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Les nouveaux réalistes: Gabriele Drago

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di

Gabriele Drago

 

Siamo precipitati sulla calce, rotolando tra i ciottoli, nella polvere. Andrea modellava il mio viso con carezze lancinanti. Si allontanava per guardarmi, poi mi afferrava la mandibola e mi baciava. Anche io lo stringevo forte, ma nel furore gli ho preso la testa e glie l’ho sbattuta su una pietra per cinque o sei volte. L’ho sollevato da terra e l’ho lanciato su uno stelo di ferro che sbucava da un pilastro. È rimasto trafitto nella schiena, con i piedi che pendevano da un lato e le braccia da un altro. Mi sono inginocchiato per baciarlo ancora. Passavo le dita tra i suoi capelli, con una mano gli reggevo la nuca. La montagna di pietre faceva da sfondo al suo corpo tragico e il Bobcat scintillava sotto gli ultimi raggi di sole.

Siamo stati in questo posto che tagliato così sembra un paesaggio lunare, ma se allargassi l’inquadratura si mostrerebbe per quello che è: un deposito di pietre per la costruzione di un palazzo in mezzo alla campagna. Siamo stati qui perché Andrea doveva parlarmi, anche se a me nel tempo libero piace stare in silenzio.

Con il lavoro che faccio, il rappresentante porta a porta, mi tocca dire e spiegare, fino a che me ne devo stare zitto.
Ho provato a farmi una posizione con la mia professione, il fotografo, ho guadagnato poco, pochissimo, niente. Mi è toccato vivere con i miei e a un certo punto ho dovuto scegliere se sottostare alla dittatura di mio padre o alla schiavitù di un capo. Scelsi la schiavitù. Questa è la libertà alla quale posso aspirare, passare da una gabbia più piccola una più grande, cercare di stare comodo. E adesso sono comodo, talmente comodo che non me ne frega nulla.

Quando io e Andrea ci incontravamo per parlare, in realtà nessuno ascoltava l’altro. Ci conoscevamo da una vita e sapevamo già cosa ci saremmo detti. I problemi erano sempre gli stessi, forse variavano gli attori, ma il copione rimaneva uguale.

«Non risolveremo mai i nodi delle nostre esistenze, qualcosa sempre resta e non cambia. I traumi dell’infanzia, l’orrore a fondo perduto che sono le nostre vite», lo sappiamo.

«Siamo stati abituati alla menzogna. Le ansie dei nostri genitori dovevano essere placate con una vita finta che stava diventando vera. Quelli che conosco fingono di essere maturi e fingendo diventano tristi, come gli adulti che sono. Su questa pietra abbiamo costruito la nostra chiesa» e via dicendo con il lamento continuo al quale non credeva neanche lui.

Mentre parlava, Andrea aveva strappato una spiga che faceva scorrere tra le dita. Aveva preso un masso e l’aveva spaccato per terra. Era rimasto a guardarne i frantumi. Tirava le pietruzze al muro secco. Sembrava che la sua volontà fosse quella di distruggere tutto ma operava senza rabbia, per gioco.

Per giustificare la mia presenza in quel luogo con Andrea, avevo portato la macchina fotografica. Almeno avrei trovato qualcosa di insolito nella ripetizione delle nostre vite. È la magia della fotografia che salva dalla noia. A un certo punto un palo o una pietra escono dalla banalità della loro presenza e diventano interessanti senza motivo.

Andrea aveva smesso di drogarsi, mi diceva, anche se non ci sarebbe nulla di male nell’andare ancora a un rave party o nel prendere un goccetto di acqua più all’mdma, ma no, tempi andati quelli. Adesso pensava alla carriera, anche di sabato. Si addestrava alla rinuncia come un asceta. Aveva trovato altri modi per togliersi di mezzo.

Nelle palestre o nei corsi di fitness, Andrea immaginava di non morire mai. Nel mangiar sano, nelle verdurine, nel tofu, la malattia non lo avrebbe sfiorato. Nel flusso infinito della Home, dove con un click discerneva il bene dal male, lui che si era autogenerato, che era padre e madre di se stesso, imprenditore di se stesso, si credeva un Dio fatto uomo.

Ma la mortificazione del godimento creava la sua malattia, il suo ego ipertrofico, la colpa di non riuscire mai a raggiungersi.

Era un demone minore Andrea, tentato dal bene e inibito nel farlo. Questa la goffaggine incerta dei suoi movimenti, il dubbio timoroso che si portava dietro dal liceo. Se avesse saputo scegliere il bene, il suo bene, sarebbe stato più sicuro, in pace o morto. Sempre meglio dell’inferno in cui si era cacciato, con la sua vita finta, a non voler deludere nessuno.

Siamo stati in questo cantiere aperto e fermo. Io fotografavo, Andrea parlava. Parlava della complessità della mente, se ricordo bene, di chi siamo noi e di chi sono loro e di quanto di loro c’è in noi, della riflessività del giudizio, tipo giudica e sarai giudicato, e tante altre cose, le solite cose, che non ricordo.

I discorsi erano più difficili rispetto a dieci anni fa, servivano più concetti per comprendere cosa ci stava succedendo. Quelli di Andrea apparivano però come formule di cortesia per compiacere il suo pubblico che in quel momento ero io. Si sentiva che la sua voce non era autentica, che le parole non aderivano alla carne. Ma che bisogno aveva di fare così anche con me? Conoscevo la sua nullità e gli volevo bene lo stesso quando perdeva quella solennità ebete e il sorriso gli si allargava mentre ci insultavamo le madri o quando saltava sulle panchine del lungomare in inverno o mentre tirava un calcio alla lattina schiacciata che portavamo ai passaggi fino in macchina.
Le sue menzogne erano diventate mediocri, non aveva le abilità per creare il personaggio glorioso che voleva essere. L’esistenza misera che spesso raccontava era più misera di quella che viveva. «Se la gente sapesse quanto è poco interessante non sarebbe più mia follower», si preoccupava.

Il controllo esasperato del feedback, il resoconto al minuto dei like ai suoi post, i selfie sorridenti nei luoghi dei suoi viaggi, lo consumavano.
Una volta a Cracovia era rimasto in ostello per tre giorni. Visitava un monumento, si faceva un selfie, lo condivideva e tornava in camera a contare i mi piace. La seconda sera voleva tornarsene a casa. Non avrebbe voluto fare quel viaggio, niente di tutto quello che faceva avrebbe voluto farlo. È sempre stato così. Questo il motivo della sua lentezza, lo sforzo di vivere che lo stancava come una febbre.

Mi ero interessato alla montagna spianata che faceva da pista all’aggressiva azione del Bobcat. La fotografavo ammaliato, ma non ne usciva nulla di buono. Mi ero accorto in quel momento che non volevo fotografare e non volevo neanche ascoltare Andrea. Glie lo avrei detto presto, perché io, il coraggio di deludere gli altri, c’è l’ho.

Non lo sopportavo. Dovevo dirgli di starsene zitto. A ogni sua parola mi spostavo, muovevo le pietre, creavo composizioni senza ragione pur di non sentirlo. Salivo su un masso, mi allontanavo, controllavo il diaframma, l’otturatore, non capivo nulla. Andrea mi dava la nausea con la sua luce artificiale che cercava di diffondere ovunque e allora ha dovuto dirglielo. Ho dovuto dirglielo che non lo stavo ascoltando, che non non me ne fregava un cazzo. Ho dovuto dirglielo perché gli volevo bene e non volevo mentirgli.

«Non me ne frega un cazzo, sai? Non me ne frega proprio un cazzo di quello che stai dicendo», gli ho detto.

Mi aspettavo una reazione violenta come quelle che sgorgavano della sua paranoia quando un gesto fortuito confermava la logica persecutoria con la quale interpretava il mondo. Pensavo di suscitare la sua collera e dopo avergli detto che non me ne fregava nulla della sua disperazione, per un momento, avevo perso il coraggio di guardarlo in faccia. Ripensavo al braccio rotto di Leda, la sua ex compagna, e agli occhi gonfi dell’uomo sul traghetto. A entrambi bastò scambiarsi uno sguardo per meritarsi una scarica di legnate. Andrea poi andò a rifugiarsi nel bagno in preda ai sensi di colpa.
Era una superficie colorata Andrea, sotto la quale si agitavano ingovernabili turbini.

Armeggiavo con il display della macchina fotografica, sentivo i suoi occhi di stucco su di me. Nonostante ciò continuavo a dirgli di stare zitto.

«Zitto devi stare con le tue cazzate», mormoravo con gli occhi bassi.

Sentivo che una catastrofe imminente sarebbe arrivata. Il cantiere fermo era diventato immobile. Il Bobcat teneva in alto la ruspa colma d’acqua che da un momento all’altro sembrava riversarsi sulla testa di Andrea e su tutto. Un’alluvione, un fiume in piena, la campagna allagata e il suo corpo galleggiare in una pozza di fango immaginavo. A un certo punto volevo vederlo annegato e me ne vergognavo.

«Devi stare zitto», ho detto un’ultima volta.

Andrea era fermo su una dunetta di terriccio poco più in là. Se si incazza, se mi umilia, lo ammazzo. Deve stare zitto, pensavo.
Non volevo ferirlo, ma a lato c’era un tondino di metallo sottile come i capelli di una frusta. Prenderlo e schioccarglielo in faccia, uno squarcio lungo gli farei, dalla fronte alla bocca.

Andrea non parlava più. Sentivo i suoi passi strisciare e la sua presenza avvicinarsi.

«Potevi dirmelo prima che non volevi ascoltarmi», ha detto con calma quando era a circa un metro da me.

Mi ero abbassato lentamente per prendere il tondino di ferro che stava per terra. Calcolavo che con una sola mossa sarei riuscito a girarmi e ficcarglielo nell’occhio.

«Perché non me lo hai detto prima?» continuava.

Aspettavo il momento giusto per fiondargli il pezzo di ferro in faccia, ma lui ha steso il braccio per prendere la mia mano e mi sorrideva. Quel gesto mi ha disorientato e ho lasciato cadere il ferro.

«Che vuoi con quella mano?» gli ho detto mentre gli porgevo spontaneamente la mia.

Lui ha azzerato velocemente la distanza, mi ha agganciato il collo e mi ha abbracciato. Mi sono ritrovato appeso al suo corpo, con l’orecchio vicino al suo orecchio. Non ci siamo detti nulla, poi mi ha dato una stretta forte e ho perso l’aria. Gli occhi mi si sono spalancati sulle colline bianche che circondavano il cantiere, sulle impronte lasciate nella terra dai cingoli del Bobcat. Mi ha stretto di nuovo talmente forte che il mento mi si è alzato verso il sole e il cantiere attorno è scomparso diventando solo cielo. La sua mano ha cominciato a scorrermi sul collo, ad avvolgermi la nuca, mi spingeva dolcemente la testa sul suo petto. Mi sentivo rigido, fragile e incollato come un vaso rotto. Andrea ha sollevato lentamente il viso dalla mia spalla. Le nostre guance si sono sfiorate forte. L’attrito delle barbe descriveva una linea che è finita sulle nostre labbra e le ha unite. Gli occhi mi si spalancarono ancora, ricevevo sul busto il suo peso morbido, un flusso caldo che mi scioglieva le braccia. Per alcuni larghi secondi, qualcosa di denso, di oscuro, voleva trapassarmi. Non sapevo nulla di ciò che provavo né quanto sia durato quel bacio. Eravamo sconvolti al crepuscolo. L’ultima foto l’avevo fatta alle quattro, dopo avevo abbandonato la macchina per terra e inclinato la testa per ricevere ancora le labbra di Andrea.
Le sue mani e le mie arrivarono ovunque, mosse da una forza che aveva più a che fare con la materia che con la nostra volontà. La stessa forza sovraumana che mi spinse a sfondare il suo cranio in preda all’orgia.

Quando l’alito di Andrea si è spento e ho visto la sua agonia pendere appesa al pilastro ho avuto una visione. Forse la più intensa della mia carriera di fotografo. Tutto intorno splendeva di una gloria nera. I ferri, le fondamenta, l’acqua torbida dei barili, quella specie di montagna biblica sotto la quale giaceva Andrea come un Cristo morto, erano rivoltanti nel loro ordine meraviglioso. Allora mi sono alzato dal suo volto che tenevo tra le mani, sono corso verso la macchina fotografica e ho scattato, scattato e scattato, fino a esaurire la batteria. Mi sono arrampicato sulla gru, ho scalato le rocce a quattro zampe, tornavo al corpo di Andrea, lo fotografavo e lo baciavo in uno stato di grazia incontenibile. Il mirino della macchina apriva un canale diretto con questo buco nero impronunciabile e mi univa a un grande mistero del quale ne facevo parte insieme al Bobcat e alle pietre. Diventavo immenso come la natura oscura del cosmo che attraversava ogni cosa. Mi ero frantumato altre volte nell’assurdo. Sempre deciso a scolarmi tutto il veleno, era impazzito ma non ero mai morto. Stavolta sentivo che sarei scomparso davvero, ma ero felice, pazzo di gioia per questa libertà oscena e che stavo diventando.

Vede signor giudice, ci sono luoghi dentro noi che è meglio non frequentare. Lì risiede la verità, ma ad altre leggi deve rispondere la vita, altrimenti si rischia l’estasi o il martirio. Questa è l’ultima foto che ho fatto. Andrea era morto da pochissimo. Il sangue gli cola sulla fronte e il tondino è in sezione aurea con il suo cranio, le piace? Non dà serenità allo sguardo? Non la calma?

Prove d’ascolto #11 – Andrea Inglese

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Sono testi questi di non so bene cosa. Perfetti per “Prove d’ascolto”, quindi. Esperimenti. Ma con un’idea abbastanza chiara di fondo. Sono testi performativi, o installativi, nel senso preciso del termine, ossia possono divenire parte di un progetto d’installazione sonora. Lettura performativa e installazione sonora sono modalità che ho già combinato assieme, e che mi interessa combinare ancora. Sono forse solo radioprose o monodrammi. In ogni caso, mi sembrano testi deficienti alla lettura silenziosa, e invece destinati ad essere portati dalla voce, registrata e senza corpo, o incarnata.

 

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Vero che denuncerai? Io so che tu denuncerai, non puoi davvero non denunciare, ogni cosa che scriviamo, che scrivo io o scrivi tu, poco importa, ognuna di queste cose dev’essere una denuncia, perché è così, te lo dico io, noi siamo italiani, dobbiamo denunciare, dobbiamo autodenunciarci, è l’unico modo, bisogna farlo, e in ogni frase, quando racconti, quel tuo racconto è già una denuncia, le facce dei tuoi personaggi già lo denunciano, è tutto il paese che viene denunciato da quelle facce, da quei personaggi, che in fondo denunciano l’autore stesso, figlio del proprio paese, perché anche ogni verso, ogni benedetto endecasillabo, se si presentasse il caso che uno, di endecasillabo, ancora ci fosse, in quello che scrivo io o scrivi tu, lì dentro tutto deve vibrare, negli accenti di quarta o di sesta, e in tutti quelli secondari, un vibrato d’indignazione, e la denuncia deve emergere netta, accentata, metricamente organizzata, non possiamo, lo sai bene, scrivere senza la denuncia, senza lo strascico della denuncia, senza lo sprone apripista della denuncia, in un paese come il nostro, che va raccontato e denunciato, messo in versi e denunciato, perché vedi, ascolta bene, se noi ora, che siamo sì di questo paese, a contatto con i suoi mali, ci sistemiamo bene dietro a queste righe di denuncia, se le teniamo bene tese di fronte a noi, queste continue denunce scritte, io credo che spingano tutti quanti a una certa indulgenza, perché alla fine si dovrà riconoscerlo, lo si ammeterà anche nei luoghi più inoperosi e indifferenti, “Avete visto, però, avete visto come loro denunciavano, come permanevano tutti fedeli e ligi alla loro denuncia, di questo bisognerà tenerne conto, perché loro sì erano dentro al paese, vi erano immersi fino al collo, ne respiravano di continuo l’amaro ossigeno, eppure denunciavano sempre, in ogni frase scritta, loro per non sbagliare, una denuncia l’hanno sempre espressa”.

 

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Noi siamo gli uomini che quando veniamo non stiamo attenti. Attenzione! Noi siamo gli uomini che quando veniamo, veniamo tutti assieme. Che sia chiaro! Noi veniamo assieme, noi veniamo non troppo attenti, noi siamo impazienti, perché noi uomini, oggi, lo siamo tutti assieme, disattenti, agitati, e quando veniamo non abbiamo sempre intenzione, veniamo senza una precisa intenzione, ma veniamo di corsa, quando corriamo tutti assieme, noi uomini saltiamo i gradini, noi scendiamo le scale a rotta di collo, non facciamo troppa attenzione quando veniamo così, entriamo dentro la vita. Ripeto: dentro la vita! Senza nessuna intenzione, noi uomini abbiamo la testa bassa, quando veniamo così poco attenti, è bene avere la testa bassa, lo sguardo offuscato, noi siamo tutti assieme e sappiamo abbassarci, quando entriamo nella vita come cadendo, come saltandogli addosso, noi siamo gli uomini che non fanno attenzione, che hanno una certa forza, la forza del corpo in caduta, la testa che piomba inerte, senza neppure avvertire, noi veniamo in silenzio, a volte qualcosa si libera, dei suoni da dentro, dei suoni sordi, un po’ cavernosi, ma non per parlare, noi veniamo senza attenzione per le parole, non ci lasciamo impigliare in qualche bel discorso, mentre saltiamo dentro a piè pari, saltiamo con grossi stivali, abbiamo i piedi protetti da grandi stivali da salto, abbiamo sulla testa dei casci, dei grossi caschi da caduta, sulla bocca abbiamo delle protezioni metalliche, e delle bende colorate, perché non sono le parole, ma i suoni, sono dei suoni di corpi chiusi che salgono, che passano il filtro, mettiamo le mani avanti, per cadere bene, con indosso dei gambali, delle ginocchiere, delle punte sull’elmo, quando andiamo bassi, tutti disattenti dando di testa, se calpestiamo bene, ma senza vedere cosa o chi si calpesta, ma siamo venuti da uomini, tutti assieme, senza troppa attenzione, per scendere con tutto il peso, e la nostra pelle è rovente, perché non vediamo e non sentiamo più niente, ma la pelle è rovente, quando agguantiamo certe capigliature, o urtiamo con le ginocchia le teste scoperte, o col piede affondiamo nel molle, noi non possiamo avere nessuna attenzione, quando travolgiamo la vita, solo la pelle nostra è infiammata, e tutto prude sotto le placche protettive, il metallo, e ci agitiamo con le braccia come lunghe mazze, le agitiamo davanti, senza vedere chi o cosa viene buttato all’indietro, oggi siamo venuti, così, come uomini assieme a uomini, senza nessuna possibilità di sguardo, di parola, per cadere, per calpestare qualcosa, disattenti, con impazienza d’uomo.

