di davor
D Ti va di cominciare dall’Oscar?
A.K. Certo, se vuoi.
D E’ un premio importante. L’hai vinto come coscienza simulata di un personaggio minore. Un bel riconoscimento per il tuo lavoro “oscuro” ma prezioso.
di davor
D Ti va di cominciare dall’Oscar?
A.K. Certo, se vuoi.
D E’ un premio importante. L’hai vinto come coscienza simulata di un personaggio minore. Un bel riconoscimento per il tuo lavoro “oscuro” ma prezioso.

[Questo testo è apparso sull’ultimo numero de “l’Ulisse”, e compare qui emendato da alcuni refusi.]
di Andrea Inglese
Finché finzione ci separi
Per lo più vi è la finzione, fortunatamente. Possiamo usare la terza persona, e assegnarle un paesaggio, delle azioni da compiere, dei sentimenti da provare, degli oggetti da prendere in mano, possiamo raccontare delle storie, delle storie brevi (racconti) o delle storie lunghe (romanzi). Il termine finzione è qualcosa di enormemente rassicurante. Ci sono film di finzione, finzioni teatrali, e naturalmente le serie TV di finzione. I fumetti. I videogiochi. Uno sterminato mondo di finzioni, dove si possono costruire di slancio personaggi e situazioni, con grande facilità, come modellando una materia docile, plasmabile, e nello stesso tempo trasparente, in grado di ricevere ogni informazione, ogni aspetto, ogni significato.
di César Vallejo (traduzione di Marino Magliani e Riccardo Ferrazzi)
. . .
Paco Yunque guardò il maestro che scriveva sulla lavagna. Chi era il maestro? Perché era così serio e metteva tanta paura? Yunque continuava a guardarlo. Il maestro non assomigliava a suo padre o al signor Grieve. Assomigliava più agli altri signori, che venivano in casa a parlare col padrone e avevano la collottola piegata e il naso come un bargiglio di tacchino. E le sue scarpe, quando il maestro camminava molto, facevano riss-riss-riss-riss. Yunque cominciò a stare in pensiero. A che ora sarebbe tornato a casa? Uscendo dalla scuola Humberto l’avrebbe picchiato. E la mamma di Paco Yunque gli avrebbe detto: “No, piccolo, non picchiare Paquito, non fare il cattivo…” Non gli avrebbe detto nient’altro. E Paco, con la gamba tutta rossa per la pedata di Humberto, si sarebbe messo a piangere. Perché a Humberto nessuno lo toccava. Il padrone e la padrona volevanotroppo bene a Humberto, e Paco ci stava male perché Humberto lo picchiava sempre. Tutti, tutti, ma proprio tutti avevano paura di Humberto e dei suoi genitori. Tutti, tutti, tutti. Anche il maestro. La cuoca e sua figlia. La mamma di Paco. Venanzio col suo grembiule. La Maria che lavava gli orinali e proprio ieri ne aveva rotto uno in tre grossi pezzi. Il padrone avrebbe picchiato anche il papà di Paco Yunque? Che brutta cosa avere a che fare col padrone e con Humberto. A Paco Yunque veniva da piangere. E il maestro, quando avrebbe smesso di scrivere sulla lavagna?
“Bene!” disse il maestro terminando di scrivere. “Ecco l’esercizio. Ora prendete i vostri quaderni e copiate ciò che è scritto sulla lavagna. Dovete copiarlo esattamente uguale.”
“Sui nostri quaderni?” domandò timidamente Paco Yunque.
“Sì, sui vostri quaderni” gli rispose il maestro. “Sai scrivere almeno un po’?”
“Sissignore. In campagna me l’ha insegnato mio papà.”
“Molto bene. Allora, tutti a copiare.”
I ragazzi presero i quaderni e si misero a copiare l’esercizio che il maestro aveva scritto sulla lavagna.
“Non fate le cose in fretta” disse il maestro. “Bisogna scrivere piano piano, per non fare errori.”
. . .
NdR: il brano è tratto dalla traduzione di Marino Magliani e Riccardo Ferrazzi del racconto di César Vallejo “Paco Yunque”, con illustrazioni di Federica Orsini, pubblicato da “Lo Studiolo” di Sanremo (2017). Il frammento che segue fa parte all’introduzione di Luigi Marfè:
. . .
Con questo racconto, Paco Yunque (1931), lo scrittore peruviano César Vallejo (1892-1938), tra i più noti poeti del Novecento, narratore avanguardista, autore tra l’altro dei Poemas Humanos (1939) e del romanzo sperimentale El Tungsteno (1931), recentemente tradotto in italiano, si accosta a questa tradizione letteraria, creando uno spazio narrativo perfetto e originale, divenuto subito un modello generativo per altri scrittori d’area iberoamericana. C’è un brano delle Historias de cronopios y de famas (1962) in cui Julio Cortázar immagina delle strampalate “istruzioni per piangere”: chissà che tra i manuali di istruzioni di quell’inventore di istruzioni non si possa annoverare anche questo racconto di Vallejo.
Paco Yunque narra la cronaca di una sconfitta annunciata. Il personaggio che dà il nome al racconto è un bambino di umile estrazione sociale, che non sa come sottrarsi alle angherie e ai tormenti di un compagno di classe, Humberto Grieve, il figlio dei signori da cui sua madre lavora come donna di servizio. Vittima infelice, Paco è troppo introverso e spaventato per sfuggire al proprio destino: non risponde mai, non reagisce mai, non si rivolta mai. Il suo unico modo di ribellarsi è in un pianto silenzioso, ostinato, che ricorda sommessamente, nel suo inestinguibile grigiore, l’“I would prefer not to” del Bartleby (1853) di Herman Melville.
. . .

di Giusi Drago
Epilogo 4
PAPPAGALLI A BERLINO
non la pioggia né la noia ma una pericolosa destabilizzazione: la scrittrice austriaca a berlino, in uno stato di turbamento, registra la malattia della città, il muro che divide fa ammalare berlino, come la separazione dei genitori fa ammalare i figli, è ben più di una disarmonia, è qualcosa di peggio: solchi nella psiche e nella città – e comunque quelli non si meritavano di avere dei figli, anzi, dovrebbero risponderne ai servizi segreti
è in casi come questi che bisogna chiedere perdono: quando il muro è stato abbattuto, nessuno ha accusato i tedeschi di aver rimosso le pietre confinarie, si è piuttosto celebrata la riunificazione, e il divisorio si è mostrato per quello che era, un effetto collaterale di azioni imperdonabili, dotate di una loro precisa geografia di frontiera che di lì a poco si sarebbe sgretolata, tuttavia nessuna riunificazione capita nelle famiglie in cui si è prodotta – spesso sottraendosi alle intenzioni – la separazione: diagnosticabile è soltanto il capitolare di fronte alla realtà
ma che significa capitolare? le azioni di cui poi sarà necessario scusarsi tornano ad avere i nomi di un tempo: ogni morto tra berlino est e berlino ovest decade a strumento di propaganda, così come oggi in europa ogni migrante propaganda più la nostra miseria che la propria, e d’estate si avvicina a noi, circondati da case e strade, torturati da insetti e offerte, ondeggianti ai ventilatori o in arie condizionate: i nostri luoghi possono essere vuoti o affollati, e solo in apparenza quelli vuoti hanno tempi più brevi di guarigione, di certo però quelli affollati sono sempre in movimento e acuiscono lo spirito di crociata contro l’estraneo, a venezia persino contro il turista
è colpa della politica – la bachmann sarebbe stata d’accordo – se ci sono due pappagalli che si fronteggiano, l’uno chiaro l’altro più scuro, entrambi appollaiati su un carro armato al passaggio di confine, nel silenzio degli uomini in uniforme, è colpa di un abbaglio o della sfortuna se anche in casa ci sono due pappagalli – marito e moglie – che si combattono nel silenzio dei figli, i quali non lasciano capire da che parte stiano, la confusione è molta e lo spavento grande, ma i figli non si schierano, nella separazione cercano di tenere le distanze, ormai è andata, e se proprio i pappagalli continuano a farsi la guerra, almeno non sono più appollaiati sui loro trespoli nella stessa cucina, abitano ognuno a casa propria
Epilogo 2
DALL’INCERTEZZA DELLE NOSTRE POSIZIONI
benevola è la stabilità, magnanima la compassione, però da tempo vacillano e non sapendo dove regnare assumono consistenza di vetro: una tazza di vetro sporca di caffè, a questo è ridotta l’immagine della sostanza e non si tratta solo di mettere un po’ d’ordine, di far scorrere un po’ d’acqua
qualcosa di vitreo hanno anche le linee delle nuvole, oggi, sembrano vetrificarsi da sé in un cielo già di vetro
qualcosa al riguardo ha da dire anche la linea del pensiero: tabù, dice il pensiero, è tabù perché nessun manuale spiega come si sta scomodi nella vergogna, insettitudinari nella vergogna, anomalie della compassione
nel carcere femminile di breslavia la luxemburg osservò un bisonte ferito e lo chiamò fratello: accadrebbe di imparare che la compassione è vasta, si estende anche ai bisonti, non va mai lasciata, peccato tuttavia che la compassione non sia un sito così accogliente, specie se accompagnata da angoscia per la sorte dei compatiti e del compassionevole stesso
l’angoscia che accompagna la compassione, infatti, può essere fortissima: prende in prestito le forze del futuro e ferisce alle spalle, ostacola il ritmo della carne nelle cose umane
***
e si comportano tutti come se non ci fossero correzioni da fare, modifiche da apportare né opportune né necessarie, così nessuno migliora nulla e molti ritengono ben fatto ciò che palesemente non lo è, e per converso sottovalutano di continuo la buona riuscita
chi ha tempo e pazienza di correggere errori, sviste, imprecisioni – a cascata su documenti calcoli compiti, nelle pietanze come eccesso di sale, nelle risposte come abuso di spiegazione, nelle omissioni come incuria ˗ agita in mano una fune in fiamme, con cui frusta in primo luogo la propria imperfezione e l’altrui: non lo si fa più di buon grado, la cosa pare pedante, il più grande correttore di occhiaie non è forse il tempo? date una penna rossa al tempo e vedrete quanti sbagli estinguerà
dalla parte opposta stanno i paladini dell’ordine e da lì giungono ingiunzioni immediate e alla porta si presentano frotte di donne delle pulizie con detersivi, donne-candeggina dedite all’ipercontrollo, la resistenza consisterebbe nel far qualcosa che la casa non vuole, che anche le madri non vorrebbero: gettare sui pavimenti appena lucidati briciole e ciuffi di peli in precedenza spazzati su, abbandonare resti di cibo negli angoli, spargere sulle lenzuola i fondi del caffè, pisciare sui cuscini ˗ queste pulitrici ridono che è proprio una vergogna, deridono la sporcizia altrui, accusano di dilettantismo la padrona di casa, è una sposa dilettante e una donna dilettante e una madre dilettante, ascoltarle ha generato apprensione, mormorano di una, una trasgressiva, che vive sola in una casa felicemente disordinata
Epilogo 3
DAL BUIO DEI NOSTRI LETTI
nella storia del mondo non è mai finita un’epoca della luce e non ne è mai iniziata una nuova
la luce, infatti, è l’informazione essenziale che serve agli storici del nuovo millennio elettrico e digitale, ma – a ben vedere – la luce è servita in pari misura anche agli storici dei secoli passati: gli anni sono sempre stati misurati in luce
non così per i profeti, costoro hanno potuto formulare le loro previsioni anche al buio: è anzi possibile che l’attendibilità delle previsioni sia diminuita con il diradarsi del buio, grazie alla lampada a incandescenza di Edison – dev’essere questo il prezzo da pagare per chi è vissuto negli ultimi centocinquant’anni
un grande significato ha la luce, specie considerata retrospettivamente, dal buio dei nostri letti, se davvero è lei a formare la più coerente estensione dei giorni, sia pure con picchi di intransigenza e bagliori di superbia
è una gratifica immediata, quella che la luce concede alle cose, è l’anarchia del dettaglio e della ribellione individualistica, e per giunta in assenza di sensi di colpa: uno sfregio all’etica di Calvino
***
è inverno e dal buio dei nostri letti
non è il caso di perdere
questa luce, le sue brevi apparizioni
un crinale di chiarore lacera
l’asfalto, il vincolo della superficie
in tutto ciò che tocca la luce scava
senza affogare nel gelo
del calcolo egoistico: gli stessi brividi
di esaltazione nel ramo senza foglie
e nei vetri della casa di fronte
***
non veduta, nelle scure profondità delle nostre stanze e della sua ruminazione, ogni ombra è attraversata da tendenze divergenti che la delegittimano
perciò, secondo l’ideale penumbratile del postmoderno, tipico delle età di trapasso, l’ombra è di continuo costretta a censurare tanto la luce quanto se stessa, forse nel tentativo di attenuare la pressione della realtà
tuttavia in una vita già smaterializzata, virtuale, liquefatta, l’ombra quasi sfigura: un tempo era il nemico numero uno, nemico chimerico risorgente da ceneri, cenere che compattava interi paesaggi, inghiottiva intere comunità insinuandosi negli interni (tanto caverno-neanderthaliani quanto borghesi) e nei sonni di una ragione mostrificata, al punto da far perdere ai sognatori – di tutti i tempi e di tutte le latitudini – l’orientamento

(ricevo questo accorato appello, che condivido, allarmato, con tutti voi. G.B.)
Quando chiude una scuola, si perde sempre.
Si perde la possibilità d’imparare a convivere, si perde la possibilità di stare al mondo imparando a conoscere.
