sono bassettino e moro. Forse potrebbero essere alcuni particolari, come il modo di stare seduto a tavola o le tasche del cappotto bucate, ma lui replica che dopo vent’anni non può certo rammentarsi di dettagli irrilevanti come quelli da me citati, in ogni caso mi assicura che non tradirà il mio segreto. Ed è confortante di sapere che c’è una persona di cui ci si può fidare ciecamente.

  • Se i tuoi nemici sapessero che sei tornato, tremerebbero.
  • Ma io non ho nemici.
  • Questa volta però non devi fallire, me lo devi promettere
  • Ma io non sono mai stato qui.
  • Arrivederci e grazie.

Grazie di cosa? Ma se ne è già andato. Penso che oggi, contrariamente alle mie abitudini, berrò caffè e ammazzacaffè. In effetti poi non ho abitudini precise, talvolta li bevo, talvolta no. Il caffè è buono, l’ammazzacaffè è buono, le pietanze erano buone, speriamo che sia buono anche il conto, comunque non mi devo dimenticare di farmi rilasciare la ricevuta perché sono in missione. Quando la chiedo al ragazzo, quello tergiversa un poco, ma poi acconsente, io per giustificarmi spiego che ne ho bisogno perché sono in missione, lui mi risponde che è arrivato fino ai quarantacinque anni facendosi i cazzi suoi e non intende derogare ora a quella norma di vita. La perentorietà della sua replica mi sembra che contenga un implicito invito ad attenermi alla medesima legge. In ogni caso chiedendogli da accendere, mi regala un pacchetto di cerini e anche il problema del fuoco è risolto. Ho davanti a me il pomeriggio con il geometra del comune.

Il problema , c’è sempre un problema, è che oggi il geometra del comune è fuori stanza e lo sarà per tutto il giorno. Quando lo apprendo, decido di guadagnare di nuovo l’uscita e di fumarmi una sigaretta nella piazzetta per ponderare con attenzione il mio che fare. Il mio secondo problema, c’è sempre un secondo problema, è che ho rimesso nelle tasche bucate del cappotto anche i cerini che avrei dovuto serbare con cura. Ma il dio dei distratti oggi mi aiuta perché li ritrovo per terra. Posso fumare e infine fumo, allorché mi avvedo che ho anche smarrito la ricevuta del ristorante inghiottita evidentemente dal pertugio della tasca. Così addio rimborso.

Osservo gli alberi, senza foglie in questa stagione, che sono degli stecchi e mi lasciano l’impressione di spaventapasseri dopo lo strip-tease. Un altro problema, c’è sempre un altro problema che ci si è dimenticati di considerare, è che la mia missione è urgente, urgentissima, ad alta priorità.  Questo paesaggio invernale è un’oggettiva irrisione delle mie priorità. Pare che il geometra non sia raggiungibile quando è fuori stanza: nell’era in cui i satelliti sono in grado di scorgere la pagliuzza nell’occhio di qualsiasi imbecille, qui non sono capaci di rintracciare un geometra fuori stanza!           Passa un drone in cielo, la cui ombra per un istante si assomma a quella degli stecchi.

Per fortuna le chiavi dell’automobile le ho messe nella tasca dei pantaloni. Almeno me ne posso tornare a casa con tanti saluti alla mia missione così urgente così importante. A mia giustificazione potrò sempre dire che le circostanze non mi hanno aiutato, che è la frase universale dei perdenti di ogni tipo e genere.

Ho finito di fumare. Butto la cicca per terra. Tiro fuori le fodere delle tasche del cappotto per vedere a occhio nudo il buco. Poi le rimetto dentro e constato che qui non c’è niente da fare. Mi avvio verso l’automobile.

La situazione sembra bisognosa di una pezza perché se no rischia di diventare cronicamente irrecuperabile. Mi prende un sordo furore al pensiero che non riceverò la diaria perché ho perso la ricevuta e anche al pensiero del sarcasmo, se non dell’aperta irrisone, di Falerini al mio rientro senza aver combinato nulla. Lui così precisino che sviscererà ogni aspetto e il relativo significato recondito di questa sfortunata spedizione crederà di aver raggiunto un’interpretazione definitiva e scambierà il mio silenzio indignato per una capitolazione alla sua superiorità ermeneutica. Ma la verità è che tutti sono capaci di imbastire un’allegoria, il vero problema è campare la vita!

 

 

Interférences # 19 / Christophe Tarkos, l’installatore performativo

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[Questo testo è uscito ieri in alfadomenica]

di Andrea Inglese

Da qualche tempo nelle discussioni letterarie – pur nella forma spesso frammentaria che hanno oggi assunto sui social – anche in Italia si è cominciato a fare il nome di Christophe Tarkos. Sembra addirittura che questo autore francese sia conosciuto e che vi sia una certa urgenza nel nominarlo, quando si parla di poesia contemporanea. Ebbene, ora si potrà finalmente leggerlo, dal momento che è da poco uscita la traduzione di L’argent, un suo importante libro del 1999, curata da Michele Zaffarano (I soldi, coll. «ChapBooks», Tic Edizioni, Roma 2018). Perché è consigliabile leggere Tarkos in Italia?

Note su L’indifferenza naturale di Italo Testa

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di Gianluca D’Andrea

Lo sguardo è lenta costruzione […]
la mente rumina le cose
le afferma per sottrazione

L’indifferenza naturale

 

L’ultimo libro di Italo Testa sembra attraversato da una carica metafisica che fa leva sulla sospensione. La parola si fa basilare, tocca il basso e l’umido di una terra di passaggio che solo in lontananza sembra fare risuonare paesaggi realmente attraversati dall’autore.

Sicuramente balugina una necessità di rinascita ma essenziale, appunto, o “naturale” come l’in-differenza cui il titolo introduce e che suggerisce una percezione ambivalente: «la vita che ignota fermenta dai fossi / in un’onda di calore svapora» (pastura, p. 16, vv. 5-6), o ancora «guarda la vita che anonima fermenta / il ritmo uguale dei giorni senza meta» (la lenza, p. 17, vv. 1-2). Ambivalenza che, almeno nei testi da cui gli estratti sono riportati, sembra inoltrarsi nella terra di mezzo di una nominazione franta, da un lato sentinella di una presenza che si appressa ma, d’altro canto, che s’immobilizza nel “non nominabile” “di un’assenza” (come è evidente nell’ultimo componimento del libro a p. 117).

Partendo da questi estremi, nella divaricazione di una cammino che si dipana per segnali e intermittenze, è possibile rintracciare ombre di presenza in una realtà indistinta, limacciosa, cui sembra destinato a ritornare ogni segno umano (e, nello specifico, la parola della poesia). Ogni documento, potrebbe “realizzarsi” in un’archiviazione indifferente, in un enorme “no-cumento” – questo il rischio che le capacità di archiviazione attuali immettono nel nostro vissuto se si dimentica la stratificazione “geologica” che i segni producono – ma la poesia indica la direzione di un recupero, per quanto disillusa, verso cui sembra muoversi l’opera di Italo Testa, incluso L’indifferenza naturale che sembra porsi in posizione “originaria” rispetto ai depositi e alle stratificazioni successive di La divisione della gioia, I camminatori e Tutto accade ovunque.

Un esempio di questo recupero in origine è rappresentato dal testo che troviamo a p. 33 e che riportiamo per intero:

 

perché sono arrivati e ci chiamano
dalle cascine sparse nella neve
e nel dicembre luminoso affondano
dietro le quinte mobili del giorno;
ho provato a fermarli: non ascoltano,
camminano sugli argini, proseguono
stringendo le spalle contro il vento
si piegano in avanti, a passi lenti
raggiungono il cofano innevato,
l’auto lasciata in mezzo al campo;
ho provato a chiamarli: non guardano
in nessuna direzione, s’inoltrano
sulla pianura estesa nel chiarore
da cui sono arrivati infine tornano.