 

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Io davvero non me la prendo, però mi sembra strano, non mi dà fastidio che veniate, è vero che vi vedo spesso, forse è un processo anche un po’ naturale, forse è così che accade anche agli altri, agli altri gruppi, è un fenomeno diffuso, quindi quando venite non mi sembra strano, non sto’ neppure lì a dirmi: “Sono venuti a mani vuote”, oppure “Sono venuti con qualcosa”, “Anche stavolta hanno portato una cosa, un pensierino”, non ho questo tipo di preoccupazioni, anche se cerco almeno, e questo è un mio diritto in fondo, cerco di ricordarmi quale sia la frequenza delle vostre visite, e quando ci siamo visti l’ultima volta, capita persino che ve lo domandi, non credo debba avere vergogna di questo, magari le volte sono tante, oppure sono anche rare, ma conta il modo, conta davvero il modo, ora che ci penso, quando ad esempio venite fino in camera, io sono qui in camera mia, non faccio niente di speciale o di troppo intimo, e vi vedo camminare per la stanza, non so poi perché dobbiate camminare tanto stancamente, so bene che spesso vi alternate, mentre uno viene a camminare in camera mia, l’altro rimane in piedi nel corridoio con entrambe le mani appoggiate a una parete, che è davvero un modo esagerato di esprimere la propria stanchezza, o magari davvero siete in buona fede, quello che cercate di esprimere un po’ goffamente è una disinvoltura, volete convincermi che non vi intimidisco, che non sono un tipo minaccioso, però non è solo questione di modo, venite anche di rado, vi mettete a camminare fin dentro la mia stanza in quel modo maldestramente disinvolto, che denota in realtà una grande stanchezza, o forse una concupiscenza, anche se mi sembra strano vedere in voi segnali di concupiscenza, è semmai il tono della vostra voce, e il fatto che mentre uno di voi comincia a parlare, l’altro subito sembra dover fare lo stesso, uno apre bocca, e l’altro pure, uno comincia a parlare e l’altro si deve interrompere per non dare sulla voce a quello che parla, c’è sempre uno di voi che riesce a parlare prima dell’altro, e sempre ce n’è uno che deve tacere, come fosse il timido della situazione, quello che aspetta di parlare sempre troppo tardi, per poi essere costretto a tacere, ma chi parla comunque mi dà del tu, che è anche ovvio, siamo parenti, non è questo il vizio di forma, ma un vizio c’è, perché mi sembra che le domande che mi facciate non siano innocue, vi interessate a quello che avrei o meno dovuto realizzare, sembra che io vi abbia sempre fatto credere in una mia voglia impellente di realizzare cose, non di grandi cose, ma piccole faccende, viaggi in macchina con il bagagliaio pieno, lavori in casa, soprattutto in cantina, passeggiate fino al lago, passeggiate da fare parte in bicicletta e parte a piedi, ma io non ho nessun obbligo, né nei miei confronti, né nei vostri, io decido sempre di non fare un bel niente, anzi appena vi dico una cosa, appena vi metto al corrente di un mio progetto, è assolutamente certo che io non ne farò nulla, e potete venire tranquillamente fino in camera, venite in camera come se doveste cercarmi, ma non c’è nessuna sorpresa mai, io sono in camera come sempre, a volte mi trovate persino in piedi, che tocco con il naso il vetro della finestra, ma quasi sempre sono sdraiato sul letto a pancia in su, e faccio certi miei calcoli, e quando cominciate a girare con il passo stanco intorno al mio letto, per chiedermi se sono andato a venderla quella mia vecchia enciclopedia, che avevo giurato mesi prima di voler vendere, anzi di essere quasi costretto a venderla, visto che un tipo per telefono mi aveva assillato più volte, sottolineando ad ogni occasione che mi stava facendo una splendida offerta, un’offerta che può fare solo un collezionista disarmato, un collezionista completamente vulnerabile come era lui, per quell’affetto irragionevole che aveva per quella enciclopedia, la stessa compratagli, lui piccolo, dal nonno, il nonno morto strangolato, ma questo l’ho pensato io, perché appena si metteva a parlare del nonno aveva un tono smarrito, o forse un tono spaventato, e si capiva che era successo qualcosa di terribile a quel nonno, ma io non mi ero messo a infilare i libri dell’enciclopedia in uno scatolone, che era davvero un’inutile enciclopedia per ragazzi, di quelle che non si leggono né da ragazzi né da adulti, e che avevo stupidamente ancora in giro per casa, ma io l’ho detto a queste persone, quando una di loro comincia a parlare e l’altra si zittisce, gliel’ho detto, “Sto facendo un enorme lavoro su di me, e questo lavoro voi non potete nemmeno immaginarlo, io mi preparo ad anni di calcoli, ad anni di calcoli razionali, non in senso strettamente matematico, non so neppure bene come dirlo, ma dovete credermi, io voglio calcolare tutto, ma in modo non diverso da quanto farebbe, o fa giornalmente, il buon padre di famiglia, il padre di famiglia di media autorità, il padre di famiglia non patriarcale, quello che non ammazza di botte la moglie, che non prende a calci la figlia, quel padre responsabile che non getta tutti i soldi nelle scommesse, io voglio calcolare tutto, come quel padre lì, ma più lucidamente, cioè più esplicitamente, meno incosciente e più conscio, io voglio che dove il medio padre di famiglia è portato a muoversi in modo un po’ inconscio, ebbene esattamente lì io voglio muovermi in modo perfettamente conscio, e tutti questi calcoli io devo anche trascriverli, in modo che possa leggermeli nel momento che agisco, non per niente, è una cosa molto rigorosa, ma è anche un principio semplice, io voglio che ci sia conscio dove c’era l’inconscio, e per fare questo la tenuta mnemonica non basta, ci vuole un quaderno, cose scritte nero su bianco, e se io devo uscire a comprarmi un’aspirina, voglio non solo pensarci su, e poi mettermi in moto, voglio anche verificare sul quaderno che effettivamente mi trovo in quell’esatta circostanza in cui è del tutto raccomandabile comprare un’aspirina, e quindi alzarsi dal letto, per recuperare scarpe, portafoglio e cappotto, e dirigersi con le chiavi in mano fuori di casa, chiudendo la porta, a chiave, dietro di sé, questa cosa io devo poterla leggere, senza che la lettura intralci la mai risoluzione pratica, per questo il quaderno con i calcoli me lo tengo legato intorno al collo con un cordino, e mi basta tenerlo aperto con una mano per leggere, avendo l’altra mano libera per infilarmi una scarpa dopo l’altra, perché è chiaro che si possono fare tantissime cose con una mano sola, con soltanto una mano libera, per cui nessuno può ora ignorare che io sto facendo questo enorme lavoro, ma non lo faccio per voi, non crediate che lo faccia per liberarmi di voi, lo so che venite fino a qui; in camera, per parlarmi di come sono finiti i miei progetti, di come si sono tradotti, concretamente, i miei precedenti propositi, non lo faccio, questa cosa del quaderno dei calcoli, per togliervi di mezzo, anche perché non è che io vi veda veramente come degli esseri vicini, intimi, mi sembrate piuttosto essere sconosciuti, giunti qui dentro per caso, e rimasti intrappolati in una conversazione di cui non capite veramente il senso, ma che mandate avanti per timore o superstizione, non siete miei consanguinei in verità e nemmeno io devo giustificarmi davanti a voi a tutti costi, mettendovi al corrente del quaderno di calcoli, e dell’enorme lavoro che mi attende.

 

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Ad ognuno di noi è stato fatto capire, non so nemmeno io bene quando e come, non è che a scuola siano così insistenti su questo punto, e nemmeno a casa, in famiglia, durante cene o pomeriggi domenicali, ma lo abbiamo imparato molto bene, lo sappiamo, come fosse un istinto, uno strano istinto, dobbiamo diventare qualcuno, essere qualcuno, dobbiamo almeno cercare, far finta di esserlo, dobbiamo darci da fare per questo, si è felici a questa condizione, se ci arriviamo, non si sa bene quando, poi le cose vanno meglio, la vita sembra felice, si esibisce quel tipo di sorriso, si allunga il braccio elastico per dare certe strette di mano, si è meglio piazzati sui due piedi, davvero, con un senso molto maggiore della gravità terrestre, quando si è diventati qualcuno, lo sguardo, anche, diventa subito panoramico, invece che intrappolarsi in dettagli spiacevoli, in chiazze per terra, ombre sui volti, ragnatele negli angoli dei soffitti. La nostra società è così divisa: ci sono un certo numero di qualcuno, e poi ci siamo noi, quelli qualunque, che facciamo massa anonima, i qualcuno è gente che nessuno può confondere, scambiare con altra gente, i qualcuno hanno qualcosa di inconfondibile, è una nube traslucida, una sorta di aura, malgrado tutto dev’esserci rimasta un po’ di aura, ne circola ancora intorno al viso dei qualcuno, questi sono come perfettamente avvitati dentro la loro vita, se sono sposati sembrano avvitati alla perfezione dentro il loro matrimonio, se sono accoppiati liberamente e informalmente, lo sono in modo fondato e disinvolto, e naturalmente hanno un lavoro, anzi una professione, e la loro professione fornisce professionalità ad ogni loro gesto, e nel loro lavoro, nella rete di rapporti lavorativi, così come nel loro ambiente lavorativo, in senso concreto, spaziale, architettonico, e non solo morale, i qualcuno sono avvitati benissimo, saldi dentro la rete, dentro gli spazi, che sembra un miracolo si riescano persino a muovere, potendo staccare uno dopo l’altro i piedi da terra, ma poi, se questa persona è un qualcuno nella sua professione, egli sarà anche maledettamente, stupendamente, mobile e leggero, come fosse tenuto per un filo invisibile, e si librasse completamente sciolto e disossato nell’aria, quando sei un qualcuno non è bene né bello essere psicorigido, ossia appiccicato con ansia agli angoli, sulle sedie, nei corridoi, sulle tastiere, bisogna essere saldi, come inchiodati, ma anche mobili, come aquiloni leggeri e sorvolanti, questi qualcuno comunque sono lì, nessuno sa bene come sono arrivati, c’è sempre un mistero, un segreto intorno al loro arrivo, una leggenda, qualcosa di torbido ed eccitante, di fuorilegge e lurido, ma i qualcuno, quando noi ci agitiamo e ci diamo da fare per diventarne noi pure un po’, per averne anche noi una dose, avvitarci meglio dentro il nostro luogo di lavoro, rendendo in qualche modo certo, naturale, il salario di fine mese, noi, anche se ci diamo dentro per avere anche la mobilità dei qualcuno, e non solo la loro solida presenza gravitazionale, ce li troviamo comunque, da sempre, già lì, possono essere molto vecchi, possono essere già senili e dallo sguardo nebbioso, o possono essere addirittura più giovani di noi, i qualcuno ci aspettano, ci aspettano al piano di sopra, davanti alla porta di entrata, appena entriamo in sala loro sono già seduti, ma i qualcuno sono brava gente, gente di mondo, una volta che noi saremo sbucati dalla porta, un po’ affannati, un po’ tentennanti, con i passi che cercano di aderire al parquet, al marmo, alle piastrelle policrome, loro si alzano, non stanno sempre seduti, non siamo nel medioevo, i qualcuno è gente democratica, sono lì segretamente e da sempre, non diranno mai quando e come si sono intrufolati nell’ufficio, nella sala, dietro il tavolone, la cattedra, ma quando ci vedono, sguarniti e traballanti, nel nostro tentativo prolungato di diventare anche noi dei qualcuno come loro, si alzano, e ci tendono la mano, anche incoraggianti se la giornata è buona, o in ogni caso ci salutano, anche cordialmente a volte, oppure ci fanno un cenno col capo, una specie di sorriso, giusto per avvertirci, “Attento, sei al cospetto di qualcuno, non fare lo stronzo, non rovinare subito tutto, fai filare lisce le cose, che io ho responsabilità impensabili, e che nemmeno potrei confessarti, fai quello che devi, quindi, e chissà, chissà un giorno, forse anche tu sarai maggiormente responsabile, ma ora non perdiamo tempo, non farmi più perdere tempo”, questo lo sapete bene anche voi, un qualcuno non perde mai tempo, non può perdere tempo, è tutto occupato nell’essere il qualcuno che è, nell’esercitare la sua missione, mica come noi, quelli che il tempo lo massacrano, ne spendono a palate, lo gettano dal balcone, e tutto per cercare di diventare un po’ stabilmente, un po’ meno per finta, un qualcuno anche loro.

 

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Io questa cosa l’ho capita, anche perché è abbastanza semplice, è una regola così, molto diretta, molto facile da applicare, ma bisogna applicarla con vigore, l’unica cosa richiesta è il vigore o, diciamo, la convinzione, non so se sia meglio vigore e convinzione, o forse il convincimento, che però sembra complicare la cosa, quando invece è davvero semplice, una regola di base, da applicare ovunque, magari già andava bene nel secolo scorso, ma in questo ancora meglio, tu vai lì, insomma, e appena arrivi dici subito che va tutto bene, che è davvero una bella cosa, e che questa cosa bella ti è venuta bene, e che sei contento, e puoi pure dirlo che sei contento, anche se non deve essere necessariamente vero, con questo non voglio dire che devi mentire, che devi inventarti una contentezza che non c’è, anche perché a ben guardare ci deve sempre essere una contentezza, e quindi noi si vuole scherzare, che sarebbe davvero strano che uno che va così bene, e a cui tutto sta andando bene, non sia poi tracimante di contentezza e scherzoso, che non bisogna neppure esagerare, ma non è difficile essere contenti, per ciò questa regola è così universale e perenne, che quasi potrebbe essere definita una regola ferrea, come una legge naturale, uno arriva lì, e appena viene visto da qualcuno, o qualcuno gli si avvicina, che magari gli vuole pure parlare o sentirlo parlare, perché quello arrivato lì ha poi davvero un motivo per comunicare, mettiamo che sono io, in una qualsiasi situazione del mio secolo, appena arrivo devo cominciare a dirla subito questa cosa, prima di tutto il resto, devo dire che effettivamente va tutto bene, ma tutto di un gran bene, con quel vigore che è anche convinzione, perché, in fondo, a pensarci, non è che ci sia mai stata contraddizione tra vigore e convinzione, che sono persino, forse, due cose diverse, per cui c’è il convincimento vigoroso, ma non è che uno per avercelo deve fare uno sforzo, o meglio sì, un pochettino, uno sforzo semplice però, uno sforzo che viene facile, che può venire a tutti, non è mica come certe prestazioni atletiche, che non sono alla portata di una persona qualsiasi, io arrivo, guardo tutti bene in faccia, faccio un largo sorriso, ma più del largo sorriso conta davvero quello che dico, e io dico una cosa soprattutto, e in modo tale che da tutti sia capita, e che sia capita anche all’istante, dico: guardate, adesso, davvero, qui, va tutto bene, è ottimo, e sono contento, ma davvero contento, di una grande contentezza, perché meglio di così, anche ora che ci penso, le cose non potrebbero andare bene, e vorrei che voi ve ne rendeste conto che le cose stanno così, e tutto è quindi migliorato, è fantastico, perché uno si può anche lasciare trasportare, ora non so, non vorrei, ma credo che non ci sia niente di male, se uno si sente trasportato a dire che va tutto bene, e che quindi è contento, magari può anche dire: ragazzi, è incredibile, oppure: ragazzi, muoio di contentezza, anche se magari risulta eccessivo, bisogna fare in modo di dire facilmente una cosa che è facile: va tutto bene, siamo a posto, fila tutto liscio come l’olio, siamo in una situazione ottimale e di grande soddisfazione, e così io credo che bisogna fare sempre, anche se poi, ogni tanto, pur andando bene tutte le cose, e bene per davvero, magari a uno gli viene anche altro da dire, sì, perché magari uno ha voglia di dire una cosa un poco più difficile, non dico difficilissima, ma un po’ diversa, nel tono ad esempio, meno esagitata, uno vorrebbe stavolta cominciare con altro, magari con una qualsiasi balzana, remota, bizzarra idea che gli è venuta in testa, un’osservazione rapsodica, perché è anche così, soprattutto è così che le cose vengono da dire, si trasformano in cose da dire, uno mica lo sa con esattezza prima, quel che vorrà dire dopo, cioè mentre uno parla non lo sa, c’è un intervallo, anche piccolo, ma però uno non sa mai bene dove esattamente comincerà, con quale parola, su quale argomento, non so, magari un brutto argomento, con una parola dentro magari triste, o tristemente allusiva, ma se invece inizia con la regola d’oro, la regola ferrea, quella facile e universale, allora dice semplicemente una cosa, la stessa cosa, sempre, cioè: va davvero magnificamente bene, muoio dalla contentezza, e poi lo ripete alcune volte, con anche, volendo, delle variazioni di tono, senza il rischio di dire altro, di parlare diversamente, con dentro delle difficoltà, delle ombre, delle imprecisioni che impensieriscono, e mettono magari l’ansia.

