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Cuntu di questi giorni

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di Gian Piero Fiorillo

Era lì, sono sicuro. M’è preso un colpo. Adesso ci sono solo i cocci del finestrino per terra. Ci hanno fregato la macchina. E mo’ chi glielo dice a Sonia? Saltano le vacanze? Che palle, madonna che palle.

 

Le vacanze non saltano, non saranno due ladri di galline a fermarci, il nipote di Sonia ci presta la Golf, andiamo a sporgere denuncia, poi le telefonate ai parenti. Slittano gli orari, spese aggiuntive per riconvertire i biglietti, rifare il pieno, ricomprare le pinne e le maschere. Soldi buttati, vacanze recuperate. Roma Vulcano ci mettiamo trentasei ore ma sembrano settantadue, lasciamo il raccordo che sono le quattro del pomeriggio, già stravolti. La più allegra è Sonia, forse per non farci pesare che la macchina rubata era sua. Susanna guida e giura che si farà tutto il viaggio in una botta sola: tanto ce la faccio, dice, ci so’ abituata. E guida. Ci sono abituata e guida, non cede il volante, ha detto che non lo cede, di certo non a me che ho un problema agli occhi e quasi non ci vedo. Non a Sonia che tutta sta voglia proprio oggi non ce l’ha. La Golf del nipote è una bella macchina ma vuoi mettere la BMW? Però la Golf si guida meglio, dice Susanna, è più facile. Certo, quella era sportiva, bassa, scattante, questa sembra una matrona. Ci fermiamo a un autogrill. Vuoi che ti do il cambio? No, no, ce la faccio benissimo. Susanna resiste fino a Messina, poi crolla. Troviamo una stanza all’hotel Europa, commento scontato: meglio che al California. Loro due scendono a mangiare, io direttamente a letto. Mi portano un arancino. Lo mastico dormendo. Dormo dalle dieci e mezza alle quattro del mattino. Mi sveglio con il magone e un buco allo stomaco. Trovo un pacchetto di cracker ma non basta. Sto per mettermi a piangere. Porci. Merde. Per una volta che avevamo una macchina decente. Neppure assicurata contro il furto, tanto la tenevamo in garage. Tranne stanotte, porca troia. E Sonia che non sembra preoccuparsene. Lo fa per noi, per non rovinarci la vacanza. Meglio che non ci penso. In valigia ho la Bibbia, uomini e no, il tè nel deserto, Herman Hesse. Le conferenze brasiliane di Franco Basaglia. Mi ci attacco come un poppante. Testo vulcanico. Sembra di sentirlo, Basaglia, mentre piega con veemenza l’italiano di quegli anni ai miraggi dell’agitatore. Condensa significati in ogni parola e li compatta come il cacciatore che pressa la polvere nella cartuccia. Esploderanno. Mille sentieri e una sola direzione. Incendiario. Spiazzante. Zarathustra con le parole di Husserl e Marx. A un certo punto un tale, sapendolo comunista, gli ricorda che in Unione Sovietica i dissidenti politici vengono internati in manicomio. Lui non arretra: Io penso che tutti gli internati nei manicomi sono dissidenti politici. Ma se viene internato un intellettuale la stampa di tutto il mondo si ribella, mentre se viene internato un alcolista nessuno lo nota – perché? perché l’alcolista è povero. Leggere queste cose alle cinque del mattino sveglia. Brucia, vecchio rudere ex-antagonista ora impiegato statale con la tua brava settimana di ferie e i week-end fuori città. Brucia con gli acciacchi dell’età. Io penso che tutti gli internati nei manicomi sono dissidenti politici! Altro che ragione e moderazione, prudenza e compromesso: questa è la codardia degli epigoni. Brucia contestatore irrancidito in castigati bermuda di lino. I capelli superstiti si incendiano sulla fronte e ti regalano l’illuminazione: il potere non ha inventato i manicomi per rinchiudere i malati di mente, ma la malattia mentale per giustificare i manicomi. E internarvi i dissidenti. Con la scusa di una diagnosi medica. Bastardi, venduti, carrieristi tutti i medici, tutti! Niente fottuti medici per favore, disse Ronald Laing morendo d’infarto. Tutti i pazienti psichiatrici sono prigionieri politici! Questo bisognerebbe urlare ai congressi, nelle conventicole psy, nelle riunioni, ai familiari, per le strade, nei reparti psichiatrici degli ospedali. Tutti lo sono e tutti lo siamo. Siamo tutti malati di mente e prigionieri politici. Internateci tutti, abbottateci di farmaci, neurolettizzateci tutti! Bisogna scendere subito e gridarlo per le strade di Messina, fuori dall’albergo, sul lungomare! Subito! Immediatamente!

 

Sei sveglio? – è la voce di Sonia.

Più di così.

Dobbiamo andare.

Perché?

 

È giorno. Ho parlato all’alba e all’aurora e non mi hanno risposto. Ora c’è da rispettare il programma diurno: lasciare Messina, arrivare Milazzo, fare biglietto, prendere traghetto, essere Vulcano primo pomeriggio. Partiamo. Guida ancora Susanna. Siamo a Milazzo alle nove e scopriamo che il primo traghetto con trasporto auto parte alle diciotto. Revisione del programma: aspettare. Sonia ha i sandali rotti, cerchiamo un negozio, intanto li leghiamo con una cordicella. Ci fermiamo al Petit Hotel per un caffè. Apprezziamo le maioliche della hall. Veniamo accolti con simpatia, di turisti sfigati devono vederne molti. Si chiacchiera. In Sicilia si trova sempre qualcuno disposto a farlo. Mica sono heideggeriani in Sicilia. Sono autentici senza sapere di esserlo. Autentici e chiacchieroni. Curiosi e diffidenti. Ci studiano. Li informiamo che vorremmo andare al mare, visto che manca molte ore al traghetto. Stilano per noi una graduatoria di spiagge. Finiamo alla baia del Tono. C’è un chiosco. Sonia e Susanna prendono l’ombrellone, io mi accomodo all’ombra di un tendalino. Gelato e conferenze basagliane. Leggendo, mi sembra di sentire ancora la sua voce: Questa mattina il giornale dava una notizia che sembra fatta apposta per la conferenza di oggi: una donna denuncia la tortura nell’ospedale di… no, no, tortura… il traduttore evidentemente è d’accordo con me perché ha fatto un lapsus molto interessante, ha tradotto tortura con trattamento… Quando pronunciava queste parole Franco Basaglia non sapeva di essere condannato a morte. Era il 1979 e c’erano ancora focolai d’opposizione in Italia. Ma la mannaia stava già scendendo sulla sua nuca e su tutto il movimento. I mastini arrotavano i coltelli.

 

Sonia risale dalla spiaggia: Non vieni a farti il bagno? l’acqua è bellissima.

Sto facendo un bagno di rabbia sociale.

Astratti furori?

Sai qual è l’altro libro che ho nello zaino?

Uno sulla resistenza.

Uomini e no. Se un uomo commette questi crimini, può ancora dirsi uomo? e se commette questi altri crimini più atroci, è ancora un uomo? e Hitler, possiamo dire che anche Hitler è un uomo? Sì, sì, sì… è un uomo. Anche il più feroce torturatore, il criminale più efferato alla fine è un uomo.

Ma l’uomo può scegliere.

E se uno non può scegliere è ancora un uomo?

Se non può scegliere non è un uomo.

Arriva anche Susanna: Vi sembrano argomenti da mare?

Se uno non può scegliere è solo un corpo, materia. Come Vulcano che manda lapilli e non lo sa.

Vado a vedere se ci danno da mangiare, dice Susanna.

Il Cosmo intero non saprebbe niente di sé senza gli uomini. Il giorno che spariremo il Cosmo avrà perso coscienza. Niente sale di rianimazione.

Susanna sorride e va verso il banco. La seguiamo in silenzio, la mia mente continua a seguire il filo dei pensieri. Se l’uomo muore il Tempo non scorre. Non più fiume – pozzanghera. Peggio: si dissolverebbe nel nulla. Il cosmo ridiventa caos. Le stelle, enormi pire che danzano nel vuoto. Se fosse un movimento musicale sarebbe “tragico senza angoscia”.

 

È ora di avviarci al traghetto, dice Sonia.

Quanto ci mette per Vulcano?

Un’ora e mezza, forse un po’ meno.

Andiamo, il Tempo può attendere.

Un’ora o due che gli cambia.

 

Venite, venite, dice l’addetto della Siremar dopo che le viscere del traghetto hanno sputato un numero incredibile di autotreni, autoarticolati, furgoni, macchine, moto. Iniziamo le manovre d’imbarco instupiditi dal calore dell’asfalto. Siamo nel culo della balena, penso. Visioni di draghi che ingoiano vittime. Venite, che aspettate? grida l’addetto – ah, ma a voi vi conosco, ci andate tutti gli anni a Vulcano, che ci trovate su quello scoglio, eh? Lo zolfo, rispondo. Lo zolfo! ma voi lo sapete che è lo zolfo? è il peto del diavolo, lo zolfo. Che schifo! Andate, andate ancora più dietro, andate che ci avete spazio – venite avanti voialtri, avanti, avanti, qui sulla sinistra, dietro voi, avanti, lasciategli lo spazio che deve scendere il professore – i miei ossequi professore, arrivederci!

 

Lo conosci? chiede Sonia.

Deve avermi preso per qualcun altro.

Forse fa così con tutti.

È facile, sì.

Ancora non c’è la folla di agosto.

Sarà per questo.

 

Ponte. Srotolo un asciugamano e mi stendo su una panca di metallo. Penso allo zolfo e al carattere sulfureo dei siciliani. I minerali del sottosuolo influenzano i caratteri? All’Elba sono tutti pesanti come il ferro? Sull’Amiata hanno l’argento vivo addosso? Macché. Conosco bene l’Amiata, più vai in cima più sono tristi. Forse perché il mercurio l’hanno raspato via tutto. Sonia si avvicina, mi accarezza: A cosa stai pensando? A niente, vorrei essere già arrivato. È bello arrivare col tramonto, dice, mette malinconia però è bello.

 

Infine sbarchiamo. Saliamo verso Vulcanello. Pochi minuti, ecco il resort. Riconosco i corridoi sofferenti, gatti emaciati, piante arse. Mi ricordano una colonia penale, è per questo che ci vengo. Tutto squadrato, povero, trascurato come celle di rigore. Calce sporca, cespugli bruciati, lucertole in fuga. Sole a picco, salsedine. Tutta la Sicilia è una grande colpa, la colpa del Fuoco che ha voluto farsi terra.

 

Abbiamo saputo del furto della macchina, dice l’uomo della reception, se volete potete recuperare il tempo perduto restando un giorno in più, naturalmente senza sovrapprezzo. Siamo molto grati. Sonia dice: solo al Sud succedono queste cose. Ma non lo senti? è milanese, obietto. Eh, per questo s’è trasferito al Sud. Ridiamo di cuore, siamo arrivati. Pace col mondo.

 

L’inquietudine riaffiora a mezzanotte. Nessuno di noi prende davvero sonno. Sarà la stanchezza. Ci si alza per bere, maledire le zanzare, aprire un poco di più la finestra, fare pipì. I fantasmi dell’isola non risparmiano nessuno. Il vulcano mi tocca i nervi, dice Susanna. Ha voglia di parlare. Ho sognato la vita, dice. Come la vita? Era una specie di verme argentato, forse un pescetto, un’acciuga. È volata lontano e poi ero in una stanza chiara e ripiegavo i panni via via che li ritiravo dallo stendino. Li scuotevo cantando, in un controluce abbagliante. Mi piace scuotere e ripiegare le lenzuola. È sempre una festa. Ma all’improvviso i panni cricchiavano e si rompevano come rametti secchi.

Paura di essere fragile.

La vita era scivolata via dalle lenzuola insieme a quell’acciuga.