 

Il richiamo al ciclo de I camminatori (con ramificazioni in Tutto accade ovunque, per cui è definitivamente manifesto l’orientamento “rizomatico” della ricerca di Testa) sembrerebbe in funzione, oltre che di un recupero, di una proiezione alla dimensione “sdrucciolevole” del cammino, alla possibilità (quasi necessità) della “caduta” per cogliere pienamente il mondo che avviene. E, infatti, L’indifferenza naturale è un’operazione d’archivio, e quindi di deposito lo ribadiamo, elaborata tra il 2003 e il 2010, terminata nel 2017 e, proprio per questo, postuma e originaria al tempo stesso (vista la data della sua attuale pubblicazione), per questo segnata profondamente dalla duplicità. Duplicità che si esprime per cedimenti e riprese – «la terra così tenera che cede» (dietro i calanchi, I (il regno dei corvi), p. 37, v. 6), «frana leggera» (ibid., II (caccia in volo), p. 38, v.1), «sui calanchi franosi» (ibid., III (piacenziano, notte), p. 40, v. 3), «di un tempo che frana» (ivi, p. 41, v. 21) – e da cui è possibile intravedere la storia collettiva, anche se per frammenti senza ricomposizione affabulatoria e, per ciò, coerentemente con la visione rizomatica e stratificata del mondo cui accennavamo in precedenza.

La tematica dell’ambivalenza è resa palese, sul piano simbolico, dalla presenza quasi al centro della raccolta, dell’ailanto, una pianta migrante e infestante (come ci avverte in nota l’autore: «la corteccia e le foglie di questa pianta possono provocare forti irritazioni cutanee e, nei paesi occidentali, generare ossessioni negli autoctoni», p. 121), in cui risiedono allo stesso tempo facoltà di adattamento e distruttive:

 

# 4

 

selvatici ailanti
ospiti invadenti
delle sterpaglie,
voi dolci, minacciosi
appostati sui greti
tra le ripe in attesa
attorti ai tralicci,
fitti e sinuosi
tramanti nell’aria,
ailanti luminosi

(p. 48)

 

Così nelle parole della poesia, tra fine e rinascita costante, appaiono segnali che conducono dal sereniano (e quanto novecentesco e abusato) «e mai nulla in nessun luogo» (p. 77), all’«ogni dove s’irradia / questa luce che bianca / t’assale» (di pusterliana memoria, p. 78), attraversando apparizioni di vita vegetale che accennano a un infimo inizio: «ho visto nel sole tua figlia / correre incontro ai gigli già sbocciati» (p. 70).

È abbastanza evidente, per chi segue da tempo il lavoro di Italo Testa, che anche L’indifferenza naturale s’iscrive in una poetica del limite (e del “limine”, aggiungerei) che contraddistingue il passaggio dalle “poetiche della fine” novecentesche allo slancio in direzione di una nuova definizione del mondo e che attraversa la “nudità” di senso (il mero essere di stevensiana memoria – «la lucertola è solo una lucertola», «quando tutto è solo in se stesso riposto», p. 92) che una volta Jean-Luc Nancy ha definito come  «fonte di luce» (Ottica, in J.L. Nancy e F. Ferrari, La pelle delle immagini, Bollati Boringhieri, Torino, 2003, p. 72). Perché solo nella fragilità dell’«impermanente» può splendere e rinnovarsi «la ghirlanda […] dell’assenza» (p. 117):

 

ma la luce non avrei visto
se non avessi bruciato le carte
un giorno, uscendo per strada
ho sentito di essere nudo.

ma la folgore non mi ha colpito
ho continuato a camminare in silenzio
sulla piazza, già sterminata
al primo sguardo sarei caduto.

e la vita che punge nel vento
scorticandomi vi ha vendicato
quando gli occhi mi ha aperto al canto
di tutto quello che non ho amato.

 

*

 

L’indifferenza naturale di Italo Testa, Marcos y Marcos, Milano 2018

 

 

Un solo paradiso

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  di Gianni Biondillo

Giorgio Fontana, Un solo paradiso, Sellerio Editore, 2016, 194 pagine

Il caso ha voluto che due vecchi amici si ritrovassero al tavolo di un bar che anni prima fu il rifugio di una compagnia di giovani pronti a superare la loro linea d’ombra ed entrare nel mondo da adulti.

Il narratore, un fotografo da poco tornato in città, superati i primi imbarazzi (cosa si dice a chi non vedi da anni? Come si reagisce di fronte all’evidente sfacelo del tuo interlocutore?) ascolterà dapprima controvoglia il terribile racconto di Alessio – la sua perdita di dignità, il suo sprofondare nell’oblio dell’alcool – per poi ritrovarsi sempre più avvinghiato, persino affascinato dalla storia dell’amico. Diventando così il nostro testimone.

Perché Alessio, bicchiere dopo bicchiere, esporrà lucido e irredimibile la sua caduta nel baratro. Per amore. Perché infiniti possono essere gli inferni, ma il paradiso, quando credi d’averlo trovato, resta unico e irripetibile.

A parlare è il fantasma del ragazzo che fu. Quello che conobbe Martina per caso, che condivise con lei l’amore per il jazz (e Giorgio Fontana riferisce con precisione maniacale i suoi gusti musicali), che passò notti di indimenticabile amore. Un sesso carnale, primordiale. E che poi conobbe l’inaspettato distacco, proprio quando tutto sembrava perfetto, una lieve incrinatura nella voce, una piccola bugia, la ferita del tradimento, la perdita del centro.

Non a caso per l’intero romanzo, l’autore fa camminare il protagonista in una Milano livida, malinconica, straniata. Una città senza centro, fatta di infinite periferie, non necessariamente degradate, piene anzi di una poesia nascosta, ma incapaci di farsi casa per l’anima errante di Alessio, che come perduto nel buio non saprà mai oltrepassare la linea d’ombra, restandone imprigionato, vagando senza requie, inviluppato alla sua maledizione: amare, per una volta sola. Un solo paradiso.

(precedentemente pubblicato su Cooperazione n° 47 del 22 novembre 2016)

Non so cosa sia la poesia, ma qualcosa ho imparato dai poeti

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[Questo testo è incluso in Poesie e prose 1998-2016. Un’autoantologia, pubblicata per Dot.Com Press nel 2018]

di Andrea Inglese

E poi scrivi la tua biografia intellettuale, mi ha detto Biagio Cepollaro, spiegandomi come funzionava questa cosa dell’autoantologia. Io naturalmente ho risposto felice all’invito, perché il progetto è davvero bello, perché l’invito è venuto da un amico che io ho a lungo considerato nel mio percorso poetico come un fratello maggiore, ossia uno che ne aveva già viste prima di me, e che aveva avuto tempo di elaborare illusioni e disincanti, scoperte e punti morti. C’è però anche un altro fatto. Tutto questo lavoro lo sto facendo a poche settimane dall’anniversario del mio mezzo secolo di vita. Mezzo secolo. Sembra davvero tanto, se non fosse invece così poco. Fatto sta che tutto sembra organizzarsi, per invogliarmi a un bilancio. Ho iniziato a scrivere versi a sedici anni, ho pubblicato la mia prima raccolta a trentun anni e da quasi vent’anni sono divenuto, almeno formalmente, un poeta pubblico. Che cosa questo voglia dire, però, non sono sicuro di saperlo, né per quanto mi riguarda, né per quanto riguarda quell’entità chiamata “poesia” che mi dovrebbe includere e trascendere.