 

 

*

 

 

Anything goes (il quaderno dei calcoli)
commento a “6 Apostrofi” di Andrea Inglese

di Elisa Davoglio

 

“objectivity”, “truth”, it will become clear that there is only one principle that can be defended under all circumstances and in all stages of human development. It is the principle: anything goes.
Against Method (1975), Paul Karl Feyerabend

 

io voglio che ci sia conscio dove c’era l’inconscio, e per fare questo la tenuta mnemonica non basta, ci vuole un quaderno, cose scritte nero su bianco, e se io devo uscire a comprarmi un’aspirina, voglio non solo pensarci su, e poi mettermi in moto, voglio anche verificare sul quaderno che effettivamente mi trovo in quell’esatta circostanza in cui è del tutto raccomandabile comprare un’aspirina, e quindi […]
Andrea Inglese, da 6 Apostrofi

 

 

I

 

così credo che bisogna darsi da fare, farsi dal fare, in relazione con altri corpi, in un tempo e in un luogo, in movimento o in quiete, in contatto o meno con le stanze, odori, organismi più o meno sensibili

 

con il sapore, il colore degli oggetti percepiti

 

 

 

II

 

negli ultimi tempi mi sono dato abbastanza da fare ed i risultati tardano ancora ad arrivare

 

ritengo di aver fatto un buon colloquio però dipende sempre dal metro di giudizio e da altri fattori

 

ho avuto buoni spunti, tutto va bene

 

“ragazzi, muoio di contentezza, anche se magari risulta eccessivo, bisogna fare in modo di dire facilmente una cosa che è facile: va tutto bene, siamo a posto, fila tutto liscio come l’olio, siamo in una situazione ottimale e di grande soddisfazione”

 

 

 

III

 

sono in attesa di essere contattato per il secondo passaggio, nel caso abbia passato il primo passaggio, in base al loro giudizio

 

poi ho mandato una candidatura, e altre candidature, senza farmi problemi di condizioni modeste, di incidenti, spifferi d’aria, colori snervanti, composte conversazioni

 

tutto è stato fatto per esibire l’uscita dalla stanza con l’angolo corretto, dalla posizione migliore per scattare immagini senza reazione, tiepide, condivisibili e dimenticabili

 

“choosy”

 

 

 

III

 

ho sostenuto un colloquio

 

se ho superato il primo passaggio, e in tal caso sarò contattato da loro entro due settimane a partire da oggi, andrò di sicuro a fare questa esperienza

 

 

 

IV

 

tra una settimana scade il termine per sapere se ho passato o no il primo passaggio presso dove tenni un colloquio e tra due settimane scade il termine per sapere se ho passato o no il primo passaggio in merito ad un colloquio individuale

 

cercavano un consulente e con loro feci un colloquio di gruppo.

 

“mettiamo che sono io, in una qualsiasi situazione del mio secolo, appena arrivo devo cominciare a dirla subito questa cosa, prima di tutto il resto, devo dire che effettivamente va tutto bene, ma tutto di un gran bene, con quel vigore che è anche convinzione, perché, in fondo, a pensarci, non è che ci sia mai stata contraddizione tra vigore e convinzione”

 

 

 

V

 

che a dire il vero, sono sempre un po’ superficiali perché si guarda più alle apparenze che alla sostanza e in profondità

 

ai colloqui di gruppo devi metterti in mostra e devi riuscire a spiccare sugli altri per determinate caratteristiche comportamentali e di personalità: ad esempio, il modo in cui tiri fuori un fazzoletto, se hai il fazzoletto, se hai bisogno in genere di fazzoletti

 

se in genere, sai uscire, entrare dalla stanza, occupando le giuste posizioni, senza imbarazzo nel raggiungere il posto giusto, il posto eletto e determinato dal metodo in atto

 

spero di essere risultato interessante agli esaminatori quanto meno per essere chiamato al secondo passaggio, che prevede (al secondo passaggio sì) un colloquio individuale e non più di gruppo.

 

 

 

VI

 

dalla stanza alzarsi, procedere, uscire

 

è replicabile con una diligente costanza senza memoria, che coinvolge e muove ogni singolo oggetto, ogni singola funzione, successivamente uguale, ripetibile

 

successivamente indistinta, applicata al metodo

 

 

 

VII

 

naturalmente non li rifiuto però per farli occorre avere determinate caratteristiche nella personalità

 

devi avere un po’ il senso degli affari, del commercio e certe caratteristiche del movimento degli oggetti, sugli oggetti, sulle funzioni replicabili, parrebbe all’infinito

 

convincere le persone richiede un certo sforzo, l’applicazione del metodo dei passaggi concatenati, conseguenti

 

il salto destinato solo ad una coerente e condivisa forma di entusiasmo, assimilabile agli applausi, alla passione leggera con cui si commuove

 

il metodo va ripassato a tal punto da dimenticarlo, renderlo freddo, autonomo, un calcolo, scritto bene, ponderato

 

 

 

VIII

 

vediamo se vengo o no contattato almeno da uno dei due nel giro di questi prossimi 15 giorni, massimo

 

 

 

IX

 

non penso che andò bene, per gli esaminatori, il colloquio di gruppo che si tenne 2 settimane fa

 

in quanto non ho ottenuto risposta questa settimana: e questa era la settimana indicata dagli esaminatori in caso di esito positivo

 

i colloqui di gruppo non sono una bella trovata secondo me: in mezzo a tante persone che si recano a farli con te devi metterti in mostra e devi riuscire a colpire gli esaminatori, superando tutti gli altri o quasi, per determinate caratteristiche della personalità

 

nel senso che lo scopo non è solo quello di vendere ma è anche quello di crescere, di espandersi sul mercato

 

e quindi cercano persone che hanno anche quelle caratteristiche per, un domani, prendere in mano i propri affari e costruirci sopra qualcosa di personale, e così via

 

qualcosa di attivo, come un palazzo dove aggiungi i piani, e che pare solido, e sicuro, per la gente che va a viverci dentro

 

la gente che deve viverci dentro, deve sentirsi al riparo dai terremoti, dalle cadute che si ripercuotono fin dentro alla camera, terrorizzando, fermando gli esterni all’ingresso, quelli che hanno paura di cadere più che di morire, protetti dal rigore del calcolo corretto, che impedisce il precipizio dalle stanze

 

però tutto questo significa anche che tante persone, diversificate nella personalità, devono omologarsi a un modello unico di personalità, uguale per tutti, per riuscire a fare lavori del genere, adeguarsi al metodo delle scale, che congiungono i piani

 

i piani che si raggiungono in massa, vengono percossi, malmessi fino alla rottura da gente che non porta più nelle tasche dei sassi per offendere, solo per apparire più feroce e pesante, solamente per metodo

 

detto questo, io penso che o devono essere tolti i colloqui di gruppo oppure devono essere mandati ai colloqui individuali, dopo quelli di gruppo, tutti i candidati

 

e solo dopo gli esaminatori tirano le somme

 

“o decido sempre di non fare un bel niente, anzi appena vi dico una cosa, appena vi metto al corrente di un mio progetto, è assolutamente certo che io non ne farò nulla, e potete venire tranquillamente fino in camera, venite in camera come se doveste cercarmi, ma non c’è nessuna sorpresa mai, io sono in camera come sempre”

 

 

 

X

 

io detti il meglio di me 2 settimane fa, ma evidentemente non sono spiccato in particolare ai loro occhi, al loro metodo di giudizio

 

“oggi siamo venuti, così, come uomini assieme a uomini, senza nessuna possibilità di sguardo, di parola, per cadere, per calpestare qualcosa, disattenti, con impazienza d’uomo”

 

la camera invasa si può tinteggiare, aprire una finestra, sollevare la polvere sotto gli oggetti, invocare altra polvere, schiantarsi, tentare, e proseguire

 

[in corsivo stralci da “6 Apostrofi”, di Andrea Inglese]

 

 

*

 

 

Prove d’ascolto è un progetto di Simona Menicocci e Fabio Teti

 

 

De crowdfunding 25 passi in file indiani

1

In occasione del suo prossimo evento pubblico, la Festa annuale che quest’anno si svolgerà il 28-29 Ottobre nella sede della ⇨ Mediateca Montanari di FANO (Pesaro Urbino), Nazione Indiana promuove un’operazione di crowdfunding, legata sia a necessità tecniche, sia alla volontà di assicurare una gestione migliore delle sue iniziative.
Dopo anni di attività gratuita e di autofinanziamento, su cui si è retta finora l’attività del sito, l’idea che ci è sembrata più apprezzabile si è concretizzata nell’ebook autoprodotto e autocostruito “25 passi in file indiani”, una selezione di testi degli attuali componenti della Redazione, scelti dallo sterminato archivio della rivista.
“25 passi in file indiani” è il tentativo di estrarre dal flusso quotidiano della forma blog la forma libro. L’ebook rispecchia le diverse anime e personalità di NI e i temi d’interesse dell’attuale Redazione.

L’ultima estate autunnale

1

di Francesca Fiorletta

Come diceva Charlot, la vita vista in primo piano è una tragedia, in campo lungo una commedia. 

Appena pubblicato da Fazi Editore, con prefazione di Pier Vincenzo Mengaldo, “L’ultima estate e altri scritti” di Cesarina Vighy è un libro sorprendente, e non solo perché è composto da un romanzo, un epistolario, una raccolta poetica e un abbozzo di pittoresca narrazione incompiuta, ma anche e soprattutto per la forte e vividissima capacità d’introspezione, per l’ironia e il coinvolgimento sentimentale che si porta dietro.
Non si può non empatizzare, infatti, con la suprema protagonista, una donna ormai molto vecchia, col corpo tristemente brutalizzato da un’atroce malattia degenerativa, ma la mente lucidissima, affilata e tagliente da far invidia alle nostre intere generazioni di nativi digitali. 

A doppia mandata ( bagatella delle porte)

3

di Giorgio Mascitelli

Nella casa dove talvolta Guido della Veloira si trova a soggiornare egli deve fare grande attenzione alle porte. Il primo problema è innanzi tutto l’assenza di un ordine generale relativo a tutte le porte, di porta in porta la situazione muta. Vi è una muta gerarchia tra le porte che nel suo silenzio spicca ancor più fragorosamente: la porta del bagno è quella che occupa la posizione principale come dimostra la dovizia di avvertimenti che la concernono; essa deve restare chiusa durante il giorno, salvo il momento in cui la si apre per accedere ai servizi, e di notte deve restare aperta per far circolare l’aria nell’appartamento dalla finestrella del bagno, che è sempre aperta, ma questo ordine notturno non è valido nelle notti di vento, che non sono rare nel posto dove si trova la casa, qualora sia aperta la finestra della cucina perché si creerebbe una corrente d’aria fastidiosa, con l’eccezione delle notti estive di calura, non frequentissime ma comunque presenti nel luogo dove si trova la casa, nelle quali detta corrente è al contrario auspicabilissima. Occorre quindi nella penombra della notte, nel cuore della quale magari ci si è destati per espletare il più ovvio dei bisogni, procedere a una veloce analisi metereologica della situazione per decidere se chiudere o meno la porta all’uscita del bagno. Un paio di volte Guido della Veloira assonnato in preda all’incertezza ha optato per una soluzione compromissoria lasciandola accostata, della quale al risveglio al mattino si è tacitamente redarguito per primo. La centralità della porta del bagno è dimostrata dalla natura sussidiaria della porta delle stanza nella quale Guido della Veloira dorme, le cui apertura e chiusura notturne sono direttamente correlate sia pure in forma inversa alla posizione della sovraordinata.  E’ comunque un destino migliore di quella della porta della dispensa, chiusa per definizione senza bisogno di giri di parole o di preamboli, così come quella della cucina è sempre aperta con la medesima assenza di spiegazioni, mentre la porta dell’altra stanza da letto della casa, ora aperta ora chiusa, sembra partecipare della stessa natura di quella dove dorme Guido della Veloira sebbene a lui non sia stato comunicato alcun tipo di regola che riguardi questa seconda stanza. La porta del salottino, invece, sembra godere dello stesso privilegio che fu accordato a Dioneo perché è aperta o chiusa a orari intermittenti senza nessun criterio, al massimo a seguito di una richiesta specifica e occasionale, ma soprattutto questa anarchia non è oggetto né di rimproveri né di rimostranze. L’unica porta che possa competere per rilievo con quella del bagno è peraltro quella d’entrata nell’appartamento, dove però non è questione di apertura o chiusura, ma di modalità della chiusura. Se la porta è da chiudere a chiave solo nelle ore che sarebbero del coprifuoco se vigesse la legge marziale oppure nelle giornate di vento, cosa di per sé chiara e naturale, di statuto più complesso si rivela l’operazione in sé della chiusura che deve essere precisa e rapida per evitare d’inverno l’entrata del gelo e d’estate quella delle mosche e delle zanzare nell’ora in cui le prime cedono alle seconde.

Come si sa, uno dei topos delle fiabe paurose e dei film dell’orrore è l’intimazione ‘non aprite quella porta’, ma qui Guido della Veloira si trova a vivere una condizione ben più complessa perché il suo problema è sì talvolta non aprire, ma talvolta è aprire oppure chiudere o anche non chiudere e poi chiudere in un certo modo. Le intimazioni non sono affatto chiare e sono molteplici e nascoste e spesso si presentano in forme amichevoli o contraddittorie, ben diversa è insomma la situazione rispetto ai tempi delle favole, quando i re erano re e gli impiccati erano impiccati, allorché il protagonista spinto dalla curiosità infrangeva il divieto emesso da una precisa personalità e apriva quella porta e magari finiva pure all’inferno, ma poi sapeva di uscirne o addirittura ne traeva dei vantaggi, facendosi perdonare per l’infrazione o incontrando qualcuno di risolutivo per la sua vita. Qui, in tutto questo aprire e chiudere senza ordini espliciti, ma solo con richiami a regolamenti e scelte obbligatorie tra due possibilità imposte, Guido della Veloira perde la testa senza la possibilità di ritrovarla come nelle fiabe. Una notte addirittura rientrando dal bagno ha battuto il naso nella porta di camera sua a tal punto era impegnato a riflettere se la porta del bagno quella notte andasse lasciata aperta o chiusa. Le cose stanno così: viviamo del resto in un purgatorio artificiale, sebbene con tutti i comfort.

Guido della Veloira è convinto che il fine di questa intensa attività regolativa, nonostante i disagi che gli provoca, sia una salubre circolazione dell’aria e la sicurezza dell’appartamento. Fa sua insomma la spiegazione ufficiale, ma non sa che un’altra finalità sottaciuta  è quella di lasciare un’impronta indelebile nel suo spirito; essa non è un effetto collaterale, ma va considerata più precisamente come un’ulteriore finalità e non certo l’ultima per importanza. Quanto alla sicurezza: forse che le cure del giorno e i timori per la nostra salute non troveranno modo di incunearsi in questo sistema di porte chiuse, di trovare scanalature, piccoli fori, di incamminarsi sotto microscopici spazi negli stipiti come una lunga fila di formiche nere?

Se bastasse non aprire quella porta o al limite aprirla come ai tempi delle fiabe, dei re e degli impiccati, tutto sarebbe più facile e anche la scelta di Guido della Veloria sarebbe più semplice:  ubbidire o non ubbidire all’unica grande paura. Qui invece c’è tutta una complessa architettura che afferma che se Guido apre o non apre quella porta, poi dovrà chiudere o non chiudere un’altra con conseguenze imponderabili, che però Guido deve scegliere liberamente, che soprattutto non deve aver paura, che non c’è bisogno di aver paura perché la paura è un retaggio del passato e quindi come tale non ha ragion d’essere oggi, al massimo esistono delle conseguenze imponderabili se lui sceglie di aprire e di chiudere ciò che andava rispettivamente chiuso e aperto o anche di chiuderlo o di aprirlo con una tempistica e una modalità sbagliate. Forse la soluzione sarebbe quella di affidare l’apertura e la chiusura delle porte a un supertelecomando o a un robottino domotico che sappia quali, come e quando porte aprire. Certo così sarebbe impossibile evacuare o riposare alle ore volute, ma a questo forse il supertelecomando o il robottino domotico saprebbero ovviare con un surplus di procedure. Le procedure hanno questo di vantaggioso che per essere eseguite richiedono concentrazione e impegno. Così il tempo scivola via più velocemente e Guido della Veloira con esso.

Hai perduto i compagni

4

di Mariasole Ariot

Michelangelo cammina sulle punte, si avvicina al bordo del fiume, si specchia nell’acqua : un riflesso non è un riflesso : è una nuova realtà descritta, uno sconfinamento. Michelangelo è un cigno, le ali spiegate si muovono solo quando apre la bocca per pronunciare l’ultima parola e la prima, quando mi guarda e mi dice : questa per me è la vita, quando ho scelto di uscire, aprire la porta.

La porta si apre e si chiude, siamo noi ad avere chiavistelli negli occhi.

Michelangelo cammina per le vie di Torino con la testa china, lo zaino sulle spalle come un guscio di tartaruga che lo protegge dalle offese , Michelangelo è un bambino ed è un adulto, porta un mondo nell’occhio sinistro e lo difende.