Stare al mondo, imparando a conoscere?
In nessuna scuola ti possono offrire, si può apprendere tutto lo scibile, ma il bravo docente è chi t’insegna, cerca di comunicare la volontà d’imparare, sempre.
Queste sono le parole di un insegnante di Milano, che probabilmente a settembre dovrà trovare una nuova scuola, perché la sua potrebbe definitivamente chiudere.
La mia scuola, si trova a Milano, in via Pizzigoni 9, nella periferia nord–ovest della città.
La mia scuola è l’unica scuola in quella parte della città; dico “unica“, non per vanità o per fare il tragico. La sua peculiarità, la sua “mission” è quella dell’insegnamento della lingua italiana agli stranieri (italiano L2). La maggior parte degli studenti proviene dall’intero mondo: questa è la bellezza della mia scuola.
Nel giro di due piani, conosci il mondo, senza frontiere o dogane, se non quella effettiva della nostra segreteria che richiede come da legge un documento regolare per poter accedere ai corsi.
Attenzione, la nostra scuola non è solo per stranieri, ma sono parte significativa anche gli italiani che dopo un percorso di vita o scolastico accidentato, complicato, giungono da noi per frequentare la terza media e accedere all’esame di stato per il diploma. Non è una scuola più facile, né per chi viene come studente, né per chi ci lavora: niente è dovuto. Siamo una scuola statale e ci atteniamo con scrupolo e professionalità alle leggi.
Insegnare l’arte della convivenza, ad un gruppo di studenti eterogeneo per età, nazionalità e pregresso scolastico, non è sempre facile; però, guardando i miei studenti ho potuto sempre riconoscere un possibile modello di convivenza pacifica a Milano.
Così gli dicevo: “noi dobbiamo imparare a stare bene insieme qui, perché se stiamo bene qui, allora anche fuori, nella città staremo bene, in pace. Noi siamo una parte di Milano, e Milano è parte di noi.”
Quando una scuola chiude, si perde una possibilità di crescere e di far crescere in pace Milano.
Si lascia un vuoto, si abbandona uno spazio, il cui senso, il cui significato profondo è quello della vita sociale: s’impara a riconoscersi come cittadini, come attori sociali che portano ricchezza, esperienza, emozioni. Spazio in cui si apprendono gli strumenti, come la lingua italiana, per essere riconosciuti come Persona e non come massa indistinta e spaventosa. Non un numero o una provenienza geografica “ il senegalese, il marocchino, il cino”.
Via Pizzigoni 9, periferia nord–ovest di Milano, un po’ prima di Quarto Oggiaro; il quartiere si chiama Villapizzone.
Nella geografia della città, è una zona strategica: vicina a tutto l’hinterland, vicina a Paolo Sarpi, la Chinatown milanese, vicina al Triboniano (campo rom), vicina alla caserma Monbello, dove sono sistemati i profughi, un quartiere di periferia che quando è inverno, e fa presto buio, avrebbe bisogno di più luce e gente in strada se ne vede poca.
La nostra scuola era presente da almeno trenta anni: prima in una via poco distante, via De Rossi, da cui per motivi logistici ci siamo dovuti spostare e poi ora in via Pizzigoni).
Il trasloco l’abbiamo fatto noi, personale della scuola (insegnanti, segretari, la stessa preside, commessi), abbiamo caricato le nostre macchine e ci siamo trasferiti. Non è facile, ma ce l’avevamo fatta: tra corsi d’italiano e scuola media, quest’anno sono stati accolti almeno 800 studenti.
Ho usato il verbo “accogliere” per questo motivo: la scuola per funzionare, per promuovere la socialità, deve riconoscersi come luogo dove non solo si riceve come fosse lettera o pacco, ma si accoglie lo studente come cittadino, con diritti e doveri, una sua storia, una sua situazione che ha una primaria necessità: imparare l’italiano e le regole della vita in Italia.
La nostra scuola in collaborazione con la Prefettura di Milano, organizza corsi di Formazione Civica e test di lingua italiana per il permesso di soggiorno. I cittadini neo arrivati in Italia imparano quali sono i loro diritti e doveri, gli articoli della Costituzione più importanti, come e dove rivolgersi per i bisogni essenziali (medico, lavoro, la casa…). Il test per il permesso di soggiorno è un esame, i cui candidati sono mandati dalla Prefettura per verificare il loro livello di conoscenza della lingua italiana, utile per l’ottenimento o meno del permesso del soggiorno.
La nostra scuola ha dunque una funzione vitale per il tessuto sociale di Milano.
Quando si chiude una scuola, si chiude, si dismette la possibilità di migliorare Milano.
Sono stati realizzati progetti per farla diventare più bella, per comunicare la sicurezza: sono intervenuti scrittori, artisti, la polizia scientifica e mediatori e infermieri, tutti gratis.
Andare a scuola non significa solo recarsi in un posto, andare a scuola è una locuzione che ha molteplici significati: quello fisico di camminare fino a là, imparare, ritrovarsi con amici e docenti con tutto ciò che può nascere e derivare da un incontro.
Ci avevano assegnato uno spazio dietro una scuola abbandonata per amianto, la scuola media Colombo. Spesso entravamo per vedere, seguire i lavori del nostro edificio. Una volta ultimato, abbiamo traslocato e siamo ripartiti, con l’assicurazione delle autorità, che presto la scuola media Colombo, quella con l’amianto, sarebbe stata abbattuta.
L’impatto, la visione con la nostra scuola è quello di un cancello da cui si vede una vecchia bandiera italiana tutta sporca e sbrindellata, appesa da un pennone della presidenza della Colombo : vetri rotti, macerie e abbandono.
Ma se si guarda bene sul cancello, c’è soprattutto un enorme striscione plastificato con tantissime facce di ragazzi e docenti e il nome della nostra scuola, la nostra bandiera colorata.
La nostra scuola non si vede dal cancello, devi camminare e poi la trovi con una bella scritta colorata sul suo muro frontale CPIA MILANO e poi un grande murales con le stesse facce del cartellone, dello striscione.
La Colombo, sempre quella con l’amianto, non è mai stata abbattuta, anzi, durante l’inverno è divenuta, per Emergenza Freddo, organizzata dal Comune di Milano, un dormitorio. L’amianto a loro non nuoceva. La convivenza non è stata facile tra i le due parti sociali, ma abbiamo pazientato.
La mattina, cocci di bottiglie e altra sporcizia; la notte, la sensazione effettiva di poca sicurezza e dunque la paura: le professoresse non venivano mai lasciate uscire da sole.
Poi “Emergenza Freddo” è terminata, ma qualcuno, avendo visto quanto spazio abbandonato potesse essere occupato, l’ha occupato e ancora adesso è così: è stato scritto un articolo sul Corriere della Sera “L’hotel delle ombre”.
Durante questi mesi estivi sono, manca il soggetto, perché non è possibile sapere, non si sa chi, entrati a scuola, rubando e vandalizzando.
Finita la resistenza? Si chiude? Dopo un anno, in cui più volte sono state chiamate le forze dell’ordine per sgomberare la nostra stessa scuola, in cui al piano inferiore, si erano chiuse alcune persone, visibilmente alterate. Dopo un anno il cui commesso, con grande coraggio, apriva la scuola, da solo, rischiando sulla sua pelle, la reazione delle persone da lui svegliate e allontanate, si chiude.
Le numerosi segnalazioni del Preside e della nostra Coordinatrice, a chi di dovere, come si usa dire, non hanno comportato la soluzione dei problemi: altre emergenze più emergenti altre urgenze più urgenti, altri numeri da chiamare e richiamare.
Si chiude? La chiusura, se così fosse, non può e non deve essere una dichiarazione di resa: rimane però forte il senso di un abbandono da parte delle istituzioni, di una politica sociale schizofrenica e quella bandiera italiana sbrindellata, dai colori sbiaditi appesa all’Hotel delle Ombre, fu un tempo scuola media Colombo, luogo di luce, d’incontro dove imparare la convivenza.
Certo che ora vado a prendermi la mia bandiera: quello striscione con tutte le facce dei miei studenti e il nome della nostra scuola : CPIA PIZZIGONI.
Gianluca Gaetano Fazzi
Insegnante d’italiano L2 presso il Cpia Pizzigoni, CPIA 5 MILANO

I contendenti
di
Anna Giuba
Era cominciato con un odore di mentuccia, un odore intenso, che ricordava quello della presenza improvvisa di certi santi. Un odore fresco che sfumava in una nuvola esangue e lieve e che faceva dilatare le narici. Aveva cominciato a volare leggero come l’aria di primavera sulla città, all’ora di cena, quando s’intuiva la vita che si snodava come un gomitolo dietro le finestre accese. I nodi della giornata venivano alla luce dietro le porte chiuse, stanchezze e piatti e rabbie e forchette e amori e bicchieri che tintinnavano sulle tavole. Preoccupazioni quotidiane e sedie in cucine modeste. Televisori accesi che mandavano bagliori di luce fluorescente e livida e spaghetti scodellati in tavola. Era cominciato durante la serenità satura di stanchezza della prima sera.
Daniela era in cucina e aveva appena finito di apparecchiare. I bambini sedevano davanti ai piatti vuoti aspettando il ritorno del padre.
– Hai usato un detersivo nuovo? – ha chiesto Angelo rientrando a casa dal lavoro, sporco di calce che sembrava infarinato.
− No. – ha risposto Daniela togliendosi il grembiule da cucina – ho usato quello di
sempre. Perché? –
− Che ne so, c’è un odore strano. – e si è fermato nell’ingresso annusando
ferocemente, che quasi sembrava mordesse l’aria con il naso. Si è tolto la giacca di fustagno marrone e l’ha appesa all’appendiabiti. – Boh. – ha sussurrato.
Era la fine di maggio e la luce ancora intensa del giorno invadeva la cucina. La cucina era piccola e stipata di elettrodomestici, la lavatrice ronzava ritmica con uno sciabordare che accompagnava i gesti consueti della sera. Angelo si è seduto a tavola rimboccandosi le maniche della tuta e scoprendo gli avambracci forti di muscoli sodi. – Finalmente – ha detto infilando il tovagliolo al collo e distendendo le gambe sotto la tavola. – Che c’è? Minestrone? Mhhh. E il pollo? Non hai fatto il pollo? Lo sai quanto mi piace il pollo. – Aveva un’aria esausta, l’aria di chi ha lottato tutto il giorno con una forza ignota. - Certo che l’ho fatto. Ho fatto il pollo arrosto. – ha detto Daniela con un sorriso incerto. Hanno iniziato tutti quanti a mangiare. I bambini sono stati i primi a percepire il malessere. Mangiavano tutti il minestrone compunti, seduti a tavola come sempre, una cucchiaiata alla bocca e gli occhi sgranati al televisore. Il rumore delle stoviglie si mescolava al suono del televisore e a quello delle mandibole. Il programma di quella sera era in fascia protetta ed era un quiz. Un quiz innocuo, per famiglie, il presentatore gesticolava con una cartella blumarin in mano e dieci ragazze in costume da bagno, con grossi seni e l’ombelico scoperto reggevano grandi lampadine verdi. Le lampadine si accendevano ritmicamente alle risposte. Se la risposta era giusta la lampadina si accendeva di luce gialla. Se la risposta era sbagliata si accendeva di luce rossa. In quel momento il concorrente stava per rispondere e le lampadine erano tutte verdi.
Il presentatore, magro e muscoloso, aveva faccia quadrata e lenti quadrate che lo facevano somigliare ad un monoscopio d’altri tempi. – Avete visto come sono belle le mie Domandine? – Le Domandine erano le ragazze che reggevano le lampadine. Il loro viso sembrava una produzione in serie di madrenatura, quasi fossero state clonate nel sorriso luminoso e negli occhi verdi che ammiccavano verso la telecamera.
Angelo mangiava lentamente, si era lavato le mani ma le nocche delle dita erano rimaste biancastre e riflettevano la luce bianca del lampadario a mezzaluna della cucina.
− Com’è andata oggi? – ha chiesto Daniela ad Angelo mentre metteva in tavola il secondo. Jessica, la bambina più piccola, ha spinto il piatto in avanti e l’ha guardata.
− Mamma, possiamo girare? Non mi piace il quiz… – la sua vocetta timida s’imponeva proprio per la sua delicatezza, e Jessica aveva parlato quasi in sordina, quasi avesse paura di disturbare la tavola.
− Perché, non ti piace? – e Angelo l’ha guardata in tralice.
− Mamma, ho nausea…- ha detto Domenico sbavando un poco il minestrone e
guardando Daniela con occhi che si lamentavano.
− Hai male allo stomaco? – gli ha chiesto lei rialzandosi sulla fronte i capelli che
aveva neri e crespi. Daniela era tutta nera, aveva neri gli occhi e la pelle era scura
scura e leggermente butterata.
− No… nausea. – e il bambino l’ha detto storcendo la bocca come davanti a qualcosa
che non gli piaceva.
- Vieni qui.- gli ha detto Daniela mentre Angelo continuava a mangiare in silenzio.
Allora Domenico si è alzato e ha teso le braccia e si è aggrappato al collo della madre. Lei gli ha posato una mano sulla fronte. – Febbre, non ne hai. – ha detto Daniela con un senso di sollievo. Poi ha preso a cullarlo in un ritmo che era tutt’uno con il suo respiro, e la testolina del bambino si sollevava ritmicamente sul seno della madre, ora aveva gli occhi chiusi come se la nausea gli stesse dando una tregua.