“Com’è che si chiamava?…” – Un racconto di Aleksandr Snegirev

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ph. Alec Soth

[Falce senza martello è il titolo di una raccolta di racconti post-sovietici firmati da autori nati fra gli anni Settanta e Ottanta; il volume, tradotto e curato da Giulia Marcucci e pubblicato da Stilo editrice nel 2017, offre una panoramica sulla prosa contemporanea di lingua russa. Presento il racconto che apre la raccolta, ringraziando editore e curatrice. ot]

di Aleksandr Snegirev
traduzione di Giulia Marcucci

Lei chiese: «È Stalin?».
Alberi, cespugli, sentieri scricchiolanti. Qui sono stati confinati i reggenti di stati e dicasteri passati. Imprese eroiche ed efferatezze sono alle spalle, dietro la svolta del secolo; i monumenti invece, come sclerotici smarriti, li hanno raccolti in giro per la città e portati sull’erba, sotto le fronde. Commissari del popolo, marescialli, rigorosi soldati di fronti dimenticati, di granito, cemento, fusi in variopinte leghe metalliche, privati di piazze, basamenti, alcuni vergognosamente stesi sul prato. Si possono abbracciare tutti, e vicino a tutti ci si può inginocchiare per una foto spassosa. E i vecchietti non sono che contenti. Spuntano dalla macchia, sbirciano da dietro i cespugli. Si sono trasformati in spiriti del bosco, satiri e bacchi, in tutti quei fauni che popolano boschi, parchi e laghi.
Mi ha trascinato qui la bambolina dai capelli color stoppa. Si mette in posa, mi prega di fotografarla. Sarebbe stato meglio se fossimo andati al cinema. Bisognava troncare quando, nella speranza di sembrare colta, aveva elencato i suoi libri preferiti: Il Maestro e Margherita e tutto Remarque. Da tempo mi ero ripromesso una cosa: «Come senti parlare di Remarque, tronca subito, non tirarla per le lunghe». Ed eccola, Giuditta che accarezza con le sue mani curate le labbra di pietra di Il’ič-Oloferne: occhio che potrebbe dare una bella scossa al vecchio e lui non resisterà, le sbaciucchierà il mignolino. E mi chiede anche se è Stalin. Del resto, avrebbe potuto chiamarlo perfino Puškin.
Tra l’altro ci eravamo già incontrati. Possibile che sia proprio lui? Solo il collo si è incrinato. Ricordo che mi trovavo in un piccolo cortile, e iniziava settembre, come adesso, e l’aria era di cristallo come un vaso. Quell’anno ero appena arrivato in città dopo il servizio militare, non avevo superato gli esami d’ammissione all’università, avevo trovato un lavoro come operaio negli studi della Mosfil’m e avevo preso una camera in affitto da Elizaveta Romanovna. Gironzolavo in un giorno festivo per il centro svuotato, i moscoviti se n’erano andati nelle loro dacie, quando vidi un annuncio: «Affittasi camera a studentessa». E con una grafia così accurata. Pensai anche che forse la ragazza era bella, che stesse cercando una compagna di studi. Difficile, certo, ma i miracoli accadono. E benché non fossi affatto una studentessa, come studentessa – diciamolo pure apertamente – sarei stata pessima, decisi lo stesso di andare a quell’indirizzo, era a due passi.
Elizaveta Romanovna risultò essere tutt’altro che una ragazza, una settantina d’anni li aveva tutti, però teneva la schiena dritta, due volte la settimana nuotava nella piscina Moskva per un’ora, passeggiate regolari, docce a contrasto, longevità attiva. Conobbi Elizaveta Romanovna alcuni anni dopo la perdita del marito, un colonnello in pensione che era morto lasciandole un appartamento di tre vani, un paio di pantaloni da parata con l’orlo commemorativo della Vittoria e un figlio che, come accade, era un ingrato, si era sposato per la seconda volta ed era partito per la costruzione di una centrale elettrica nei pressi di un lontano fiume settentrionale, le cui acque avevano completamente lavato via il ricordo della madre. All’epoca, la storia delle grandi costruzioni a Nord era ancora attuale, forse in declino, è vero, ma la domanda non cessava. In sintesi: il figlio era lontano, di nipoti niente, tutto era in ordine, il mucchio di piatti, la bottiglia verde, i tovaglioli bianchi, ed Elizaveta Romanovna decise di affittare una camera.
Le andai subito a genio. Cantilenando, alla moscovita, disse che le sembravo un giovane per bene e non avrei mancato di rispetto a una vecchietta. Mi fece alloggiare quello stesso giorno. Il prezzo risultò assolutamente onesto, ricevetti la chiave, il permesso di usare il bagno e un’intera lista di regole su come bisognava comportarsi in casa d’altri.
E così iniziai piacevolmente a vivere al fianco di Elizaveta Romanovna. Mi raccontava del marito, poi si mise a ricordare gli spasimanti, dispensando nel frattempo consigli su come comportarmi con le ragazze, cosa fare e cosa non fare per nessuna ragione.
Mi colpì il suo racconto di quand’era studentessa, quando la corteggiava il bello dell’Istituto, un atleta, un ragazzo ben messo, vincitore di gare, tutte le ragazzette non gli staccavano gli occhi di dosso, e la giovane Elizaveta Romanovna poco mancò che non acconsentisse a sposarlo. Se non fosse stato per una circostanza: una volta, alla mensa, vide per caso quel fisico d’atleta ripulire i piatti degli altri. Al poveraccio non bastava la borsa di studio per rimpinzarsi a dovere, era un accattone, tutti facevano la fame, certo, però mettersi a ripulire i piatti degli altri… Da quella volta d’andarci in giro mano nella mano era impensabile, ma anche di frequentarlo non se ne parlò più. Ecco qui che animo fine. Poi la compagna di stanza conobbe un allievo della scuola militare, che ovviamente aveva un amico. E combinarono. Il marito fu arruolato e spedito al confine con l’Estonia, che quasi volontariamente si era appena unita all’Unione delle sedici repubbliche. Si trasferirono in un posto nuovo, il marito iniziò a rientrare dopo la mezzanotte. All’inizio era cattivo, poi arrivava che era ubriaco o non si faceva vedere proprio. Correva voce che gli avessero affidato le fucilazioni notturne. Reclutarono tutti gli ufficiali più giovani. Bisognava far abbassare in fretta la cresta agli estoni. Grazie al cielo arrivò la guerra. È una tragedia, certo, ma almeno niente bagordi. Lei con la pancia, in quanto moglie di un militare, la misero sul treno e la evacuarono sugli Urali, il marito invece al fronte. Partorì il figlio in autunno inoltrato, quando i tedeschi erano lì lì per prendere Mosca e rimasero paralizzati, stregati dal primo gelo. Come sopravvissero non si sa, il ciarpame estone lo barattò col pane, e così tirò avanti fino al ritorno del marito, due anni dopo. Contusioni sì, ce n’erano, in compenso mani e piedi erano interi. Poi vagarono per il paese, per fortuna una vicina a Sachalin gli diede una dritta e il marito entrò all’accademia. Si spostò a Mosca, finì gli studi, ottenne un incarico allo Stato Maggiore, gli dettero una stanza, poi un appartamento. La casa era vecchia, sciatta, non c’era un angolo che fosse dritto, ma almeno non raccoglievano gli avanzi degli altri.
Io decisi di prepararmi per l’anno successivo e nel frattempo di guadagnarmi qualcosa con quello che capitava nello studio di cinema. Quando seppe delle mie ambizioni, la padrona si infervorò e mi disse che aveva sempre sognato di diventare un’attrice, venerava la Orlova e collezionava cartoline con le attrici italiane, che però erano andate perdute durante il trasloco. Avrei voluto vederla una donna che non sognasse di fare l’attrice. Probabilmente da qualche parte esistono anche, ma a me non sono mai capitate. Una volta, di mattina, Elizaveta Romanovna mi incontrò in cucina, mi diede il buongiorno con labbra abbaglianti di rossetto e una volpe artica gettata sulle spalle. Forse le risposi con un complimento abbastanza raffinato per essere di mattina presto. Così Elizaveta Romanovna si mise a fumare una lunga sigaretta.
Fumava, proprio così, incredibile: mano sospesa, anelli al soffitto e sguardo annebbiato. Una posa simile non l’avevo mai vista prima. Da quel giorno i mozziconi macchiati di rossetto erano ovunque, li spegneva nelle tazzine, nei cucchiaini, nei piattini. Un posacenere, Elizaveta Romanovna non se lo procurava, perché lei non ammetteva di fumare. «Se fumassi,varrebbe la pena comprarne uno» diceva. «Ma io, così, mi trastullo». Alle parole «mi trastullo» mi fece l’occhiolino con le ciglia incollate dal mascara.