Hai dormito pochi minuti.

Eppure ho sognato. E tu?

Mi hanno svegliato i gatti, avete sentito?

Gridavano così forte.

Mi davano una senso d’angoscia. Li hai sentiti anche tu?

E come no, hanno fatto un casino. Ma forse facevano l’amore.

Stanotte è anche saltata la luce e le lampadine d’emergenza si sono accese all’improvviso. In quel momento mi sono svegliata di nuovo.

Anch’io. Me n’ero quasi dimenticata, dice Sonia. Poi si gira verso di me.

E tu, cosa hai sognato?

Ho pensato tutto il tempo.

A cosa?

A una strana frase delle Conferenze brasiliane.

Ti pareva.

Un certo dottor Mendonça, sapete cosa dice questo dottor Mendonça?

No.

Dice: Nella pratica, la teoria è differente.

Eh?

Sì, dice proprio così, e nasce una polemica. Basaglia come al solito infuoca la posta.  Mendonça è assente, ma lui prende subito di mira quello che l’ha citato. Non sopportava altri oracoli.

Mendonça processato in contumacia.

Ma che significa Nella pratica, la teoria è differente?

Io la vedo così. Prendi un fabbro nella sua officina. Ferro e fuoco li piega al suo volere, ma non sa niente di chimica o di fisica. Ha un sistema teorico tutto suo, immagini e concatenazioni mentali. Finché funziona, fosse pure che le fiamme sono lingue di strega, va bene lo stesso: le evita e non si ustiona.

Il fabbro aristotelico.

Ridi pure. Ma gli psichiatri fanno lo stesso.

Non hanno una teoria?

Ne hanno troppe e inutili. Devono inventarne altre, personali, o chiudono bottega. Nessuna vita si accontenta di stare in uno schema premontato.

Ah, basta. Siamo in vacanza!

I vostri sogni contro le mie teorie.

Che nella pratica sono differenti.

Non ci parlo più con voi, non mi ascoltate nemmeno.

Ti abbiamo ascoltato, ma adesso dormiamo.

È mattino.

Fa già caldo.

Poi andiamo al mare.

Senza libri.

È ammesso solo Mandrake.

Lo fanno ancora?

Boh.

Gli intellettuali verranno dati in pasto ai pesci.

Il mio non era un discorso intellettuale, al contrario.

Basta.

Dormiamo.

Siamo troppo stanchi.

Allora andiamo subito al mare.

Sì. Ci rinfreschiamo e poi si dorme meglio.

Chi si muove per primo?

Andate, io resto ancora un po’.

Non pensare troppo, mi raccomando.

 

Le guardo mentre riempiono due grandi borse di stoffa, cosa non riescono a metterci dentro. Vanno. Io resto ad aspettare la mia anima, che è ancora a Roma e lavora in un centro di salute mentale. Il corpo ha impiegato trentasei ore per arrivare qui, l’anima è più lenta. Fra un giorno o due verrà e vivremo insieme il tempo restante. Per adesso non riesco a staccarmi dalla vicenda psichiatrica nazionale, in cui tutti si sentono avanguardia ma continuano a fare le stesse cose da quarant’anni. Atrofia della rivoluzione. Tiro fuori il Corriere dallo zaino. La prima famiglia tornata a Karemles, un villaggio iracheno devastato dalla guerra, trova che i serpenti sono diventati padroni delle macerie: in particolare la zarraga, una velenosa e aggressiva vipera del deserto. Non ci sono più i contadini a ucciderla e così s’è diffusa senza incontrare ostacoli. Come si fa a vivere con il rischio di aprire una porta ed essere attaccati? Molto peggio degli Uccelli di Hitchcock. Mi conforta sapere che a Vulcano regna il blacco, un colubride per noi innocuo. Dà dei morsi se viene catturato, ma non riesce a iniettare il veleno perché i denti sono posizionati molto indietro, in fondo alla gola. In compenso fa razzia di topi e insetti, li ammazza mentre li ingoia. Non vorrei essere nei loro panni, sudo freddo solo a pensarci. Spossatezza. Doccia. Ancora avvolto nell’accappatoio, mi sdraio sotto le pale del ventilatore. Ne ascolto il motore affaticato. M’addormento. Ora sono in un lido davanti al mare. C’è un chioschetto, La Capannina. La spiaggia è deserta. Dietro la toilette un bordello frequentato da nazisti, alcuni sono gay e si misurano l’uccello. Il più dotato deve uccidere la maîtresse per diventare capogruppo. Mi allontano, ma la scena si ripresenta. I nazisti hanno ridicoli baffetti tatuati su tutto il corpo. L’assassino della maîtresse viene portato in trionfo. Un vecchio camerata gli porge un ippocampo. L’assassino non gradisce. Era un regalo, balbetta il vecchio. Fugge terrorizzato. Arriva alla Capannina, presidiata dalle milizie governative. Fa caldo, intorno ai quaranta gradi. È una fornace, speriamo che non scoppino altri incendi, dice un soldato. Sergente, che posso fare? chiede il fuggitivo. Il sergente prende una barretta rossa dal frigorifero e gliela porge. Sembra un frammento di foratino. Il vecchio camerata piange. Ha forti dolori all’addome. Ha mangiato la barretta, dice qualcuno. Arrivano le donne con i capelli sciolti, sottili come ombre. S’è suicidato. Povero caro. Non l’ha fatto con intenzione. Credeva fosse hashish. Era nuovo di qui? Forse un bagnino. Era un nazista. Non credevo. Voleva avvelenare il ragazzo. Si chiamava Cosma. Cosma? Sì, Cosma. Cosma.

 

Cosa c’è? mi chiede Sonia svegliandomi. Si sentiva in colpa per avermi lasciato solo. Fate l’elastico, le dico, andate avanti e tornate indietro a riprendermi. Dai, vieni a farti il bagno, che aspetti? Arrivo, arrivo subito. Siamo in vacanza. Sì, sì, viva le vacanze. E viva il mare. E la Sicilia. E i capperi di Salina. E il pescespada. E la lava del vulcano. Sai che ti dico? oggi staremo in acqua tutto il giorno, l’hai portato il materassino? Era in macchina. Ah, pure le ciambelle? Shhh… senti questa musica? sono indiani che pregano. Quasi tutto il personale dell’albergo è straniero. Sono sikh? Non lo so. In Sicilia è tutto musica, dalle cicale al dialetto, e in più adesso ci sono i sikh che cantano. Ogni cosa è perfetta in questo paradiso. Per turisti. E così sia.

 

 

*** roma, luglio 2017

 

Nagi, Vita: Istruzioni per l’uso. La natura cruda e sentimentale del Cairo

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di Giuseppe Acconcia

Ahmed Nagi nel libro “Vita: Istruzioni per l’uso” (Il Sirente, 266 pag., 18 euro) racconta il Cairo come pochi autori egiziani hanno saputo fare negli ultimi decenni. Lo scrittore, autore tra le altre opere di “Rogers” (2010), è stato condannato a due anni, e in seguito rilasciato, per il linguaggio “osceno” dei suoi romanzi. Un testo post-moderno che sfida qualsiasi preconcetto sul Cairo, ne restituisce atmosfere surreali al limite della nouvelle vague, sulla scia di pellicole di successo, come in “The last days of the city” di Tamer el-Sayed che racconta con gli occhi di un gruppo di giovani il centro novecentesco della capitale egiziana. “Nella mia infanzia, tutti i miei amici erano affascinati dal mito di un mondo globalizzato. Ma ho cercato di superare gli stereotipi, introdurre la libertà di scelta nella nuova società globalizzata. E così, mostro la complessità della nostra modernità andando da Toni Negri ai fast food”, mi aveva spiegato Ahmed Nagi in uno dei nostri ultimi incontri in occasione di un’intervista che avevo realizzato per il quotidiano egiziano al-Ahram.

La vicenda di Bassam Bahgat, documentarista ingaggiato per raccontare i mutamenti urbanistici strutturali della capitale egiziana, è raccontata in frammenti, intervallati dalle illustrazioni di Ayman al-Zorqani. Il diario sentimentale del protagonista, che molto ha a che fare con l’esperienza quotidiana dell’autore tra la città satellite di 6 Ottobre e il centro del Cairo, descrive incantevoli donne, Paprika, Mona Mei e Rim, e le piacevoli e incantate giornate di sesso (o un’amicizia suggellata da “sangue mestruale e sperma secco”), trascorse con grande naturalezza, mentre il Cairo inesorabilmente è sottoposta ai mutamenti più radicali. “Se per gli individui maschi del Cairo la vita è un incubo, per le donne è una realtà infernale cui è impossibile sfuggire”. La città viene descritta nei suoi aspetti più crudi e fantastici: un luogo dove alcuni si sono dimenticati cosa sia un “sorriso”, un “ricettacolo d’odio, la materia prima dell’odio e della miseria”. Eppure chi ha pensato tutto questo (il Cairo) non poteva che essere un “pasticciere”.

Lo scopo del racconto è mettersi alle spalle questa disperazione, forse è anche il segreto delle rivolte del 2011, per rendere la vita “più piacevole e meno misera”. Eppure il nascosto e il non detto è sempre più forte di quello che emerge in superficie. Questo sottosuolo resta invisibile per una sorta di intesa tra “politica, religione e società civile” che impediscono che questo volto segreto della città venga a galla. L’osservatore non può fermarsi alla visione di miserabili che “attraversano strade affollate da donne ricoperte da strati di abiti e stoffe”. Ognuno deve imparare a sue spese a decifrare questi luoghi: a ottenere la propria “chiave personale”. E il Cairo è una città così variegata da tenere insieme i gruppi più disparati di persone: da fanatici religiosi a omosessuali, da giovani artisti agli scambisti di Imbaba, dai bambini di strada ai fanatici della forma fisica, dagli uomini d’affari obesi ai cantanti popolari.

L’esperienza sensoriale al Cairo è continua, totalizzante e tesa. “Quando vivi o ti muovi dentro il Cairo, vieni costantemente offeso. Sei destinato a incazzarti”. Una città dove il negoziato tra possibile e impossibile non si ferma mai. “Vedemmo interi quartieri vivere grazie alla corrente elettrica prelevata abusivamente dai lampioni della strada principale”.

Eppure il vero intento della “Società degli Urbanisti” di cui Bahgat è solo un mero esecutore è quello di distruggere definitivamente il Cairo e creare una nuova città dalla forma futurista e commerciale: progetto non lontano dagli annunci post-moderni del sanguinario presidente egiziano al-Sisi. Se fosse per Bahgat e per il suo amico Ihab Hassan il vero cambiamento che la città dovrebbe subire sarebbe la tensione verso l’eliminazione del degrado e della marginalizzazione a cui sono costretti alcuni suoi abitanti, a partire dal cambiamento del corso del Nilo e della sua forma. Ma questi aspetti solo in parte risaltano dalle pagine del libro. Ahmed Nagi continua invece a indugiare in racconti sempre sorprendenti sulla megalopoli, sui suoi abitanti e le loro abitudini amorose. “La prima volta, la feci venire succhiandola senza mai fermarmi, poi entrammo in camera da letto e facemmo l’amore con lentezza”. Ma anche di odori nauseabondi nei bar di Moqattam, come la puzza di “fegato fritto in olio da motore che si diffondeva nell’atmosfera come una nube carica di pioggia”. O di relazioni inedite che richiamano una vita parigina: “Sentii per la prima volta che questo tipo di relazione, in cui il terzo elemento è appeso a un filo che tiene legate realtà e illusione, era ciò che mi avrebbe appagato”.