Eravamo tutti imprigionati nella verità dettata dall’alto, piccoli incarcerati imbottiti di bianco, con l’odore di tabacco sulle dita, il consiglio dei medici che parlava e parlava e parlava di noi e di loro, di noi che non eravamo loro. Oggetti di plastica da riempire. Dopo dodici anni è arrivato un angelo, ha aperto la porta, ha detto : esci. Vedi come muovo le mani, ragazza? Vedi come non tremo più?
Le mie mani da cui nascevano fiori ora sono strumenti, le muovo per non morire. I miei amici, invece, sono tutti morti.

Esiste un sottomondo di sguardi e di ossa, un mondo sotterraneo dove tutto si muove sottopelle, dove l’occhio vede e allucina, e l’Altro è altrove, nel fuori, nell’impossibile della comunicazione e del travaso. In questa piccola sfera, il silenzio è solo una forma per dire basta, una tragedia incompiuta e che sta sempre per compiersi : non essere mai caduti : continuare a cadere.

Poi mi sono alzato. Mia madre impiccata, mio padre con gli strumenti del dentista e non è dentista, bipolare d’occasione, mia sorella – la più bella, la più brava – nella scuola con le croci appese e le preghiere del mattino, mio fratello era mio figlio. Eppure, ad ogni sveglia, arrivava l’incubo : essere visto, spiato, vivisezionato, traghettato da inferno a inferno. Conosci Hemingway? Le sue strade : io sono una strada di Hemingway.

Michelangelo e la cena dei tre porci, Michelangelo e il giro nei musei, Michelangelo che innaffia le piante reali del giardino del Palazzo, Michelangelo che mi insegna pietre dure, Michelangelo che parla, che sale sulla torre e la percorre, Michelangelo che ride, Michelangelo che scappa, Michelangelo che installa una videocamera per controllare casa a distanza, Michelangelo e il tedesco, Michelangelo e i sotteranei, Michelangelo e la morte :

Non ho paura di morire. Ho paura di spegnermi come mio padre. Ho paura di invecchiare, ho paura della vita che mi sono perso, ho paura di finire di nuovo là dentro e non poter uscire. Abbiamo due caffè e una caraffa d’acqua : ci sei tu, e ti parlo del mio passato : questo per me è il senso. Raccontarmi. La vedi quella zona lontana? Là ci vanno i peccatori. Ora gira la testa: la vedi la cupola a sinistra: là ci andremo noi quando saremo puliti.

Tracciamo zone immobili che prima erano feconde, pietre dolomitiche parlavano, ora mute non dicono un verbo, tacciono come sassi disancorati dallo sguardo. Le pillole chiare sottraggono frammenti dalla testa, sganciano sinapsi, fanno bianco il dolore : e cos’è un dolore bianco se non la chiusa degli dei, la loro scomparsa, la negazione del particolare, della vista.
Michelangelo ha la nuca ricoperta di lividi, gli arti si allungano e si piegano in preghiera : dire : sono vivo : dire : non esisto : dire : ho paura : dire : sono salvo. Da cosa, dalle periferie dell’uguale, dalle dimenticanze incise sul muro, dalle labbra chiuse con un sonnifero, dai troppi denti, dall’inappartenenza che pronuncia la maledizione. Michelangelo cammina, Michelangelo scrive lo schema della vita : mi senti? Mi vedi? Dove non esisto sono, dove sono non esisto.

Non ho amici, ho compagni di vita, morti nella prigionia della testa, gettati fuori dalle grate, la defenestrazione delle parole mute. E la mia muta è questo continuo togliere i boccioli dalle escrescenze, questo corpo a corpo con l’uguale : ad ogni scoccare dell’ora io strappo una radice dalle mani, la pianto sulla terra. E’ un innesto, significa togliere, spremere la cute che fiorisce e poi piantarne i semi negli orti degli altri. Vedere come cresce una pianta fuori dalla mia testa.
Ho partorito un figlio nella notte, un ratto e un intestino. Il figlio piange, impreca, dice il non dire, mangia per procura : se ho creato non è per congiunzione : ho figli come magnolie che bucano il suono. Figli senza madre, senza sesso, senza vista. Nascono ciechi, e io li accompagno a morire.

Ancora tutto è assenza, le piccole sottrazioni di parole e di persone ingrandiscono sotto le lenti del cervello fino a occupare la stanza, i prati, le praterie, la pronuncia dei versi. Grandi teste di teste conosciute s’infilano negli orifizi della nuca. Entrano, si contorcono, urlano giorno e notte, e ancora nei sogni che non sogniamo più, negli alberi divorati dall’edera : s’infilano una a una : una festa per loro, l’agonia per il me che è nessuno. Contorcersi sulle parti immobili della chiusa che mi è stata data in dotazione in un anno malato di una valle malata. Non è parlare, non è distillare verbi per costruirne sensi e frasi. E’ l’orrore di ciò che non va visto, del continuo insinuarsi di corpi su corpi su corpi. Lo senti, Michelangelo, questo movimento statico invisibile agli occhi dei passanti? La senti questa voce che piange sulle mani, che sbuca dalle mani, che preme sulle mani : la senti questa nostra zona comune che c’inghiotte come una voragine senza preghiera? Io sono il non sono di questa testimonianza, di questo vociare assordante che debilita gli arti. Se un tempo era cammino, se era migrazione, ora il falco ha avvistato la preda : scendi dallo stormo, atterra, mangia piccole foglie, attendi. Hai perduto i compagni : ne arriveranno altri.

Per Inventario privato di Elio Pagliarani. Parte prima

1

di Andrea Donaera

[Pubblico qui la prima di due parti di un estratto della tesi di laurea di Andrea Donaera dedicata ad un libro di Elio Pagliarani, Inventario privato del 1959. E’ un testo relativamente poco frequentato dalla critica e che merita maggiore attenzione. B.C.]

«Su una tovaglia lisa». Inventario privato di Elio Pagliarani

  1. Inventario privato: una raccolta all’altezza dei tempi

Inventario privato, seconda opera di Elio Pagliarani, scritta tra marzo e novembre del 1957, viene pubblicata nel 1959. È importante prendere in considerazione la data di pubblicazione di questa raccolta. Il 1959 è infatti un anno particolare per la storia della poesia italiana, un anno in cui si stabilisce la fine di un periodo di transizione che vedeva scemare l’esperienza dell’ermetismo e che sarebbe sfociato in un decennio ricco di cambiamenti, nuove proposte, nuovi modi di intendere la lingua, la letteratura e la poesia. Inventario privato va collocato nello «spazio letterario» che va dal 1956 al 1959 intendendo lo «spazio letterario» nell’accezione proposta da Guido Mazzoni, cioè «l’insieme delle opere che gli autori di una certa epoca giudicano ragionevole scrivere e […] ritengono all’altezza dei tempi» (Mazzoni, 2005).

Tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli Sessanta, infatti, avvengono mutamenti paradigmatici nella poesia italiana. La conclusione dell’esperienza neorealista e postermetica realizza uno stato della poesia in cui si verifica un rapporto più complesso e problematico tra «autori, linguaggio e oggetti» (Raboni, 2005).

Molte antologie e critici fanno coincidere gli anni Sessanta con l’inizio di una sorta di nuova era, una scissione netta con la letteratura precedente; questo è dato dall’avvento delle avanguardie e, specialmente, dai capovolgimenti tematici e stilistici – tra cui la concezione del soggetto, l’abiura della tradizione lirica, il rifiuto ormai totale della condizione del poeta laureato, la formulazione di alternative linguistiche e addirittura alternative all’idea stessa di poesia (proprio Pagliarani sarà protagonista di questo tipo di cambio di assetto, con la scrittura di un romanzo in versi come La ragazza Carla).

Altri studi, per poter tracciare un percorso più esaustivo dei mutamenti della poesia nel Novecento, propongono l’analisi di un spazio temporale più ampio, che parta da prima, perché i cambiamenti che si verificheranno negli anni Sessanta «avvengono sia in continuità con il passato, sia in reazione e esso» (Crocco, 2015). Non dunque gli anni Sessanta come giro di boa netto e improvviso. È possibile provare a considerare quel decennio, invece, come conseguenza di un percorso iniziato già durante la seconda metà degli anni Cinquanta: anni che vedono susseguirsi una serie di pubblicazioni, tra la nascita di riviste che saranno determinanti nello svolgersi dei processi poetici successivi, esordi di grande rilievo o nuove opere di autori già affermati, che muovono la loro scrittura verso riflessioni diverse.

Il 1956, in particolare, viene considerato un anno topico che in qualche modo sancisce l’inizio di una svolta e di numerosi cambiamenti in atto nella cultura poetica italiana. Si tratta di una posizione proposta da studi autorevoli e oramai classici, tra cui Poeti italiani del Novecento di Pier Vincenzo Mengaldo (1978), Il neorealismo nella poesia italiana di Walter Siti (1980), Il Novecento di Romano Luperini (1981), ma anche nelle «riflessioni in tempo reale di Montale e Pasolini»1 (Crocco, 2015) e in lavori più recenti come il saggio Posture dell’io di Damiano Frasca (2011).

Nonostante sia spesso accantonata, questa seconda proposta di periodizzazione può essere un’alternativa al canone non ancora unitario della poesia italiana del Novecento, e acquisisce forza e interesse se si considerano i testi di poesia che vengono pubblicati tra il 1956 e il 1959. Del 1956 sono Il passaggio d’Enea di Giorgio Caproni; l’esordio di Antonio Porta, Calendario; La bufera e altro di Eugenio Montale, con cui si inaugura la sua svolta stilistica e l’inizio del silenzio che precederà la pubblicazione di Satura; l’esordio di Edoardo Sanguineti, Laborintus, «che, nella sua radicalità, rappresenta probabilmente il gesto polemico più forte, compiuto in tutto il Novecento italiano, contro il genere e il soggetto lirico» (Frasca, 2011); Dopo la luna di Vittorio Bodini, raccolta tutt’altro che secondaria, tra le produzioni poetiche di quel periodo. Nel 1957 prosegue il percorso al di fuori dell’ermetismo di Mario Luzi, con Onore del vero; appaiono Vocativo di Andrea Zanzotto e Le ceneri di Gramsci di Pier Paolo Pasolini, testi che contribuiranno alla inedita considerazione del soggetto in poesia, spingendo verso «una risposta alla “deflazione del soggetto”2» (ivi): è in questo momento che va formandosi una questione complessa, centrale e ancora dibattuta, cioè lo statuto del soggetto all’interno della nuova poesia italiana, che a partire dalla fine degli anni Cinquanta vede trasversalmente presenti – da Sereni a Caproni, da Sanguineti a Pagliarani – non più rappresentazioni di un io pacificamente biografiche, ma «autoraffigurazioni dell’io condotte all’insegna dei motivi della perdita e dello sbandamento» (Testa, 1999). Nel 1959, inoltre, viene pubblicato Il seme del piangere di Giorgio Caproni, e Vittorio Sereni sta lavorando a Gli strumenti umani, che verrà pubblicato nel 1965. In questa sede, si vuole proporre la pubblicazione di Inventario privato come un testo da prendere in considerazione per una mappatura delle raccolte più importanti tra il 1956 e il 1959.

Sono gli anni in cui «qualcosa in Italia è successo, e non soltanto in ambito letterario» (Frasca, 2011); anni che, come spiega Cesare Segre introducendo il periodo storico che porterà alla nascita del Gruppo ’63, «iniziano col boom economico (e solo economico). […] Restavano intatte la bipolarità Stati Uniti–Unione Sovietica, con nostra dipendenza dai primi, e la questione meridionale3; il potere della mafia aumentava4; era sempre in piedi un regime senza ricambio, data la conventio ad excludendum verso i comunisti, rappresentanti quasi un terzo dei cittadini. Forte dunque la spinta, per alcuni, a uscire da questa situazione stagnante» (Segre, 1998). E Inventario privato, come tutta l’opera successiva di Elio Pagliarani, ha in sé questo senso di coinvolgimento nei processi di trasformazione, una sorta di latente cambiamento costante, che guarda ai mutamenti della poesia, della società, del linguaggio. Questo tipo di contributo dato da Pagliarani viene considerato unanimemente da tutta la critica, ma soltanto a partire dalla pubblicazione de La ragazza Carla.5

Inventario privato viene infatti quasi saltato a piè pari, sia in antologie che in studi critici, spesso liquidato come opera di passaggio tra l’interessante esordio Cronache e il capolavoro La ragazza Carla. Ma proprio questa collocazione dell’opera in un momento di transizione della scrittura dell’autore necessiterebbe una revisione della raccolta: in un’ottica del genere, Inventario privato può acquisire connotati interessanti. Come si vedrà nello specifico in seguito, si tratta di un’opera quantomeno di rilievo in un periodo complesso per la poesia italiana, perché in grado di mantenere un legame (non strettissimo, rimaneggiato) con la tradizione lirica, ma al contempo capace di introdurre aspetti linguistici e tematici nuovi, coerenti con la visione critica di quell’epoca storica, con «la necessità di toccare le cose attraverso il linguaggio, di collocarsi entro i linguaggi correnti e insieme di spostarne i rapporti consueti» (Ferroni, 1991). Tutti aspetti che vedranno la loro apoteosi nelle sperimentazioni de La ragazza Carla, ma che già in Inventario privato vedono una precisa delineazione. Pagliarani in quest’opera prova a fare i conti con le contraddizioni storiche in cui si dibattevano gli autori a lui contemporanei: «alienazione e vitalità, industria capitalistica e mondo premoderno, contadino, o sfera semplicemente biologica: sono contraddizioni che in modi diversissimi sono presenti o centrali nel lavoro di Volponi, di Di Ruscio, secondo altre declinazioni di Pasolini, o anche di Majorino» (Cepollaro, 2015).

Pagliarani agisce utilizzando un espediente spiazzante, cioè una storia d’amore raccontata in un breve canzoniere, ma proprio per questo ancora più voluminoso potrebbe essere lo spazio dedicato a quest’opera all’interno del canone. Inventario privato si profila come un lavoro prezioso, perché vicino alle drammatiche questioni antropologiche e sociali scaturite da un secolo pieno di ambivalenze come il Novecento, ma con un approccio differente, inusuale: «In Pagliarani queste contraddizioni storiche sono chiamate a dar conto della condizione umana, a definire una specie di cognizione del dolore» (ivi). La proposta di un libro inusuale come può essere Inventario privato, considerato nella prospettiva storica e sociale nel quale è stato scritto e pubblicato, inserisce Pagliarani come uno di quei poeti nati tra gli anni Dieci e Venti del Novecento, caratterizzato dall’impossibilità di «credere, evidentemente, alla portata automaticamente universale della sua biografia nel senso della “bella biografia” di ungarettiana memoria; ma, per quanto non lo esibisca mai, crede ancora […], problematicamente, alla poesia» (Mengaldo, 2003).

 

  1. «Quella lampada fulminata nell’atrio alla stazione». Oggetti e luoghi di un canzoniere moderno

Inventario privato si presenta come un volume esile, composto da sole ventuno poesie, divise in tre sezioni: “Il primo foglio”, “A riporto”, “Totale S.E. & O.”. Ogni sezione contiene sette componimenti, i quali vanno a comporre un breve canzoniere. Si tratta infatti di poesie d’amore, poesie scritte per una donna, una «milanese signorina», e che sviluppano lo svolgimento di una relazione, durata il tempo di una primavera, e in cui l’amore del poeta non è corrisposto.

Un canzoniere, dunque, ma atipico, perché in linea con la poesia che si andava a profilare tra anni Cinquanta e anni Sessanta; siamo di fronte non solo a un tentativo di superamento dell’ermetismo, ma anche a un esempio di testo teso alla reinvenzione di un genere classico, calandolo in un asse spazio–temporale nuovo, moderno. Un «canzoniere moderno», infatti, come lo definisce Biagio Cepollaro, spiegando che «del canzoniere ha il soggetto amoroso, l’introspezione, il chiodo fisso, la coazione, il dissidio, la variazione sul tema […]. Di moderno ha l’ambientazione metropolitana, la collocazione sociale del mondo impiegatizio, la toponomastica precisa, l’ideologia della guerra fredda e della bomba, […] la sperimentazione formale per tenere dentro un registro basso-colloquiale una pluralità di piani e di allegorie» (Cepollaro, 2015).

La vicenda sostanzialmente tipica di un amore infelice si nutre di oggetti “moderni”, si svolge in ambienti urbani, tutt’altro che idilliaci, creando un contrasto suggestivo, in cui sono spesso le “cose” a caratterizzare il pathos dei versi.

Un esempio nella prima strofa della lirica che apre il libro:

 

Se facessimo un conto delle cose

che non tornano, come quella lampada

fulminata nell’atrio alla stazione

e il commiato allo scuro, avremmo allora

già perso, e il secolo altra luce esplode

che può porsi per noi definitiva. (Pagliarani, 1959)

 

Le «cose che non tornano», catalogate, accumulate, sono espediente per creare uno scenario metropolitano e angusto, l’atrio buio di una stazione nel quale i due amanti si salutano. Ed è espediente anche per lanciare la storia d’amore in quel contesto troppo più grande in cui gli amanti vivono e contro il quale contrastano: il secolo in cui «altra luce esplode», la luce «definitiva» del progresso.

Quella che compie Pagliarani è una riflessione densa, in cui storia ed esperienza privata convergono, essere e cultura si scontrano. In tutto Inventario privato la cultura “moderna” non solo incornicia o include, «la cultura […] interviene dall’esterno, socialmente, a colmare il vuoto, le lacune e manchevolezze che contrassegnano la natura umana» (Remotti, 2013): determina, antropologicamente, la natura di chi vive tra i versi del libro e non solo – «l’essere dell’uomo si realizza attraverso i costumi e le consuetudini che lo attorniano socialmente» (ivi).