Angelo ha guardato improvvisamente la moglie e il figlio con due occhi che sputavano lapilli.
− Cazzate. E’ che non gli piace il pollo, ecco cos’è. – ha commentato mentre scuoiava un’ala con minuzia. Angelo era alto e grosso, con la punta del naso di spugna e i capelli biondicci tagliati a spazzola. Aveva occhi stranamente acquosi, irascibili e insoddisfatti.
− Non è vero! – ha continuato il bambino piagnucolando e portandosi le mani agli
occhi. – Mi bruciano anche gli occhi. – ha detto Domenico e si è scosso
dolorosamente dall’abbraccio materno.
− Io ho mal di testa! – ha aggiunto Jessica abbandonando la carne nel piatto. Poi ha
riposto le mani sul grembo ed ha abbassato la testa come stesse aspettando una punizione. Ma la punizione non è arrivata. Invece è arrivata la voce del padre che ha tuonato in un tutt’uno con le lampadine verdi del quiz.
- Shhh! Fatemi sentire! Dovete proprio aspettare il quiz per stare male? – e ha scagliato le pelle del pollo nel piatto con un gesto brusco e le dita unte.
– Insomma, i tuoi figli stanno male e tu pensi al quiz? – ha urlato Daniela di rimando – capirei ci fosse il telegiornale, ma il quiz! – e l’esasperazione l’ha resa triste.
− Lasciatemi mangiare in pace! Jessica, se hai mal di testa vai a dormire, e tu Domenico, mangia e vedrai che la nausea ti passa. –
Angelo era stanco e impaziente. Non era stata una giornata felice. A ben guardare, giornate felici non ce n’erano mai. Ma quel giorno, in particolare, il capomastro non gli aveva lasciato tregua, lo seguiva attraverso le stanze del cantiere come un cane affamato, controllando ogni interstizio. Angelo doveva riempire gli interstizi di cemento a presa rapida. Quel giorno non c’era con la testa e ne aveva saltati parecchi. Così il capomastro si era infuriato e aveva minacciato di licenziarlo. Angelo sapeva che non poteva permettersi di perdere il lavoro, con due bambini e Daniela sulle spalle. Ci sarebbe mancato soltanto questo, quando già faticavano ad arrivare alla fine del mese. Così Angelo aveva ricominciato a riempire gli interstizi cercando di metterci un po’ più di attenzione, però riempiva gli interstizi chiedendosi perché lo facesse, se ci fosse un senso. Dentro quei muri avrebbe abitato gente che lui non avrebbe mai conosciuto, era un appartamento dei quartieri alti, ci avrebbe abitato gente ricca, gente che non immaginava neppure che potessero esistere cucine modeste e anguste come quella della casa di Angelo. Non era la prima volta che gli veniva un pensiero strano. Li chiamava così, pensieri strani. Erano improvvisi e senza senso apparente e lui non ne parlava mai con nessuno, di questi pensieri. Erano suoi.
Jessica si è avviata a passetti verso la stanza dei bambini, ma prima di aprire la porta ha fissato a lungo Daniela,con la mano appoggiata alla maniglia e gli occhi di bambina consapevole. Poi ha fatto ciao con la manina ed è entrata, scomparendo dalla vista di tutti.
Domenico era ancora in braccio a Daniela, e aveva abbandonato la testa sulla sua spalla. Daniela poteva sentire il suo respiro, mentre gli passava la mano tra i capelli chiari come quelli del padre.
Angelo ha avuto un moto di disgusto e ha guardato male il piatto.
– E’ venuta la nausea anche a me. Forse ho mangiato troppo. Ma che ci prende a tutti? Un virus? L’influenza? Non è mica stagione, questa, d’influenze… E poi, quest’odore, non sentite che è quasi insopportabile? Chissà da dove viene. Sei sicura di non aver usato un deodorante? Qualcosa che non ti ricordi, magari un profumo nuovo. Ah, è insopportabile. –
Si è coperto la faccia con le mani e ha starnutito violentemente. Angelo si è alzato barcollando e si è accostato alla finestra per aprirla, ma nel momento in cui ha appoggiato la mano sulla maniglia di acciaio, uno sbocco di vomito l’ha fermato proprio accanto al davanzale. - Angelo! Che hai? – ha chiesto Daniela precipitandosi su di lui e abbandonando il bambino sulla sedia. Angelo aveva la mano davanti alla bocca. – E’… questa nausea. Cristo, ho sporcato tutto. – sembrava smarrito come di fronte ad un nemico che non si aspettava, un nemico che veniva da dentro di lui. O da fuori, non lo sapeva. - Non preoccuparti e vai a metterti a letto. – gli ha detto Daniela mentre il televisore continuava a cicalare. - Non so, non so che cos’è. Dio, come si sta male. – ha detto Angelo abbandonandosi sulla sedia accanto alla tavola.
I resti del pasto sembravano appartenere ad un tempo parallelo, dove ogni cosa andava bene e tutti stavano bene. Anche se c’era il capomastro che lo seguiva come un segugio, questo faceva parte del gioco, mica gliene importava poi molto. È del tutto normale che un capomastro abbia occhi anche dietro la testa ed è del tutto normale che a volte non ti lasci neppure respirare. Ma questo malessere improvviso e insopportabile era diverso, un’aggressione dall’interno di sé. Era un colpo basso, qualcosa che colpiva l’intimità della famiglia e della tavola. Che colpiva un momento di tregua. Daniela gli ha preso la mano e gli ha sfiorato la guancia.
– Vuoi che chiami qualcuno? Un dottore? Così vede anche i bambini… – ha detto Daniela in un filo di speranza.
− Chiamalo, continuo a stare male. – ha implorato Angelo pallido di un pallore verdastro. Angelo sudava e sudava, la fronte gli si era tutta imperlata di goccioline calde, e la pelle si era improvvisamente arrossata come in preda ad un calore diabolico.
Domenico, che era in piedi accanto alla sedia e guardava un po’ Daniela ed un po’ Angelo, si è messo a piangere.
- Figlio mio, che c’è? – gli ha chiesto Daniela.
- N… Nausea. –
– Mamma! – hanno sentito chiamare Jessica da dietro la porta della camera dei bambini.
- Oddio, ma c’è da impazzire! – ha esclamato Daniela conficcandosi le unghie nella cute della testa – Ma che cosa sta succedendo? –
E’ stato in quel momento che Daniela l’ha sentita montare come un’onda. Saliva dallo stomaco e dall’intestino. La nausea era violenta e si concentrava nella bocca come l’odore di menta. Come avesse ingoiato una quantità enorme di dentifricio, sentiva la bocca impastata e la nausea saliva alla testa, si impossessava delle braccia e delle gambe, di tutto il corpo. Intanto, un dolore improvviso e feroce le chiudeva la testa in una morsa a tenaglia. Daniela ha portato la mano alla bocca, e si è slanciata verso il lavandino. Ma non aveva mangiato nulla e dalla sua bocca è uscita soltanto un poco di bava bianca. Il televisore era ancora acceso. Ora c’era il telegiornale ed il telegiornale parlava di una donna che era scomparsa da qualche giorno. La donna era molto giovane e aveva il viso truccato pesantemente e nella foto del video sorrideva con in mano un bicchiere di spumante. Chissà che cosa le era successo, magari l’avevano ammazzata. Anzi, di sicuro l’avevano ammazzata. Angelo era combattuto tra il malessere e la curiosità per la cronaca della sparizione, avrebbe voluto continuare ad ascoltare e a vedere, ma gliene è mancato il tempo.
Nel momento in cui la nausea aveva cominciato a salire alla gola, l’odore di menta si era fatto più intenso. Era un odore quasi crudele nella sua freschezza, potente e permeante, che non lasciava tregua neppure tra un respiro e l’altro. Daniela ha aperto la finestra ma l’odore entrava anche da fuori, sembrava uscisse dalle finestre accese. Da dove viene quest’odore. Che cos’è. Perché dà tutto questo male. Si chiedeva Daniela mentre apriva il rubinetto del lavello e lasciava scorrere l’acqua sulle braccia. – Bambini, la nonna diceva che per la nausea ci vuole l’acqua fresca sui polsi. – ha detto con un filo di speranza.
Poi si è asciugata le mani ed ha afferrato il telefono e composto il numero del dottore. La televisione stava dicendo che probabilmente la donna era scomparsa in seguito al rapimento da parte di un fidanzato cocciuto, e che a quanto pareva per lui la donna era diventata un’ossessione, un’idea fissa di cui non riusciva a liberarsi. Così si era liberato di lei. Stavano intervistando il fidanzato cocciuto, che di fronte alle telecamere aveva un’aria spenta, crollava il capo in segno di diniego all’assedio dei microfoni che si sporgevano verso la sua bocca come volessero pungolarlo. Ogni microfono aveva la forma di un gelato ed era nero e portava la sigla di un’emittente televisiva. Ad un certo punto il fidanzato cocciuto aveva alzato le mani in segno di resa e i microfoni l’avevano incalzato ancora. Il fidanzato cocciuto aveva occhi grandi e neri che sporgevano lievemente dalle orbite.
– Pronto? Sono… sono la signora A. Dottore, in casa stiamo tutti male. Sì, nausea, vomito e uno strano odore. … Ah sì? … Ah. Davvero? Ma lei che cosa pensa che sia? … Che cosa dobbiamo fare? Tutto qui? Grazie, dottore, buonasera. - Angelo la stava guardando con aria sospesa ed esangue, aveva la testa abbandonata contro il muro, una mano sulla bocca e l’altra mano sulla testa di Domenico. Jessica si era alzata dal lettino ed si era affacciata alla porta, stava appoggiata allo stipite e li guardava con gli occhi lievemente cerchiati nella pelle soffice dei cinque anni. Sembrava malata.
– Cos’ha detto? – ha chiesto Angelo, sfibrato.
- Non siamo i soli. Avrà ricevuto quaranta telefonate. Tutto il quartiere sta male! – Daniela ha allargato le braccia in un gesto rassegnato.
– Ma com’è possibile. E l’odore, l’odore, ti ha detto che cos’è? – ha detto Angelo versandosi un po’ d’acqua nel bicchiere che stava ancora sulla tavola.
- Non si sa niente. – ha detto Daniela sedendosi nuovamente. Era abbattuta e preoccupata.
– E che cosa dobbiamo fare? Insomma, è un dottore! Saprà bene che cosa conviene fare, Cristo! – ha sbraitato Angelo, bestemmiando in un ululato di dolore e d’impotenza. – Cristo, uno sta male da bestia chiama il dottore e il dottore dice “Non preoccupatevi, non siete i soli”. E a me che me ne importa se non siamo i soli? Io sto male! Sto male! – e ha abbandonato il dorso allo schienale della sedia.
– Veramente ha detto di prendere del Prufrock. Se poi il Prufrock non fa niente, di andare all’ospedale. – e Daniela ha preso nuovamente in braccio Domenico che la guardava con aria smarrita. Era molto pallido.
- Bambino mio. I miei bambini – ha detto Daniela allungando un braccio e afferrando la manina di Jessica. Poi d’un tratto, come presa da un’ispirazione improvvisa, – Ti prego, Angelo, spegni il televisore. Fallo per me. –
Allora Angelo ha preso il telecomando e ha spento. In quel momento una telefonata in diretta parlava del ritrovamento del corpo senza vita della donna scomparsa. Il corpo era stato ritrovato in un bosco poco lontano dal luogo della sparizione. La voce dal video era un crescendo di emozione, e la giornalista parlava in modo nervoso e concitato, mettendo l’accento sulle parole sangue e decomposizione e lunga ferita.
La giornalista parlava dal bosco e il suo viso era illuminato di bagliori sinistri, il vento le agitava i capelli lunghi e biondi dietro le spalle.
Un’emozione forte troncata di netto che si era ridotta ad un pallino microscopico sullo schermo nero.
A Daniela è sembrato improvvisamente che l’odore di menta diminuisse. Ma la finestra era rimasta aperta, e dalla finestra l’odore continuava ad entrare, in un flusso costante e leggero che veniva da fuori, che sembrava salire dal cortile e dai tetti che stavano di fronte a loro. Ora l’odore era meno intenso, ma c’era ugualmente. Anche la nausea era diminuita un poco, quel tanto che bastava per permettere loro di muoversi. Daniela ha chiuso la finestra con un gesto rapido.
– Ma cosa fai? – ha detto Angelo che intanto si era alzato in piedi barcollando leggermente. Sembrava molto stanco, come se la nausea l’avesse prosciugato. – Chiudo la finestra. – ha detto Daniela decisa – è da fuori che viene adesso… -
- Da fuori? Ma sei matta? Prima mi fai spegnere il televisore, adesso dici che l’odore viene da fuori.-
– Non senti che è passato? – ha detto Daniela dietro un velo di speranza. – Non c’è più … non c’è più… – ha ripetuto la vocina di Domenico.
Inspiegabilmente, i loro occhi si erano incontrati. Jessica guardava Daniela e suo padre e il fratellino, suo padre guardava lei e Domenico e Daniela, e Daniela guardava tutti. Nessuno di loro parlava.
Sentivano tutti un sollievo grande, quasi potessero respirare di nuovo, quasi che insieme all’odore fosse passata anche una paura strana ed inquieta.
Soltanto Daniela si era seduta a tavola e guardava la bottiglia dell’acqua inebetita, come se la bottiglia dovesse dirle qualcosa.
Angelo ha chiamato Jessica con un gesto e le ha sfiorato il viso con la mano grezza e forte.