Gli abiti sfilavano uno dietro l’altro. Non c’era colazione, pranzo o cena in cui Elizaveta Romanovna non comparisse con un vestito o una mantellina nuovi. Una pelliccia di volpe o quella artica già menzionata, trofei tedeschi narcotizzati dalla naftalina, per anni lasciati in pace nelle vecchie valigie in soffitta, furono risvegliati e restarono a bocca aperta nel vedere la loro padrona. Osservavo le metamorfosi di Elizaveta Romanovna, vezzo innocuo e affascinante di una signora anziana ancora in forma, finché non mi porse una scatola avvolta nella carta.
«Regalo».
Sospettando il peggio, iniziai a scartare il pacco, le dita tremavano leggermente. Una macchina fotografica. Elizaveta Romanovna mi aveva comprato una macchina fotografica. Uno di quei giorni doveva essermi scappato un complimento sul suo nuovo look pelliccia e sigaretta. Le presi la mano e, obbedendo a un qualche istinto, la portai alle labbra. Quando, già imbarazzato per il mio slancio, le diedi un’occhiata di sbieco, mi imbarazzai ancor di più: le sue labbra erano distese in un ampio sorriso semplice, senza malizia e senza senso, come sorridono i bambini, e dalle ciglia truccate scendevano lacrime.
«Grazie» disse lei e si voltò alla ricerca di un oggetto inesistente.
Iniziai ad affaccendarmi in un inutile trambusto, mentre lei si mise a parlare del tempo. Ed entrambi guardavamo in direzioni differenti, con la paura, più di tutto, di incrociare gli sguardi. Una cosa del genere succede alle persone solo dopo un momento d’intimità casuale.
«Dicono tutti che ho un ovale da ragazzina. Fumo con eleganza e so salutare come Anna Magnani» disse Elizaveta Romanovna dopo essersi soffiata il naso. Mi sferzò la sua volpe artica sul viso, si girò di spalle e sculettando uscì dalla cucina, ma sulla soglia del corridoio mi puntò contro il suo ovale da ragazzina, sbatté le ciglia e mi fece l’occhiolino. Poi andò avanti e fece solo un cenno con la mano, senza voltarsi. Non so se l’attrice italiana Anna Magnani sapesse fare giochetti simili, ma alla mia padrona riuscivano alla grande, un’autentica puta.
Quel giorno non feci altro che fotografarla. Sulla poltrona del marito, sul divano, sul letto. Qui posava abbigliata di merletti. Ovviamente mi chiese di fare un primo piano alla sigaretta accesa in bocca. C’è qualcosa di ingenuo, d’adolescenziale, in questa passione delle foto con la sigaretta. Fotografo, immortala come fonde il ghiaccio sul mio corpo di velluto. Questi scatti si assomigliano tutti, sono tutti ugualmente vuoti. Ma allora non lo sapevo, se non era la prima volta che tenevo una macchina fotografica in mano, poco ci mancava, e quello scatto mi riuscì bene. Lo conservo ancora. La sigaretta tra le lunghe unghie scure – teneva sempre le sigarette con le estremità delle dita, lei – e le labbra carnose cucite al volto imbiancato con le fitte impunture delle grinze incipriate.
Ci avevamo preso gusto. Non ci accorgemmo che s’era fatta sera. Mangiammo dei tramezzini. Mi disse che aveva adocchiato su una rivista polacca di fotografia una ragazza con la pelliccia sotto zampilli d’acqua. Non feci in tempo a valutare la portata del piano, che Elizaveta Romanovna aveva trascinato fuori dall’armadio un sacco enorme e già lo stava sventrando, tossendo per la polvere e la naftalina. Mi lanciai ad aiutarla e con i nostri sforzi congiunti fu portata alla luce un’enorme pelliccia di visone.
«Non guardare», disse la mia modella, e mi voltai.
Alle mie spalle frusciavano i lembi e le maniche della pelliccia, cigolavano le ante dell’armadio, arrivava il borbottio «adesso, adesso», sbatté il coperchio gettato di una scatola di cartone…
«Ora si può».
Mi voltai. Elizaveta Romanovna indossava la pelliccia e delle scarpe bianche col tacco alto. Non so se è il caso di dire che la pelliccia, con una evidente alopecia sulla spalla causata da una tarma, stava addosso al corpo nudo che Elizaveta Romanovna drappeggiava e schiudeva al contempo.
Mi balenò il pensiero che la faccenda stesse andando per le lunghe, ma la mia padrona andò dritta in bagno e una nuvola di profumo mi trascinò dietro.
Le persone fanno spesso pena quando posano. Cercano di sembrare qualcuno, realizzano goffamente i propri desideri, svelano il mondo interiore o quello che hanno da mostrare. Ma c’è una soglia oltre la quale una persona smette di fare pena e diventa qualcosa per cui non esiste definizione. Che suscita sconcerto e silenzio. Un’assurdità che produce la sensazione di un miracolo. Quel giorno fui testimone di una cosa del genere.
Elizaveta Romanovna balzellò in uno scintillio di calli, non senza difficoltà e con il mio appoggio, attraverso il bordo della vasca, poi aprì il rubinetto e solo in quel momento ricordò che avevano spento l’acqua calda per un guasto. Pensai rincuorato che l’avventura non si sarebbe realizzata, ma Elizaveta Romanovna, che non aveva più il minimo controllo, diede prova di inflessibilità, portò su di sé un getto ghiacciato e comandò: «Scatta!».
E io iniziai a fotografarla. Scattavo e scattavo. E lei a ogni scatto si intorpidiva sempre più. Come se non si stesse gettando addosso dell’acqua fredda, bensì si stesse crogiolando nell’idromassaggio. Avevo paura che si ammalasse e le dissi ripetutamente di smetterla. Le sue labbra illividivano attraverso il rossetto sbiadito, la pelliccia bagnata si era trasformata in uno straccio, eppure voleva continuare. Alla fine appoggiai la macchina fotografica e chiusi il rubinetto.
E lei cominciò a insistere di continuare. Si aggrappò alle mie mani.
E i nostri visi finirono per sfiorarsi. Scostai il mio.
Davanti a me c’era una vecchia dalla pelliccia bagnata, con ciocche tinte di capelli appiccicati alla fronte, il trucco che colava. Le ordinai di togliersi la pelliccia, le cui maniche non volevano liberare il corpo. D’un tratto divenni un dottore o un padre. La avvolsi nell’asciugamano e la condussi a letto. Non ricordo nemmeno se la vidi nuda.
Le feci una tazza di tè e le ordinai di dormire. Il giorno dopo, ovviamente, si ammalò e restò a letto con la febbre alta per una settimana, vaneggiava, disegnando sul petto il perimetro di una fossa che degli ingegneri avrebbero dovuto scavare. E per tutto questo tempo mi occupai di lei, cambiavo i fazzoletti freddi sulla sua fronte, le facevo bere il tè. Le mostrai le fotografie e le attaccai nella sua camera alla carta da parati. Tappezzai le pareti. Non per darmi delle arie, ma devo ammettere che erano venute proprio bene. Dopo di che, dite pure che la tenacia non è una virtù.
Poi guarì e ricominciò la tiritera. Dapprima chiese di farle sempre un cenno dal cortile ogni volta che uscivo. Il tragitto verso la metro passava attraverso un piccolo cortile accanto a un monumento e ogni volta, giunto all’altezza di Il’ič, dovevo voltarmi e farle un cenno con la mano. Io ci stavo, agitavo e riagitavo la mano, e lei ci prese gusto ad accompagnarmi in ogni momento della giornata, fossi uscito anche la mattina presto – le foglie secche erano volate via e la neve formava sulla pelata di gesso una capigliatura bianca – io continuavo a farle cenno con la mano, e addirittura mi ero affezionato a questa cosa, finché un giorno non me ne dimenticai. Andavo di fretta. Ritornai la sera, stanco morto, avevamo costruito le scenografie tutto il giorno, e trovai Elizaveta Romanovna sfigurata. Gli occhi gonfi, non aveva fatto altro che piangere. Era fredda. Le chiesi che cosa fosse successo.
«E non lo intuisce?».
Non c’è niente di peggio di quando ti chiedono se non intuisci una cosa, e tu saresti felice di intuirla, ma non ne hai idea. Quando poi ti si rivolgono dandoti del lei, vuol dire che le cose si mettono male.
«Mi ha ingannata. Non ha fatto il gesto come eravamo d’accordo» contestò lei con voce tremante. «E per poco non sono impazzita».
Era allora che avrei dovuto cambiare casa, solo che non diedi il giusto peso a questa scena, e mi ero già affezionato parecchio alla mia eccentrica padrona. Mi scusai con le espressioni più raffinate e palesemente adulatorie, e il giorno seguente le feci un cenno con la mano doppiamente più lungo del solito. Lei era già nascosta dalle tende che io continuavo a salutarla, non si sa mai che stesse sbirciando da una stretta fessura. Dopo il lavoro comprai cioccolatini, garofani, spumante. Errore fatale. Restammo per un po’ seduti, bevemmo, l’incidente a quanto pareva si era appianato, io iniziai a prepararmi per andare a dormire e lei afferrò la brocca con l’acqua, mi seguì in camera. Aveva fretta di annaffiare il cactus. Facesse pure, non ero contrario, solo che la brocca non arrivò al vaso, bensì me la rovesciò sul letto, bagnando irrimediabilmente il posto dove avrei dovuto dormire. Oh, ah, che sbadata.