Il contrasto tra contesto storico e privato è reso in modo eclatante nella lirica che segue, dove spicca un’alternanza di immagini, netta e nitida, riguardanti il momento storico (la bomba atomica, la guerra fredda, la grande «angoscia collettiva» di un’altra guerra, profilando programmaticamente il piglio etico tipico della poesia di Pagliarani) e il momento privato che i protagonisti vivono, fino però a intrecciarsi – tanto che il poeta arriva a chiedersi se, in un mondo come quello in cui vive, il suo amore ha senso di essere:

 

È difficile amare in primavere

come questa che a Brera i contatori

Geiger denunciano carica di pioggia

radioattiva perché le hacca esplodono

nel Nevada in Siberia sul Pacifico

e angoscia collettiva sulla terra

non esplode in giustizia.6

Potrò amarti

dell’amore virile che mi tocca, e riempirti

se minaccia l’uomo

sé nel suo genere?

 

O trasferisco in pubblico stridore

che è solo nostro, anzi tuo e mio? (ivi)

 

Oggetti e dinamiche della modernità non solo incorniciano la storia d’amore, ma ne determinano anche il procedere, come nella poesia seguente, in cui a dare senso e unione alla situazione amorosa è il telefono, oggetto che in quegli anni diventava consuetudine:

 

Ti dicevo al telefono (di cui

più mi prendono e pause, gl’imbarazzi

docili, e se ci udiamo respirare)

ti dicevo al telefono un amore

che urge, e perché. (ivi).

 

Ma questo discorso si rivela ancora più incisivo nella strofa seguente, in cui è proprio la vorticosa vita cittadina a definire l’agire dei protagonisti:

 

Ripensavo la gioia, il tuo alimento,

ti guardavo i capelli, il viso chiuso

e intento sul giornale dove ho finto

anch’io di leggere, rimanendo escluso,

a te seduto accanto sul tuo filobus. (ivi).

 

Si noti come la schermaglia d’amore si svolge in un esperirsi quasi classico, con il poeta timido che, seduto accanto alla donna amata, le guarda i capelli, fingendo di leggere ciò che lei legge, in una posa che quasi richiama i Paolo e Francesca danteschi.7 È il contrasto scenico a dare impatto ai versi: i due non leggono un libro, ma un giornale, e sono su un filobus – «sul tuo filobus»: l’oggetto, moderno, che diventa elemento di caratterizzazione della donna amata, quasi inventando una nuova forma di panismo tecno–morfo, un allaccio totale alle “cose” della modernità, anticipando la programmatica posizione di Giuliani nella prefazione al volume I Novissimi, secondo cui la poesia «deve essere mimesi critica della schizofrenia universale» (Giuliani, 2003).

Oltre agli oggetti, ai mezzi di trasporto e alle nuove “cose” della modernità, il tema amoroso di Inventario privato varia vagando per luoghi che si riferiscono a una toponomastica precisa, come specificato da Cepollaro. In Pagliarani (in tutta la sua opera, dagli esordi8 alle ultime pubblicazioni9) i luoghi non sono soltanto sfondo per i personaggi che popolano i testi: i luoghi, le strade, la città, «“entrano” nei personaggi e li “determinano”» (Asor Rosa, 2004). Una puntuale collocazione delle vicende (amorose, nel caso di Inventario privato) non funge solo da orpello, non ha funzione di pura connotazione (come ad esempio avviene in certa poesia della Linea Lombarda o in certi poeti dialettali romagnoli, entrambe esperienze letterarie avvicinabili a quella di Pagliarani10), «non pura cornice né semplice individuazione di circostanze, ma neanche proiezione verso l’esterno dei “sentimenti” dei personaggi, […] bensì dotazione oggettiva di realtà psichiche» (ivi). Si ha l’impressione «che “l’ambiente” pur determinandosi come ambiente, e cioè situazione storico–sociale e dimensione antropologica complessiva, sia l’equivalente al tempo stesso di un inconscio, o sottofondo, o terza dimensione, che nei personaggi in quanto tali mancano» (ivi).

L’ambientazione metropolitana si delinea in un modo mai vago, i luoghi vengono quasi sempre citati, descritti, fornendo al lettore, in una dinamica molto vicina alla cinematografia11, delle istantanee nelle quali collocare le scene – sempre del tutto incentrate sul chiodo fisso della storia d’amore. In particolare nel testo seguente (nel quale si noti, inoltre, la coazione del giornale come rifugio alla timidezza del poeta, e dei mezzi pubblici come fondale costante della scena):

 

Sarà ora di chiudere, amore,

che smetta di fare la guardia al cemento

tra piazza Tricolore e via Bellini,

di coprirmi la faccia col giornale

quando ferma la E, di attraversare

obliquo la tua strada, di patire

anche a passarci in treno

in fondo a viale Argonne

vicino alla tua casa. (Pagliarani, 1959)

 

Le movenze del poeta e della «milanese signorina» vengono modellate e collocate, «sembrano distendersi nella toponomastica» (Cepollaro, 2015). Ciò che ottiene Pagliarani è la creazione di due personaggi immessi in una coralità, il fatto d’amore esonda dalla questione privata, «si fa destino comune, collettivo, teatro metropolitano di infinite vicende. È la città che guarda il ridicolo di una speranza che dispera.» (ivi). Sin da Inventario privato «Pagliarani ha colto come pochi altri il rapporto che passa fra una quantità di esistenze individuali ingrigite nel quotidiano e la natura riassuntiva e sintetica, superumana, della grande città12» (Asor Rosa, 2004).

Il tema amoroso che appare in Inventario privato può sembrare una ripresa delle idee crepuscolari, arricchita di sottile ironia. Questo collegamento con la poesia crepuscolare contribuisce a uno scarto notevole con l’ermetismo, scarto evidentissimo in questa raccolta anche dal punto di vista tematico: si recupera un biografismo dal gusto crepuscolare e si propone una poesia d’amore sobria e viva, senza il timore di “cadere” in quel sentimentalismo che si addensava nella letteratura neorealista degli anni precedenti. Quello che, in riferimento a Inventario privato, può essere definito un “realismo sperimentale” prende forma anche e soprattutto dal modo in cui il tema amoroso viene sviscerato: si profila come una vera e propria “strategia”, simile a quelle utilizzate, negli stessi anni, con l’ausilio di tematiche diverse, da poeti come Luigi Di Ruscio e Giancarlo Majorino13.

Pagliarani, in questa raccolta, ingaggia un dialogo tra luoghi e sentimenti, mantenendo un sentimento amaro e dolente come sostrato a partire dal quale verificare tutto il processo poetico. È un’amarezza nel ricordo di qualcosa (qualcuno) di perduto, divenuto “spettro”. Come suggerisce Cepollaro, può ritrovarsi qui qualche segno della «strategia benjamiana dell’allegoria»: per Walter Benjamin, infatti, «gli spettri sono le allegorie più profonde: recisi i legami con il mondo tornano in esso carichi di significati possibili» (Pedretti, 2007).

La vicenda d’amore in Inventario privato si carica, nel susseguirsi dei testi, di questo senso ossessivo di recupero e accumulo di memorie, inventariando dati, luoghi, elencando ricordi14. La donna e tutto ciò che le concerne si agitano nei ricordi e nei versi come degli spettri che vengono riproposti in un processo allegorico. E ancora il sentore di Benjamin è presente nel meccanismo di recupero memoriale che applica Pagliarani sembra rispondere a una soluzione: «Il ricordo può fare dell’incompiuto (la felicità) un compiuto e del compiuto (il dolore) un incompiuto» (Benjamin, 2000).15

Il poeta protagonista di Inventario privato vive un amore inetto e malinconico16 («[…] non so / vivere. Amore, e tu non vieni / ad insegnarmelo»), ma che nella sua stessa narrazione trova in qualche modo una redenzione («E sono vivo, senza rimedio / sono ancora vivo») – «trapassa repentinamente in resurrezione» (Benjamin, 1999).

 

Note

1 Per Montale cfr. Poesia inclusiva, in Il secondo mestiere. Prose 1920-1979, 1996, Mondadori, Milano. Per Pasolini cfr. Dove va la poesia?, in Saggi sulla letteratura e sull’arte, 1999, Mondadori, Milano.

2 Cfr. Testa, 1999, in cui, a proposito de Gli Strumenti umani di Vittorio Sereni, si parla di «un momento importante nella storia secondo–novecentesca della deflazione del soggetto e del suo rapporto con personaggi e figure diverse».

3 Questo è un tema presente nell’opera di Pagliarani. Cfr. Pagliarani, 2006: nella raccolta del 1968 Lezione di fisica e Fecaloro è incluso un componimento dal titolo Conferenza dibattito sulla questione meridionale, dedicato al deputato socialista Guido Mazzali.

4 Anche questo tema ha coinvolto Pagliarani in prima persona. La casa editrice Cooperativa Scrittori, da lui fondata nel 1972, «iniziò le sue pubblicazioni dando alle stampe in forma integrale (circa 3000 pagine), il rapporto della Commissione parlamentare Antimafia» (Cortellessa, 2014).

5 Cfr. Mengaldo, 2003, dove si parla addirittura di «corrente “milanese”, quella che va grosso modo da Pagliarani a Loi», corrente nutrita da una «autentica passione rivoluzionaria».

6 Si noti come, nella raccolta, Pagliarani arrivi ad assumere un linguaggio non solo vicino alla lingua comune e parlata, ma anche scientifico. Questa tendenza proseguirà nel corso della sua carriera, e su tutte è da sottolineare la raccolta Lezioni di fisica, che sin dal titolo si presenta «traumatizzante – per le abitudini dei lettori di poesia degli anni Sessanta, ma tuttora in grado di spiazzare» (Cortellessa, in Pagliarani, 2006). Su questa strofa di Inventario privato si sofferma anche Andrea Cortellessa, perché utile a considerare il «linguaggio scientifico […] vero marchio di fabbrica di Pagliarani: se è vero che già in Inventario privato veniva applicato a un repertorio per eccellenza “lirico” come quello della schermaglia amorosa» (ivi).

7 Cfr. Alighieri D., 1991, La Commedia. Vol. 1: Inferno, Canto V, 130-131, Mondadori, Milano.

8 Cfr. Pagliarani, 2006. In un testo datato 1952, escluso da Cronache e altre poesie: «abbiamo il monumento a Garibaldi / il ferro lavorato dei cancelli patrizi / e questo muro che imprigiona il sole. // Non c’è tramonto se dopo / andiamo al cinematografo».

9 Cfr. Ivi. L’incipit del poemetto La ballata di Rudi (1995): «Rudi e Aldo l’estate del ’49 fecero lo stesso mestiere l’animatore / di balli sull’Adriatico, Aldo in un Grand Hotel rifatto a mezzo e già sull’orlo / del fallimento, che fallì in agosto sul più bello, lui forse non sa nemmeno ballare / aveva successo il locale di fronte al suo, Miramare».

10 Cfr. Mengaldo, 2003. A proposito del realismo del poeta dialettale di Sant’Arcangelo di Romagna Tonino Guerra: «un realismo fra crepuscolare e populista, tipicamente romagnolo, lo stesso da cui ha preso le mosse un Pagliarani».

11 Scelta stilistica che sarà sempre più forte e caratterizzante in Pagliarani, specialmente a partire da La ragazza Carla, testo in principio teorizzato per il cinema e che, una volta divenuto poesia «assume […] anche il carattere di un copione cinematografico ispirato ai modi del melodramma popolare di stampo neorealista, completo di didascalie, monologhi, dialoghi, cambiamenti di scena, flash back» (Briganti, in Pagliarani, 1985).

12 Sebbene l’intervento di Asor Rosa fin qui citato si riferisca unicamente a La Ragazza Carla: ulteriore dimostrazione della vicinanza strettissima tra le due opere e di cui si dirà più diffusamente nei paragrafi successivi.

13 Dall’intervista che Biagio Cepollaro ha concesso per la tesi di laurea da cui è tratto questo articolo: «Negli stessi anni poeti così diversi uscivano con strategie anche distanti tra loro, dalla retorica e dagli equivoci neorealisti provocando piccoli e grandi terremoti linguistici al fine di scongiurare il mimetismo e il sentimentalismo. Nel caso specifico di Inventario si saltavano di colpo tutte le pastoie dell’ermetismo e dei suoi epigoni in modo molto radicale attraverso la scarnificazione e il biografismo non crepuscolare».

14 Cfr. Testa E., 2011. È possibile cogliere un punto di incontro con quanto Testa scrive a proposito di Stracciafoglio 39 di Edoardo Sanguineti: «Si profila, nei confronti del mondo […], una relazione dai tratti quasi arcaici in cui il soggetto cerca faticosamente di metter ordine allestendo inventari, radunando dati, compilando elenchi (e l’elenco è – al di sotto di ogni sua complessa e raffinata versione stilistica – la forma primaria, come insegna Lévi-Strauss in Tristi tropici, dell’esperienza)».

15 Interessante anche il legame tra questa funzione dell’allegoria proposta da Benjamin e quella proposta da Michel Foucault, che può essere allacciata alle scelte di Pagliarani: «Il poeta […] assolve alla funzione allegorica; sotto il linguaggio dei segni e il gioco delle loro distinzioni ben ritagliate, si pone all’ascolto dell’‘altro linguaggio’, quello, senza parole né discorso, della somiglianza» (Foucault M., 1994). In Inventario privato è infatti molto presente questo richiamo verso una «somiglianza», seppur gettata in uno spazio vivido e colloquiale, fatto quindi di parole e discorsi («anche a te piace / camminare?»); un aprirsi comunque a un altro linguaggio, fatto di contatto e adiacenza con ciò che è fuori di sé e che scaturisce dalla funzione allegorica («lo spirito umano ha più bisogno / di piombo, che di ali»).

16 Anche questa volta da intendersi in un’accezione benjamiana: «Il malinconico è di casa tra le allegorie; passeggia fra di esse come, più tardi, il flaneur andrà a zonzo tra le rovine dei passages» (Pedretti, 2007). «La melanconia rende l’anima da un lato inerte e ottusa, e dall’altro le conferisce il vigore dell’intelligenza e della contemplazione» (Benjamin, 1999).

 

 

Bibliografia

 

Alighieri D., 1991, La Commedia. Vol. 1: Inferno, Mondadori, Milano;

Asor Rosa A., 2004, Novecento primo, secondo e terzo, Sansoni, Milano;

Benjamin W., 1999, Il dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino;

Id., 2000, Opere complete, vol. IX. I “passages” di Parigi, Einaudi, Torino;

Cortellessa A., 2014, in Dizionario Biografico degli Italiani, Vol. 81, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma;

Crocco C., 2015, La poesia italiana del Novecento. Il canone e le interpretazioni, Carocci, Roma;

Ferroni G., 1991, Storia della letteratura italiana, IV, Il Novecento, Einaudi, Torino;

Foucault M., 1994, Le parole e le cose, BUR, Milano;

Frasca D., 2014, Posture dell’io. Luzi, Sereni, Giudici, Caproni, Rosselli, Felici, Pisa;

Giuliani A. (a cura di), 2003, I Novissimi. Poesie per gli anni ’60, Einaudi, Torino;

Mazzoni G., 2005, Sulla poesia moderna, Il Mulino, Bologna;

Mengaldo V., 2003, Poeti italiani del Novecento, Mondadori, Milano;

Montale E., 1996, Il secondo mestiere. Prose 1920-1979, Mondadori, Milano;

Pagliarani E., 1959, Inventario privato, Veronelli, Milano;

Id., 1962, La ragazza Carla e altre poesie, Mondadori, Milano;

Id., 1985, Poesie da recita, Bulzoni, Roma;

Id., 2006, Tutte le poesie (1946 – 2005), Garzanti, Milano;

Pasolini P. P., 1999, Saggi sulla letteratura e sull’arte, Mondadori, Milano;

Pedullà W., 2007, L’Illuminista – La poesia di Elio Pagliarani: numero monografico, n.20–21, Ponte Sisto, Roma;

Raboni G., 2005, La poesia che si fa. Critica e storia del Novecento poetico italiano, Garzanti, Milano;

Remotti F., 2013, Fare umanità. I drammi dell’antropo-poiesi, Laterza, Roma–Bari;

Segre C., 1998, La letteratura italiana del Novecento, Laterza, Bari;

Siti W., 1980, Il Neorealismo nella poesia italiana, Einaudi, Torino;

Testa E. (a cura di), 2005, Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-2000, Einaudi, Torino;

Testa E., 1999, Per interposta persona. Lingua e poesia nel secondo Novecento, Bulzoni, Roma;

Id., 2011, Una costanza sfigurata. Lo statuto del soggetto nella poesia di Sanguineti, Interlinea, Novara.

 

Sitografia

 

Cepollaro B., 2015:

https://poesiadafare.wordpress.com/2015/05/14/biagio-cepollaro-su-inventario-privato-1959-di-elio-pagliarani/

Pedretti L., 2007:

http://www.filosofia.unimi.it/itinera/mat/saggi/pedrettil_ursprung.pdf

 

 

Post in translation: William Shakespeare

2

 

 

 

Sette Sonetti

di

William Shakespeare

traduzione di Massimiliano Palmese

 

 

 

15.

When I consider everything that grows
Holds in perfection but a little moment,
That this huge stage presenteth nought but shows
Whereon the stars in secret influence comment;
When I perceive that men as plants increase,
Cheered and cheque’d even by the self-same sky,
Vaunt in their youthful sap, at height decrease,
And wear their brave state out of memory;
Then the conceit of this inconstant stay
Sets you most rich in youth before my sight,
Where wasteful Time debateth with Decay,
To change your day of youth to sullied night;
And all in war with Time for love of you,
As he takes from you, I engraft you new

15.