– Non aprite la finestra, eh, bambini? Non apritela per nessuna ragione. Tra qualche ora sarà passato tutto e potremo aprirla, ma ora non si può… -
- Papà, ma che cosa c’è nell’aria? – ha chiesto Domenico arrampicandosi sulla sedia del padre. – L’hai sentito anche tu quell’odore? –
- Certo che l’ho sentito. Sarà qualche diavoleria che c’entra con l’inquinamento. Gas, non può essere, il gas non puzza di menta, accidenti. Magari è qualche inquinamento che viene dalla spazzatura. Però, anche la spazzatura non profuma di menta. Oh, Cristo, qualcosa dovrà pur essere! Adesso la mamma ci prepara una bella tazza di caffellatte. Chissà che cos’era… Magari dicono qualche cosa al telegiornale. Chissà a che ora incomincia la partita. – e Angelo ha premuto il tasto rosso del telecomando.
Allora l’odore di menta è tornato lieve e sottile, si insinuava come un serpente d’aria morbido e conquistatore. Dapprima l’hanno percepito come un’eco lontana, poi sempre più forte, come più forte si faceva la luce verdastra del video. Angelo fissava il video mentre l’odore si diffondeva nella cucina e gli è venuto un altro pensiero strano, il pensiero che la giornalista del telegiornale sembrava un polpo, un bellissimo polpo biondo che muoveva le labbra sensuali e gonfie e coperte di rossetto, nella sua direzione. Forse era l’effetto di quell’odore di menta, ma gli sembrava che l’immagine del polpo biondo emergesse distintamente dallo sfondo del video, quasi staccandosene e ondeggiando in riflessi violacei. Che stesse entrando nella cucina. Poi Angelo si è riscosso dalle sue fantasie mentre Daniela urlava a pieni polmoni.
− Angelo, l’odore viene dalla televisione! E’ la televisione che puzza, spegni! –
Daniela ha puntato l’indice verso il televisore e si è portata la mano alla bocca perché anche la nausea ricominciava a salire, come l’odore. Anzi, era quasi un tutt’uno con l’odore di menta e si materializzava nel corpo appesantendolo, era così forte che quasi Daniela non riusciva a deglutire. E, se avesse deglutito, l’odore le si sarebbe fermato in gola come un anello mostruoso e informe.
– Sìsì! – ha detto Domenico – è vero, papà! E’ la televisione! –
Jessica, invece di parlare, si è portata le manine al viso, come volesse smettere di vedere.
− Ma che, siete matti? Come fa l’odore a venire dal televisore? E da dove esce? – ha detto Angelo allargando le mani. Si è avvicinato al televisore che stava appoggiato sopra il frigorifero. Si è avvicinato con decisione e rapidità, come volesse risolvere davvero il problema in modo risoluto e definitivo. Ha osservato insistentemente tutti gli orefizi dell’apparecchio, e lo voltava, e lo scuoteva, quasi fosse un essere animato. Ma la nausea ha cominciato a riprendere anche lui, e lo ha costretto ad abbandonare le mani lungo in fianchi, sconfitto.
− Niente da fare. A me non sembra che esca di qui. Proviamo ad accendere di nuovo… – ha detto prendendo in mano il telecomando.
− No! – hanno detto Daniela e Domenico e Jessica all’unisono.
Angelo si è voltato verso di loro quasi stentasse a riconoscerli.
− E va bene! – ha detto posando con stizza il telecomando sulla tavola.
Daniela ha avuto un guizzo e gli ha detto guardandolo negli occhi – Perché non accendi la radio? Il telegiornale c’è anche alla radio, no? Magari dicono qualche cosa… -
Allora Angelo ha spinto il pulsante di un apparecchio bombato e argentato che stava sulla credenza. La radio ha trasmesso una canzonetta antiquata, e il cantante aveva un accento napoletano che acuiva la sensazione di un tempo remoto. Dopo qualche minuto, la musica si è interrotta per lasciare posto a una voce gracchiante che annunciava il radiogiornale.
− Ma dimmi tu! – ha esclamato Angelo – non lo reggo. Non la reggo la radio. E’ come quando sei in chiesa e non sai dove mettere la mani… Io non so dove mettere gli occhi. Che cos’è? Devo fermarmi a guardare il frigorifero? Ma pensa tu! –
− Sshh… sentiamo le notizie. – ha replicato Daniela sedendosi e torcendosi le mani.
Ma le notizie non parlavano dell’odore di mentuccia né tantomeno dell’intossicazione. Si parlava della morte della donna scomparsa e della partita di calcio che avrebbero giocato quella sera.
− Già, così mi perdo anche la partita… Cazzo. – ha inveito Angelo.
- Non dire parolacce davanti ai bambini. – Daniela era decisa e impellente. – Dài, una sera diversa. E’ tanto tempo che non parliamo, potremmo giocare a qualche cosa con i bambini, eh? Magari a carte… Non devi prenderla male. In fondo ogni tanto cambiare fa bene. E tu passi tutte le sere davanti alla televisione… non mi guardi quasi mai. Vero, bambini, che vostro padre guarda sempre la televisione? –
Domenico e Jessica hanno fatto sì con la testa.
- Ma quali giochi? Ma chi se ne frega dei giochi! No, me ne vado a letto. Accidenti alla menta, alla mentuccia e alla nausea. Voi rimanete pure qui a divertirvi con la radio. -
Angelo si è diretto alla camera da letto con aria sconsolata. Sembrava una mosca senza testa. E’ entrato nella stanza e ha richiuso piano la porta, come se non volesse essere disturbato.
− Mamma, ho fame! – ha detto Domenico tirando una manica della camicetta di Daniela.
− Oh, ti è tornata la fame? E tu Jessica, hai fame anche tu? –
− Mh mh. – ha fatto la bambina scuotendo la testa in segno di diniego. – Voglio la televisione… –
− Quella, bambina mia, questa sera non si può avere. Vuoi intossicarti, eh? Dimmi
un po’, vuoi che ti venga di nuovo la nausea? Vuoi stare male? Vedrai che domani ci sveglieremo e questo sarà stato soltanto un brutto sogno. Domani potremo aprire tutte le finestre e guardare il telegiornale e papà non sarà più così triste. Volete giocare, eh? Volete che giochiamo un po’? –
− Ho fame… – ha ripetuto Domenico afferrando il suo piatto sulla tavola. – Minestra… –
Allora Daniela ha preso un mestolo e gli ha versato un po’ di minestrone nel piatto. Il bambino ha cominciato a mangiare a cucchiaiate lente e ampie, a occhi bassi. La tovaglia bianca riverberava sotto il lampadario e i bicchieri scintillavano quasi fossero stati illuminati da candele. Daniela e i bambini tacevano, soltanto la radio, che Angelo aveva dimenticato accesa, gracidava nell’aria immobile e calda. Ora c’era una canzone melodica che parlava di amore e di abbandono, una musica molle, che invadeva l’aria e induceva alla malinconia.
− Com’è vuota la casa senza televisione! – ha esclamato Daniela mentre raccoglieva le stoviglie nel lavello con un rumore di acciottolato. I bambini erano muti e tristi. Se non fosse stato per la musica malinconica che riempiva l’aria, si sarebbe detto che fossero stati colpiti da un lutto. Un lutto della mente, qualcosa che privava dell’abitudine ad un affetto quotidiano e reiterato che saturava l’anima. E l’anima, sembrava essere volata via con l’odore di mentuccia. Daniela e Jessica e Domenico sembravano sgonfi di se stessi, si guardavano intorno con lo smarrimento di un corpo che si risveglia dopo una febbre. L’odore di mentuccia li aveva lasciati estenuati e senza volontà.
Mentre Daniela rigovernava, i bambini si erano addormentati con le braccia sulla tavola, cullati dalla musica molle e dal rumore delle stoviglie e dell’acqua che scorreva.
− Non avete detto le preghiere, prima di addormentarvi… – ha detto Daniela voltando il capo dal lavello. Su, preghiamo tutti insieme. –
− Mamma, ho sonno! – ha protestato Jessica con la vocina impastata.
− Non importa se hai sonno, si può dormire senza la televisione ma non senza le
preghiere. Su! –
Allora i bambini hanno congiunto le mani, ma tenevano gli occhi chiusi, come se stessero continuando a dormire. Poi hanno cominciato, all’unisono.
− Angelo del cielo, proteggi il nostro sonno.-
Ma alla fine della preghiera, prima di farsi il segno della croce, Domenico ha esclamato – Angelo del cielo, fai passare l’odore e la nausea. -
− …e riportaci la televisione. – ha aggiunto Jessica con un sospiro. – Amen. -
Poi si sono avviati verso la camera dei bambini, e Daniela sembrava un grande angelo nero che vegliava sul passo incerto dei suoi figli.
− Fate piano, che vostro padre dorme… – ha detto mettendoli a letto e rimboccando loro le coperte. Nella stanza brillava la luce intima e bluastra dell’abatjour sul comodino che univa i due lettini. Daniela si è seduta sull’orlo del letto di Jessica e con un gesto dolce ha sistemato i capelli della bambina sul cuscino. Erano lunghissimi e morbidi, e profumavano di sapone. Poi Daniela si è voltata verso Domenico, che si era addormentato con il viso affondato nel cuscino.
− Riportaci la televisione. – ha mormorato Daniela quasi in un soffio, mentre gli occhi scorrevano sul corpo abbandonato dei suoi figli. Poi, cercando di non fare rumore, ha spento l’abatjour.
Nel corso dei secoli la maggioranza, che è ciò che avviene, ci diceva Tutto ciò che è reale è razionale, io che accado sono giustificata, sono adatta, sono ragionevole.
Ma noi, la minoranza, le rispondevamo Tutto ciò che è razionale è reale, ma tu che accadi (non posso negarlo: tu esisti) non hai scusanti, non hai ragione né giustificazioni, tu ci sei ma sei irragionevole.
Ti sbagli, riprendeva la maggioranza, sei tu, anima bella, la vera inadatta, come avresti sgomberato quegli stranieri?, loro erano pericolosissimi, avevano superpoteri come mazze, bombole, spray urticanti, avevano pericolosi infiltrati: supercriminali che prendono le case che non possiedono, avevano i raggi laser, la tela dell’Uomo Ragno, avevano l’antimateria del Dottor Destino, ma io che sono ragionevole, razionale e reale, io che sono lo Stato, li ho saputi sconfiggere.
Anche io, rispondevamo noi, la minoranza, sono lo Stato, pago i tributi per uno Stato che non sia violento, fascista, crudele con i poveri, indifferente alla violenza dei ricchi, io non sono violenta e non sono fascista, io sono reale e razionale e tu, che non lo sei, devi adeguarti, devi ragionare.
Anima bella, ci incalzava la maggioranza, io agisco e ho dalla mia l’opinione dei più, sono razionale perché obbedisco e risolvo, io ho risolto il maggio di sangue di Wedekind, io ho risolto le contraddizioni di Genova, coi miei idranti e i miei manganelli io porto la sintesi, mentre tu blateri antitesi e in pochi ti seguono.
Io forse sono l’antitesi e mi seguono in pochi, protestiamo noi, la minoranza, ma tu, che sei reale (l’ammetto: tu esisti), sei talmente irrazionale da inventare realtà: tu inventi il nemico, lo camuffi, lo amplifichi, crei montaggi della realtà, così porti dalla tua l’opinione dei più, e infine, quando hai sconfitto il tuo nemico (tu sei piena di nemici, essi ti tengono viva), lo accarezzi e lo umili, mentre lui ha le fattezze di una donna che piange, ora questo esiste ed è logico, e funziona e ha risultati, tu funzioni ma non sarai mai ragionevole, tu sei irrazionale, tu sei ingiusta, io non credo alle tue carezze alla donna che piange.
Io, che invece sono la sintesi, diceva fiera la maggioranza, e ho dalla mia l’opinione dei più, amministro la violenza, so colpire i nemici, ma li so accarezzare quando ormai sono inermi, le mie carezze sono la sintesi e sono il sintomo che io porto una realtà razionale, ragionevole, pacificata, immune alle tue antitesi che protestano e sobillano, io sono ciò che è, tu vorresti essere, io faccio, io risolvo, tu desideri mondi diversi e non hai mondo alcuno.
Io sono sconfitta, diceva nel corso dei secoli la minoranza, ma persevero, il mio mondo dev’essere razionale, non solo reale; ragionevole e giusto, non solo legale; tollerante coi poveri, aperto, pronto a risolvere l’esilio e la povertà (tu non li hai mai risolti), dalla tua violenza nasce l’opposta violenza, quella violenza rafforza la tua, io sono inerme ma tu: la mia voce ascolterai sempre.
L’associazione SassiScritti continua la sua attività proponendo la terza edizione di InRitiro un ciclo di laboratori intensivi sulla scrittura, l’illustrazione, il canto e la recitazione.
Fine settimana “in ritiro” e lontani dalla confusione di tutti i giorni, momenti di approfondimento, condivisione ed esplorazione partendo da basi teoriche fino a vere e proprie esercitazioni sulla composizione di un romanzo o di una illustrazione.
Gli scrittori Luca Ricci e Giulio Mozzi, il regista e attore Oscar De Summa, la cantante e attrice Monica Demuru, l’illustratore Simone Rea, sono gli artisti e docenti che per questo terzo anno lavoreranno e staranno insieme ai partecipanti in un paesaggio che concilia la concentrazione e il raccoglimento. Ospitati in centri come Nabhi @ Centro della Terra (www.nabhi.it) un luogo recentemente inaugurato, semplice e accogliente, nato per ospitare corsi residenziali, ideale per chi ama camminare in natura, godere di pace e tranquillità.