Eppure questa tensione così irrazionale di una città e dei suoi abitanti avrebbe di là a poco concesso tutto ad una necessità molto più umana e pigra: quella della “sicurezza”. E se al Cairo “non poteva capitarle nulla di peggio dello stato in cui versava”, un bisogno primario in tempi precari ma anche una leva per giustificare qualsiasi cosa agli occhi del profano l’avrebbe di lì a poco trasformata di nuovo. E così l’unico riferimento vero alle proteste del 2011 appare in relazione alla campagna “No”, contro la dichiarazione costituzionale, voluta dalla giunta militare ma contestata dai giovani rivoluzionari.

Nonostante ciò, è sempre il Cairo a dettare modi e tempi del cambiamento. “Tu eri schiavo della città e prima che lei ti si concedesse, dovevi venderti l’anima con un patto firmato col sangue e col cuore”. E tra le priorità di Nagi c’è sempre il tentativo di richiamare un certo disprezzo verso gli islamisti che poi avrebbero preso solo figurativamente le redini del potere: “Scarafaggi nelle fogne del Cairo e sul loro rapporto coi sorci di New York, e sull’effetto di tale relazione sulla nascita di movimenti islamisti in Medio Oriente”.

Fino agli incontri che rendono la vita così affascinante come quello tra due pescatori, uno dei quali in bolletta proprio il giorno della nascita della sua prima figlia. “Getta l’amo e te ne verrà del bene”. Bastò questa frase per ritrovarsi in tasca 300 ghinee (circa 40 euro): perché in alcuni giorni al Cairo è possibile davvero qualsiasi cosa! Eppure il Cairo è sempre rimasta “indifferente alle vite dei suoi abitanti”. Ed è proprio questo profondo senso di solitudine ad aver forse ispirato l’autore a raccontare in modo così autentico e disilluso la sua città perché in fondo è il “dolore” sempre il più “potente motore per la scrittura”.

Bienvenue Italie: Ornela Vorpsi

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Questo è il terzo articolo ( qui il primo  e il secondo )  del dossier da me curato e pubblicato in Francia sulla rivista Focus-in, diretta da Patrizia Molteni .  Igiaba Scego, somala, Ornela Vorpsi, albanese, Helena Janeczek nata in Germania da una famiglia polacca, Jamila Mascat, italo-somala si interrogano sul tema dell’identità. A illustrare il tutto  il fotoracconto del fotografo Mario Ferrara. dedicato al tema dell’Arcipelago, paradigma da noi scelto per superare d’un balzo un concetto e una visione del mondo, quella isolazionista tanto in voga di questi tempi (effeffe)

Have you seen my shoes

di Ornela Vorpsi

Il caso volle che un giovedì del mese di marzo, (opportunamente illuminato da un sole ancora freddo), prendessi la metropolitana aerea, e che un paio di scarpe mi gettasse in un terrore insostenibile. Mi ero seduta di fronte a un uomo perso nella lettura del suo giornale. L’uomo portava delle scarpe gialle. Queste scarpe, senza alcun dubbio, facevano prova della più assoluta innocenza, il loro proprietario era ignaro del senso di smarrimento che stavano per procurarmi.

Quella mattina mi sentivo molto bene. Il mio corpo si era svegliato vigoroso, e il desiderio della vita mi scorreva nel sangue in pulsazioni sane e regolari. Fin quando, per caso, il mio sguardo cadde sulle scarpe gialle che l’uomo aveva ai piedi. Scarpe profondamente straniere. Provenivo da un paese in cui le scarpe erano accessori, strettamente funzionali, non si dava alcuna importanza alla forma. La forma contava solo quando riguardava l’essere umano, e persino in quel caso si diceva che la forma più importante era quella che uno si porta dentro. Nel mio paese la qualità delle scarpe non sempre era buona. Un intero popolo è stato equipaggiato con quelle orrende scarpe in finto cuoio, abbinate a certe suole di gomma che provocavano la comparsa di vesciche piene di siero.

Un giorno, poiché le mie vesciche avevano raggiunto delle proporzioni spaventose, mia madre mi portò dal medico. «Niente da fare – dichiarò lui -, sono le scarpe che provocano questa reazione. Dentro il nto cuoio, il piede non respira, e la gomma di certo non aiuta. Ma non si preoccupi signorina – proseguì – i suoi piedi si abitueranno pian piano: cosa non ha sopportato l’umano di ciò che gli è piovuto addosso? Conosce il proverbio? Ciò che spacca la roccia, l’uomo lo regge».

Molti anni dopo mi resi conto che alcune di quelle scarpe racchiudevano una storia, una storia che le precedeva. Il loro passato – talvolta immenso – si confondeva con un profumo che mi era estraneo, il profumo di Robespierre, di lettere fragranti d’amore e di visi gracili. Erano, oserei dire, scarpe colte. Nel mio paese non avevo mai visto delle scarpe colte.

Avevano quasi sempre un’aria riservata, al tempo stesso lussuosa e discreta, per cui ogni volta che ne vedevo un paio, pensavo immancabilmente al nonno dell’uomo che portava quelle scarpe colte. Lo vedevo andare a caccia mentre la nonna suonava il pianoforte, prima dell’ora del tè, e la cameriera faceva avanti e indietro per la casa, spolverando i mobili di ciliegio.

Erano scarpe che brillavano di una luce sicura, spesso marrone, o nere. Le contemplavo, nella mia fantasia calpestavano tappeti morbidi e rossi, parquet profumati di cera al miele; poi, quando mostravano qualche segno di stanchezza, gli lasciavano il tempo di riprendersi, dopo avervi inserito una specie di meccanismo di legno che ne curava la forma.

Cercavo di immaginare a cosa potesse somigliare il piede che sonnecchiava dentro quelle scarpe; la mia immaginazione lo faceva pallido, liscio, morbido come anella, e osservando sui miei piedi i vecchi segni delle vesciche mi sentivo quasi in colpa. Quelle scarpe m’intimidiva no un po’.

Ma le scarpe che vidi, quel giovedì, nella metro di Milano, erano scarpe che non rientravano in nessuna delle categorie di scarpe che avevo costruito senza volerlo. perché possedevano una storia.

Le scarpe gialle non appartenevano né alla classe operaia, né alla borghesia, né tanto meno all’intellighenzia. Il mio cuore sussultò e, abbandonando il petto, si ritrovò improvvisamente nello stomaco, che prese a battere al suo posto. Guardai le scarpe gialle, strettamente annodate attorno alle caviglie dell’uomo, e osservai con estrema attenzione le loro suole di gomma, di un beige translucido, che mi sembravano due ramponi insensibili e possenti ancorati al suolo. L’insensibilità di queste scarpe, ecco cosa mi gettò in un terrore senza nome. Non conoscevo il loro linguaggio. Ma esistevano davanti ai miei occhi, come il mondo intorno a me, come l’uomo che le portava, come la mia mano che stringeva con tutte le sue forze la sbarra gelida per sostenere il mio corpo, quel corpo che vibrando mi indeboliva. Poi ne ho parlato a qualcuno, gli ho detto che un paio di scarpe gialle e insensibili mi avevano terrorizzato. È scoppiato a ridere. Ride, non la smette di ridere, mentre le mani continuano a tremarmi, vittime di queste scarpe che non trovavano posto nella struttura involontaria della mia creazione.

 

2084. La fine del mondo

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di Gianni Biondillo

Boualem Sansal, 2084. La fine del mondo, Neri Pozza, 254 pagine, traduzione di Margherita Botto

Ati, dopo un lungo periodo di convalescenza in un sanatorio arroccato alle pendici di una montagna, è pronto ad affrontare il lungo viaggio di ritorno a casa, nella città di Qodsabad. Il rientro alla sua vita civile è colmo di dubbi esistenziali. Che realtà è quella che gli tocca vivere, in un impero smisurato, qualcuno dice grande come l’intero globo, sotto l’egida di un governo teocratico che non ammette alcun pensiero autonomo? In una società dove tutto è nelle mani di una burocrazia capricciosa è considerabile blasfemo anche solo pensare al concetto di “libertà” (figuriamoci parlarne con qualcuno)? Chi sono esattamente i membri della Giusta Fraternità, sacerdoti inflessibili dell’unico credo, il culto del divino Yölan e di Abi, il sacro Delegato di cui nessuno ha mai visto il volto?

2084. La fine del mondo, già dal titolo vuole rimandarci al grande fratello orwelliano di 1984, e ai suoi temi etici. Cos’è un individuo di fronte alla grande macchina omologatrice del potere centrale? Come viene utilizzato, e con quale ferocia, il dispositivo propagandistico che invade la coscienza privata di ogni abitante di questa dittatura religiosa?

La difficoltà di ogni romanzo ucronico sta nella capacità di creare un mondo e uno scenario credibili e coerenti. Boualem Sansal ci riesce benissimo. Grazie all’ausilio di una scrittura che sa essere enfatica, come è ogni lingua di ogni regime teocratico, senza mai essere pedante. Si parteggia per la solitudine di Abi e per la sua ricerca della verità, anche a costo della sua probabile sconfitta di fronte alla macchina repressiva. La critica all’uso della religione come arma del consenso è potentissima in questo romanzo visionario. Il più laico che abbia letto da molto tempo, non a caso scritto da un intellettuale che conosce le derive ideologiche del mondo arabo di questi anni. Perché è di oggi che si parla, come è ovvio, in questo romanzo ambientato in un futuro medievale, spaventosamente orwelliano. Sansaliano, anzi.

(precedentemente pubblicato su Cooperazione numero 16 del 19 aprile 2016)

Elias Canetti. Mondo e masse

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di Davide Gatto

 

 

Arbeiter verlassen die Fabrik, Harun Farocki, 1995 

In un’intervista per la TV svizzera, poi ripresa dalla RAI in una scheggia preziosa del suo “Mosaico” – format culturale di Rai Educational –[1], Canetti (Rustschuk, 1905 – Zurigo 1994) spiega succintamente le ragioni che lo spinsero a occuparsi per almeno vent’anni dei problemi trattati nel monumentale saggio Massa e potere (Claassen Verlag Hamburg, 1960; Adelphi Edizioni, Milano, 1981):

“Già prima dello scoppio della guerra sentivo che era giunto il momento di capire cosa stava succedendo, di capirlo realmente, non con insufficienti e consunte teorie, ma osservando da vicino e concretamente i fenomeni[2], e cercando di capire cosa avesse portato il mondo in tale spaventosa situazione. Decisi di concentrarmi completamente sulla stesura di Massa e potere, lasciando perdere il lavoro letterario. Vi lavorai praticamente vent’anni. Fu una concentrazione difficile, e varie volte ebbi la sensazione di soffocare, perché con un lavoro del genere si impazzisce. (…)”

I venti anni corrispondono al periodo compreso approssimativamente tra l’inizio della Seconda guerra mondiale e la pubblicazione del libro, il 1960, e non è chi non veda quale evidenza il ruolo delle masse abbia giocato in quegli anni drammatici soprattutto nel suo ambivalente e sempre imprevedibile rapporto con il potere, che fossero le “folle oceaniche” radunate ad accogliere il sacro verbo del duce di turno o a gonfiare il petto di orgoglio di fronte allo sfilare composto di altre masse in divisa nelle parate militari – “masse aperte” avrebbe censito le prime Canetti nel suo saggio, “masse chiuse” o ancora meglio “cristalli di massa” le seconde[3] -, o ancora che fossero le masse in fuga dagli orrori della guerra o quelle rinchiuse a vario titolo nell’universo concentrazionario, oppure quelle degli eserciti contrapposti.

Ma Canetti, ebreo-bulgaro di origini sefardite costretto all’erranza fin da bambino per una concomitanza di circostanze sia familiari, sia storiche[4] che trascinano anche la mente più razionale a riflettere sulla peculiarità di questo popolo che Chagall ha indelebilmente fissato nella figura dell’ebreo errante, dichiara a chiare lettere nei tre volumi della sua autobiografia – e in particolare nel primo, La lingua salvata, proprio perché rimonta ai primi anni della sua infanzia – di essere sempre rimasto impressionato dalle scene di massa a cui ebbe modo di assistere. Dato però che La lingua salvata venne dato alle stampe per la prima volta nel 1977, a distanza di molti anni da Massa e potere, non sapremo mai quanto di questi ricordi sia stato retrospettivamente influenzato dal lavoro accanito sul saggio, pur restando il ricorso ad essi un indizio notevole della matrice intellettuale e del metodo di lavoro del suo autore.