Le assicurai che non era successo niente di grave, mi sarei steso sul pavimento.
Ma lei:
«Ho un letto largo, c’è posto sufficiente». «Russo».
«Sapessi come russava mio marito, non puoi immaginare». «Io…».
Mi interruppe con un bacio.
«Non sarà mica vietato scherzare!» con fare baldanzoso scoppiò a ridere Elizaveta Romanovna, dopo essersi staccata dalle mie labbra.
Mi contagiò.
Ci mettemmo a ridere.
Mi diede una spinta al petto.
Le diedi un colpetto sulla spalla.
Sfiorò come per gioco la mia pancia. E non spostò la mano. E si accostò tutta. E scivolò in basso. E iniziò ad accarezzare, come se stesse spianando la pasta. «Cosa, non si può nemmeno scherzare? Non si può?» ripeteva, ridendo ostinata e tirando i bottoni. Afferrai la mano ossuta.
«È vietato scherzare?» cominciò a piagnucolare lei. La tenevo forte. Solo il suo inaspettato strillo mi costrinse ad allentare la presa.
«Per chi mi prendi?!».
«Elizaveta Romanovna…».
«Io… Ho mancato a qualsiasi forma di decoro… io… non sono un giocattolo… Ha pensato di compromettere… Fuori di qui!».
Senza costringerla a ripeterlo una seconda volta, iniziai a buttare le mie cose, che per fortuna erano poche, nella borsa. Il mese volgeva al termine. Di debiti non ne avevo. Avrei dormito alla Mosfil’m, il guardiano mi avrebbe fatto entrare, e poi mi sarei guardato intorno, era ora di troncare con quella nonnina strampalata. Mentre raccoglievo le mie cose lei fumava, osservando sospettosa che non prendessi qualche pezzo della sua porcellana. Pensai se prendere o meno la macchina fotografica, decisi di sì. Nelle ultime settimane non era passato un giorno senza aver scattato delle foto, e alla Mosfil’m già le elogiavano.
«Arrivederci, Elizaveta Romanovna» le dissi io dalla soglia di casa.
A quel punto si afferrò le orecchie e le tirò fortemente. Del nastro adesivo rimase attaccato alle dita. Lo usava per tirarsi la pelle, mascherando questo espediente cosmetico con un foulard e i capelli. Il fruscio del nastro, l’ovale da ragazzina deformato e il suo ruggito maligno mi colpirono a tal punto che rimasi imbalsamato. L’idrofobia della vecchia si riversò nelle parole. Mi malediceva dicendomene di tutti i colori, mi dava dell’ingrato, della carogna, serpe, dalla sua bocca insieme a resti di rossetto volavano maledizioni in un dialetto russo a me sconosciuto, che evidentemente aveva imparato durante gli studi a Char’kov. Io ero a tal punto ammaliato da quanto stava accadendo, che non mi riebbi neppure quando lei, dopo aver finalmente liberato le dita dal nastro, ruppe contro il pavimento il vaso con il cactus, corse nella sua camera, si mise a strappare tutte le foto dalle pareti, stropicciandole e lanciandomele addosso. Poi all’improvviso si gettò ai miei piedi, li afferrò e mi implorò di non lasciarla.
«Morirò da sola! Non puoi andartene così! Chi ti nutrirà?!».
Mi limitai a sollevare un pochino la borsa, come se in basso sciabordassero onde minacciando di bagnare la mia roba. Alla fine, quando mi rinvenni, cercai di liberarmi dalla sua presa, non la pregai di smetterla con quella scenata isterica. Dissi semplicemente: «Rimango».
Occorre darle atto: le urla e le suppliche si placarono subito, le diedi la mano, lei si alzò e si scusò del suo comportamento. Quella notte la passai sul pavimento vicino alla mia brandina bagnata.
Passarono alcuni giorni senza vederci, lei si era chiusa nella sua camera, io scomparvi al lavoro. Poi le cose si aggiustarono. Dapprima con cautela, come sul primo ghiaccio, ripresero i tè insieme, poi con ampi gesti della mano rinnovai i cenni di saluto. Una volta uscii dal portone, mi fermai vicino al monumento e le feci il cenno di saluto senza girarmi. Come Anna Magnani. Poi mi voltai subito. E vidi le tende iniziare a ondeggiare. Senza metterci d’accordo decidemmo di non continuare a fare foto, restammo, come si suol dire, buoni amici.
L’inverno cedette il posto alla primavera, così da tanto attesa da volar via in un baleno, ed ecco che già i venti di agosto spingevano a tutta forza l’estate verso un nuovo settembre. Era passato un anno da quando ero arrivato nella capitale. Nel frattempo, senza rammarico, fallii al mio secondo tentativo di entrare all’università e conobbi una ragazza, anche lei di fuori. Voleva fare la stilista, ma intanto lavorava provvisoriamente come assistente truccatrice. Non è che fosse la mia prima ragazza, ma comunque era come se lo fosse. Avevo completamente perso la testa. Anche lei mostrava benevolenza nei miei confronti, mi cucì un paio di jeans a banana su misura. La passione, tuttavia, si spense subito, non appena l’oggetto della mia ammirazione si sottomise. Mi sentivo alla grande: cominciai a guardarmi intorno, a notare le altre, diventando da quieto forestiero a fighetto piacione. Fedele spasimante fino a un attimo prima, poi di colpo cinico inveterato, me la spassavo – così mi sembrava allora – con un’altra, quand’ecco che la mia rimase incinta. E decisi di consigliarmi con Elizaveta Romanovna. Non di consigliarmi, semplicemente di raccontarle. Mia madre mi avrebbe trucidato per la sconsideratezza, mentre io avevo bisogno di un parere ponderato. Dopo tutto quello che c’era stato tra noi, decisi che non avrei trovato miglior confidente.
Di lì a poco capitò l’occasione giusta. Fui ascoltato attentamente. Ero giovane. Tutta la vita davanti, nel paese c’era aria di cambiamenti, e presto per i giovani si sarebbero aperte prospettive tali che la vecchia generazione non aveva neppure potuto sognare. Elizaveta Romanovna elogiava il mio talento fotografico, diceva che il cammino di un artista era spinoso, ma pieno di gloria, e che non era il caso d’aver fretta a sobbarcarmi una famiglia, visto che ero senza esperienza e non avevo ancora mosso i primi passi in questo cammino. Intrecciando con destrezza fatti e adulazione, Elizaveta Romanovna mi fece sorgere il dubbio, anzi, la convinzione che vicino a un genio non poteva starci una truccatrice incinta.
Per un po’ riflettei sulle sue parole, dicendo tra me e me che amavo… com’è che si chiamava?… che amavo tutto sommato quella ragazza, e che desideravo diventasse la madre dei miei figli, ma la mia decisione già vacillava nella sua ovvietà. Poco dopo, al primo disaccordo su dove trascorrere il fine settimana – se passeggiare nel parco o se fare una scappata a Piter –, litigammo, e io dissi che dovevo riflettere su molte cose. Il giorno dopo avrei voluto scusarmi e dimenticare tutto, la tresca e il dissidio, ma lei disse che non voleva legare tutta la sua vita a uno come me. Risposi che già da tempo avrei voluto dirle la stessa cosa, che era ora di prendere strade diverse e che doveva abortire. Con un bambino non l’avrebbero ammessa in nessuna scuola per stilisti. Come se avessi pensato al suo futuro. Vendetti addirittura il walkman della Sony. Perché i soldi bastassero per il dottore, le medicine e tutto il resto. Ma avevo fatto male a venderlo, lei non volle niente. Però mi chiese di accompagnarla in ospedale. Andavo anche fiero del mio comportamento, da vero gentiluomo. La faccenda si sbrogliò così in fretta che non mi resi conto di niente. È stata la mia unica donna a restare incinta. Altri casi, ad oggi, non ne sono capitati. Almeno per quanto mi risulti. Ma il suo nome mi è passato di mente, cosa caspita non combina la memoria.
Quando quel giorno tornai nella mia camera, Elizaveta Romanovna stava bevendo del vino.
«Il vino preferito di Stalin».
Me lo versò, mi diede una strizzatina d’occhio e buttò giù tutto d’un fiato il calice. E io lo assaggiai. Che porcheria sono questi vini dolci. Il nostro generalissimo aveva proprio un gusto da femminuccia. Avesse bevuto vino secco, cognac, vodka, gli si perdonerebbe molto, ma buttar giù sistematicamente questi gradi dolciastri…
«Suo figlio le scrive?» le chiesi per non restare in silenzio.
«Io non ho figli» rispose Elizaveta Romanovna.
E sorrise.
E i suoi denti erano neri.
«Mio figlio è nato morto nella città di Irbit, regione di Sverdlovsk, il due ottobre del quarantuno».