Se penso che ogni cosa di Natura
resta perfetta solo brevi istanti,
che sulla scena siamo figuranti
a cui le stelle fanno una fattura;
se le creature al pari delle erbe
–  un solo cielo dà e toglie rigoglio –
dimenticando ogni passato orgoglio
si fanno marce, ed erano superbe;
allora so che un’incostante sorte
al primo sguardo ti offre giovinetto
ma che vorrebbe, il Tempo con la Morte,
dare ai tuoi freschi giorni un freddo letto.

Faccio la guerra al Tempo per tuo amore:
più lui ti strappa, io più ripianto il fiore.

 

18.

Shall I compare thee to a summer’s day?
Thou art more lovely and more temperate:
Rough winds do shake the darling buds of May,
And summer’s lease hath all too short a date:
Sometime too hot the eye of heaven shines,
And often is his gold complexion dimm’d;
And every fair from fair sometime declines,
By chance or nature’s changing course untrimm’d;
But thy eternal summer shall not fade
Nor lose possession of that fair thou owest;
Nor shall Death brag thou wander’st in his shade,
When in eternal lines to time thou growest:
So long as men can breathe or eyes can see,
So long lives this and this gives life to thee.

18.

Dovrei dire che sei un giorno d’estate?
Tu sei molto più amabile e più lieve.
Le gemme in maggio al vento van sciupate
e il corso dell’estate è tanto breve,
l’occhio nel cielo a volte scotta alto
che spesso quel suo oro vedi a stento,
e qualsiasi bellezza perde smalto
per caso o naturale mutamento.
Ma la tua eterna estate non sfiorisce
e mai tu perderai la tua armonia:
all’ombra della Morte non svanisce
chi sopravvive nella mia poesia.

E, fin che esisteranno occhi e sospiro,
tu vivo in questi versi avrai respiro.

 

 

 

23.

As an unperfect actor on the stage
Who with his fear is put besides his part,
Or some fierce thing replete with too much rage,
Whose strength’s abundance weakens his own heart.
So I, for fear of trust, forget to say
The perfect ceremony of love’s rite,
And in mine own love’s strength seem to decay,
O’ercharged with burden of mine own love’s might.
O, let my books be then the eloquence
And dumb presagers of my speaking breast,
Who plead for love and look for recompense
More than that tongue that more hath more express’d.
O, learn to read what silent love hath writ:
To hear with eyes belongs to love’s fine wit.

23.

Come a teatro chi è cattivo attore
scorda la parte colto da emozione,
come a una belva piena di furore
viene un collasso al più della tensione,
anch’io, insicuro, non so più affrontare
il bel cerimoniale dell’amore:
come se avessi un sasso sopra al cuore,
al culmine mi sento di mancare.
Saranno i versi miei la mia eloquenza,
i muti messaggeri del mio petto,
preghino maggiore ricompensa
di una bocca che sa parlare a effetto.

È sapere d’amore raffinato
capire un cuore che non ha parlato.

 

39.

O, how thy worth with manners may I sing,
When thou art all the better part of me?
What can mine own praise to mine own self bring?
And what is ‘t but mine own when I praise thee?
Even for this let us divided live,
And our dear love lose name of single one,
That by this separation I may give
That due to thee which thou deservest alone.
O absence, what a torment wouldst thou prove,
Were it not thy sour leisure gave sweet leave
To entertain the time with thoughts of love,
Which time and thoughts so sweetly doth deceive,
And that thou teachest how to make one twain,
By praising him here who doth hence remain!

39.

I pregi tuoi come potrei cantare,
se altro tu non sei che il meglio in me?
A cosa servirebbe il mio lodare?
Farei un elogio a me lodando te.
È un bene se divisi noi si vive,
che il caro amore in due metà si spezzi,
così che io, nel vuoto che divide,
ti possa offrire quello che ti spetti.
O assenza, saresti un bello strazio,
se un vuoto amaro non mi desse spazio
di oziare ragionando sull’amore,
per Tempo e mente dolce ingannatore.

Tu m’insegnasti a vivere sdoppiato
lodando lui, che invece è già passato.

71.

No longer mourn for me when I am dead
Then you shall hear the surly sullen bell
Give warning to the world that I am fled
From this vile world, with vilest worms to dwell:
Nay, if you read this line, remember not
The hand that writ it; for I love you so
That I in your sweet thoughts would be forgot
If thinking on me then should make you woe.
O, if, I say, you look upon this verse
When I perhaps compounded am with clay,
Do not so much as my poor name rehearse.
But let your love even with my life decay,
Lest the wise world should look into your moan
And mock you with me after I am gone

71.

Non mi piangere quando sarò andato,
non più a lungo del tocco di campana
che tetro annuncerà che ho traslocato
da questo mondo ai vermi, nella tana.
L’uomo che qui ti scrive puoi scordare.
Io t’amo così tanto da sperare
di non restarti affatto nei pensieri
se fossero per te pensieri neri.
E, se cadrai lo sguardo a queste rime,
ascoltami: l’amore tuo sigilla,
non rivangare il povero mio nome
quando sarò tutt’uno con l’argilla.

Io temo il mondo, spiandoti, lui possa
burlare te per me, già nella fossa.

 

 

73.

That time of year thou mayst in me behold
When yellow leaves, or none, or few, do hang
Upon those boughs which shake against the cold,
Bare ruin’d choirs, where late the sweet birds sang.
In me thou seest the twilight of such day
As after sunset fadeth in the west,
Which by and by black night doth take away,
Death’s second self, that seals up all in rest.
In me thou see’st the glowing of such fire
That on the ashes of his youth doth lie,
As the death-bed whereon it must expire
Consumed with that which it was nourish’d by.
This thou perceivest, which makes thy love more strong,
To love that well which thou must leave ere long.

73.

In me tu vedi un mese, uno di quelli
quando resistono poche foglie d’oro
sopra il ramo tremante, un tempo coro
dove prima cantavano gli uccelli.
In me tu vedi il giorno discendente
che al tramonto svanisce ad Occidente
e a poco a poco si fa notte e tace:
un’altra morte che dispensa pace.
In me tu vedi il fuoco che si spezza
sulle ceneri della giovinezza,
come se fosse al capezzale, ucciso
da cose che lo avevano nutrito.

Ma tutto ciò più forte fa il tuo amare
per me, che prima o poi dovrai lasciare.

 

90.

Then hate me when thou wilt; if ever, now;
Now, while the world is bent my deeds to cross,
Join with the spite of fortune, make me bow,
And do not drop in for an after-loss:
Ah, do not, when my heart hath ‘scoped this sorrow,
Come in the rearward of a conquer’d woe;
Give not a windy night a rainy morrow,
To linger out a purposed overthrow.
If thou wilt leave me, do not leave me last,
When other petty griefs have done their spite
But in the onset come; so shall I taste
At first the very worst of fortune’s might,
And other strains of woe, which now seem woe,
Compared with loss of thee will not seem so.

90.

Odiami quando vuoi, perché non ora?
Ora che tutto il mondo mi vuol male
aggiungi il colpo tuo alla mia sventura,
ma prego non sia tu il colpo finale.
Tu, se del cuore poi qualcosa resta,
non rivangare la ferita aperta,
non far seguire pioggia alla tempesta,
non prolungare una disfatta certa,
non lasciarmi alla fine del cammino
quando sofferto avrò tutti i dolori:
vieni per primo, lascia che assapori
il peso che ha la forza del destino.

Ogni altra pena non sarà gran che,
paragonata all’aver perso te.

 

Nota del traduttore

La somma di due lunghi apprendistati, quello poetico e quello drammaturgico, ha reso possibile il mio incontro con la traduzione di Shakespeare. Mi ci sono avvicinato quando mi è stata commissionata una versione del Sogno di una notte di mezza estate, poi una nuova veste per Romeo e Giulietta. Sono state per me esperienze laboriose ma felici. In entrambe le traduzioni ho mantenuto la prosa lì dove Shakespeare usa la prosa, ma un irresistibile istinto mi ha chiesto la fedeltà al ritmo dei versi, lì dove i personaggi parlano in versi. Divinità come Oberon e Titania, spiriti come Puck, amanti come Demetrio, Ermia, Lisandro, Elena, Romeo, Giulietta, eroi tragici come Mercuzio, non parlano in prosa, per Shakespeare la lingua del popolo; parlano la lingua del Libro, ovvero quella della cultura e della poesia. La sfida è stata, dunque, restituire a questi personaggi la musicalità dei versi e delle rime: che non sono solo versi e rime ma indici di cultura, consapevolezza, gioco linguistico.

La stessa cultura e consapevolezza del personaggio che dice Io nei Sonetti, del cui lavoro di traduzione presento qui un’anteprima. I temi dei Sonetti – la tragicità della Sorte, la mutevolezza delle cose al pari delle stagioni, la delicatezza del Bello, la Poesia come guerra al Tempo, l’omoaffettività tra adulto e giovane – sono quelli classici della tradizione poetica occidentale, a partire dai lirici greci; mentre il gioco linguistico – complicato, avventuroso, cerebrale – è tipicamente rinascimentale. Un gioco che tradurre in altra lingua è allo stesso tempo pericoloso ed elettrizzante. Ma è un gioco che Shakespeare sembra ancora invitarci a giocare, lanciando ai poeti il suo guanto di sfida da una distanza di quattrocento anni.

 

Abitare l’Italia fragile

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di Gianni Biondillo

Pochi anni fa, durante una giornata di studi in Triennale, rimasi colpito dal fatto che ben due relatori citarono John Kenneth Galbraith che parlando dell’Italia del dopoguerra dava una spiegazione a modo suo “inoppugnabile” dell’intimo carattere di questo paese.

«L’Italia, partita da un dopoguerra disastroso – scriveva l’economista americano – è diventata una delle principali potenze economiche. Per spiegare questo miracolo, nessuno può citare la superiorità della scienza e dell’ingegneria italiana, né la qualità del management industriale, né tantomeno l’efficacia della gestione amministrativa e politica, né infine la disciplina e la collaboratività dei sindacati e delle organizzazioni industriali. La ragione vera è che l’Italia ha incorporato nei suoi prodotti una componente essenziale di cultura e che città come Milano, Firenze, Venezia, Roma, Napoli e Palermo, pur avendo infrastrutture molto carenti possono vantare nel loro standard di vita una maggiore quantità di bellezza».

L’auditorio, composto da intellettuali, economisti, tecnici, applaudì in tutti e due i casi con entusiasmo e convinzione. Questo siamo noi, dicevano quegli applausi, questa è l’Italia. Il mio mestiere è raccontare storie, conosco gli inganni della retorica. L’accettazione supina del ritratto fatto da Galbraith mi aveva in qualche modo insospettito. Perché quella narrazione, per quanto emotivamente intrigante, era una narrazione tossica, basata su un paternalistico e buonista pregiudizio etnico. «Per diventare “narrazione tossica” – scrivono i Wu Ming – una storia deve essere raccontata sempre dallo stesso punto di vista, nello stesso modo e con le stesse parole, omettendo sempre gli stessi dettagli, rimuovendo gli stessi elementi di contesto e complessità.»

Gli stereotipi sono materiali del narratore, che sa come usarli. Chi li ripropone acriticamente fa solo pessima letteratura. Lo stereotipo immobilizza una figura, la eterna, la mitizza. Non accetta la complessità, la mutevolezza. Rifugiarsi negli stereotipi è quel che Giulio Bollati chiamava «l’abdicazione a pensare». Ascoltando la citazione di Galbraith, quel giorno in Triennale, mi chiedevo: com’era, davvero, l’Italia del dopoguerra?

Era una nazione che aveva espresso una scuola di fisica teorica di altissimo livello, al punto che oggi il 50% degli scienziati del CERN è italiano. Che in economia aveva, a detta del Financial Times, la moneta più stabile del mondo. Che per costruire la linea metropolitana milanese attuò tali e tante innovazioni che il sistema di costruzione, denominato Milan Method, fu successivamente utilizzato in Canada e in Brasile. Che esprimeva chimici come Giulio Natta insigniti del Nobel per la scoperta del propilene e con un Ente Nazionale Idrocarburiche che si giocava la partita energetica con le “sette sorelle” del petrolio mondiale, o con il reparto ricerche dell’Olivetti che nel 1964 aveva prodotto il primo personal computer al mondo.

Questa storia dell’Italia non viene mai raccontata. Perché? Sicuramente per l’influenza crociana, che mette in secondo piano la cultura tecnico-scientifica rispetto a quella umanistica. Ma questa risposta non basta. La verità è che il racconto di una Italia dedita al “bello” e all’arte è innanzitutto consolatoria per noi. Ci crogioliamo del nostro patrimonio storico, artistico, paesaggistico, in quel patrimonio, retoricamente, ci riconosciamo. Ce la suoniamo e ce la cantiamo, per farla breve. Ci crediamo esperti di musica in quanto cittadini del paese del belcanto, ma in realtà, spocchiosamente ignoranti, confondiamo il melodramma verdiano con le prestazioni trash de Il Volo. Ci fregiamo del nostro passato, come un onoficienza da appuntarci al petto. Ma questo patrimonio, è ora di capirlo, non è un onore. È un onere. E oggi, sempre più, il territorio sfinito dove viviamo, fra dissesti idrogeologici e terremoti, sembra definitivamente chiederci il conto.

Occorre una contro narrazione. Occorre raccontare l’Italia nella sua complessità, fuori dagli slogan d’occasione. Cosa significa, dopo le immani tragedie dei terremoti del 2016, insistere con lo slogan “dov’era e com’era”? Ma per farne che? Davvero crediamo che il nostro patrimonio artistico sia un “giacimento culturale” da sfruttare, il “petrolio” che ci renderà ricchi solo perché ne abbiamo a disposizione più delle altre nazioni? Cosa significa: “con la cultura si mangia”? Quale cultura? Quella che immagina le piazze storiche come scenografie dove accogliere i turisti, vestiti da centurioni? Il turismo da solo non serve, come d’incanto, per far funzionare il Paese, ma è semmai un Paese che funziona che stimola le attività produttive del turismo.

Un’Italia che funziona è innanzitutto un paese che decide di puntare su innovazione, tecnologia, ricerca, cultura. Che non separa le conoscenze ma le meticcia. Come ha sempre fatto, in realtà. Brunelleschi era un matematico oltre che un architetto, Alberti un politico oltre che un teorico, Leonardo uno scienziato, prima che artista. E non è solo storia del Rinascimento. Il paesaggio amato da Goethe è il risultato di innovazioni agricole, di economie di costa, di tecnologie fluviali. Così fino a tutto il novecento. L’artista Alberto Burri era medico di formazione, lo scrittore Carlo Emilio Gadda ingegnere, l’economista Carlo Azeglio Ciampi un filologo classico.

Per suturare le ferite del territorio il governo italiano deve partire dalla ricerca. Ricostruire per ricostruire, nell’emozione dell’emergenza, senza una visione, una pianificazione che copra l’arco di almeno due generazioni, non serve a niente. Che me ne faccio di un borgo riedificato dov’era e com’era se non so garantire l’economia che lo tiene in vita? Immaginiamo davvero che basti ridurre tutto l’Appennino a un immenso bed and breakfast diffuso? Il paesaggio è un sistema complesso, non una cartolina immobile nel tempo. Il territorio è dove insistono, spesso frizionano, tradizione e novità.

Una nazione fragile, con questa eredità gravosa, deve fare di quest’onere un’opportunità. Non mancano gli scienziati, i progettisti, le intelligenze. Dobbiamo permettere loro di interagire, di immaginare nuovi scenari d’innovazione senza lacci politico-burocratici. Sviluppare nuove tecnologie antisismiche, consci di intervenire in un panorama unico al mondo, quindi non importando protocolli a noi culturalmente estranei ma inventandone di nuovi, che contemplino la conservazione dei materiali della tradizione e la completa sicurezza dei manufatti. Geologi e sociologi, chimici e archeologi, economisti e scienziati della terra, sismologi e architetti, vulcanologi e filmaker, storici e informatici. Tutti, a modo loro, narratori di una nuova idea di nazione.

Il lavoro è enorme: riqualificare le coste, dalla Liguria alla Calabria, demolendo chilometri di inutile edilizia di scarsa qualità, ridefinire e consolidare gli argini e i letti dei nostri fiumi, riforestare i crinali contenendo i dissesti idrogeologici, liberare la Brianza dallo sprawl indifferenziato, bonificare la Terra di Lavoro dalle discariche abusive tossiche. Lavoro enorme e, per i tempi asfittici della politica, poco redditizio in termine di voti. Ma è l’unica opportunità che abbiamo, in un mercato globale sempre più interconnesso, di fare innovazione competitiva. Purtroppo non solo in Italia ci sono problemi di dissesti o di terremoti. Avere università e laboratori di ricerca all’avanguardia su questi temi cogenti significa diventare depositari di conoscenze che poi possono essere esportate ovunque.

Un paese innovativo è un paese che fa della conoscenza il suo capitale. Fa economia. Stimola l’industria agroalimentare conservando la sua peculiare biodiversità qualificando così il paesaggio storico e riuscendo a creare i presupposti economici per presidiare i borghi da ricostruire; rende le sue metropoli autosufficienti, sia dal punto di vista energetico che da quello alimentare (orti urbani, tetti coltivati, etc.); allaccia rapporti fra artigianato manifatturiero, l’industria 4.0 e l’internet delle cose; punta sulla mobilità pubblica, condivisa e dolce; ricrea condizioni di socialità diffusa. Chiama cioè all’appello le migliori menti a disposizione e le lascia sperimentare.