 

Il metodo e la matrice speculativa della ricerca

Nello stralcio di intervista citato sopra è Canetti stesso a delineare con chiarezza le modalità del suo approccio allo studio del fenomeno intrecciato della massa e del potere che egli intuiva essere alla base degli eventi drammatici a cui aveva assistito e a cui tuttavia assisteva: voleva capire “realmente, non con insufficienti e consunte teorie, ma osservando da vicino e concretamente i fenomeni (…)”.

A scorrere l’imponente apparato bibliografico in fondo al volume[5], in effetti, colpisce innanzitutto l’assenza di riferimenti a grandi pensatori del recente passato che si erano impegnati a dare una sistemazione teorica ai problemi che assillavano Canetti: non Marx, né Freud, e neppure Weber. Al contrario le sue fonti, come egli stesso attesta, sono “molto disparate: mitologiche, religiose, storiche, etnografiche, biografiche, psichiatriche”.[6]

Per osservare “da vicino e concretamente i fenomeni” infatti Canetti attinge preferibilmente a tutte le testimonianze che in un modo o nell’altro gli consentono di tracciare un profilo antropologico primordiale dell’uomo, di avvicinare l’uomo nel momento in cui la sua contiguità con l’animale da cui proviene è ancora massima e non inquinata da “insufficienti e consunte teorie”, e saranno dunque nel libro passi interi, a volte di pagine, tratti da memorie e relazioni di viaggiatori, esploratori e etnografi, ma saranno anche riflessioni approfondite sulla conformazione e la funzionalità stessa del nostro corpo, in cui il dito proteso a impartire un comando, la mano che ghermisce e l’apparato digerente che incorpora l’altro da sé tradiscono già il meccanismo sfuggente del potere[7], così come l’aggregato fitto delle cellule e degli spermatozoi rievocano le prime masse di cui abbiamo confusamente esperienza e la “soddisfazione di sopravvivere” che costituirebbe la vera aspirazione della nostra vita: tra milioni di spermatozoi uno solo sopravvive tra tanti che sono morti[8].

E se non ricorre nella bibliografia del volume Freud, contro il quale è anzi possibile cogliere una nota polemica a proposito dell’interpretazione che il padre della psicanalisi diede circa il cosiddetto “caso Schreber”[9], spiccano invece il nome del famoso psichiatra Emil Kräpelin e il titolo del suo Compendio di psichiatria nella sua edizione più corposa in quattro volumi (1910 – 1915), il segno ancora una volta della preferenza accordata all’osservazione e alla descrizione clinica della malattia, piuttosto che alla sua interpretazione su base teorica.

Questo approccio rigorosamente fenomenologico, tendenzialmente autoptico nella scelta di memorie e di testimonianze di prima mano, lo sforzo enorme di scavalcare a ritroso lo spesso materiale sedimentario che secoli di cultura, di ideologie laiche e religiose, di teorie l’una in qualche modo dipendente dall’altra avevano accumulato per ritrovare l’uomo dei primordi, il suo corpo nudo tra le cose del mondo, le sue esperienze che all’alba della vita hanno strutturato la sua psiche – e da allora e per sempre la nostra – hanno un loro corollario nell’accanimento con cui Canetti cerca altrove – nella trilogia autobiografica di cui si discorreva sopra – di risalire la corrente della sua stessa vita per rintracciare nelle sue prime esperienze infantili la radice della sua ossessione per il tema della massa e del potere.[10]

 

L’esperienza del mondo, la paura del mondo: il ruolo della massa

Restio com’è ad avanzare teorie, Canetti fin dal principio del suo saggio raccoglie osservazioni, come quella preliminare e riconoscibile nel vissuto di ciascuno che “Dovunque, l’uomo evita d’essere toccato da ciò che gli è estraneo”.[11] Istintivamente, evitiamo il contatto fisico con gli altri rinchiudendoci per esempio nelle nostre case, o altrettanto istintivamente ruotando il busto e scartando di lato quando incrociamo qualcuno per strada. Di fatto è la paura l’innesco per noi occulto di queste reazioni. L’uomo – atavicamente – sente incombere sempre su di sé la paura di essere aggredito e annientato. È una sensazione, questa, che gli deriva dall’esperienza tutta immanente del mondo e delle cose. Egli, fin dai suoi primordi di scimmia antropomorfa, ha sperimentato per un verso la vulnerabilità del singolo, per l’altro l’alterità come foriera di ostilità, di oppressione e addirittura di limite alla sua vita.

Canetti, supportato dalle sue fonti, guida abilmente la nostra immaginazione entro scenari primordiali, quando l’uomo assisteva e partecipava quotidianamente alla sfida tra preda e predatore, vedeva la prima supplire alla propria debolezza facendo corpo unico con il gruppo più ampio possibile dei suoi simili, l’altro fiero della sua potenza slanciarsi invece sulla sua vittima perlopiù da solo, o accompagnato da pochi gregari.

Quel nostro antenato lontano non aveva teorie su cui fondarsi; anzi, fu la conoscenza empirica di sé e del mondo che egli gradualmente acquisì a plasmare il profilo psicologico e sociale suo e degli uomini che noi siamo: aspiranti predatori da una parte, come la biologia stessa del nostro corpo rivela, e in quanto tali sempre consapevoli dall’altra di essere prede potenziali di altri predatori, a cui ci ingegniamo in ogni modo di sfuggire.[12]

Ora, tra le esperienze primigenie dell’uomo fu senza dubbio determinante quella della massa, in tutte le sue forme inizialmente animate e inanimate (mandrie di erbivori, stormi di uccelli, banchi di pesci, sciami di insetti, distese di erbe, di sassi, di sabbia), poi anche simboliche (il fuoco innanzitutto, vera e propria massa di singole fiamme, e poi il mare, o la pioggia, fenomeni reali passati presto nei miti e nei riti a evocare l’idea di massa).

A fronte della paura oscuramente consapevole di essere preda potenziale proprio in ragione del proprio essere un aspirante predatore, fin dalla conformazione e dalle funzioni del proprio corpo, l’uomo – ragiona Canetti – ha subito realizzato che solo all’interno di una massa quanto più ampia e compatta possibile egli poteva “essere liberato dal timore di essere toccato”[13]: di essere aggredito, ucciso e “incorporato”, in altre parole.

Una volta stabilito questo assunto fondamentale – la massa quale antidoto alla paura della morte e la sua idea quale struttura archetipica del comportamento psicologico e sociologico dell’uomo -, non pare strano che Canetti associ fenomenologia e sforzo di catalogazione, producendo paragrafo per paragrafo schede relative a diverse tipologie di massa, e in certi casi riconoscendo nel loro embrione ancestrale forme tuttora vive e operanti: dalla massa aperta, che come le popolazioni e le città odierne mira solo a crescere e che maggiormente corre il rischio della disgregazione, a quella chiusa, che sacrifica la crescita alla sua stabilità, come avviene – per usare le parole di Canetti – per “il Tempio, la Casta, la Chiesa”,[14]ad altre ancora.

La massa esercita una forza attrattiva molto grande sugli uomini innanzitutto perché al suo interno vige la totale uguaglianza, ovvero cadono le distanze e le gerarchie necessarie a fare dell’uno una preda, dell’altro un predatore: nessuna differenza di ceto, di ruolo sociale, di genere, nessun confine eretto tra sé e gli altri in termini di mura casalinghe o proprietà cintate. Pur durando questo sentimento di perfetta uguaglianza – che Canetti definisce “scarica”[15], cioè deprivazione dei “carichi” sociali – solo pochi istanti, “Questo uscir fuori da tutto ciò che crea vincoli rigidi, confini e carichi, è la vera e propria determinante dell’euforia che l’uomo prova nella massa. In nessun altro luogo egli si sente più libero;”[16]. Conclude a margine Canetti che “Tutte le pretese di giustizia, tutte le teorie egualitarie, traggono energia in fin dei conti da questa esperienza di uguaglianza che ognuno deriva dalla sua conoscenza della massa”.[17] Altre qualità imprescindibili della massa sono poi l’aspirazione a una crescita potenzialmente illimitata, ad una densità capace di fare di essa un corpo solo, ad un compatto movimento unidirezionale: a seconda del loro rispettivo dosaggio sarebbe possibile censire differenti tipi di massa.[18]

Caparbio poi nel suo sforzo di risalire il corso del tempo fino alle più remote vestigia dell’umanità, Canetti rinviene il nucleo originario di quelle che noi oggi chiamiamo masse: la muta. Egli però transita attraverso un anello intermedio, che egli definisce “cristallo di massa” e che consisterebbe in una formazione chiusa la cui funzione assorbe totalmente qualunque eccentrica aspirazione individuale, annullando di fatto il rischio della disgregazione che tanto rende instabili le masse aperte – lo studioso non manca di chiarire che “soldati e monaci si possono definire la forma più importante di questo tipo”[19]. Canetti spiega quindi che il termine muta, derivato dal mondo animale[20], bene si presta a delineare un gruppetto sparuto di uomini, uguali tra loro e determinati nel perseguire in primo luogo il loro obiettivo di caccia. Essi inoltre sono animati come noi da un forte desiderio di accrescimento che però, impossibilitati a soddisfare per l’esiguità delle presenze umane in quei remoti tempi delle origini, possono solo tradurre in miti e danze.

Anche in questo caso lo studioso classifica, a partire dalla muta primigenia della caccia, tutta orientata sulla preda e sulla sua eventuale spartizione, altri tre tipi di muta: quella di guerra, prossima alla prima in quanto preda è il nemico, quella del lamento, che si forma attorno al compagno agonizzante, e infine quella di accrescimento. Quest’ultima, in particolare, è per lui “di eccezionale importanza poiché costituisce la effettiva forza motrice dell’ampliarsi dell’umanità, Essa ha fatto sì che gli uomini conquistassero la terra e ha guidato a forme di civiltà sempre più ricche.” Tuttavia, “essa si può afferrare soltanto in rapporto al processo della metamorfosi”. Non potendo infatti i nostri avi accrescere il loro numero di fatto, ricorrevamo a rituali di trasformazione in specie animali o vegetali, o addirittura in forme inanimate e in fenomeni di cui constatassero l’eccezionale numerosità: è ciò che in fin dei conti testimonia “una ben conservata tradizione totemica”, per cui un popolo poteva essere strettamente imparentato attraverso un loro mitico antenato con “canguri”, ma anche con “larve, termiti, cavallette”, e addirittura con “gli scorpioni, i pidocchi, le mosche o le zanzare (…)”[21].

Ma la caratteristica delle mute ancestrali che Canetti giudica sempre operativa e più gravida di conseguenze nella storia dell’umanità è la facilità con cui una tipologia di muta può evolvere in un’altra: nulla di più facile che una muta di caccia si trasformi in una muta di guerra, quando la preda è il nemico, o in una muta del lamento quando a essere ucciso è un suo membro. In quest’ultimo caso è facile intravvedere la nascita di “singolari fenomeni religiosi”, in quanto per esempio – osserva eloquentemente Canetti – “I lamentatori non vogliono più essere stati i cacciatori, e la vittima che essi lamentano li purifica della colpa cruenta della caccia”.[22]

Metropolis, Fritz Lang, 1927Fine prima parte

[1] Il titolo della puntata, rintracciabile sulla Rete all’indirizzo http://www.raiscuola.rai.it/articoli/elias-canetti-secondo-magris-e-calasso/3956/default.aspx , è Elias Canetti. La missione dello scrittore. È stata trasmessa nel 1986 ed è arricchita del parere critico di Claudio Magris sull’unico romanzo di Canetti, Auto da fé (1935) e di Roberto Calasso, primo e pressoché esclusivo editore italiano di Canetti con Adelphi, appunto su Massa e potere.