I primi due con lo scrittore Luca Ricci e l’attrice e cantante Monica Demurru si sono svolti a luglio. Gli altri, che qui promuoviamo, avranno luogo nell’autunno fra settembre e novembre.
InRitiro è inserito nel progetto ‘Polimero’ proposto da Arci Emilia Romagna in collaborazione con la Regione Emilia Romagna, che porterà laboratori artistici in circoli delle principali province della regione.
Ogni laboratorio comprenderà nella quota di iscrizione, oltre al corso con l’artista scelto, anche l’alloggio, i trasporti in sede e i pasti.
PROGRAMMA
Il 15-16-17 settembre staremo “Nelle regole del quadrato”, workshop proposto dall’attore, autore e regista Oscar De Summa, recente premio ‘Mariangela Melato’ come migliore attore 2017, ricevuto dalla critica all’interno del Premio Hystrio. Con De Summa si lavorerà propriamente sull’arte dell’attore e sulla creazione teatrale.
L’autunno continuerà con un laboratorio di illustrazione condotto da Simone Rea, amato e seguitissimo illustratore di una lunga serie di albi, uno dei quali recentemente finalista al prestigioso Premio Andersen. Dal 29 settembre al 1 ottobre Rea propone il laboratorio “L’interpretazione del testo e la creazione del personaggio”, un percorso con l’acrilico su come creare a partire dalla collaborazione con gli autori.
Il 3-4-5 novembre si chiude il calendario 2017 con lo scrittore Giulio Mozzi, che propone il laboratorio “La natura della finzione”. Mozzi si occupa da decenni di scoprire buoni libri, e oltre che scrivere opere proprie si dedica professionalmente all’arte della narrativa sia tenendo corsi di scrittura che lavorando sui testi altrui. Il percorso di questi tre giorni sarà quindi un’immersione intensiva nella scrittura, anche con consigli pratici su come scrivere e proporre un buon romanzo.
per tutti i dettagli:
fb: SassiScritti – L’importanza di essere piccoli
info: info@sassiscritti.org
mob. 3495311807
Ufficio stampa
Daria Balducelli
d.balducelli@gmail.com
mob. 3493690407
di Roberto Antolini
La letteratura italiana (come altre europee) è ricca di ‘narrativa di guerra’. Sono numerosi i libri che hanno segnato l’idea che le generazioni seguenti si sono fatte degli eventi bellici: pensiamo a quanto di quello che abbiamo in testa sugli assalti disperati della Prima Guerra Mondiale lo dobbiamo ad “Un anno sull’Altipiano” di Lussu, o a quanto della ritirata di Russia a “Il sergente nella neve” di Rigoni Stern (e sia l’uno che l’altro sono, in fondo, libri antimilitaristi). “La mia vita è un paese straniero” di Brian Turner (NN editore, 2017, 18 euro) è molto diverso. Ci insegna poco della concreta guerra in Iraq (soprattutto dell’Altro: il nemico), e molto del modo in cui può percepirla un militare americano. È un libro sull’immaginario americano della guerra, sulla cultura della guerra come si è costruita nella percezione collettiva, intrecciando i fatti ad una dimensione mediatica – nella quale i film hanno la funzione tradizionale dei nostri libri – ed un tramandarsi di narrazioni famigliari – comunque anch’esse forgiate dalla dimensione mediatica – in cui il testimone sulla guerra passa da una generazione all’altra. Basti dire che il libro inizia con incubi notturni dell’io narrante – l’Autore stesso – che di notte, tornato a casa dopo la fine della ferma, sogna di essere un drone in ricognizione «Così trascorro ogni notte, verificando le impronte del calore nel paesaggio, alternando i filtri delle lenti mentre mi inclino in virata, raccogliendo un circuito alla volta le informazioni». Viene subito in mente un classico: l’inizio del film sulla guerra del Viet Nam “Apocalypse Now” di Coppola (a sua volta ispirato a “Cuore di tenebra” di Conrad), in cui il capitano Willard, abbandonato fra la veglia e il sonno sul letto di una pensione di Saigon, confonde il ventilatore della stanza con le pale di un elicottero da guerra, sul sottofondo di una drammatica canzone dei Doors.
La scrittura di Brian Turner è più la scrittura di un poeta – seppur in prosa – che di un romanziere, o di un memorialista. Vive della ricerca dell’intensità della parola e dell’emozione, di blocchi di immagini connesse da meccanismi analogici, più che di un razionale tessuto narrativo referente. D’altra parte all’origine c’è un diario poetico: «anch’io, a tempo perso, riempivo taccuini di poesie, ma quello per me era un modo di isolarmi. Per molti versi il linguaggio della poesia creava in me uno spazio interiore, uno spazio che non apparteneva né all’esercito né alla comunità militare in cui prestavo servizio» (101).
Brian Turner è effettivamente stato a combattere con l’esercito americano nella seconda guerra dell’Iraq (all’origine – possiamo dire – di quasi tutte le sfighe del mondo attuale), e di questa esperienza si nutre il libro. L’Iraq di Brian Turner è gelido, polveroso, micidiale. Le sue uscite dal campo su mezzi corazzati hanno sempre qualcosa di claustrofobico, sono una discesa in un infernale girone dantesco. Pure non troviamo alcun accenno a qualche ragione storico-politica di quella guerra: è semplicemente un mestiere e una sfida a sé stessi. Gli iracheni un altro mondo incommensurabile, per i quali pure Turner non è privo di sentimenti (più o meno di colpa), come quando incrocia lo sguardo con qualche prigioniero rinchiuso in gabbie all’interno della base americana: «Viviamo entrambi in recinti di filo spinato. Io ho un M4, un pugnale legato con una cinghia al giubbotto antischegge e la bandiera americana che origlia dal distintivo di panno sulla spalla. Lui indossa la tunica, i sandali, e trema per il freddo e l’umido. In un angolo dell’area di contenimento c’è una guardiola protetta dai sacchi di sabbia. Ogni tanto vedo che la polizia militare trascina un prigioniero lungo uno dei corridoi di filo spinato fino a un WC chimico di plastica verde, ma in genere gli agenti restano nel casotto, per stare al caldo e sparare cazzate su quello che succede a casa» (14).
Ma quindi, cos’è questa guerra? La risposta più giusta sarebbe forse ‘un destino’: «Eppure i soldati non smettono di marciare, generazione dopo generazione, da una guerra all’altra, nel fango e nella pioggia nel sole soffocante» (77). Il racconto assomma immagini della guerra in Iraq di Brian (e delle allucinate licenze), ad altre delle guerre degli avi, tramandate – come appunto si diceva – dalla memoria famigliare. Immagini della Prima Guerra Mondiale sul campo delle Argonne, con i gas a far morire l’avo 14 anni dopo la contaminazione (una dilazione della morte che consente comunque un concepimento e quindi la continuazione della storia famigliare e dunque all’Autore di esserci), altre dei campi di battaglia del Pacifico nella Seconda, sulle isole di Guan e di Iwo Jima. «Per essere un uomo – spiega Brian Turner – avrei dovuto camminare nella tempesta e nel tuono di un mondo spogliato di ogni ragionevolezza, come prima di me avevano fatto altri nella mia famiglia» (75). Insomma il destino era «spingersi negli spazi desolati, dove gli interrogativi profondi trovano risposte violente» (77). Molto hemingwayano direi.
di Francesca Fiorletta
Vuoi vedere le balene?
Gli occhi vivaci sempre puntati in faccia, che pure brillano sotto la lampada a led di un opaco sentore azzurrino, si stagliano vividi contro quella sua insolita carnagione abbronzata. Chissà perché me l’ero immaginato pallido, smunto, sudaticcio persino. Già, beh, forse il motivo è vagamente intuibile. Certo che voglio vedere le balene.
di Gianni Biondillo
Widad Tamimi, Le rose del vento, Mondadori, 2016, 269 pagine
Non c’è scrittore che almeno una volta nella vita non abbia progettato di raccontare la storia della propria famiglia. Il problema è che bisogna avercela una storia che riesca a descrivere le ferite subite da una famiglia per colpa degli strali della Storia. Insomma, una storia da raccontare, una che riesca a farsi, nel suo essere privata, davvero comune. E bisogna anche avere una passione per le soffitte, i diari di parenti sconosciuti, i racconti orali, l’attenzione ai particolari minuti che danno corpo e sangue alle anime dei propri avi. Widad Tamimi tutto questo ce l’ha.
Le rose del vento racconta di due famiglie lontane per estrazione sociale e origine geografica, che mai avrebbero potuto e dovuto incrociarsi. Ma la vita sa portarci dove meno immaginiamo. Il romanzo alterna, capitolo dopo capitolo, il racconto delle radici materne e quelle paterne. Da una parte ci porta in una famiglia borghese triestina, di origine ebraica, che per colpa del fascismo dovrà conoscere l’esilio negli Stati Uniti, ma che ha in uno dei suoi componenti (il nonno di Tamimi) la cocciutaggine di chi vuole tornare a vivere in Italia, a Milano, negli anni della ricostruzione postbellica.
Dall’altra parte attraversiamo una storia di tutt’altra natura: Khaled, il padre della autrice, è palestinese, povero e pieno di disperato desiderio d’emancipazione. Non sua, personale, e neppure familiare, ma del suo intero popolo. Riuscirà a venire in Italia per studiare medicina. Le rose del vento è sostanzialmente un romanzo su due opposti esili che sapranno ricongiungersi. È il destino che, meglio di un romanziere, fa incontrare la figlia ribelle di un borghese ebreo con lo studente che vuole tornare in patria a curare i bambini del suo villaggio. Come non poter raccontare, avendola a disposizione, questa storia d’amore che ha radici così lontane?
(precedentemente pubblicato su Cooperazione numero 20 del 17 maggio 2016)
Una prospettiva strutturata sul concetto di ere geologiche e di spazio planetario
di Laura Dassow Walls –
traduzione di Alessandra Giannace
Che filosofi imberbi, e che sperimentatori senza esperienza, noi siamo!
Non c’è nessuno dei miei lettori che abbia vissuto una intera vita umana

di Andrea Inglese
Quello che voglio scrivere è un gran libro teorico. Ci penso spesso, anzi ci sto lavorando da parecchio tempo, ma in modo laterale, periferico, anche perché gli argomenti per ora, pur essendo diversi e variamente intrecciati, non sono stati ancora definiti, e questo non per attendismo speculativo, ma proprio per una mia decisione: non è che abbia il problema delle idee vaghe, al contrario, tutte le idee di passaggio nella mia testa sono, se non proprio chiare, molto distinte, e spiccano le uno dopo le altre, ma ogni precoce formulazione dell’argomento sarebbe nociva, la teoria a cui io penso ha bisogno di costruirsi in modo organico, deve sorgere da sola, raccogliendo ad ampio raggio gli spunti, perché questi davvero non mancano:

di Eva Macali
Yˈəm
The tree opens the door I am
through the ma comes the a-ha
no guardian no gaze Yˈəm
ma passing a-ha the tree the door

Singolare coincidenza ha fatto che nel giro di pochi giorni mi arrivassero due libri della stessa casa editrice. Pur conoscendo i percorsi delle due autrici ho potuto per la prima volta “sentire” davvero le loro voci attraverso queste due opere singolari: Sedute in piedi di Giulia Scuro e La disponibilità della nostra carne di Laura Liberale, entrambe pubblicate, in due diverse collane, dalle Edizioni Oèdipus. Ad accomunarle è sicuramente la perfezione geometrica di una narrazione in versi che, poesia dopo poesia, declina un’esperienza specifica, fondamentale come può esserlo la morte, la nascita, l’essere al mondo, ricostruendo un “tutto” da cui risulta difficile- ci scusiamo per avere osato tanto- estrapolare un passaggio, una singola poesia senza offendere il disegno originale dell’intero. Nei versi di Giulia Scuro la vena ironica sembra irrorare molti passaggi dal fare al disfare dell’io, protagonista qui di un’analisi – le sedute dall’analista vengono perciò numerate – che riesce a conservare lo spirito dell’incantamento perfino di fronte al dolore; la voce di Laura Liberale è più simile a quella di un Mantra, di una preghiera laica da recitare al mondo più che agli dei. Non mi dilungo oltre. Lascio ai lettori la bellissima nota critica di Fosca Massucco preceduta da alcuni estratti del libro di Laura Liberale. Su quello di Giulia Scuro spero di poter ritornare con la prossima puntata dei poeti appartati. effeffe
Tre poesie da La disponibilità della nostra carne
di Laura Liberale
(Edizioni Oedipus, collana Croma K, diretta da Ivan Schiavone)
Dalla secca frizione dei corpi
dal ritmo inesatto dell’attrito
dalla fallacia del vostro legno
generaste un ardore primitivo
un fuoco di rovina.
Bruciò, l’esca di carne.
La colpa, inestinguibile.
Sono d’oro i due pezzi di legno con cui gli Aśvin generano il fuoco.
Bṛhadāraṇyaka-upaniṣad, VI, 4, 22
*
Ricostituiscimi
ripete chi fu fatto a pezzi
al fuoco volto a mezzogiorno
che diede al sangue un battito marziale.
A me restituiscimi.
E il sangue si abbandona al proprio sperpero
si dissipa, impotente.
Certe donne credono che solidificandosi
il sangue possa generare un figlio.
Quando smembrarono Puruṣa, in quante parti lo divisero?
Ṛgveda, X, 90, 11
*
Non avendoti fermata allora
nel suo male paventava adesso
una retribuzione elementare.