Salvare l’Italia fragile è salvare l’Italia tout court. Altro che Mose, Tav, Ponte sullo Stretto. Altro che tronfie cattedrali nel deserto. La più grande, unica, e davvero necessaria infrastruttura su cui lavorare per i prossimi decenni sarà capillare e diffusa su ogni centimetro quadrato della Nazione. O non sarà.

(pubblicato su Abitare numero 571, gennaio/febbraio 2017)

Prove d’ascolto #10 – Mariangela Guatteri

2

La grammatica*

 

 

 

* è la quarta parte di un libro di Mariangela Guatteri, di prossima pubblicazione

 

///

 

Una nota su “La grammatica”

di Andrea Leonessa

 

Una poetica, quella di Mariangela Guatteri, che setaccia il superfluo ed ammette, come solo possibile materiale di scrittura, quanto resta d’un (s)oggetto che si sottrae. Un materiale residuale che si libera, si sottrae per l’appunto alla forma, e dunque allo stile, per consegnarsi ad un indifferenziato che lo neutralizza, convertendolo in puro pensiero: “pensiero che è questo oggetto” come si legge nei testi, contraddistinti da un radicale minimalismo. Intuire la realtà, per l’autrice, sembra allora corrispondere all’intuizione della “realtà della parola”, quest’ultima rivelatasi come congiunzione, relazione o ancora processo sul quale poggia l’illusione stessa dell’identità, dell’io. Scrittura didascalica, spersonalizzata, che fa attrito con l’idea stessa dell’autore, etimologicamente “colui che fa aumentare”: autore, o meglio autrice, che compie qui un’operazione inversa, atta invece a sottrarre al verso una parola ancora, un verbo di più.

 

///

 

Prove d’ascolto è un progetto di Simona Menicocci e Fabio Teti

 

Il festivaliero

1

di Luca Ricci

L’uomo aveva pianificato quella gita fuori porta già da parecchie settimane: gli piaceva di tanto in tanto prendere un treno e passare il tempo in un’altra città, meglio se di provincia, lontana dal caos. Quella volta a Mantova però qualcosa andò storto. Appena varcate le mura della cittadina un gruppetto di giovani gli si parò d’innanzi con aria entusiasticamente minacciosa: sarà che la sua calvizie da chierico gli dava un aspetto saggio, o che per quell’occasione aveva scelto una giacca di lino al contempo elegante e stropicciata da intellettuale, o che per caso o per sbaglio teneva sotto braccio un paio di supplementi culturali di quelli che in genere compulsano ossessivamente gli scrittori per sapere: chi-ha-scritto-stavolta-al-posto-mio?

José Carlos Rosales, Se volessi potresti alzarti e volare

1

José Carlos Rosales (Granada, 1952) ha pubblicato otto libri di poesie, di cui l’ultimo intitolato Si quisieras podrías levantarte y volar (Madrid, Bartleby Editores, 2017; in italiano: Se volessi potresti alzarti e volare). Il libro è composto da venticinque sequenze che raccontano la storia di un uomo in fuga. Presentiamo la prima, la quarta e la quinta, a cura di Damiano Sinfonico.

*

I (Le ali)

Sarai così stanco che ti sentirai leggero,

così leggero

che anche ora potresti alzarti e volare:

Radio days: Gigi Masin

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Loops and Clouds

di Mirco Salvadori

 

L’entrata dell’edificio si avvicina. Misuro i passi mentre i sensi rimangono avvolti nella lenta vibrazione del subwoofer colpevole di espandere oltremodo i droni danzanti nelle cuffie. Il semplice tragitto lungo un viale in dolce salita si trasforma in passaggio estatico. Il display del mio dispositivo indica che l’attenzione è satura. Deeper Inside recita, premunendosi di informarmi che ora siamo all’ottava stazione d’ascolto: Arriving Here And Now. Informazioni indicizzate, forse. L’infinito viaggio assieme a Florian Becker sembra sia giunto a termine. Il sound artist tedesco mi conduce fin sulla soglia, abituando i miei sensi a vagare lungo invisibili strutture architettoniche create nello spazio indefinito, quasi presagisse ciò che i miei occhi vedranno.

Mi trovo in una Cattedrale che emana fragranza primordiale di legno e suono. È uno spazio nel quale si espone la spontaneità dell’arte musicale immersa nella complessità di una creazione architettonica che incita alla perdita dei punti cardinali a favore del viaggio indefinito. Mi ritrovo innanzi ad un oceano di suono custodito all’interno dello Studio Venezia, nel Padiglione Francia della Biennale 2017. L’inconfondibile timbro del silenzio è la prima delle molteplici percezioni che si avvertono entrando nel padiglione. Al pari di Alice scivolo lungo un tunnel che non ha una forma apparente, avanzo passo dopo passo attraversando le sale di uno dei molteplici Merzbau, il quinto forse, l’opera artistica totale, colei che riesce a riunire e far dialogare, nella sua apparente e visionaria architettura, i linguaggi dell’arte. Se l’eroina del racconto di Carrol intravvedeva appesi al muro scaffali di libri e quadri e carte geografiche, qui il tripudio della visione è dato dal numero elevato di strumenti musicali posizionati a coprir pareti e palchi, esposti come opere multimediali, preziosi oggetti dalle fattezze (s)conosciute, sapienti interpreti da sempre in grado di stupire.

“L’architettura può essere un limite per l’arte, la musica può essere un altro limite ma all’interno di questi limiti qualcosa può esistere, qualcosa di diverso dalla semplice arte visiva. Non si tratta di aggiungere campi diversi ma di moltiplicarli: il suono fornisce una particolare dimensione che non può essere raggiunta solo con la componente visuale”. Così Xavier Veilhan mentre descrive il suo progetto, un padiglione espositivo che vede la curatela del Leone d’oro 2011 Christian Marclay assieme al direttore del Musée d’Art Moderne et Contemporain di Ginevra, Lionel Bovier. Il nomade visitatore che inconsapevole varca l’entrata dell’esposizione, si ritrova in un apparente non-luogo chiamato Studio Venezia, forse un hommage da parte dell’artista francese ad una sua opera del 1993 che si chiamava, per l’appunto, Le Studio. Senz’altro una dichiarazione d’intenti su quanto s’intende fare e creare, immersi in questa virtuale foresta di legno piegato alla volontà del suono e della sua ottimale diffusione acustica.

Lo sguardo ancora indugia, raccoglie informazioni mentre l’anima abituata a nutrirsi di purezza estranea a qualsiasi nozionismo, chiede vibrazioni, vuole nutrirsi di suono. A fatica insisto nei panni del visitatore giunto fin qui spinto dall’estrema curiosità legata alla passione musicale. Con stupore scopro che l’esposizione ospita un vero e proprio studio di registrazione ad altissimo livello e decine sono i nomi degli artisti transitati e che transiteranno nello Studio: Mark Sanders & Elliott Sharp, Darla & Brian Eno, Alessandro Bosetti, Alva Noto, Thurston Moore, Lee Scratch Perry, Nicola Ratti, Sèbastien Tellier, Steve Beresford & Zeena Parkins, Von Tesla, giusto per citarne solo alcuni. Espressioni musicali le più diverse che potranno esser seguite in diretta streaming sul satellite virtuale in rotazione nel world wide web, lo studio-venezia.com.

La fame morde, paziente ha atteso io vagassi terrestre tra i terrestri raccogliendo ulteriori informazioni ma ora urla e si contorce, graffia le corde delle chitarre appese alle pareti, il nero splendore del pianoforte a coda, il vecchio Fender Rhodes e il clavicembalo, con lo sguardo azzanna Moog e sintetizzatori, strumenti a fiato e percussioni, sconosciuti emanatori di onde sonore e gigantesche balalaike capaci di preservare dal freddo anche il più possente dei suonatori. Ma un suono ora giunge, è il nero Yamaha che sorveglia lucido l’entrata dello Studio Venezia.

La tonalità inizia a giungere fluida mentre penso ad una frase letta qualche giorno addietro. A pronunciarla Angus Carlyle, ricercatore e studioso del paesaggio sonoro con una cattedra alla University of the Arts di Londra: “Passeggiate sonore performative con o senza palloncini che scoppiano, una voce che canta o una voce ambientale. L’ascolto dialogo spronato dagli imperativi degli intenti o dal desiderio di triangolare le modalità sonore per conoscere un luogo. La sollecitudine affettiva verso ciò che accade le finestre e i muri, verso le facciate delle architetture, la sensibilità acuita verso i flussi magnetici, verso le vibrazioni interne della materia, verso i cambiamenti nel calore, nell’umidità e nel vento, verso il frastuono della cicala o il respiro del bisonte, verso ciò che è pericoloso (comunque visivamente innocuo) ed il precario (qualsiasi sia il linguaggio che parli)”.

Ecco, penso seduto dentro quella foresta di legno piegato al volere del suono, ecco l’esempio che cercavo per spiegare al meglio quelle parole. Attorno a me il nomade via vai dei visitatori, il suono scaturito dai loro passi, quello dei loro pensieri. Tutto intorno il calore degli spettatori attenti e l’alternarsi dello scatto degli otturatori dei mille devices costantemente agganciati alla Grande Madre Rete che tutto ingloba. Il respiro di un’architettura apparentemente immobile che riceve e restituisce vibrazioni. Il flusso continuo di dati che scorrono lungo i cavi per esser filtrati e trasformati in materia udibile anche dopo il silenzio definitivo della fonte originaria. Siamo tutti parte di un’opera artistica che emette in continuazione suono così come la musica prodotta dai due ospiti oggi in residenza, il veneziano Gigi Masin e lo scozzese Jonny Nash.

Ho conosciuto Gigi nel corso di un programma radiofonico che conducevo negli anni ’80, era un visionario musicista che bruciava di passione e regalava il suo disco a chi lo richiedeva, un vinile autoprodotto intitolato “Wind” ora ricercato dai collezionisti di mezzo mondo. Dopo oltre trent’anni quella passione messa a dura prova dall’ottusità di una realtà musicale italiana priva di contenuti veri e troppo concentrata ad autoincensarsi, è esplosa a livello mondiale portandolo a suonare nella formazione dei Gaussian Curve con Marco Sterck e Jonny Nash che ora ritrovo piegato sulla sei corde elettrica mentre dialoga con il pianoforte usando un linguaggio ad alto potenziale virale che ben conosco. Le barriere vengono abbattute, qualsiasi discorso, sia esso basico o cattedratico, perde valore innanzi all’assoluta potenza immersiva della situazione, slegata da ogni contatto se non quello dell’ascolto.

Entro nel ciclo continuo del loop, degli accordi che si abbattono a ridosso del suo segnale salvifico e volutamente mi perdo. Mi ritrovo all’aperto mentre una silenziosa vettura elettrica conduce gli ultimi visitatori verso l’uscita; il cielo sopra Venezia quest’anno è il palcoscenico di un passaggio di nuvole mai osservate prima, formazioni dal disegno sorprendentemente astratto che continuamente si ripresentano allo sguardo nella loro corsa verso il mare, quasi fossero note imprigionate nel nastro magnetico più azzurro mai concepito.

“Il componimento del 1963, il Solfeggio (…) è scritto seguendo solo sette suoni invece di dodici. Come vede, l’idea era molto semplice e non ero assolutamente sicuro che avrebbe funzionato fin quando non l’ho ascoltato e si, se viene eseguito nel modo giusto funziona benissimo, ma, mi creda, non saprei che altro aggiungere” (da una conversazione di Enzo Restagno con Arvo Part)

 

LINK AL VIDEO: https://www.facebook.com/mirco.salvadori/posts/10155914491768322

 

 

 

come faccio senza te (1/3)

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di Giacomo Sartori

 

 

 

 

 

 

 

come faccio

senza te

giorno dopo

dopo giorno

dimmi come

faccio senza

senza te

trova tu

la soluzione

World Wide Wars [ conflitti e narrazione ]

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8 settembre – 9 settembre
Dal 8 settembre alle 14:30
al 9 settembre alle 18:00

Museion Bozen-Bolzano
Piero Siena Platz / Piazza Piero Siena, 1
39100 Bozen / Bolzano, Trentino-Alto Adige

Convegno letterario – Literaturtagung

Venezia 74 – Un caso di Realtà Virtuale

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di Lorenzo Esposito

Quando due anni fa Tsai Ming-liang presentò a Venezia l’inquadratura fissa intitolata Afternoon, dove un regista e il suo attore feticcio (Tsai Ming-liang stesso e Lee Kang-sheng), installati nel quadro bucato di una casa diroccata, consumano una delle ossessioni amorose più sconcertanti e appassionanti della storia del cinema, l’ingenuo accostamento fatto dai più con certa tendenza museale dell’ultim’ora era già di per sé disinnescato dall’ambizione tutta umanistica e apocalitticamente intrecciata all’annuncio del cineasta taiwanese di non voler fare più ‘film’.

Ragazze elettriche in un mondo elettrico

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di Francesca Fiorletta

Quanti miracoli ci vogliono? Non tanti. Uno, due, tre sono già molti. Quattro sono un’enormità, persino troppi. 

Naomi Alderman ha scritto un romanzo violento, brutale, angosciante. Ragazze elettriche, appena pubblicato da Nottetempo Edizioni, è un viaggio senza ritorno – e senza miracoli – nell’intolleranza di genere.

Ispirato dalla lettura de Il racconto dell’ancella, e supportato nella stesura dalla stessa Margaret Atwood [“che ha creduto in questo libro quando era ancora allo stato embrionale”, così scrive Alderman nei Ringraziamenti] Ragazze elettriche è un romanzo che ruota sostanzialmente attorno al pericoloso quanto invitante perno del potere. 

Qualcosa, là fuori

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 di Gianni Biondillo

Bruno Arpaia, Qualcosa, là fuori, Guanda, 2016, 217 pagine

Quando Livio era giovane ha vissuto il mondo che stiamo vivendo noi oggi. Era uno scienziato di ottima vaglia, impegnato contro una politica ambientale dissennata, ma era anche persona fra le persone, che doveva vivere la sua vita, fatta di piccole soddisfazioni private, oltre che d’inquietudini pubbliche: un lavoro, una moglie, un figlio. La società dove viveva, la nostra, opulenta e indifferente alla gestione dell’ambiente, non si rendeva conto di aver ormai innescato un irreversibile cambiamento climatico dai tragici e inesorabili effetti.

Ma tutto questo ci verrà raccontato strada facendo. Perché è un “on the road” Qualcosa, la fuori. È la storia di un viaggio della speranza di una colonna di clandestini che, da un’Italia ormai ridotta a landa arida, abbandonata, governata da bande criminali, passando per un’Europa disfatta da un clima crudele, dove i fiumi sono alvei vuoti e i laghi pozze di fango, cercherà di trovare rifugio in Scandinavia, Eden mediterraneo circondato da uno sbarramento militare anti rifugiati.

Il problema dei romanzi apocalittici sta, spesso, nelle spiegazioni puerili dello scenario dove muovere i personaggi. Nel romanzo di Bruno Arpaia, invece, le ragioni scientifiche dello scenario sono la storia stessa. La credibilità del mondo descritto è davvero inquietante. Arpaia sa di cosa parla, ce lo spiega con dovizia senza mai essere didascalico. La lingua usata è chiara, non ha bisogno di metafore ardite, perché anche solo la descrizione del futuro mondo catastrofico è, di suo, un’immensa allegoria.

In questo caso non ha senso parlare di fantascienza apocalittica, ma di un autentico romanzo scientifico. E perciò etico. Il futuro ferino verso dove stiamo andando lo stiamo scrivendo noi, con la nostra indifferenza. Resta l’umanità ferita che resiste però, quella di Livio.

 

(precedentemente pubblicato su Cooperazione numero 24 del 14 giugno 2016)

Il Padre. Un’ustione

2

 

di Andrea Donaera

 

Che vuoi?

Jacques Lacan

 

 

I.

Ti immagino, ormai: e basta.

Un fumetto, colori,

cartapesta, nel presepio spento,

i miei anni, che non vengono,

tutti noi. Sei la norma,

l’amico, questi mesi.

La mia pazienza di blatta sul tuo cuscino,

che così ci immagino, ormai: e basta:

nei terrori, nei colori.

 

 

II.

Non hai nemmeno un nome, certe volte, sei solo

il Grande Altro, là, fuori, e mi spunto ogni fare,

ogni dire, e dinoccolo ogni andare, attraverso,

attingendo da te, fontana tutta sangue,

sei altro, che preme, e sfonda,

sei lupo, sei fame, sei la mia stanchezza,

sei la mia bambinezza, sei io, solo e triste e altro,

che ho una matita, e un temperino, e buco

un foglio appeso al petto,

e quanto mi pento, quanto mi pento.

 

 

III.

Sapessi che cosa sogno, sapessi,

la mia schiena, come uno scoglio sporto,

un mare marcio, ti ci bagni le mani

(sono spettri scossi, meduse tremule),

mi sveglio sempre spastico, poi, sento

un suono, un fischio spesso, nell’orecchio.

[Padre, non dovrebbe essere questo.

(E non lo è: faccio finta.)]

Ritorno al letto, mi ci seppellisco.

 

 

IV.

La lotta è sempre per non riconoscerti [tra le divise grigie in fila al bar

che mai ti ricordano, mai ci sei (tra i suoni di un disco metal prestatoti

per l’energia al lavoro e mai tornato, per sempre ormai imprigionato nel limbo

del tuo ultimo computer utilizzato)], la lotta sempre per non distorcerti

sfumato in un tiro di sigaretta tra il giallo poroso dei magazzini

[quelli dei pescatori, dove andavi a tirar le somme (lì ti cercammo

banali nel terrore, lì non eri)], una lotta che stanca e mi strattona,

mi annerisce ogni quesito, mi sbarra, mi fa io e me, mi fa prima e dopo te,

e in certi pomeriggi assorti crollo, mi apro una parentesi che socchiudo,

mi scopro essere niente e sgretolato, tu in sogno mi ricomponi, paziente

(pulisci il mio mento sporco di gelato).