[2] Il corsivo è mio.

[3] Cfr. Elias Canetti, Massa e potere, Adelphi Edizioni, Milano, 1981, rispettivamente pp. 19-20 e soprattutto – per i “cristalli di massa” – p. 88: “Il cristallo di massa è durevole. (…) Coloro che vi appartengono sono addestrati nelle loro attività o nel loro modo di concepire le cose. (…) Soldati e monaci si possono definire la forma più importante di questo tipo.”

[4] Dopo un primo trasferimento a Manchester e la morte del padre (1912), Canetti segue la madre a Vienna, a Zurigo, a Francoforte e poi ancora a Vienna. Nel 1938, con l’Anschluss dell’Austria da parte della Germania di Hitler, ripara in Inghilterra, dove lavorerà a Massa e potere e acquisirà la cittadinanza britannica, senza peraltro mai smettere di produrre le sue opere in tedesco, la lingua dell’anima: la lingua salvata, appunto.

[5] Elias Canetti, Massa e potere, Adelphi Edizioni, Milano, 1981, pp. 587-599, per un totale approssimativo di oltre quattrocento pubblicazioni. Tuttavia l’Autore si premura di precisare in via preliminare (p. 586) che non ha inteso “elencare in modo esauriente tutti i libri che nel corso di anni esercitarono la loro influenza sulla formazione” dell’opera.

[6] Ibidem

[7] Elias Canetti, op. cit., pp. 243-269

[8] Ivi, pp. 297-298: “Non è il caso di stupirsi che una massa costituita da spermatozoi sia simile a una massa d’uomini. (…) Tutti quegli spermatozoi non sopravvivono (…). Solo uno di essi penetra nell’uovo. Lo si può benissimo considerare il sopravvivente”.

[9] Daniel Paul Schreber, “ex presidente del Senato di Dresda” precisa Canetti (p. 528), in un triennio di intervallo della malattia paranoide in cui era sprofondato scrisse e pubblicò le sue Memorie di un malato di nervi (1903; ora Adelphi, 2007, 2ª ediz.), che fece molta impressione nel mondo della ricerca psicopatologica del tempo. Freud in particolare rilesse in chiave psicanalitica il complesso sistema paranoico descritto dallo stesso Schreber, individuando la radice della sua malattia in una tendenza omosessuale repressa. Così invece Canetti, che a chiusura del suo saggio presenta Schreber come l’esempio tipico del potente – una sorta di Hitler internato invece che capo di stato, per intenderci -, stabilendo di fatto l’equazione perfetta tra paranoia e potere: “Si è cercato di ricondurre sia il caso Schreber in particolare, sia la paranoia in generale, a tendenze omosessuali inibite. Non c’è errore più grande. (…) I processi di potere vi hanno sempre importanza determinante (p. 545).

[10] Si veda per esempio il racconto della folla viennese che malmena e insulta lui, di appena nove anni, e i suoi fratellini più piccoli quando, proprio il 1° agosto 1914, il giorno della dichiarazione di guerra all’Inghilterra, egli accompagna in pubblico, inconsapevolmente, “l’inno imperiale austriaco” con le parole del “God save the King” che gli avevano insegnato a cantare solennemente nei tre precedenti anni di scuola a Manchester: “Io non compresi bene che cosa avessi fatto di male; a maggior ragione, quindi, quella prima esperienza di una massa ostile mi si impresse indelebilmente nell’animo.” ( Elias Canetti, La lingua salvata, La biblioteca di Repubblica – NOVECENTO, 45, p. 129)

[11] Elias Canetti, Massa e potere, Adelphi Edizioni, Milano, 1981, p. 17

[12] Ivi, pp. 243-244, passim. Per l’uomo in quanto predatore: “La psicologia dell’afferrare e incorporare – così come quella del mangiare, in generale – è ancora completamente inesplorata (…). Fra le nostre azioni non ve n’è una più antica dell’afferrare e incorporare; non si è ancora sottolineato abbastanza quanto, in essa, abbiamo da spartire con gli animali.” Poco oltre, invece, per l’uomo in quanto preda avvertita: “Dopo l’avvicinamento e il balzo (…) si ha il primo contatto. È forse ciò che l’uomo teme di più. (…) All’istante del contatto, l’intenzione di un corpo verso l’altro si fa concreta. Già nelle forme di vita inferiori quel momento ha qualcosa di decisivo. Vi sono contenuti i più antichi terrori: lo riviviamo nei sogni, lo evochiamo con la fantasia, tutta la nostra vita nella civiltà altro non è che un solo sforzo per evitarlo.”

[13] Ivi, p. 18

[14] Ivi, p. 25

[15] Ivi, pp. 20-22, il paragrafo ad essa dedicato.

[16] Elias Canetti, op. cit., p. 392; il passo continua così: “egli desidera disperatamente di continuare a formare una massa, proprio perché sa bene cosa lo aspetta quando uscirà dalla massa stessa. Tornando «a casa», ritroverà infatti tutto ciò di cui s’era provvisoriamente liberato: limiti, carichi e spine”. Sulla metafora delle spine si veda più avanti.

[17] Ivi, p. 35

[18] Interessante per esempio la distinzione tra masse rapide, cioè “le masse politiche, sportive, belliche, che ci stanno dinanzi quotidianamente” e che perseguono una meta vicina, e le masse lente, ovvero le masse religiose rivolte all’aldilà o al pellegrinaggio: la loro meta è lontana, la strada è lunga e la vera formazione della massa è spostata in un paese remotissimo o in un regno celeste”: cfr. ivi, p. 36.

[19] Elias Canetti, op. cit., p. 88

[20] Ivi, p. 115: “Gli uomini hanno imparato dai lupi”. Impossibile non ricordare a questo proposito le storie sui lupi da cui egli – ancora bambino nella città natale in Bulgaria – riferisce di essere stato contemporaneamente attratto e terrorizzato: cfr. La lingua salvata, cit., pp. 17-19.

[21] Ivi, pp. 129-135, passim. La considerazione finale di Canetti è che “In tali casi, gli indigeni possono unicamente aver di mira l’enorme numero di quelle creature: quando le considerano parenti, vogliono assicurarsi appunto il loro numero” (p. 133)

[22] Elias Canetti, op. cit., p.115. La frase ben si presta ad essere applicata al cristianesimo, che Canetti infatti definisce “La più importante di tutte le religioni del lamento” (p. 176). Insomma, la religione (poco dopo Canetti analizzerà a questo proposito anche un’importante ricorrenza religiosa degli Sciiti) nascerebbe dall’ oscuro senso di colpa di essere in fondo un cacciatore: immedesimarsi con un perseguitato annullerebbe l’angoscia del proprio senso di colpa.

Bienvenue Italie: Helena Janeczek

3

Questo è il secondo articolo (qui il primo) del dossier da me curato e pubblicato in Francia sulla rivista Focus-in, diretta da Patrizia Molteni.  Igiaba Scego, somala, Ornela Vorpsi, albanese, Helena Janeczek nata in Germania da una famiglia polacca, Jamila Mascat, italo-somala si interrogano sul tema dell’identità. A illustrare il tutto il fotoracconto del fotografo Mario Ferrara. Dedicato al tema dell’Arcipelago, paradigma da noi scelto per superare d’un balzo un concetto e una visione del mondo, quella isolazionista tanto in voga di questi tempi. (effeffe)

Natural Born Italian

di Helena Janeczek

Un giorno litigavo con mia madre alla stazione di Gallarate. Lei avrebbe voluto aspettare che il temporale si calmasse, io togliermi al più presto i vestiti fradici. Qualcuno ci ha segnalate ai carabinieri. Con i miei occhi chiari e le Converse stinte, risultavo la badante violenta della sciuretta elegante. A quel punto non serviva che spiegassi chi ero e nemmeno che mia madre, pur scossa da una terribile crisi di pianto, trovasse il modo di confermarlo ai carabinieri. Ci hanno separate. Non potevo avvicinarmi a mia madre. L’hanno fatta salire sulla gazzella, accompagnata al mio portone e aspettato finché non sono arrivata, a piedi.

È strano quando cadono le maschere. Da un lato il pregiudizio capace di vedere cose mai accadute – la straniera che malmena la povera signora italiana. Dall’altro la maschera che io stessa porto tutti i giorni – il colore della pelle, la lingua del posto parlata senza un accento che non sia quello locale. Sarei stata più felice se avessi potuto raccontare quanto sia bello portarsi dietro tante lingue e trovarne una da cui farsi adottare. Amarla molto, la lingua madre adottiva, sentirsi ricambiata come una bambina che impara. L’innamoramento che vela lo sguardo e rende fiducioso ogni gesto è finito, in questi anni.

Vivo in Italia dal 1983. Ho lasciato la Germania dopo aver terminato il liceo. Nel tempo passato sin d’allora – trentacinque anni – molte ragazze hanno concluso il ciclo che va dalla nascita alla laurea, al primo impiego o addirittura al primo figlio. Di italiano ho: un figlio, un passaporto, un codice fiscale. Ho smesso di scrivere in tedesco sin da quando ho pubblicato Lezioni di tenebra, nel 1997.

Però qualcuno sistema ancora i miei libri nello scaffale della letteratura straniera, qualcun altro s’è lamentato (giuro) che gli editori lavorano così male oggigiorno da omettere l’edizione originale e il nome del traduttore. Qualcuno mi presenta sempre come scrittrice tedesca (o polacca, o polacco-tedesca, o polacco-tedesca d’origine ebraica), anche se non so l’ebraico, pochissimo il polacco e, in tedesco, faccio ormai fatica a scrivere persino un’email. Qualcuno trova gusto a segnalare un errore ortografico come prova che non sappia davvero l’italiano, mentre a un Mariorossi la stessa svista verrebbe imputata come prova di distrazione o d’ignoranza.

Che ci restassi male era frutto della mia ansia da parvenue delle lettere italiane, variante del narcisismo dell’artista. Il problema era mio, non dell’Italia da cui non si poteva pretendere che fosse pronta tutta intera a rendersi conto di non appartenere più soltanto ai Mariorossi. Me lo ripeto anche oggi, però il clima che si respira mi porta a percepire queste sciocchezze come sintomi di poco conto d’una questione assai più seria.

Italiani si nasce – non si diventa. Anzi, non basta neanche nascere in Italia per essere considerati italiani. Lo dimostra l’ostruzionismo feroce e la scarsa premura a superarlo che blocca da anni la nuova legge sulla cittadinanza: una legge che non si propone neanche di sostituire lo ius sanguinis con lo ius soli, ma lo vincola allo ius culturae, vale a dire alla frequentazione d’un ciclo scolastico. Il pregiudizio esplicito è assai più grave di quello implicito, quello che in inglese viene chiamato bias. Il problema è che non sono disgiungibili. Il razzismo nasce da un terreno ricco di pregiudizi latenti che si annidano anche in chi non può essere tacciato di razzismo (o omofobia o maschilismo). Capita che l’irritazione tiri fuori un “frocio”, “puttana”, “negro di merda” alla persona più convinta delle proprie idee progressiste. Certo, quando si è arrabbiati, si dicono cose che non si pensano davvero. Ma in quel momento si sente veramente il bisogno di ferire. E il sentimento è così forte da fornire pronta l’arma delle parole più offensive.