Ti s’incupiva il battito nei passi
e piano ti staccavi dal suo braccio.
Nel limo metafisico del padre
qualcosa di te cedeva. Sconfitto.
Gli disse: “E me, padre, a chi mi darai?”, e lo ripeté una seconda,
una terza volta. Il padre allora gli rispose: “Ti darò alla morte”.
Kaṭha-upaniṣad, I, 1, 4
Nota di lettura
di
Fosca Massucco
“Aggiogare le parole è quel che resta”
Il carattere cinese che indica la poesia, 䀽 (shī), è composto dall’ideogramma parola affiancato da quello di tempio: adorazione attraverso le parole. Laura Liberale fa sua questa saggezza in miniatura proponendo un personale (e molto occidentale, nonostante i rimandi all’Oriente) percorso di distacco dal quotidiano nel suo “La disponibilità della nostra carne”.
Intendiamoci subito: capovolgere i sistemi di riferimento, rivoltare la cognizione mondana porta l’uomo a crescere interiormente oppure, senza scampo, a buttare radici interne. Solo questo rimane, “succhiare la durevole cheratina dei morti”, imparare ad abbandonare (fisicamente o meno, poco importa alla fine) la realtà del quotidiano per un lento e costante apprendimento; l’approccio quadridimensionale fatto di tempo transiente e carne mescolati, “avvinghiati […] come a un nemico” con enorme difficoltà ci porta all’assoluto, all’essenza delle cose pura come ossa.
È un viaggio di ritorno quello di Liberale, verso un antro o un cratere, verso un’accoglienza assoluta, a tratti cosmica, ma sempre oscura nell’accezione più positiva del termine; il suo buio, in cui il pensiero si sospende e rimane immobile, è pieno di miele e di api.
Dimenticando per un attimo il topos dell’ape laboriosa – completamente fuori luogo qui – scartiamo di lato e pensiamo l’insetto come elemento fondamentale della purificazione; non a caso il suo miele conserva immuni da putrefazione le sostanze e tempo addietro manteneva pulite le piaghe. La tensione dei testi cresce insieme al lavoro purificatore delle api, arrivando a trasformarle da simbolo incorruttibile della volontà nelle madri produttrici del “miele di un nuovo coito”, alla ricerca della disponibilità della carne, ed infine nelle creatrici di un nuovo ventre, di “una giara di miele”.
Nel libro si susseguono scene come rapidi thangka di cui siamo spettatori: “scegli!” sembra dirci l’autrice, “decidi cosa vuoi essere!” mentre ci troviamo a scorrere nei versi e tra le dita una mala di ossa con il piglio occidentale del rosario; e lei? Ci scatena addosso Kālī, “la Nera” con la sua collana di sapienza, pronta ad unirsi nella lotta per recidere le nostre teste o, perlomeno, il nostro ego.
Come già in un suo libro precedente (“Ballabile terreo”, D’If 2011), il percorso verso la liberazione dal sé passa attraverso l’accettazione della catastrofe e della sofferenza come naturali e necessarie; lì Liberale scriveva “è alla carne che dovevo annodare i miei bambini | per portarne la crescita ogni giorno | come un serto difeso alla madre”.
Ora il suo percorso si è spinto oltre, le memorie della sofferenza paterna sono ancora presenti, ma a corredo di una visione complessiva più ampia: “Sale dai piedi il freddo, ma è già stato. | Fuori, le crepe e un cranio spoglio”. L’autrice ci accompagna dentro la morte, percepita come scioglimento dai vincoli del sé, senza per forza essere terra di comprensione; ma, d’altro canto, “sapere è bucare la luce | aprire varchi d’ombra”, passare dal regno della (supposta) conoscenza sensoriale a quello della (sicura) ignoranza spirituale, sia esso alla moda occidentale di inferni e paradisi o filosofeggiando di karma non meglio strutturati. Dunque il sapere è ombra? Per Liberale è rientrare nella caverna, in cui tutto è roccioso e umido, in cui le api la accolgono, come nell’antro di Itaca, e il cosmo si rivela nella sua essenza primordiale di “rumoroso” silenzio.
La carne impara, ha memoria più dell’acqua traditrice e porta dentro di sé la rinascita, ma deve imparare a trasfigurarsi nell’accoglienza: non a caso gli ultimi versi con cui il libro si chiude, ci insegnano che accettare è la prima delle liberazioni. Solo così “si fanno chiari i volti delle madri”.
Laura Liberale, La disponibilità della nostra carne, Edizioni Oèdipus 2017, pagg. 48 €11,50
di Francesca Fiorletta
«Hai osservato così a lungo l’amore che hai finito per trovare una teoria per cui l’amore è osservazione».
E questo è Piero Origo, in effetti: un uomo che osserva, un uomo che medita, che – diremmo pure in gergo colloquiale – “si fissa”, s’impunta su certe idee malsane e le rende il baluardo della propria intera esistenza, e tenta in ogni modo di perseguirle, maniacalmente, fino allo strenuo delle forze, prova a spingere ogni più sistemica, forse anche in nuce già perversa situazione, fino alle estreme, decisive e drastiche conseguenze, che risultino poi essere possibili o impossibili poco importa.
di Davide Orecchio
C’è un’anima inossidabile, inespugnabile di certo capitalismo – ed è il suo motore cardiaco, la sua ragione propellente -, e purtroppo quest’anima è allergica all’etica, non ha rispetto del mondo e delle specie che l’abitano, inclusi noi che siamo il suo mercato di pascolo.
È un’anima contaminatrice.
Questa mia nota sulle fotografie di Mario Ferrara conclude il dossier da me curato e pubblicato in Francia sulla rivista Focus-in, diretta da Patrizia Molteni. Igiaba Scego, somala, Ornela Vorpsi, albanese, Helena Janeczeck nata in Germania da una famiglia polacca, Jamila Mascat, italo-somala si interrogano sul tema dell’identità. A illustrare il tutto v’era il fotoracconto del fotografo Mario Ferrara. dedicato al tema dell’Arcipelago, paradigma da noi scelto per superare d’un balzo un concetto e una visione del mondo, quella isolazionista tanto in voga di questi tempi (effeffe) ps qui è possibile leggere gli interventi precedenti I, II, III,IV

Elogio del confine incerto
di Francesco Forlani
L’Europe s’archipélise.
Les régions linguistiques, les régions culturelles
par delà les barrières, des nations sont des îles,
mais des îles ouvertes
c’est leur principale condition de survie.
E. Glissant, Introduction à une poétique du divers,
Paris, Gallimard
Quando abbiamo pensato al tema delle isole l’idea che ne avevamo era di luoghi aperti in uno spazio aperto, alla loro naturale con gurazione in arcipelago. La solitudine delle isole l’isolatitudine non è mai assoluta, infatti, era, e lo è, impensabile senza il suo essere in relazione costante e in movimento con altre isole e con il mare aperto. Quando abbiamo scoperto il lavoro di Mario Ferrara sugli scogli, sulle pietre greche, la prima cosa che abbiamo colto è stata proprio questa capacità dell’occhio di determinare un luogo attraverso il suo paesaggio, riuscire a raccontare quasi nel dettaglio la sospensione di un’isola nella sua condizione più autentica ovvero quella di terra emersa.
L’essere qui più che mai esiste soltanto grazie alla presenza dell’essere altrove. – scrive Glissant, fondatore con Chamoiseau del Tuttomondo, che richiama all’idea di “con ne come transizione” tema di uno dei percorsi fotogra ci di Mario Ferrara. Per chi avesse avuto come noi la fortuna di frequentare l’opera del fotografo sa quanto sia importante e costitutiva dello sguardo il concetto di transizione, passaggio, attraversamento. Che si tratti dei suoi lavori dedicati all’architettura o di quelli rubati alla vita comunitaria come il magni co tu o degli scugnizzi a Castel dell’Ovo (pubblicata sul numero 32 di Focus) se c’è un tratto stilistico che contraddistingue il lavoro di Mario Ferrara è proprio questo, l’assecondamento della vita; conosco davvero pochi fotogra in grado come lui di muovere l’immagine; si ha come l’impressione che la camera sia alla deriva, entri in completa sinergia con la scena, che anche quando si vorrebbe fissa – penso a certi suoi lavori urbani- in realtà è mutevole, come mutevoli sono le condizioni del paesaggio, la luce per esempio.

La mostra s’ intitola ΝΗΣΙ, isola. C’è una immagine in cui si vedono in successione un ramo secco, uno scoglio e sullo sfondo un’isola vera e propria. Une traversée, come se qualcuno vi avesse posto quegli elementi per tentare un guado. Al pari della scala sospesa che abbiamo scelto come copertina dell’autore, una scala messa lì da chi? ma soprattutto messa lì per cosa? Non può che confortare l’idea che qui si sta raccontando la vita come relazione costante degli elementi, e che nessun viaggio si può veramente fare senza raccogliere un’eredità, appog- giarsi su quanto all’occhio umano è sommerso e invisibile ma in realtà “tiene il tutto”.
Nello Rosselli, concludendo la biografia di Carlo Pisacane, scriveva: “Il viandante ansioso di varcare il torrente getta pietre una sull’altra, nel profondo dell’acqua, poi posa sicuro il suo piede sulle ultime che a orano, perché sa che quelle scomparse nel gorgo sosterranno il suo peso.” Noi speriamo che la visione di queste foto che arricchi- scono il nostro dossier vi faccia pensare all’immagine che ne abbiamo avuta noi: quella di un’umanità che sa dove poter appoggiare i suoi passi da gigante.
di Davide Gatto

[segue da qui]
La prospettiva del predatore: il sopravvissuto, ovvero il potente, ovvero il paranoico
La massa aperta è quanto mai instabile e sempre prossima alla disgregazione, le mute si trasformano le une nelle altre, la vita – a pensarci bene – è una sorta di apprendistato continuo alla metamorfosi, sia per sfuggire ai pericoli che per dare il meglio di sé.[1] Tutto scorre fluido intorno a noi e dentro di noi. Canetti attribuiva tanta importanza a questa qualità umana che nell’intervista alla Tv svizzera citata in apertura dichiara il proposito di dedicare un secondo volume, di fatto mai realizzato, di Massa e potere al tema specifico della metamorfosi.[2]
Non tutti gli individui però sono inclini a scivolare di forma in forma, di massa in massa per sfuggire ai predatori di ieri e di oggi e di fatto costituire i volubili aggregati sociali che fanno la storia e le civiltà. C’è infatti chi percepisce l’altro, isolato o ancor più in massa, sempre come ostile, si sente costantemente perseguitato e sviluppa una vera e propria passione per il sopravvivere: è il potente, colui che si sente al sicuro solo quando tutti gli altri sono a debita distanza, anzi alla massima distanza possibile, rappresentata dalla loro morte.[3] Ogni sua parola, ogni suo gesto non sono che la versione domesticata del ruggito o delle movenze minacciose del predatore: vere sentenze di morte.
Di fatto il potente non è antropologicamente diverso da ciascuno di noi, in quanto “l’essenza del potere”, “il meccanismo del potere”, il suo “processo” sono biologicamente inscritti nel nostro corpo e quindi nella nostra psiche, se solo si pensa al ciclo necessario della nutrizione che altro non è se non ghermire qualcosa con le mani, stritolarlo tra i denti, dissolverlo con la digestione ed evacuarne i resti.[4]
Mentre però la maggioranza degli esseri umani ricorre al dissolvimento della propria individualità – alla cui libera espressione ciascuno ambisce, ma a giudizio di Canetti senza speranza – nella massa (ovvero nelle diverse formazioni sociali cui essa può dare luogo) o in continue trasformazioni che rendano inafferrabile la potenziale preda che sentiamo di essere, il potente al contrario percepisce se stesso come unico e superiore, mira ad annientare la massa – fisicamente o metaforicamente – da cui si sente sempre minacciato e a cui intende comunque sopravvivere, e naturalmente si sforza in ogni modo di inibire le trasformazioni, che riconosce bene come tentativi di fuga.[5]
Efficace a tratteggiare questa possibilità umana a divenire potenti o – che è lo stesso – a godere dello status privilegiato di sopravvissuto[6] è questa volta il ricorso alla descrizione clinica di accessi psichiatrici come il “Delirium tremens” tratti dalle pagine vive di Kräpelin e di Bleuler[7]: gli stati alterati della coscienza, non diversamente dalle testimonianze dirette degli etnologi, rivelano il materiale psichico autentico, profondo che struttura la coscienza dell’uomo al di qua della sua piena consapevolezza.
Tratti fondamentali della sintomatologia di un malato di questo genere – come della psicologia del potente – sono la visione di masse ostili, in particolare di “animaletti, topi, insetti” che “invadono il suo corpo in grandi eserciti”, la percezione concreta che tutto intorno a lui tenda a rimpicciolirsi, una miniaturizzazione che egli però “avverte come se fosse un gigante”, e infine allucinazioni di masse che si trasformano continuamente in altre masse, che egli osserva straniato e “naturalmente molto a disagio”.
Ora, tutte queste tendenze – unitamente ad altre caratteristiche su cui Canetti si soffermerà minutamente prima dell’”Epilogo”, nel capitolo significativamente intitolato “Sovranità e paranoia”[8], e specificamente a proposito del caso Schreber in esso compreso – [9]sono esattamente le stesse che animano la psiche del potente, tanto che – conclude lo studioso – “il paranoico è il preciso ritratto del potente”: in entrambi è prevalente “il desiderio di sopprimere gli altri per essere l’unico, oppure, nella forma più mitigata e frequente, il desiderio di servirsi degli altri per divenire l’unico con il loro aiuto”.