***

Sono passati più di venti anni. L’Unione si è dissolta, gli estoni, che – in barba ai dubbi allora smorzati dalla vodka – erano stati sottomessi dal marito di Elizaveta Romanovna, insieme ad altri tredici popoli fratelli hanno lasciato la Russia, disperdendosi da una parte e dall’altra attratti dalle promesse di vicini e benefattori. Il cratere dell’amata piscina di Elizaveta Romanovna, lo hanno turato con una chiesa. Alla fine non provai una terza volta l’ammissione all’università, mi dedicai anima e corpo alla fotografia, che in fretta mi portò denaro e successo. Da quella notte non gettai mai più lo sguardo su quel cortiletto, cercando di dimenticare in fretta Elizaveta Romanovna, cosa che mi riuscì bene. E d’un tratto, ora che la mia compagna s’è imbattuta in un monumento trascinato e rovesciato nel parco, quei giorni lontani si sono risvegliati dinnanzi ai miei occhi con una nitida messa a fuoco.
Inventandomi un mal di testa, ho spedito l’ammiratrice di Remarque a casa per sempre, e io me ne sono andato da Elizaveta Romanovna. Sono entrato nel cortile, mentre sulla città stava calando la sera. Al posto del monumento una fontana e dei lampioni, al posto della finestra… La casetta era nello stesso posto di prima, ma era cambiato il suo aspetto. Dentro adesso ci sono un ristorante e un locale, e le finestre del primo piano, inclusa quella recondita, sono state ermeticamente murate.
Sulla veranda suonava un quartetto, e gli ospiti – i miei coetanei ubriachi e quelli più giovani – ballavano e cantavano canzoni sovietiche, russe ed ebree. Il pavimento d’assi tremava. Dalle finestre aperte si sentiva un pagliaccio grasso dalla gola stritolata nel papillon pronunciare un brindisi a Stalin. Il ciccione ha terminato e tutti sono scoppiati a ridere. E i musicisti hanno attaccato a suonare. E le ragazze a gettare i loro cenci londinesi e a calpestare i calici Ikea con gli stivali belgi.
Sono passato accanto agli autisti che seminavano sotto le ruote delle Mercedes addormentate bucce di semi di girasole, accanto agli alberi soffocati dall’asfalto, accanto alle case altrui e ai bidoni zeppi d’immondizia. Si dice che quel paese, dove fotografavo Elizaveta Romanovna e dove le facevo cenni di saluto con la mano, non esista più, ma eccolo qui. E risuona una lontana melodia, e una ragazza danza con la sedia, e tutt’intorno la notte russa, che nessuna luce artificiale può dissipare.
Ma torniamo a me… La mia padrona non s’era sbagliata: ho talento per davvero. Il mio lavoro costa caro, non fotografo mai nozze, cene sociali fra colleghi né bambini. Vanto premi, mostre, copertine. La fiumana di donne non si esaurisce: ottengo scatti in cui spilungone diventano fantastiche regine. Trasformo un vino leggero in bevanda divina, bigiotterie in preziosi metalli. E in cambio posso ottenere da loro ciò che voglio. Gli uomini mi invidiano, senza sapere quanto io invidi loro. Le donne non amano me, ma il potere del fotografo. Le rende belle e famose, regala grimaldelli d’accesso a un mondo che altre coetanee possono solo sognare, facendo incetta di riviste patinate alle edicole delle metro periferiche. Io invece invidio i poveri e gli indifesi. Se sono amati, lo sono semplicemente così… Solo Elizaveta Romanovna mi amava. E anche lei, quella ragazza… peccato che il suo nome non ci sia verso di ricordarlo.