 

 

V.

C’è il diluvio e ci penso:

il tuo scrosciare su questo mio tempo.

Comprendo cosa ho fatto

nel passare inutile del mio tempo:

un bagnare incessante

questa nostra terra. Che però secca

e può solo seccare,

al tatto decomporsi,

tra le dita farsi polvere, farsi

te.

 

Trou Stories

2

Il mondo visto da un buco

di

Azra Nuhefendić

 

In prima elementare ero molto amica di Vesna. Era bella, bionda e molto simpatica. All’epoca era l’unica un po’ cicciottella. Ero però affascinata da sua mamma che era diversa dalle altre. Le nostre mamme si assomigliavano tutte: portavano la “schlafrock”, cioè la vestaglia (è così che la chiamavamo, utilizzando la parola tedesca) con sopra il grembiule, erano sempre stanche per via del cucinare, dello stirare, del pulire e dello stare dietro ai figli, avevano le maniche rimboccate e le mani sbiancate dal bucato che facevano ogni giorno, i capelli senza piega.

La mamma di Vesna era bellissima, assomigliava a Rita Hayworth, mora, con i cappelli ondulati, lunghi fino alle spalle, snella, sempre ben vestita anche per stare in casa. Aveva un sorriso bellissimo e la voce che suonava come le campanelle del calesse che, ci dicevano, preannunciavano l’arrivo di Babbo Natale.

Suo marito era un ingegnere. Si erano traferiti da Belgrado a Sarajevo all’inizio degli anni Sessanta quando in Bosnia si sviluppava l’industria militare e c’era tanto lavoro. Per attirare nella Bosnia Erzegovina, arretrata e povera, gli specialisti dalle altre parti della Jugoslavia il governo locale offriva lavoro, una buona paga e anche l’appartamento.

Mi invitavano spesso a casa loro e ci andavo volentieri. Avevo un problema però. Le mie calze erano consumate e bucate (sempre). E mi vergognavo, non davanti a Vesna ma davanti a sua mamma che mi piaceva così tanto.

Da noi, prima di entrare in casa, sulla soglia si tolgono le scarpe. Per non esporre la mia vergogna, cioè le calze bucate, la parte rovinata la piegavo sotto i piedi, tiravo le calze sempre di più, rimboccandole sotto, e talvolta arrivavo al punto che la calza era più sotto che sopra. La parte sotto il piede la tenevo fissa con le dita e così camminavo, ma che dico, saltellavo come le donne cinesi alle quali una volta fasciavano i piedi per impedire che questi crescessero.

Mi capitava anche d’inciampare, ma facevo finta di nulla, e pure i miei ospiti.

In seguito, da ragazza, prima che inventassero i collant, si portavano le calze di nylon con i reggicalze. Sottili, trasparenti, so che ancora oggi sono “l’oggetto del desiderio” più per i maschi, perché per le ragazze di allora rappresentavano un problema e una spesa continua. Si rompevano facilmente, “partiva” magari solo una riga, e per ripararle si portavano dalla sarta specializzata.

Quando ero ragazza, per uscire di casa, tutto doveva essere perfetto. Era l’epoca delle prime serie TV, quelle americane dove tutte le donne erano perfette, anche le casalinghe erano vestite come se fossero a una cena di gala o a teatro. Quello era il nostro modello di vestirsi. Pensandoci oggi mi accorgo che eravamo ridicole perché tutte noi – portinaie, segretarie, studentesse, professoresse, disoccupate – ci vestivamo come Cristobal della serie TV “Dynasty”. E guai se le mie calze erano minimamente rovinate! Anche se non si vedeva, rinunciavo a uscire.

“Che stupida”, penso, ma solo adesso che sono nell’età di poter “fare l’americana”, ossia di fregarmene, perché si sa che le americane non badano a come si vestono, né all’impressione che lasciano sugli altri, purché si sentano comode. Quanti bei divertimenti, balli, appuntamenti ho perso per colpa delle calze bucate!

Negli anni novanta lavoravo con gli inglesi. Per un’intervista con l’ex presidente serbo Slobodan Milošević, arrivò a Belgrado da Londra uno dei più conosciuti e apprezzati giornalisti della BBC. La sera prima dell’intervista nell’albergo “Hayat”, a cena, si parlava degli ultimi dettagli per l’incontro. A un certo punto il giornalista, con disinvoltura, si tolse le scarpe, e io, con orrore, vidi che i suoi calzini erano bucati. Mi sforzavo di non guardare, per non fargli capire che avevo visto i calzini bucati e per risparmiargli la vergogna.

La mia concentrazione diminuì, inutilmente mi sforzavo di seguire la conversazione con attenzione. Ero fissata sulle sue calze bucate. In più mi vergognavo per lui ed ero disturbata dalla possibilità che altri ospiti del ristorante potessero vedere le calze bucate di una persona così importante.

Nessun altro ci fece caso. Il giornalista giocherellava con le scarpe sotto il tavolo, le spostava con i piedi mettendo in evidenza i suoi calzini bucati. A un certo punto il giornalista lanciò la scarpa lontano dal tavolo.

Reagii io per insito e, per risparmiare all’illustre collega l’ulteriore vergogna, mi alzai di scatto, presi la scarpa e poco mancò che lo aiutassi a infilarsela al piede.

Nessuno, giustamente, apprezzò questo mio gesto bizzarro. Il giornalista stesso, con disinvoltura e un po’ seccato, mi disse: “Don’t bother”, non preoccuparti, e la conversazione proseguì come se nulla fosse accaduto. Rimasi profondamente confusa.

Negli anni due mila lavoravo nella bellissima biblioteca del Centro Internazionale di Fisica Teorica “Abdus Salam” (ICTP) a Trieste, posto affollato dai migliori cervelloni di tutto il mondo, dai premi Nobel ai giovani prodigi. La Biblioteca è tra le più grandi specializzate nella letteratura di fisica teorica in Europa. È un posto magico, elegante. Il pavimento è coperto di tappeti, per attutire i rumori. L’atmosfera è quella di un teatro o di una sala da concerto.

E tra gli eminenti scienziati i calzini bucati quasi-quasi erano un emblema. Inoltre molti per stare più comodi giravano per la biblioteca senza scarpe mettendo in bella mostra i calzini bucati. Incuranti di quello che succedeva intorno, capitava spesso che indossassero calzini spaiati, di colore diverso. Nessuno ci faceva caso. Tranne me, ovviamente, “programmata” già dall’infanzia per notare certe cose.

Poi ho lavorato per un professore di fama internazionale che studiava lo spazio e l’origine dei buchi neri. L’illustre professore, novantenne, arrivava in tutta fretta in ufficio nella tarda mattinata per farmi battere al computer le idee che gli venivano in mente durante la notte. Sentivo da lontano i suoi passi, il tipico clap-clap-clap. Il professore portava le scarpe di uno o due numeri più grandi e le calzava come delle ciabatte, i talloni erano sempre fuori e si vedevano bene le calze bucate.

Questo piccolo dettaglio, certamente, non toglieva nulla alla sua importanza e alla stima che godeva, anzi. I calzini bucati del “mio” professore apparivano anche a me come qualcosa di autentico, essenziale.

Dopo ho letto che il suo famoso collega Albert Einstein, autore della teoria della relatività, aveva risolto molto prima, in modo radicale, il problema delle calze bucate: non le portava mai. All’università di Princeton, dove insegnava, Einstein era conosciuto come “sockless”, cioè quello senza le calze.

Di recente sono andata a trovare un’amica a Londra che si è fatta un’importante carriera artistica. Mentre l’aspettavo a casa sua mi sono messa a fare ordine nel suo armadio. Ho trovato due paia di calze, belle, di cachemire, ma bucate e un maglione rovinato dalle tarme.

La mia amica è benestante, lavora tanto, ha poco tempo per fare ordine, penso, probabilmente non si è accorta dello stato di queste cose, e le butto nell’immondizia.

Al suo ritorno a casa le faccio vedere l’armadio, tutto in ordine, e le riferisco di aver buttato quelle cose rovinate. Lei incredula mi urla: “Noooo! Dimmi che non è vero!”. Confusa dalla sua reazione mi spiego meglio: “Sì, ho buttato le calze e il maglione che erano bucati”.

Dopo, quando si è calmata, l’amica mi ha spiegato che in Inghilterra chi ritiene di appartenere alla classe alta non si fa rammendare i maglioni rovinati e porta le calze bucate. Le indossano apposta rovinate e consumate per sottolineare il contrasto con i nuovi ricchi dove tutto, compreso la ricchezza e la posizione sociale, è “nuovo di zecca”.

articolo pubblicato su Osservatorio Balcani e Caucaso

 

Nelle spire del racconto, o al di fuori di loro – su Racconto di Nadia Agustoni

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di Daniele Barbieri

Avendo lavorato e ragionato, nel corso della mia vita, sostanzialmente da semiologo, di racconto ho sentito parlare, e parlato a mia volta, parecchio. Non ho condiviso la tesi secondo cui qualsiasi testualità possiede, nascosta o palese, una struttura narrativa. Ritengo tuttavia che, anche se ogni tanto se ne può fare a meno, la struttura narrativa sia comunque abbondantemente presente intorno a noi. Di fatto, ogni volta che ci troviamo di fronte a qualcosa che possa essere descritto come un’azione (cioè un evento intenzionato da qualcuno) siamo anche di fronte a un racconto. Molte poesie sono quindi narrative, anche quando a prima vista non lo sembrerebbero, ma non tutte lo sono – o magari non lo sono nel loro insieme, pur contenendo elementi che, singolarmente, potrebbero essere considerati narrativi.

Il racconto è uno dei (principali) modi in cui diamo senso al mondo. Quando riteniamo di sapere perché e come qualcuno ha fatto qualcosa, e se alla fine ci è riuscito oppure no, il mondo ci appare più chiaro e affrontabile. Leggete Paul Ricoeur (Tempo e racconto) o Algirdas J. Greimas (Del senso e Del senso 2) e avrete un’idea dell’importanza che la forma-racconto ha per il nostro rapporto con il mondo.

È per questo che già Aristotele poteva parlare di catarsi, come esito per lo spettatore di una tragedia. Non importa che la storia abbia un lieto fine: è sufficiente che la fine ci sia, e che la vicenda (il racconto) si presenti come qualcosa che trasmette un senso complessivo, quello di una parabola (sia in senso matematico che biblico) che ci mostra il mondo (o almeno quel suo frammento) come se esso possedesse un disegno, e di quel disegno abbiamo colto le linee.
La differenza tra il mondo reale e il mondo raccontato (magari anche solo raccontato da noi a noi stessi, nel semplice dare senso a quello che vediamo) è dunque una differenza tra qualcosa di immediato ma non (ancora) compreso, e un mondo in qualche modo compreso ma che ha perso l’immediatezza.
Intitolare Racconto una raccolta di testi poetici, come fa Nadia Agustoni, prepara il suo lettore ad aspettarsi che quello che troverà sarà un qualche tipo di percorso, dove, qualsiasi cosa accada, alla fine ci sarà una risoluzione, se pur non necessariamente positiva (le tragedie infatti, Aristotele insegna, non sono meno confortanti delle commedie). E invece, sin dalle prime pagine e poi andando avanti sempre di più, la sensazione che si ricava è quella di una sorta di radiosa immobilità. Ci sono certo, se vogliamo, tanti microeventi, e quindi altrettanti microracconti, ma nemmeno all’interno di un singolo componimento essi si combinano per costruire quello che potremmo legittimamente definire, nell’insieme, un racconto. La logica con cui si trovano accostati appare diversa, e non facile da cogliere.
Questa immobilità, o radicale non-narratività, è fatta di elementi semplici: ricorrono api, cielo, vento, neve, il padre, gli alberi, l’erba, il cane, i canali, tetti, fiori, mare… Dovremmo dire elementi banali, o banalmente lirici. Eppure, per qualche strana alchimia, l’effetto complessivo non è né banale né banalmente lirico. Data l’accezione più tradizionale di lirico, l’effetto non è nemmeno lirico perché un io che dia unità a tutto questo è difficile da trovare.
Insomma, niente racconto, niente soggetto, perlomeno a livello globale, ma anche a livello di singolo componimento. Tracce di soggetti ce ne sono dappertutto, come ci sono tracce di racconti: però non un soggetto; però non un racconto. Questo non impedisce a Racconto di apparire come un testo fortemente unitario. Lo è, eccome! La radiosa immobilità che percepiamo attraverso tutte le pagine è basata su un fitto ripetersi di elementi, di figure, di relazioni. È come se fossero altrettante variazioni musicali su un tema; e il tema sì, ricorre, sempre uguale e sempre trasformato.
Ma il tema non sono le api, il cielo, il vento… Qua e là entrano in gioco i nomi, le parole; nomi e parole che hanno la stessa dignità degli oggetti, come fossero a loro volta oggetti del mondo, e, anzi, qui lo sono. Tra le parole e le cose ci sono relazioni, rimandi, come anche tra le une e le altre cose, tra le une e le altre parole. Qua e là, ricorrentemente, si parla anche di racconto.
Non sarà allora che questo titolo non vuole dire che quello che il libro contiene è un racconto, bensì che il racconto, o la possibilità di un racconto, è l’oggetto del suo discorso? In altre parole, il titolo forse non vuole comunicarci che stiamo per leggere un racconto, ma che quello che stiamo per leggere parla del racconto, del narrare. O meglio, dovremmo dire, della sua difficoltà, della sua impossibilità, o della sua genesi complicata.
Ho definito radiosa la loro immobilità perché queste poesie trasmettono un senso profondo di felicità. C’è qualcosa di meraviglioso in questa contemplazione di oggetti consueti, organizzata secondo alchimie misteriose. È come immergersi a occhi chiusi nell’acqua fresca del mare: non vedi nulla e le sensazioni sono pervasive e confuse. Ma è un’esperienza che vorremmo sempre poter ripetere.
Fa parte di quell’esperienza, e pure del suo piacere, anche un vago senso di inquietudine, che proviene proprio dal non capire sino in fondo, dal lasciarsi possedere, dal non poter risolvere in racconto quello che percepiamo. Ed è proprio quello che succede pure qui: che il racconto, complessivamente, non ci sia e non ci possa nemmeno essere è qualcosa che non può lasciarci tranquilli. Non ci sarà nessuna catarsi, né alla fine di ogni poesia né alla fine del libro; nessun percorso verso la risoluzione. Siamo condannati a galleggiare in questa luminosa inquietudine.
Certo, dopo un po’ (ma non immediatamente e non facilmente) appare con sufficiente evidenza che questi oggetti magici appartengono a un’infanzia perduta: perduta perché lontana, e perduta perché appartiene a luoghi che non ci sono più. Forse l’autrice sta galleggiando, per così dire, nella memoria. E la memoria è il luogo classico del racconto, è il luogo in cui gli eventi si depositano proprio come racconti, compresi, conchiusi. Rifiutare il racconto alle forme della memoria è allora certamente un atto inquietante, straniante, capace, proprio per questo di scindere quei legami che in tanta lirica esausta rendono banali i campi e gli alberi e il vento e il mare. È come se il racconto, qui, fosse ciò che dobbiamo costruire noi, perché gli elementi che Agustoni ci presenta sono tutti elementi adatti per il racconto, ma nonostante questo il racconto non c’è; eppure ci deve essere, non ne possiamo fare a meno, e questa assenza ci trasmette un filo, sottile e persistente, di angoscia.
E quando ci accorgiamo di questo, magari ci possiamo accorgere anche che ogni singolo componimento è un tentativo tarpato di raggiungere il racconto, o di trovarlo; e qua e là si parla persino di questo, e le parole sono cose tra le altre perché le parole sono gli elementi di questo racconto che manca, e che si desidera, e che si ricerca perché di racconti sono fatti i bambini e gli adulti, così come essi sono anche fatti delle cose del mondo che li circonda.
Se non si può raccontare la tensione verso il racconto (perché sarebbe, evidentemente, già un racconto) la si può forse mettere in scena, provocarla, produrla. La tensione verso il racconto è la tensione verso una versione pacificata, compresa, risolta, delle cose. In questo libro, pur radioso della felicità dell’infanzia, la tensione non può essere risolta: rimane lì, a impedire qualsiasi vera consolazione, qualsiasi vera morale della storia. Tra la meraviglia di un’infanzia ricordata o sognata e l’angoscia di non poterle o volerle dare un senso, rimaniamo sospesi, incantati, colpiti.

 

 

 

 

Nadia Agustoni, da Racconto (Nino Aragno 2016)

 

 

 

nelle parole del mondo i volti cadono
i giorni così tanto e ancora vivere
i mandarini un racconto, non più
dire l’azzurro ma guarda

 

quest’ora l’albero sono terra
la voce piena di voci gli uccelli
fradici di ossa

 

***

 

 

scrivo un frammento la voce ritorna
sulla neve, a un bianco senza destino:
il bambino parla nella nuca e nel cielo
:sta lì con le parole l’aria una soglia:

 

il vento non finisce:da qualche parte
potrebbe riempire le vele:

 

:quell’altrove delle parole o le immagini:

 

 

***

 

 

i tuoi occhi sul cane e dopo a risalire una crepa
a vivere quaggiù tra i canali dritti e l’infinito –
il campo nell’oro di una sera e un grido
sopra le voci e sulla terra l’autunno
un tempo via dagli anni:

 

cercavo lo spazio di parole uscite senza pietra:
(mentre ruotava al sole la morte mancavano
i volti, fermavo parte della luce ed eri di nuovo
luminosa, un fischio cadeva sopra l’erba
o così ti pensavo).