Il comando e la spina
Se il mondo degli uomini, la loro storia sono innanzitutto mossi dalla paura – ab origine dalla paura di morire -, il potente che quest’ultima incarna sta di fatto alla base dei sommovimenti sociali che attraversano i tempi e caratterizzano le epoche. Basta la sua presenza minacciosa infatti perché gli uomini si coagulino in una massa quanto più ampia possibile e – come una mandria di gazzelle in fuga al solo odore del leone – trovino una loro compatta direzione di marcia. Di fatto – ragiona Canetti – è come se il potente avesse impartito un ordine: fuggite se non volete morire.[10]
Nella forma domesticata delle civiltà cosiddette evolute, il comando non ha tuttavia perduto la suggestione di quella primitiva minaccia ed è pertanto l’arma tipica del potente. Un’arma che gli basta sfoderare per ridurre gli uomini alle proporzioni di insetti in fuga che – come si è visto sopra – popolano le visioni megalomani di tanti malati psichiatrici, ma che per altro verso, una volta sortito il suo effetto, lascia una traccia indelebile in chi si è piegato a quella minaccia, in chi ha obbedito al comando: Canetti chiama “spina” questa traccia e afferma che “La spina permane in chi esegue il comando”.[11]
La scelta del termine “spina” evoca efficacemente il fastidio e il disagio che prova chi esegue un ordine – “estraneo” alle proprie deliberazioni e “individuale”, specifica Canetti -; tanto è il desiderio di ciascuno di liberarsi delle “spine” dei comandi ricevuti ed eseguiti che tutta la vita di ogni individuo può essere vista come lo sforzo inconsapevole di raggiungere questo obiettivo.[12] Naturalmente – osserva acutamente Canetti – a ogni uomo sembrerà di dare corso alla sua vita in piena libertà, seguendo i propri impulsi, ma questo accade da un canto perché uno dei modi più efficaci per sbarazzarsi del disagio dell’ordine eseguito è appunto seguire l’impulso “naturale” ad impartire a qualcun altro, in condizioni analoghe, il medesimo ordine, dall’altro perché il processo del comando viene introiettato fin da bambini per statuto educativo universale.
Se d’altra parte non è possibile liberarsi della colpa dell’ordine eseguito – precisa Canetti chiaramente alludendo ai panni di “miti carnefici” indossati dai gerarchi nazisti a Norimberga, se non anche da Eichmann a Gerusalemme[13] -, la “spina” può continuare a restare nella coscienza dell’individuo come un corpo estraneo, qualcosa che gli è stato conficcato a forza e di cui pertanto non si sente responsabile: “Quanto più il comando fu estraneo, tanto meno ci si sente colpevoli per averlo eseguito (…). Chi eseguì il comando considera se stesso vittima, e perciò generalmente non prova alcun sentimento per la vittima vera e propria”.[14]
Esistono poi altri modi per estrarre la “spina” dell’ordine eseguito, tra i quali spicca l’aggregazione ad una massa che Canetti definisce “di capovolgimento” e che si costituisce quando la liberazione dal rancore per gli ordini ricevuti non è più possibile individualmente: “Se si tratta di soldati, l’avversario sarà l’ufficiale. Se si tratta di lavoratori, l’avversario sarà il padrone”.[15]
In generale comunque quando un comando viene impartito ad una massa, esso si diffonde dall’uno all’altro simultaneamente, riproducendo quasi preventivamente il meccanismo appena illustrato di liberazione della “spina” tramite cessione ad un altro, cioè trasmettendogli a propria volta il comando ricevuto. Per non parlare del fatto che la costituzione in massa genera sempre una euforia e un senso di libertà dalla paura tali che quale che ne sia l’occasione – anche l’emanazione di ordini “estranei” – essa riuscirà in ogni modo gradita.
Un ultimo ordine di osservazioni Canetti svolge sugli effetti del comando-spina anche sul potente che lo usa come arma contro gli altri. Il potente è perfettamente conscio che i suoi ordini lasciano tracce indelebili sui suoi sottoposti e che l’accumulo di “spine” costituisce per lui una minaccia: “Chi è fuggito o si è arreso dinanzi alla minaccia, sicuramente si vendicherà. Si è sempre vendicato, quando è giunto il momento (…)”.[16] Questo fenomeno, che Canetti definisce “angoscia del comando”, colpisce in proporzione al grado di potere ricoperto e finisce per acuire l’ossessione paranoica del potente, che moltiplicherà i suoi ordini-spine fino a quello “subitaneo di una morte di massa. Egli dà inizio a una guerra”[17] in cui molti dei suoi moriranno, al solo scopo di liberarsi della sua angoscia.
Tirando le somme della sua disamina, Canetti riconosce che ciò che rende davvero pericoloso un potente, o meglio, ciò che può fare di ciascun uomo un potente pericoloso – “Il successo dipende esclusivamente dalle circostanze casuali”[18], osserva lo studioso – è proprio la sua facoltà di impartire ordini e di infiggerli come spine nella carne viva di chi è a lui subalterno, con tutte le conseguenze sopra descritte. A chiusura del volume e in modo diretto Canetti afferma che “Chi vuole riuscire ad aggredire il potere deve guardare negli occhi senza timore il comando e trovare i mezzi per sottrargli la sua spina”.[19]
Come? Canetti è esplicito anche su questo punto: “Solo il comando eseguito fa rimanere la sua spina in chi vi ha obbedito. Chi ha eluso gli ordini non deve neppure conservarne la traccia. «Libero» è solo l’uomo che ha imparato a non rispettare gli ordini, e non quello che se ne libera soltanto in un secondo tempo”.[20]
L’epilogo dell’Autore nella controluce del nostro presente
I capisaldi teorici che regolano la formazione e il funzionamento delle masse in rapporto al potere, nonché la natura profonda di quest’ultimo, sono a giudizio di Canetti operativi anche oggi, anche se sotto il velo di forme di domesticazione variabili in relazione al grado di civiltà considerato: essi configurano una vera antropologia e, per conseguenza, una altrettanto vera sociologia.
All’altezza del 1960, dunque, Canetti vede nettamente predominante la funzione dell’accrescimento, che è sempre al fondo un accrescimento di uomini anche quando – come nell’era della produzione tecnologicamente assistita e dell’incipiente consumismo – esso si manifesta attraverso la moltiplicazione seriale e esponenziale di oggetti. Canetti d’altra parte in più passi del suo saggio associa strettamente sviluppo della civiltà e spinta alla crescita, che solo arcaicamente poteva essere sostenuta da una muta di guerra, ma che ora è intimamente pacifica.[21] Tanto pacifica che essa ha addirittura i tratti di una religione universale nel cui culto si riconoscono entrambi i blocchi della cosiddetta Guerra fredda, “Capitalismo e socialismo”.[22]
È del tutto evidente che Canetti, per quanto guardingo verso quello che definisce “il moderno furore dell’accrescimento”[23], considererebbe innaturali le posizioni espresse, per esempio, da Bataille ne La parte maledetta (1967), con il suo ideale di dispendio senza contropartita come condizione perché l’uomo ritrovi se stesso e perché le nazioni troppo ricche si liberino delle loro eccedenze, pena l’esplosione dell’energia vitale in guerre e distruzioni al loro interno.[24] È pur vero che Canetti si augura “fra le nazioni un avvicendamento pacifico e regolare nell’esercizio del potere”, ma al di là dell’inconsistenza che per natura hanno tutti gli auspici egli mai mette in discussione la radicata – e da lui ampiamente argomentata – tendenza degli uomini all’accrescimento.
Per quanto poi sia dato cogliere tra le ultime righe del saggio la consapevolezza almeno embrionale di questioni che sarebbero giunte a maturazione in seguito e che ci attanagliano con forza oggi – quale quella della omologazione antropologica sotto il segno dell’imperante consumismo[25], o quella del cortocircuito logico tra aspirazione a una crescita infinita e limitatezza dello spazio biologico[26] -, credo che il loro mancato sviluppo debba essere inteso non come una lacuna, ma come un invito a riflettere, a raccogliere e a sviluppare nell’ottica di un dialogo culturale senza tempo e senza confini le numerose sollecitazioni contenute nel saggio di Canetti, nella fattispecie le due segnalate.
Un invito peraltro raccolto, tra innumerevoli altri, da Pier Paolo Pasolini nella sua fitta attività di polemista contro la “nuova civiltà dei consumi, cioè del nuovo e del più repressivo totalitarismo che si sia mai visto”[27], o dai teorici della cosiddetta “decrescita” – Ivan Illich e Serge Latouche su tutti -, impegnati a strappare gli individui “dall’ immaginario dello sviluppo e della crescita”, a operare una “de-colonizzazione dell’immaginario” consumistico globale e a promuovere un modello economico alternativo, estraneo al “circolo infernale della creazione illimitata di bisogni e di prodotti, come pure della frustrazione crescente che questa genera.”[28].
[1] Ivi, p. 407: “La capacità di metamorfosi dell’uomo, che gli ha procurato tanto potere su tutte le altre creature, (…) è uno dei più grandi enigmi: ciascuno la possiede, ciascuno la usa, ciascuno la considera perfettamente naturale. Ma ben pochi si rendono conto di dovere ad essa il meglio di ciò che sono”.
[2] “C’è poi il problema delle metamorfosi, che mi ha interessato e che non ho finito di trattare nel primo volume di Massa e potere: continuerò nel secondo”. Vd. http://www.raiscuola.rai.it/articoli/elias-canetti-secondo-magris-e-calasso/3956/default.aspx: “
[3] Elias Canetti, op. cit., p.277: “La soddisfazione di sopravvivere, che è una sorta di piacere, può divenire passione pericolosa e insaziabile”.
[4] Ivi, p. 253: “Qualcosa di estraneo viene afferrato, sminuzzato, incorporato, e assimilato dall’interno; si vive soltanto grazie a questo processo. (…) È chiaro però che tutte le fasi di questo processo, non solo quelle più esterne e semicoscienti, trovano riscontro anche nella psiche. (…) Gli escrementi, che rimangono al termine del processo, sono carichi del nostro reato. Da qui si può capire cosa noi abbiamo ucciso. (…) L’uomo è veramente solo soltanto con i suoi escrementi”. Tutto il capitolo, intitolato Gli organi del potere (pp. 243-269), è uno dei più suggestivi del saggio.
[5] Elias Canetti, Massa e potere, Adelphi Edizioni, Milano, 1981, p. 458. Dopo aver chiarito che “Il potente conduce una battaglia ininterrotta contro la metamorfosi spontanea e incontrollata” con un processo invertito rispetto a questa che egli definisce “antimutamento”, Canetti chiosa che “L’accumulo di antimutamenti determina una riduzione del mondo”.
[6] Ivi, p. 290: “Il capo vuole sopravvivere, e perciò si rafforza. Quando egli ha dei nemici cui sopravvivere tutto va bene; altrimenti, sopravviverà alla sua gente”.
[7] Si vedano, ivi, le pagg 434- 447, da cui sono tratti anche i virgolettati del capoverso successivo.
[8] Ivi, pp. 499- 561; per “Il caso Schreber”, in particolare, pp. 528 ss.
[9] Ivi, pp. 560-561
[10] Elias Canetti, Massa e potere, Adelphi Edizioni, Milano, 1981, p. 366: “Il comando deriva dunque dal comando di fuga: nella sua forma originaria, esso ha luogo tra due animali di diversa specie, l’uno dei quali minaccia l’altro. (…) La fuga è l’ultima e l’unica istanza cui ci si può appellare contro quella sentenza di morte”.
[11] Ivi, p. 368.
[12] Ivi, p. 369: “Lo sprone, come solitamente si dice, a raggiungere questo o quello, costituisce l’impulso più profondo a emanciparsi dagli ordini un tempo ricevuti”.
[13] Per i “miti carnefici” cfr. Eugenio Montale, “La primavera hitleriana”, in La bufera e altro; per il resto almeno Hannah Arendt, La banalità del male, Feltrinelli, Milano, 2011 (anche se il processo ad Eichmann comincerà nel 1961).
[14] Elias Canetti, op. cit., p. 402
[15] Ivi, p. 398
[16] Elias Canetti, Massa e potere, Adelphi Edizioni, Milano, 1981, pp. 372-373
[17] Ivi, pag. 571
[18] Ivi, pag. 544. Interessante anche il prosieguo del testo citato: “La loro ricostruzione, con l’illusione che vi si manifestino leggi determinate, si chiama storia. Al posto di ogni grande nome potrebbero essercene cento altri. (…) Ciascuno ha appetito e ciascuno sta come un re su uno sterminato campo di cadaveri d’animali”.
[19] Ivi, pag. 571
[20] Ivi, pag. 370
[21] Elias Canetti, Massa e potere, Adelphi Edizioni, Milano, 1981, pp. 566-567. Significativo che egli consideri “La guerra come mezzo di rapido accrescimento (…) esaurita in uno scoppio di carattere arcaico nella Germania nazista e (…) eliminata per sempre”.
[22] Ibidem
[23] Ibidem
[24] Cfr. Georges Bataille, La parte maledetta preceduto da La nozione di dépense, Bollati Boringhieri, Torino, 2015, pag. 87. Si veda a questo proposito anche il mio saggio su questo libro pubblicato da Jamila Mascat su Nazione Indiana al seguente link: https://www.nazioneindiana.com/2017/04/01/la-parte-maledetta-georges-bataille/
[25] Si consideri il passo seguente di Elias Canetti, Massa e potere, p. 566: “ La vendita di per sé, se fosse completamente autonoma, tenderebbe a raggiungere come compratori tutti gli uomini. (…) Tutti gli uomini dovrebbero conseguire una sorta di uguaglianza ideale, quali compratori solvibili e disponibili.” Il corsivo questa volta è mio.