Lampedusa / Marco Benedettelli

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Chi brucia di Marco Benedettelli
Chi brucia / Marco Benedettelli

di Marco Benedettelli

tratto da Chi brucia.Nel mediterraneo sulle tracce degli harraga.

Chi brucia di Marco Benedettelli
Chi brucia / Marco Benedettelli

C’è un gruppo disteso sotto i piloni rugginosi di un rimorchiatore. Alcuni dormono, altri sono svegli, si guardano intorno e mi osservano con occhi giovani, interrogativi e rabbiosi. Il disorientamento li sfigura, o forse sono solo stanchi. Altri siedono sui gradini della stazione marittima, la pelle dei loro volti è sfatta. Ma la maggior parte è in piedi. Camminano, girano intorno, c’è un rumore di fondo confuso, fatto di voci variabili, rauche, talvolta dolci. Non sembra che quelle persone siano arrivate dal mare, è come se fossero germinate dalla terra, anzi dalla pedana di cemento lurido sotto ai nostri piedi. Ci sono anche dei vecchi, con capelli bianchi e abiti arabi tradizionali, sembrano più calmi, pazienti. Sembra che con la loro presenza riescano a rassicurare i più giovani, calmare lo spasmo che ha attraversato i loro corpi nello schianto delle onde. Riconosco operatori dell’International Organization for Migration: hanno delle pettorine azzurre, formano un cordone all’imbocco della banchina, cercano di imporre un ordine alla massa amorfa degli esseri umani attorno a loro. I tunisini confusamente fanno domande, in arabo e in francese. Un giovane dai lineamenti eritrei, che indossa una pettorina rossa, traduce ininterrottamente dall’arabo, dà informazioni pratiche, parla di spostamenti, di pullman. Uno dei tunisini, uno con la faccia paciosa e una trentina d’anni, mi rivolge qualche parola, sa un po’ di italiano. Si chiama Haziz, parla timido, a piccole frasi, si guarda intorno con piglio riflessivo. «Sono diretto in Francia, qui siamo tutti diretti in Francia, o quasi tutti. Non voglio fermarmi in Italia. No, il viaggio è appena cominciato, e sarà lungo. A casa mia ero professore di fisica e matematica, però non potevo andare avanti, lo stipendio non mi arrivava più. La nostra è una generazione che non esiste più, non è mai esistita, forse. Molti di noi non sanno nemmeno leggere e scrivere e non sono mai usciti dal nostro paese, non sanno nulla del mondo. Io sono partito e anche tutti questi ragazzi sono partiti perché non potevamo restare, non possiamo fare altro, tutti quanti noi dovevamo andare lontano dal fuoco.»

Haziz mi porta a visitare la stazione marittima, dove ha dormito le ultime notti. Ci facciamo largo fra i giovani seduti davanti alla porta d’ingresso. Dentro c’è gran movimento, un odore di corpi umani forte e denso. Gente entra ed esce continuamente da porte spalancate, nella penombra si rincorrono, rimbombando, voci e pezzi di parole in arabo. Un paio di neon accesi illuminano delle stanze, la luce arriva a fatica e si intravedono giacigli sfatti o corpi avvolti nelle coperte che ricordano giganteschi bozzoli. Si sente odore di membra affaticate, di insonnia e viaggi che stravolgono. Lungo il corridoio incrocio alcuni che mi salutano in italiano, aprono le braccia in gesti di benvenuto e mi si fanno incontro festosi. Altri restano immobili, schiacciati alle pareti bianche. Mi osservano incuriositi, sembrano analizzarmi per capire in che isola siano finiti, come è la gente che vive da quest’altra parte del mare.

La stazione marittima si moltiplica in un dedalo di stanze variamente popolate, di spazi illuminati o in penombra, con sempre nuovi volti, esausti o interrogativi. Haziz si ferma a parlare con un uomo, io mi ritrovo nel fondo di un corridoio con una porta sbarrata che però improvvisamente si apre. Esce un italiano, ha i capelli grigi e mi chiede chi sono e cosa faccio, non sembra né un poliziotto né un cooperante. «Le vuole vedere, lei, le nostre tartarughe che stanno qua dentro?» – mi chiede. Una tartaruga? Ma perché no?, penso, e lo seguo come se l’uomo mi stesse portando al centro di una fiaba.

Nella stanza ci sono quattro grandi vasche azzurre dalle pareti di gomma. Sono coperte da un telo e nel silenzio si sente il gorgogliare delle bolle d’acqua prodotte dall’ossigenatore. Si fa avanti una donna, forse era seduta a riposare dietro a una delle vasche. Dice di chiamarsi Anna e che ci troviamo nel punto salvataggio tartarughe marittime. Lei è la responsabile ed è rimasta nel laboratorio del centro per fare da guardia alle quattro tartarughe che nuotano negli acquari. Scosta il drappo che copre una vasca e vedo immerso in quel piccolo pozzo azzurro un guscio di placche verdi, la cui composizione è un disegno geometrico semplice e onirico, forse poteva essere stato così il mondo alle origini. Vedo gli occhi oltreumani della tartaruga affacciarsi sotto l’orlo della corazza, l’esoscheletro è la sua casa, la ingloba, protegge lo scorrere dei suoi pensieri fatti di colori che risuonano in acqua. Il primo ricordo della mia vita è di me stesso dentro a una tinozza, raccolto, con le gambe incrociate. Giocavo, la tinozza era una barchetta e io stavo accucciato dentro il suo incavo. Ridevo, il primo ricordo che ho è anche il primo ricordo di una risata liberatoria che esplode innata. Mia sorella, più grande di me ma bambina anche lei, era di fianco. Anche lei rideva, forse la mia elaborazione del mondo è iniziata lì, mentre giocavo a navigare in qualche oceano immaginario, come la tartaruga nella piccola vasca azzurra, fra i migranti, i naviganti buttati per terra, esausti o insonni che girano a piedi.

Elogio del kitsch

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Milena Jesenská

[Milena Jesenská (1896-1944), nota come corrispondente di Kafka e sua traduttrice, fu lucida commentatrice della società mitteleuropea tra le due guerre e fine interprete delle pulsioni grottesche e tragiche del suo tempo; venne deportata nel 1940 a Ravensbruck “al fine di essere rieducata”. Possiamo finalmente leggere molti dei suoi scritti e alcune lettere a Max Brod in un bel volume curato da Dorothea Rein, Qui non può trovarmi nessuno, da poco uscito per Giometti&Antonello. L’estratto qui pubblicato è un articolo del 1922].

 

Se ho deciso di fare le lodi del kitsch ciò non significa che lo ritenga buono e rispettabile. Lungi da me è pure l’idea di sostenere che sia bello; e sarei fortemente imbarazzata se dovessi elencarne i pregi. Tuttavia, dopo due ore passate a bighellonare per la città mattutina piena di sole, mi è venuta voglia di fare qualcosa di un po’ folle.

Kitsch? Cos’è il kitsch? Qualcosa di superfluo, futile, una bolla sulla superficie del tempo: ma una bolla magnifica, multicolore. Qualcosa di spudorato, senza veli. Non esistono un kitsch buono e un kitsch cattivo. Esiste il kitsch e basta. Un grazioso giocattolo senz’anima. Del resto il kitsch è il nostro pane quotidiano. Chi lo riconosce? Soltanto pochi di noi. Però ci difendiamo da esso con mugugni da vecchi conservatori, senza sapere esattamente come e dove esso sia. In che modo deve esprimersi la nostra epoca, l’epoca delle fabbriche, delle automobili, dei bar, delle borse? In che cosa può incarnarsi in una trasposizione metafisica? In Succini, per esempio. Che dolce voluttà darsi a questa non-arte! Trovarsi di fronte a questa brillante spudoratezza e provare gioia, significa essere capaci di godere. Essere capaci di godere non significa lasciarsi trascinare dal piacere, ma afferrarlo e domarlo con la gioia, scacciarlo con una sana allegria.