Negli anni Ottanta la presenza di stranieri in Italia era minima, i bambini di colore facevano tanta tenerezza. Predominava un senso d’accoglienza e nel mio caso – dato che venivo dalla favolosa Mitteleuropa che esisteva soprattutto nel catalogo Adelphi – pure una cospicua esterofilia. Poi sono arrivate le ondate migratorie e, con esse, la xenofobia e il razzismo. Nei primi decenni, c’era motivo di sperare che i processi di integrazione avessero attenuato ostilità e paure, cosa che, in parte, è avvenuta fino agli anni recenti, gli anni della crisi che hanno reso il razzismo più incarognito e cristallizzato, e dunque un perno centrale della politica. Oggi “xenofobia” è quasi sempre un eufemismo. Esistono generazioni di ragazzi che sanno parlare e scrivere solo in italiano, ai quali si continua a negare ciò che, di fatto, sono: italiani. Non erano ancora nati o erano piccolissimi, quando cominciai a lavorare a Lezioni di tenebra. Però le leggi scritte e anche quelle non scritte le detta la maggioranza che, in tempi di populismo, pretende d’incarnare il popolo tout court. Per la visione tanto diffusa secondo cui vengono prima gli italiani – quelli di sangue – né a me né a tanti ex studenti delle scuole e università italiane che oggi sono romanzieri poeti e saggisti spetta il diritto d’intendere come nostra la vera patria d’uno scrittore: la lingua in cui s’esprime.

Fossi più giovane, sarei forse tentata di rifare i bagagli. Ma le scelte che vent’anni addietro mi aprirono il futuro, sono oggi diffcilmente reversibili. Qui ho messo radici, qui vorrei restare, in fin dei conti. Così mi sto abituando all’idea che scrivere in questa lingua sia diventato un gesto che si inserisce nel quadro d’un conflitto destinato a durare a lungo e, probabilmente, incrudelire. In questa luce diventa secondario che i miei libri appaiano apparentati a quelli di molti autori con un retroterra nell’Europa centro-orientale e nella storia ebraica. La realtà che conta la determina chi ha il potere di stabilire chi sta dentro e chi sta fuori: sicuramente o soltanto sul piano dell’inclusione simbolica che è poi quella che riguarda la collocazione d’uno scrittore. Un tempo mi chiedevano di Joseph Roth e Elias Canetti, di Walter Benjamin e Hannah Arendt, convinti che li avessi letti in originale, e sottintendendo, se non una filiazione, una particolare vicinanza. Oggi risponderei che non faticherebbero a riconoscersi nelle vicissitudini del rapper romano Fat Negga, al secolo Luca Neves, che nel 2016 ha rischiato l’espulsione a Capo Verde dov’è stato solo una volta, da bambino.

Erano migranti e rifugiati: ostracizzati, detenuti nei campi d’internamento delle nazioni libere, sottoposti a infinite angherie per un visto o un permesso di soggiorno. Alcuni si tolsero la vita. L’impresa di continuare a scrivere in qualsiasi lingua avessero poi scelto, fu faticosa e lacerante persino per i più fortunati e combattivi, come ogni decisione che comporta una rinuncia, un parziale sacrificio. Ho avuto una vita infinitamente più facile e nutro una sincera gratitudine per la benevolenza che ho trovato in Italia. Ma sono figlia di profughi.

Considerazioni estive su letteratura e contemporaneità

1

di Giorgio Mascitelli

Le stagionali polemiche sul premio Strega hanno il merito, aldilà dei contenuti specifici delle stesse, di porre implicitamente una domanda su ciò che è contemporaneo in letteratura. Da un lato sembrerebbe proprio che premi di questo genere, che di solito uniscono al giudizio di giurie competenti delle ricadute importanti in termini di successo di pubblico, siano gli strumenti più adatti per rispondere a quell’interrogativo. Poco importa per il presente discorso se le accuse spesso rivolte al premio Strega di premiare non i testi realmente meritevoli ma quelli promossi dalle grandi case editrici siano fondate o meno, non sto qui prendendo in considerazione la letteratura alla luce dei valori letterari o estetici, ma la letteratura in quanto fenomeno della contemporaneità: il fatto che i testi vincitori spesso abbiano anche un notevole successo commerciale significa in qualche misura che essi giustificano la loro vittoria se non da un punto di vista letterario, almeno sociologico. Del resto è verosimile che un storico del futuro, se volesse tracciare un ritratto dello spirito o quanto meno della mentalità del nostro tempo e agire in maniera metodologicamente rigorosa, userebbe come fonti i libri premiati o più direttamente quelli in testa alle classifiche di vendita. Allo stesso modo potrebbero dirci di più, per esempio, sugli anni Venti Guido da Verona o Salvator Gotta rispetto a Svevo o Pirandello.

E’ innegabile che, in un certo senso, è perfettamente contemporanea solo un’opera che trionfa nel proprio tempo perché va incontro alle aspettative di esso in maniera immediata e diretta. Se questo vale per epoche passate in cui la letteratura era un fenomeno essenzialmente elitario, a maggior ragione vale per il presente, uno dei tratti caratteristici del quale è la diffusione di un’estetica del profitto ossia della convinzione diffusa che il valore estetico di un’opera dipenda dal suo successo commerciale  ( vorrei chiarire che questa espressione, per quanto qualcuno la possa trovare un po’ brutale, non ha una valenza ironica, ma si limita a descrivere magari senza troppi fronzoli un’idea oggi molto seguita) perché proprio l’avere successo rappresenta uno dei valori fondamentali del nostro tempo.

Eppure questa concezione della contemporaneità nella sua apparente naturalezza quasi alle soglie dell’ovvietà presenta degli elementi di crisi. Infatti essa veicola con sé, direi con la medesima ovvietà con la quale si impone ai nostri occhi, l’idea che la contemporaneità coincida con ciò che essa stessa pensa di sé, ma siccome naturalmente contemporaneità è una parola astratta e non è un soggetto pensante, si potrebbe concretizzare questo concetto indicando in coloro che aderiscono ai valori dominanti in quest’epoca il suo referente. Si tratta insomma di una concezione della contemporaneità che tende a farla coincidere con l’ideologia prevalente, che qui non intendo tanto nella sua più comune accezione politico-filosofica quanto come sistema di valori in senso lato. A sua volta questa idea della contemporaneità presuppone un presente assoluto, e dunque senza possibilità alternative, come realizzazione pura e semplice di ciò che doveva essere. In altri termini si tratta di un’idea del contemporaneo che tende a eliminare da sé qualsiasi germe di futuro e qualsiasi traccia di passato (un futuro che può sussistere nell’attuale solo in quanto promessa di alterità e un passato che può parlare al presente solo nella misura in cui non ne è la premessa, ma illumina invece una discontinuità o una frattura). Una letteratura che per essere pienamente contemporanea rinunciasse a dialogare con queste due dimensioni finirebbe con il favorire due errori opposti: l’uno quello classicamente classicistico di ritenere che la letteratura debba trascurare il presente, regno del transitorio, per occuparsi solo delle cose eterne, qualunque cosa ciò voglia dire, l’altro di considerare letteratura solo in quanto conferma di quello che c’è qui e ora sotto i nostri occhi.

Il contemporaneo è però qualcosa di più articolato e complesso di quanto il senso comune ci faccia credere: se prendiamo questa definizione di Giorgio Agamben “la contemporaneità è, cioè, una singolare relazione col proprio tempo, che aderisce a esso e, insieme, ne prende le distanze; più precisamente, essa è quella relazione col tempo che aderisce a esso attraverso una sfasatura e un anacronismo” ( Giorgio Agamben Che cos’è il contemporaneo? Roma 2008, p.9), si può vedere come il contemporaneo contenga un elemento di estraneità al presente che è essenziale per evitare uno schiacciamento acritico su di esso. Come mette in luce lo stesso filosofo, in questa prospettiva l’idea di contemporaneità viene a coincidere in larga parte con quella nietzscheana di inattualità. Si potrebbe aggiungere che la letteratura ha connaturata una potenziale inattualità in quanto la scrittura letteraria contiene in sé una forma di anacronismo, anche quando si presenta nei modi dell’innovazione più decisa, nel suo essere un discorso che si riallaccia ad altri discorsi precedenti tramite le convenzioni che regolano l’appartenenza al campo letterario.

C’è un elemento più radicale da citare ancora ed è il fatto che il discorso letterario contemporaneo esiste solo all’interno di quella presa di distanza dal proprio tempo di cui parla Agamben. Non si tratta soltanto di una distanza critica, di una non condivisione dell’andazzo delle cose, ma è anche un modo di osservare il presente e i suoi fenomeni e le sue idee con uno sguardo gravido di passato e di futuro. E’ per questo che spesso testi intimistici alle soglie del solipsistico o fantastici o visionari sono stati più contemporanei del proprio tempo di opere realistiche che intendevano creare grandi affreschi compiutamente descrittivi. Potrà sorprendere che in un pensatore come Adorno, dai gusti letterari decisamente antirealistici, si possa incontrare l’affermazione che si perde inevitabilmente qualcosa a non leggere un’opera nel momento storico in cui è stata scritta. E’ possibile leggere questo avvertimento non come lo scrupolo del filologo che cerca la precisa genesi storica del testo, ma in nome di una storicità negativa, per così dire, che riflette sulle distanze che il testo prende dal proprio tempo.

Purtroppo, da questo stato di cose ne segue che la letteratura è sempre altrove  rispetto alle nostre attese e in un altrove che non può essere indicato a chiare lettere ai bene intenzionati che ne domandassero l’esatta localizzazione. Per tutti noi allora è più facile continuare a leggere sulla nostra comodissima poltrona ( la nostra poltrona mentale, intendo) anziché metterci in contatto con questo altrove, anche perché  mettersi in viaggio per un luogo che non si sa è una cosa che funziona bene solo nelle pubblicità delle agenzie di viaggio e quindi non ci resta che attendere che fortuitamente questo altrove arrivi fino alle nostre poltrone. Queste considerazioni, però, non devono indurre in stati d’animo apocalittici,  innanzi tutto perché sono considerazioni estive strappate alla canicola e di questa trattengono una sfumatura oziosa e poi perché esse portano in realtà sollievo consentondoci di guardare con maggiore rilassatezza alle attività dei premi letterari e degli uffici stampa della grande editoria.

 

 

Variazioni su un tema originale, malato nel sesso

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di Francesca Fiorletta

Non eravamo né amici, né sconosciuti, né amanti: eravamo in bilico, proprio come mi sentivo io, in bilico

[…]

Anrdé Aciman pubblica per Guanda le “Variazioni su un tema originale”: cinque racconti, o meglio – a ben vedere – un unico romanzo, attraverso cui l’autore sviscera e analizza la delicata e complessa sfera dei rapporti umani, la loro morbida e scioglievole fugacità e insieme la loro ostinata, ossuta persistenza nello sviluppo intero di una vita. 

Bienvenue Italie: Igiaba Scego

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Con questo primo intervento si apre il dossier da me curato e pubblicato in Francia sulla rivista Focus-in, diretta da Patrizia Molteni .  Igiaba Scego, somala, Ornela Vorpsi, albanese, Helena Janeczec, nata in Germania da una famiglia polacca, Jamila Mascat, italo-somala si interrogano sul tema dell’identità. A illustrare il tutto  il fotoracconto del fotografo Mario Ferrara. dedicato al tema dell’Arcipelago, paradigma da noi scelto per superare d’un balzo un concetto e una visione del mondo, quella isolazionista tanto in voga di questi tempi (effeffe)

 

This must be the place

di

Igiaba Scego

Dietro la Piramide Cestia c’è uno dei cuori pulsanti e più nascosti di Roma Capitale: Il Cimitero Acattolico. Lì sono sepolti Antonio Gramsci, i poeti inglesi John Keats e Percy Bysshe Shelley, il pittore russo Karl Brullov, l’indimenticabile poetessa Amelia Rosselli. Ed è lì che ogni tanto vado per salutare questi grandi della terra che tanto ci hanno dato e tanto hanno lasciato. Ho un personale culto degli antenati e guardando queste tombe, quei nomi incisi, quelle date che indicano un inizio e una fine terrena, dico a me stessa “Igiaba devi essere una brava cittadina” e poi in un sospiro aggiungo “e fare lo sforzo di diventare una buona antenata”. Questa frase non è mia. L’ha scritta Naomi Klein, l’ambientalista Naomi Klein. Ricordo che appena la lessi sulla rivista Internazionale ne rimasi fulminata, essere un buon antenato, ecco era proprio quello che volevo diventare. Anch’io come voi un giorno sarò in un’altra dimensione e comunque non più in questa. Cosa avrò lasciato di me su questa terra? Cosa di importante? Ecco perché camminavo tra quelle tombe, per ricordarmi che la nostra vita non è solo un appagamento momentaneo, ma un programma che comincia con noi e può avere ripercussioni nel futuro, per quando non ci saremo più.