[26] Ibidem, subito di seguito: “Ci vorrebbe altro però; perché una volta che tutti fossero stati raggiunti e avessero comprato tutto, la produzione vorrebbe crescere sempre di più”. Ancora mio il corsivo.
[27] P. P. Pasolini, Scritti corsari, Garzanti, Milano, 2012 (articolo apparso su “Paese Sera” l’8 luglio 1974 come lettera aperta a Italo Calvino), pp. 53-54.
[28] Serge Latouche, Per un’abbondanza frugale, Bollati Boringhieri, Torino, 2012, rispettivamente pp. 22 e 13.
di davor

1) – Pentimento di un Suv romano
– Posso parlare?
– Ti ascolto.
– Vorrei provare a spiegarmi…
– Non sarebbe meglio se prima ammettessi le colpe?
– Forse hai ragione. Allora, vediamo… E’ vero, sono enorme. Ingombro le strade della città. Consumo troppa benzina. Inquino più delle altre auto. Ecco.
– Tutto qui?
– Cos’altro devo dire?
– Non sei esattamente una piuma. Qualche accenno a cosa succede quando corri troppo, quando sbandi, magari quando investi qualcuno?
– E’ vero, sono pericoloso: se l’impatto con un’auto normale può ucciderti, con me muori di sicuro.
– Mi basta sapere che sei consapevole della tua inutilità.
– Inutilità? Non ho detto questo.
– Ma si deduce dalle tue parole. Sei inutile, ammettilo.
– Ok, lo ammetto. In una città come Roma sono inutile.
– E in molti altri posti.
– Ma è qui che vivo! E poi vorrei aggiungere a mia discolpa che costruirmi così non è stata una mia idea. Lo so che è banale, ma è vero anche questo.
– Hai ragione. Non sei responsabile della tua mostruosità. Dobbiamo imputarla al cinismo e all’idiozia di chi ti ha progettato e costruito.
(silenzio)
– A chi appartieni?
– A una donna.
– E per cosa ti usa?
– Mi porta in giro per il quartiere Prati. Quasi tutti i giorni mi lascia in doppia fila a via Settembrini e va a fare la spesa. Compra verdure biologiche, carciofi organici, queste cose qui.
– È bionda, fa l’avvocato quando le va, anche suo marito è avvocato e hanno un figlio.
– Sì! Come fai a saperlo?
– Ho tirato a indovinare.
– Accidenti, sei in gamba. Però il marito non fa l’avvocato. Si occupa di marketing. E anche lei, in realtà, non è un avvocato vero e proprio, pur avendo una laurea in giurisprudenza.
(silenzio)
– Un altro degli scopi per i quali mi usa è accompagnare il figlio in piscina.
– Anche lì, immagino, doppia fila.
– Esatto.
– Non ti senti odiato in quei momenti?
– Vorrei sparire e farmi piccolo piccolo.
– E il marito non ti usa?
– No. Lui ha un altro Suv, più grosso di me.
– Però!
– A volte penso che… (esita)
– Cosa pensi?
– Penso che dovrebbero usare in modo più intelligente i loro soldi. Anche se non è nel mio interesse pensarlo. Sinceramente non so più quale sia il mio interesse.
– Sei migliore di quanto credessi. Il tuo problema è che hai capito, purtroppo per te.
– E so anche dove dovrei stare.
– Dove?
– Chiuso nel garage.
– Senza mai uscire?
– Lì dentro per sempre. Così non darei più fastidio a nessuno.
***
2) – Schema d’infiltrazione aliena sulla Terra per mezzo dei Suv
Estratto recuperato nel laboratorio di uno stabilimento automobilistico in disuso, nel nord degli Stati Uniti. La traduzione è incompleta. Alcuni termini (ad es.: “cavallo di Troia”, “intelligence”) si allontanano dal significato letterale per agevolare la comprensione.
«… per questo motivo riassumiamo le delibere dei Consigli di guerra nr. #387767, #387768¸ #387769 in uno schema che in punti chiave illustra la strategia da adottare per la conquista del pianeta Terra:
1) Scartare l’ipotesi di una guerra frontale nella prima fase di conquista. La nostra lieve superiorità tecnologica nel campo bellico non assicura l’annientamento della razza umana. Si creerebbero sacche di guerriglia che prolungherebbero il conflitto e a lungo andare rafforzerebbero la resistenza del nemico.
2) Optare per una guerra subdola. Sfiancare l’umanità senza che se ne accorga.
3) Potenziare la nostra intelligence e boicottare lo stile di vita degli uomini, accentuandone le incongruenze.
4) Attendere il momento opportuno per l’attacco.
5) Sabotare i centri economici, politici, culturali – che gli uomini chiamano “città”. Infiltrarsi nelle città e indebolirle. Creare le condizioni per un nostro intervento in una fase di conflitto già aspro tra uomo e uomo. Semplificare la nostra conquista.
6) Non infiltrare direttamente guarnigioni del nostro esercito (troppo rischioso), ma usare un cavallo di Troia. Al riguardo il Consiglio di guerra approva le raccomandazioni di XW34-Fg Czar, responsabile del dipartimento Colonizzazione, e accetta la sua proposta: innestare quindi un nostro agente nel corpo di un uomo, tecnica già sperimentata con successo (si vedano, tra gli altri, i dossier “Barbarossa”, “Mussolini” e “Nixon”).
7) L’agente scelto WE56-JU Suv si autotrapianterà nel corpo dell’ingegnere X, umano responsabile del settore nuovi progetti della casa automobilistica Y. Compito di WE56-JU Suv, una volta prese le sembianze di X, sarà la progettazione di un nuovo veicolo per lo spostamento umano su terra (i.e. un’automobile) particolarmente inquinante, ingombrante e potenzialmente distruttivo.
8) Realizzare una nuova specie di automobili rivolte agli strati sociali terrestri più pericolosi e distruttivi, stando alle nostre ricerche: vale a dire i ricchi (n.b.: sulla Terra esistono ancora le classi).
9) Progettato il veicolo, infiltrare altri agenti nei settori di controllo mentale che gli umani definiscono “marketing”. Obiettivo: diffondere il mezzo di trasporto nelle città, ambienti dove il cavallo di Troia si rivelerà particolarmente nocivo e fuori luogo.
10) Puntare nel giro di quindici anni (calendario umano) alla destabilizzazione delle metropoli fomentando le condizioni per un clima di violenza e odio tra gli abitanti, già indeboliti dalle sostanze tossiche emesse dalla nostra invenzione e incattiviti dal terrificante impatto urbano dell’automobile prodotta da WE56-JU Suv.
10) Conclusa la fase uno, passare alla fase due o dell’intervento bellico diretto.
Il Consiglio approva il piano e dà mandato all’agente WE56-JU Suv di attrezzarsi immediatamente per la missione assegnata».
Questo è il quarto articolo ( qui il primo, il secondo e il terzo) del dossier da me curato e pubblicato in Francia sulla rivista Focus-in, diretta da Patrizia Molteni . Igiaba Scego, somala, Ornela Vorpsi, albanese, Helena Janeczeck nata in Germania da una famiglia polacca, Jamila Mascat, italo-somala si interrogano sul tema dell’identità. A illustrare il tutto il fotoracconto del fotografo Mario Ferrara. dedicato al tema dell’Arcipelago, paradigma da noi scelto per superare d’un balzo un concetto e una visione del mondo, quella isolazionista tanto in voga di questi tempi (effeffe)
Take a walk/ En marche
di Jamila Mascat
Camminare non le era mai piaciuto, probabilmente perché era così abituata a spostarsi a piedi per inseguire i trasporti – i treni, gli autobus, a suo modo gli aerei – sempre a passo svelto e maldestro, che non sapeva più bene distinguere una passeggiata da una rincorsa, e detestava quella sensazione di affanno da affaticamento quasi quanto detestava il singhiozzo, il suo e quello degli altri per solidarietà. Quando le diceva “facciamo due passi” ed era un invito implorante, e più spesso “facciamo due passi?” come per stupirla con una domanda stupida, restava a guardarlo, interdetta, o anche contrariata, talvolta obiettando che non ce n’era alcun bisogno e adducendo argomenti contrari che in verità mancavano di fantasia. Pur avendo assecondato spesso il suo desiderio, pur avendo accondisceso spesso a camminare con lui, non importa se controvoglia, non aveva ancora maturato un’idea chiara e distinta di cosa – una figura, un’immagine, una visione – potesse corrispondere a questo nome comune, molto comune – la “passeggiata” – nella testa di una persona adulta qualsiasi, che non frequenta le Dolomiti da molti anni, che non porta a spasso né cani né figli, che non deve sgranchirsi le gambe la mattina da quando è in pensione e che non crede che la flânerie si riduca a due gambe in giro in ordine sparso, tantomeno a quattro. O allora una flânerie piccolo-borghese, più piccola che borghese. O ancora un concetto così vuoto che precipitava i suoi ragionamenti in un vortice di inadeguatezza e che invocava un riempimento urgente, benché in fondo non lo meritasse.
Le pareva che la “passeggiata” si sottraesse con ostinata antipatia a qualunque sforzo immaginativo da parte sua, che le fosse preclusa e si negasse alla sua vista, mentre lei voleva vederla e non solo saperla. Ovviamente sapeva bene qual era il senso di quella “passeggiata” che nel giro di pochi minuti trascorsi a dibattere sull’opportunità di mettersi in moto, sui vantaggi del restare seduti o distesi o svestiti e sudati, seguiva l’esortazione di lui a camminare. “Camminiamo? Facciamo una passeggiata”. Nell’accondiscendere si rendeva ben conto del fatto che quel movimento insensato e senza meta aveva suo malgrado tanti significati, tra cui per esempio, anzi per primo, quello di “smettiamo di fare quello che stiamo facendo non per fare altro, come se ne avessimo voglia, ma soltanto per non fare più quello che stavamo facendo”. Reset, o della passeggiata. Un’interruzione, immotivata e sgradevole, che avrebbe distribuito separatamente, ma in parti uguali e inversamente proporzionali, rabbia e sollievo tra l’uno e l’altra. A volte una controproposta timida, la sua, che si fingeva sfacciata non tardava ad arrivare: “Prendiamo la macchina”, il contenitore che li avrebbe mossi vietandogli di muoversi e costretti a spostarsi da qualche parte.
La parte era tutto per lei, e per chi come lei aveva bisogno di situarsi e stare da una parte, possibilmente quella giusta, la sua parte, e non dall’altra, la parte opposta. Disegnarsi, anzi segnarsi come un puntino su un planisfero diviso a matita in quattro spicchi. Gli chiedeva un gesto, un cenno, una conferma, una risposta: Io sono qua e tu? L’importante era saperlo con anticipo. Perciò concepiva soltanto gli spostamenti, non le passeggiate a vanvera, ma i tragitti da qui a lì. Le linee non le servivano per unire brevemente due punti in superficie ma per tratteggiare trincee con il tratto grossolano di un pennarello rosso spuntato da una caduta. In trincea nessuno passeggia né gli uomini contro né i caporali allo sbando. Troppo faziosa per camminare, divorava la città, una qualunque, la nota e l’ignota, in cerca di indicazioni stradali su cartelli appuntiti e direzionati. Esigeva itinerari ben delineati contro il nomadismo metropolitano e il vagabondaggio di quartiere che si illudeva di aver abolito le frontiere. Un itinerario prestabilito come una manifestazione nella capitale – da Repubblica a Piazza del Popolo, da République a Nation.
Una manifestazione era un concetto pieno di intuizioni, l’antipasseggiata per eccellenza, lo spostamento di una parte in marcia. C’è chi marcia su Roma per non marcire con andatura marziale, e chi incede en marche arrière vestendo dal nulla i panni usurati del nuovo che avanza; chi marcia e chi marca male. La marcia da Selma a Montgomery, Alabama, con Doctor King in primo piano scolpito in bianco e nero come una statua ambulante, in silenzio per chilometri e chilometri ricordando il sangue e Jimmie Lee Jackson ucciso che non c’era più. Ci avevano provato tre volte con determinazione e con devozione, le braccia incatenate, dritti verso il voto, il diritto di voto, “the ballot or the bullet”, incalzava Malcolm X. Oppure la rivincita del terzo escluso né ballot né bullet: cavalli scagliati dai cavalieri in divisa all’assalto dei manifestanti a piedi. Il 7 marzo 1965 erano riusciti appena ad attraversare il ponte – l’Edmund Pettus Bridge alle porte di Selma – come avrebbe voluto esserci o magari essere il ponte e sentirsi tutti quei passi compatti addosso. Era un domenica che non si dimentica, bloody Sunday.
Il 10 marzo la folla di nuovo in marcia, con qualche cautela e animo riservato raccoglieva le forze per il round finale. Il 21 marzo la valanga nera si gonfiava strada facendo – 25.000 paia di scarpe – fino ad arrivare alle porte di Montgomery dopo aver percorso ottanta chilometri in quattro giorni.
Non era stata una passeggiata. Qualcuno avrebbe dovuto raccontargli quella storia a fumetti, in una lingua franca e spensierata, ammorbidita dai tratti acrobatici di una penna giocosa, la sola lingua che lui intendesse e che lei non conosceva.