Disgraziato chi non ha mai conosciuto l’ebbrezza. Infelice chi non ha mai conosciuto la spensieratezza. Miserabile chi non si è mai innamorato di una piccola commessa dalle gambe un po’ storte di un negozio di periferia, una donna banale, ma ai suoi occhi una dea. Il mondo non è così come è, ma come noi lo vediamo. In questo modo non è più ricco, al contrario, è più povero. Manchiamo d’immaginazione per poterlo vedere così com’è. Siamo troppo sciocchi per essere veramente virtuosi. Virtù non significa non commettere peccato. Virtù significa sapere che cos’è il peccato.

A una semplice giostra dai vivaci colori nei pressi della città – nell’avvallamento dietro il ponte Palacky – si presta appena attenzione. Non perché sia priva di una sua magica bellezza, ma perché quelli che vi passano accanto temono il kitsch. Nelle loro anime, che sono avvezzi a portarsi dietro in frac e colletto inamidato da un ufficio all’altro, questa giostra, con le sue frange e i suoi campanellini, il suo rivestimento di velluto rosso e i suoi galloni dorati, non evoca l’immagine di un castello incantato e di una bella principessa, come nell’anima di un fanciullo che, succhiandosi il pollice, se ne sta lì davanti in contemplazione. Nondimeno questa giostra è un pezzo di giovinezza che se n’è andato. Ormai sono diventati persone serie di raffinati gusti artistici; ormai sono poveri e avari. Ma il velluto rosso e le anatre di legno sono affascinanti, graziosissimi, è soltanto la nostra stupida esperienza a ingannarci facendoli apparire consunti e pieni di pulci. E le coccarde bianche per il giorno dei morti al cimitero di Olsany e le cornicine di perle blu intorno a rose di latta sono una stupenda celebrazione del lutto e chi le trova di cattivo gusto è uno stupido. Le catinelle di porcellana bianca e le tazze decorate con colombelle che si vedono al Kohlmarkt, accanto al venditore di uccelli dal cui negozio viene un odore di scoiattoli, sono graziosi inni alla banalità più sfacciata e assurda – e se alla loro vista non battiamo le mani per la gioia, ne ha colpa soltanto la nostra insulsa prosaicità.

Ci sono persone che hanno paura di spendere denaro per procurarsi qualche piacere. Non credete loro se vi dicono di essere virtuosi. Sono deboli, sanno che non avrebbero la forza di dire «basta», che continuerebbero a gridare «ancora»; è per questo che, pieni di superbia, dicono «mai». Per essere capaci di leggerezza bisogna avere dello spirito. Che la leggerezza sia frutto della disperazione non è che un luogo comune. Prendere sul serio la leggerezza è di cattivo gusto. Ma assaporare la leggerezza senza lasciarsene prendere la mano è una forma superiore di vita. Stendhal la elogiò ma non riuscì a controllarla perché era vanitoso; Laforgue vi riuscì e morì proprio per questa forma di vita che oggi viene cantata da Jules Romains. Evviva gli allegri compagni capaci di andare con leggerezza al fondo delle cose!

Chi prende il kitsch sul serio manca di gusto. Il kitsch non vuole essere preso sul serio. Ci ammicca, ci stordisce, ci abbaglia e sta a noi non lasciarci abbagliare. Gioitene e poi prendetevi gioco di esso. Tenetevene a una certa distanza e passategli serenamente accanto in una bella mattinata di sole come questa. Smascheratelo, in modo da renderlo innocuo. Una volta smascherato qualcosa, lo si può anche amare, un po’ per pietà, un po’ per scherzo. Ma chi disprezza il kitsch è ridicolo, come le signore distinte che disprezzano le donne di strada. Noi abbiamo bisogno del kitsch per superarlo. Abbiamo bisogno di tutto ciò che è brutto per sbarazzarcene. Questo è un processo sano, grande, importante che avviene nell’uomo. È il processo stesso della giovinezza. Quanti si sono liberati di piccole meschinità, possono assurgere alla giusta grandezza. Quanti invece non hanno avuto questa possibilità si consumano nel maligno desiderio di piccole bassezze che poi commettono di nascosto non appena nessuno li osserva.

Molte persone giuste si volgono dall’altra parte, sdegnate, di fronte al kitsch. Diventano pesanti. Ma la leggerezza è un dono di Dio. Nella leggerezza c’è più verità, più morale, più spirito. Le persone più leggere sono al tempo stesso le più pesanti e, giacché stanno alle sommità, sono sole.

Questo primo sole primaverile di fine gennaio mi spinge a questo inno alla sbrigliatezza; le piccole vetrine piene di cianfrusaglie sono allegre come le statuette colorate e gli orribili manifesti all’entrata dei cinema e le croste che si vedono alle esposizioni e la musica che risuona fastidiosamente per le strade; metà paese, metà piccola città, formiamo nell’insieme una metropoli dove il cattivo gusto strilla e tira fuori la lingua a ogni angolo di strada. Che sciocchezza è voltarsi dall’altra parte sdegnati. Tutto è vita. Il mondo sarebbe noioso da morire se ci riservasse soltanto nobili piaceri. Gli uomini sono grati alle ragazzine della loro giovinezza come alle donne della loro maturità. Hanno ragione. Non si prova forse riconoscenza verso ciò che ci ha arricchito? Ecco quanto di più immorale esiste al mondo: la mancanza d’intuito e la stupidità. L’uomo che è consapevole di quello che fa può già contare sul perdono di Dio. Voltarsi dall’altra parte, sdegnati, di fronte al kitsch è altrettanto immorale quanto adorarlo: in entrambi i casi non sappiamo quello che abbiamo davanti. Ci sono cose che è del tutto assurdo prendere sul serio, ma contestare la loro importanza significa essere ciechi. Ci sono cose tanto necessarie, giuste, buone – e inutili come un suicidio mancato. L’uomo deve poter guardare oltre le montagne.

Tutte le folli ragazzate della nostra vita lasciano in noi ricordi felici. È in queste pazzie che mettiamo il meglio di noi stessi, la nostra inesperienza, la nostra voglia di vivere, i nostri desideri, il nostro slancio. Basta che esista una sola persona buona e leggera perché Dio perdoni a migliaia di cattivi giusti.

Noi non conosciamo la vera gaiezza. Essa non ci è data. Non sappiamo essere spiritosi, ma solo rozzi e scurrili. I nostri cabaret sono – salvo rare eccezioni – volgari. I nostri giornali umoristici miseri e scadenti. I nostri ritrovi notturni, i bar, le sale da ballo e gli altri locali di infimo ordine oppure noiosi. Noi non abbiamo niente in comune col kitsch. Nei nostri vagabondaggi notturni ignoriamo la tenue grazia dei parigini. Il vino ci rende sentimentali e piagnucolosi, sognanti e malinconici. Divertirsi, da noi, è considerato un male. Al contrario, divertirsi significa dare ossigeno all’anima. La gaiezza è l’igiene spirituale dell’uomo, un soffio d’aria pura in una stanza che sa di rinchiuso.

Questa paura di perdere la propria dignità, questa incapacità di un sano ridere – vi assicuro che sto parlando di qualcosa di delicato, fine e prezioso, quantunque non sembriate credermi – sono la più grande maledizione della nostra vita. Se riuscissimo ad essere più leggeri, riusciremmo anche ad essere più naturali quando si tratta di essere seri.

 

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