Guardo i nomi incisi sulle tombe. C’è Johan David Ǻkerblad un diplomatico svedese, amante dell’oriente. Conosceva il greco. Il turco, l’arabo, naturalmente il latino. Aveva abbandonato la carriera diplomatica per dedicarsi alla filologia. Morì in solitudine, ma la sua tomba porta addosso il fulgente segno dell’amicizia, perché furono i suoi amici a fare una colletta e ad erigere la tomba 5 anni dopo la sua morte. Poi c’è il buon Juan Rodolfo Wilcock, l’autore de la Sinagoga degli iconoclasti, che aveva lasciato l’Argentina perchè si sentiva fuori asse nel suo paese immerso nel peronismo. Non solo decise di fare di Roma la sua casa, ma anche di fare dell’italiano la lingua della sua scrittura. Mi ricorda le scelte fatte da tanti miei amici migranti che invece di scrivere nella loro lingua madre, hanno dato forma all’io letterario che portavano dentro in italiano. Per ironia della sorte la richiesta di Wilcock per diventare italiano venne accolta solo dopo la sua dipartita. Quella cittadinanza che non fu sancita dal passaporto, fu invece donata spontaneamente dalla letteratura. Però la mia meta oggi è una tomba, piccola, quasi nascosta, che contiene in sé una meravigliosa storia di afrodiscendenza e riscatto.

La donna, l’antenata, che sono andata ad omaggiare si chiama (perchè un antenato è sempre coniugato al presente) Sarah Parker Remond. Molti non l’hanno mai sentita nominare. È un nome che non si trova nei libri di storia, che non abbiamo studiato a scuola. Ma è un nome importante. Un nome che dovremmo far incidere nei nostri cuori e a cui dovremmo dedicare piazze, vie, monumenti. Sarah era nata a Salem, in Massachusetts, da John Remond e Nancy Lenox nel 1815. Famiglia numerosa dove la politica circolava copiosamente nelle vene di ogni componente. I Remond avevano fatto della loro grinta una seconda pelle. Già da piccola Sarah era spinta verso la lotta. Il suo essere afroamericana non si fermava solo ad una vaga rivendicazione di diritti, ma si trasformava in azione per lei. Il suo primo discorso antirazzista, o come si diceva allora, abolizionista (c’era ancora la schiavitù purtroppo) lo fece a 16 anni e da lì non si è più fermata. Dove ha potuto ha portato il verbo di un mondo diverso, da fare e costruire insieme. Un mondo senza sofferenza e schiavitù. Suo padre, un nero nato libero, si dava molto da fare. E casa Remond era sempre piena di persone, bianche o nere, che lavoravano per la causa. Mi immagino il casino di fogli, discorsi, prese di posizioni furenti, agorà ateniesi e il parapiglia che l’attivismo porta di solito con sé. Probabilmente non si dormiva mai a casa Remond, Ed è proprio in questo ambiente stimolante e di lotta che si è formata Sarah.

Le foto che ho trovato di lei sul web, ritraggono una matura donna vittoriana, con una crocchia in testa e un atteggiamento molto composto. E poi ci sono i suoi occhi. Nonostante la distanza temporale che ci separa, gli occhi brillanti di Sarah non riescono a celare la sua anima di fuoco. Vedo in quegli occhi la ribellione verso le ingiustizie che attraversa il suo corpo nero e il corpo nero dei suoi affetti. L’odio purtroppo Sarah lo ha conosciuto bene. Avrà un brutto scontro con esso nel 1835.

Sarah Parker Remond amava l’opera ed è proprio in un giorno apparentemente come tanti che si reca all’Howard Athanaeum di Boston per assistere all’opera Don Pasquale. Era testarda e caparbia Sarah e si rifiuta quel giorno (quasi 100 anni prima di Rosa Parks) di dirigersi verso le sedie assegnate agli afroamericani, rifiuta le poltrone della segregazione razziale. Era decisa, voleva resistere ad ogni costo. Sapeva bene che era pura follia, ma più la spintonavano più si aggrappava a quella poltrona con tutta se stessa. La forzarono a lasciare il teatro in malo modo e non paghi la spinsero letteralmente giù dalla scala. Ma Sarah che lottava per i suoi diritti e i diritti della sua gente, non accettò l’ingiustizia subita e citò in giudizio chi l’aveva oltraggiata. E fatto inaspettato vinse la causa. Molti anni prima di Rosa Parks quindi una afroamericana aveva deciso di non piegarsi a quel modello razzista che imperava nella sua nazione. Di fatto Sarah Parker Remond ci ha insegnato, da buona antenata, la disubbidienza.

Guardo la sua tomba e penso che questa creatura dalle mille meraviglie ha incrociato nel suo percorso l’Italia. Si parla spesso di Grand Tour, dei tanti grandi della letteratura, delle arti e delle scienze che sono venuti in Italia a fare un’esperienza, un soggiorno, una vacanza. I nomi sono tanti, da Lord Byron a Goethe, passando per Henry James o Mary Shelley. Ma il mainstream ci ha portato sempre a pensare che sono sempre stati i corpi bianchi a viaggiare su e giù per lo stivale e a godere delle bellezze di questa penisola nata dalla materia delle sue differenze. E invece sfogliando il libro della storia, quella con la S maiuscola, capiamo che l’Italia è stata attraversata non solo da una babele di popoli che l’hanno conquistata di volta in volta, ma anche da soggiornanti che venivano davvero da esperienze e culture tra le più disparate. Dalla Tunisia alle Filippine di fatto c’è stato un Grand Tour che non ci hanno mai raccontato. Ma quello che mi ha sempre colpito è l’arrivo in Italia di donne come Sarah Parker Remond che nella penisola non cercavano solo un soggiorno un po’ particolare, ma un rifugio dall’odio che infiammava la loro terra natia.

L’Italia (e ci suona paradossale se pensiamo all’Italia di oggi, attraversata dalla xenofobia e dallo stereotipo) era una terra aperta e accogliente. Non respingeva le diversità, ma dava a quest’ultima un luogo confortevole dove vivere. Ed è qui che Sarah Parker Remond si è di fatto reinventata. Dopo una vita dedicata alla causa, viene in Italia e a 42 anni si iscrive a Medicina, al Santa Maria Nuova di Firenze. Lei amante dei classici, del latino, dell’arte rinascimentale trova in Firenze una casa accogliente dove crescere intellettualmente. Farà per molto tempo la pendolare tra Roma e Firenze, si specializzerà in fisica e eserciterà la professione per più di 20 anni senza far mai ritorno negli Stati Uniti. In Italia Sarah ha trovato anche uno sposo, l’artista sardo Lazzaro Pintor Cabras e ci sono testimonianze del suo interesse per la questione della “razza” nella penisola, erano gli anni del primo colonialismo liberale, Sarah non solo ne ebbe sentore, ma probabilmente vide in azione il primo vagito di quel razzismo coloniale che tanti danni farà nel Novecento.

Ora sto qui davanti alla sua tomba. Ed ecco, mi dico, una buona antenata. Mi chiedo se diventerò come lei. Continuo a camminare tra tombe, sculture, angeli desolati. Mi guardo intorno. Inquieta. Cerco una tomba che non c’è. Ma il cui posto è qui, dovrebbe essere qui, almeno per me. È solo un caso che ha portato Edmonia Lewis a morire a Londra. Ma Edmonia appartiene a Roma come nessuna. E per me anche se non c’è fisicamente una sua tomba al cimitero Acattolico, lei è qui almeno idealmente come fantasma o come idea. È qui a Roma che Edmonia Lewis è diventata grande, qui che è diventata l’artista che ha sempre desiderato essere. Edmonia nata nel 1844 ha condiviso, pur non sapendolo forse, lo stesso bisogno di fuga dal suo paese di Sarah Parker Remond, il bisogno di essere come gli altri. Edmonia, figlia di una nativa americana Chippewa e di un nero libero, era ben conscia che la sua epoca era contro le persone “mescolate” come lei. E come nella biografia di Sarah, anche per Edmonia c’è stato un episodio che le ha fatto capire quanto la società della sua epoca era contro il colore della sua pelle, la tessitura dei suoi capelli ricci, la forza dei suoi muscoli meticci.

Come molti Edmonia cerca di barcamenarsi nella sua situazione precaria. È un’epoca, quella che segue la guerra civile americana, dove un nero era sia schiavo sia uomo libero. Dipendeva molto da dove eri nato, cresciuto, se il padrone ti aveva liberato. I neri liberi si davano da fare, per andare avanti, per superare la condizione di sottomissione in cui i loro avi erano stati costretti a vivere. Si era consapevoli che però era anche tutta questione di fortuna, perchè lo stato di libertà poteva essere revocato in qualsiasi momento. Era noto che c’era chi catturava gli uomini liberi e li rivendeva al miglior offerente infischiandosene di lotte e rivendicazioni. Erano tempi duri quelli in cui Edmonia Lewis diventava ragazza. Con l’aiuto del fratello Samuel era però riuscita ad iscriversi al Collegio Orbelin, uno dei pochi che accettava afroamericani tra i suoi studenti.

E lì che Edmonia a ronterà per la prima volta i fantasmi della nazione, quelli che non perdonavano ai neri il colore della loro pelle. Edmonia viene accusata ingiustamente di aver servito del vin brulè a delle sue compagne di corso e a causa di questo episodio verrà picchiata selvaggiamente. Non me la so immaginare Edmonia ferita, sola, agonizzante tra le nevi delle montagne americane. Non voglio vederla ferita, sola, agonizzante…

La mia testa rifiuta questa immagine.
L’immagine che ho di lei invece è quella che si trova sui siti web e che troneggia sulla copertina di Forever Free. Oltre la barriera del colore. L’esilio romano di Edmonia Lewis scritto dall’ottima Luisa Cetti. Eccola Edmonia, uno scialle pesante e un fez. Eccola con il suo viso da bambina che non guarda mai verso l’obbiettivo. Ammiro soprattutto le mani di Edmonia. Perchè sono loro a plasmare la materia della sua arte: la scultura.
Ed è proprio a Roma che gli scultori vengono per formarsi. Roma, come ci ricorda Louisa May Alcott in Piccole donne, era il centro di ogni desiderio, è lì che si andava per “diventare la migliore artista del mondo”. Ed Edmonia è lì che si dirige a Roma.
Leggere il libro di Luisa Cetti è appassionante. Lei, esperta di Ottocento statunitense, sembra inseguire Edmonia in ogni vicolo, in ogni piazza e porta anche noi lettori dentro le pieghe di questa vita straordinaria. Vediamo una Edmonia all’inizio alla mercé degli abolizionisti, perchè sono loro a pagarle il soggiorno romano e le maestranze, poi la vediamo piano piano emanciparsi e diventare sempre più romana. Luisa Cetti ci descrive una Roma che abbiamo solo vagamente intravisto nei romanzi di Henry James.

Una Roma babele di lingue, di costumi, di scandali persino. Una città cosmopolita ed elettrizzante come oggi non è più. Soprattutto la scultura la caratterizzava. Il Neoclassicismo e Canova in particolare erano per gli artisti stranieri dell’epoca i modelli da inseguire. La scultura italiana nei salotti londinesi e newyorchesi era diventata di fatto una moda e tutti correvano a Roma per aprirsi un proprio atelier. Edmonia non aveva il colore amato dalla sua Nazione di appartenenza, ma trova in Roma un’alleata per fuggire al destino che il potere le voleva cucire addosso. Non importa il colore, ma la bravura a Roma, nella Roma ottocentesca. E lei è brava veramente. La inseguo idealmente per la città, per le case dove ha abitato da Via della Frezza (vicino all’antico atelier del Canova) a Via San Nicola da Tolentino, fino ad arrivare a Via Venti Settembre 4.

Qui Edmonia lavora, ama, diventa cattolica, forgia la sua arte. Dalla fatica iniziale passa a gestire maestranze locali. E qui incontra nel 1876, dopo 20 anni a Roma, uno dei più grandi intellettuali afroamericani della sua epoca, Frederick Douglass, che aveva raccontato in un libro importantissimo la sua esperienza da schiavo. Laura Cetti, insieme ai biografi statunitensi di Edmonia Lewis, hanno lavorato su pochi elementi a loro disposizione. Lettere, qualche sporadica intervista, tracce in diari di artisti dell’epoca, aneddoti, fotografie.

Ma qualcosa si intuisce nelle righe di chi si è occupato di Edmonia. Soprattutto arriva la sua grande forza. Me la immagino mentre cammina per Roma, tra la Fontana di Trevi e piazza Navona, con Frederick Douglass e consorte. Afroamericani che si incontrano in un territorio neutro per loro libero da soprusi.

Anime nomadi in cerca non solo di una casa, ma di una normalità che veniva a loro completamente negata.
È morta a Londra Edmonia Lewis, ma per lei casa era Roma e alla Città eterna rimarrà sempre devota. Non a caso nella sua iscrizione funebre (uscita sul Tablet, un giormale londinese) viene indicato come luogo di origine Roma ed esattamente Via Gregoriana 7, non gli Stati Uniti D’America che per Edmonia ormai erano solo un mondo alieno. Roma di fatto è la sua R(h)ome, la sua casa, la sua home, lì dove il suo spirito è fiorito.

Edmonia…

Sarah…

R(h)ome.

due antenate.

Una casa.

Le saluto idealmente e lascio il cimitero Acattolico felice di essermi immersa nelle loro storie. Basta un attimo e il panorama cambia. Mi tuffo nel traffico apocalittico della Capitale d’Italia. Sono contenta. Sorrido. Le mie antenate mi hanno dato forza. Ora sono pronta ad affrontare l’ignoto.

Dopo internet: intervista a Giovanni Agnoloni

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 Marino Magliani intervista Giovanni Agnoloni a proposito del suo romanzo “L’ultimo angolo di mondo finito” (Galaad, 2017)

MM La prima cosa che salta alla mente, leggendo il tuo “L’ultimo angolo di mondo finito” è che, pur appartenendo a una trilogia, e pur basandosi su un evento epocale, ma senza ripetere alla nausea cosa è successo, l’autore mette il lettore nelle condizioni di acquisire quasi con naturalezza il dato più importante della narrazione, il crollo di internet, tra il 2025 e il 2029, in gran parte del mondo occidentale. È questa una delle cose buone del libro: l’eccesso raccontato semplicemente; la catastrofe (la fine della Rete, badate bene, non sciocchezze) narrata senza l’iperbole. La multinazionale Macros (immaginate se l’avesse chiamata Macron!) ha devastato la Rete. Il progetto criminale è di sostituirla con qualcosa che possa permettere la conquista del mercato: la creazione degli ologrammi, una sorta di eteronimi (ogni persona ne possiede uno) che finiscono per “suggerire” la vita e gli acquisti all’umanità. Come ti è venuta in mente questa storia, quando hai deciso di scrivere una trilogia sulla materializzazione di un futuro “impoverito”?

GA Diciamo che è stato un concorso di spunti occasionali di tipo diverso, ma tutti legati all’impressione di fondo che la Rete abbia modificato fin troppo la nostra vita, rendendoci, sia pur connessi tecnologicamente, scissi da noi stessi e dagli altri. Dove prima si fissava di bere una cosa insieme a bar per fare due chiacchiere, o si faceva una telefonata, oggi si interagisce sul Messenger di Facebook o su WhatsApp. È un concreto impoverimento, ché spesso tutto questo va proprio a sostituire la capacità di relazionarsi con il prossimo nella vita reale (penso all’episodio-limite, che lessi anni fa sul giornale, di un ragazzino che, dopo aver trascorso una serata fuori con gli amici senza dire una parola, tornato a casa si era messo a chattare con loro!). E va anche a detrimento dell’interesse per la lettura attenta, con cui il mezzo digitale non si concilia bene. Ormai, sui mezzi pubblici, trovare qualcuno che legga un libro è una rarità, mentre tutti gli occhi se ne stanno bassi sui cellulari. Quindi ho pensato: e se internet non ci fosse più? Non come “profezia”, ma come ipotesi astratta, per chiedersi fino a che punto siamo diventati incapaci di essere presenti, nella nostra vita e in quella di chi ci è vicino, attuando un diverso – e ben più importante – tipo di connessione. Aggiungo poi che, nel corso della trilogia (o quadrilogia, se consideriamo anche lo spin-off di “Sentieri di notte, ovvero “Partita di anime), diventano difficoltose anche le comunicazioni telefoniche, a distanze progressivamente più ravvicinate. I droni e la nuova Rete da essi propagata in America rappresentano, fin dal terzo libro della serie “La casa degli anonimi, la fotografia di una capacità intrusiva nelle vite delle persone di fatto già oggi dispiegata dalle multinazionali della comunicazione online e della tecnologia – a dimostrazione di come i miei romanzi, nonostante l’impiego di alcuni stilemi fantascientifici, siano in realtà distopie fortemente realistiche. Con l’introduzione da parte degli eredi della Macros, nel quarto libro “L’ultimo angolo di mondo finito, degli ologrammi-copia (o spin-doctor, come a me piace immaginarli) in tutta Europa o quasi, l’isolamento diventa praticamente individuale: alle persone non interessa più comunicare con gli altri, poiché il loro ologramma-copia dà loro tutte le indicazioni di cui hanno bisogno, esprimendo il meglio di esse in base alle informazioni raccolte sul loro conto dal Sistema quando la Rete ancora esisteva. È una sorta di monito a stare attenti a quello che diciamo di noi su internet, e a non dimenticare che quelli della Rete sono strumenti sì utili, ma mai capaci di diventare fini a se stessi o di sostituire la consapevolezza di sé e l’autenticità delle relazioni.

MM I colori grigi sono come una coltre di polvere che copre il mondo, e i protagonisti di questo romanzo sono dei cercatori che man mano diventano i ricercati, e tornano poi a loro volta a cercare. A quale personaggio sei più affezionato? A Kasper che cerca Kristine, a una editor di nome Emanuela, a Aurelio, ai fratelli Ahmed e Afef?

GA Sono tutti, in modi diversi, parti di me. Riflettono aspetti del mio lavoro di scrittore-traduttore (che implica anche un occhio da editor) – e quindi ecco Kasper e Kristine, che sono autori di romanzi e saggi, ma anche Emanuela, certo –, della mia passione musicale (Aurelio è un chitarrista, e io studio chitarra classica), della perdita che ho vissuto nella mia vita affettiva e ha influenzato decisivamente anche la mia capacità creativa – e quindi penso ad Ahmed e Afef, che, da fratelli, si erano persi e si sono ritrovati, ma in generale a tutti i protagonisti. Tutti vivono viaggi saturi di assenza: da Kasper che cerca la sua musa letteraria, a Emanuela che spera di ritrovare il suo grande amore perduto, e allo stesso Aurelio che deve affrontare il demone della scomparsa (volontaria) di suo padre dalla sua vita, quando era ragazzo. Quello che sento più vicino probabilmente è Kasper, che è uno scrittore “nomade” un po’ come me, e che insegue una donna ideale calata nel mondo, visione in carne e ossa che a tratti balugina e a tratti scompare.

MM E a quale paesaggio? Abbiamo Dubrovnik, New York, la Polonia e Firenze, il Sud Italia e il Portogallo: sembra la mappatura delle lingue da cui traduci, il Nuovo e il Vecchio mondo.

GA Sì, in effetti in queste storie confluiscono le mie esperienze di viaggiatore e la mia passione linguistica, che poi è diventata una professione, unendo virtualmente l’Europa e l’America, con le lingue neolatine (francese, spagnolo e portoghese) e l’inglese, parlate sia al di qua che al di là dell’Oceano. Il tutto, però, non voleva essere uno sfoggio di “internazionalità”. Era soprattutto utile a sviluppare una trama articolata, che evidenziasse come la crisi della Rete (e la crisi a causa della Rete) avesse toccato diverse zone del mondo: se la connessione oggi è globale, non potrebbe non esserlo anche la disconnessione. Ogni luogo, poi, è carico di atmosfere particolari, che sollecitano diversamente i sensi, e questo era molto importante per far sentire il lettore sempre radicato nel qui, in contrapposizione alla percezione di (sterile) ubiquità che internet tende a dare.

MM E infine, la musica: ce n’è moltissima, anche se la genesi credo si possa dire sono i Beatles? Mi verrebbe da chiederti se ascolti molta musica quando scrivi, ma ho appena saputo che hai ripreso a suonare, e allora la domanda: ti capita di essere lì a suonare e di interrompere per descrivere un cielo di Manhattan punteggiato dai droni?

GA Sì, la musica è centrale, perché Kasper cerca Kristine basandosi su indizi apparentemente casuali trovati in giro per l’Europa, legati alla storia dei Beatles (una mia grande passione), e poi parte per l’America seguendo le orme di John Lennon. Spesso ascoltavo i quattro di Liverpool, nel periodo in cui scrivevo il romanzo, anche durante il lavoro. Poi, da circa un anno e mezzo, ho ripreso a studiare chitarra classica, col Maestro Ganesh Del Vescovo, e così ho maturato una consapevolezza ancor più piena del nesso sottile (ma robustissimo) esistente tra suono, lingua e letteratura. E questa ricchezza di sonorità ho cercato di trasfondere nel romanzo, non solo nelle parti attinenti a Kasper e al chitarrista Aurelio (spesso ritratto nei suoi momenti creativi, tanto ne “L’ultimo angolo di mondo finito” quanto nel precedente romanzo “La casa degli anonimi”), ma in tutte, e in particolare negli estratti del romanzo “L’addio di Kristine Klemens” citati in questo libro conclusivo della mia serie: qui la prosa si fa quasi poesia, per lasciar emergere un significato veicolato proprio dal suono. Quanto ai momenti in cui studio chitarra, di solito sono a tarda sera o di notte (tanto dove abito non disturbo nessuno), e per quanto non mi sia quasi mai capitato di alternare l’esecuzione di un pezzo con la scrittura, certe sonorità o timbriche su cui mi stavo esercitando mi hanno trasmesso suggestioni che in seguito ho tentato di trasmettere alle mie pagine.

 

Giovanni Agnoloni (Firenze, 1976) è scrittore, traduttore e blogger. È autore dei romanzi Sentieri di notte (Galaad Edizioni, 2012; pubblicato in spagnolo come Senderos de noche, El Barco Ebrio 2014, e in polacco come Ścieżki nocy, Serenissima 2016), Partita di anime (Galaad, 2014) e La casa degli anonimi (Galaad, 2014).
Ha inoltre pubblicato tre saggi imperniati sulle opere di J.R.R. Tolkien, ed è curatore di una raccolta internazionale di articoli sul tema.
Ospite di residenze letterarie, festival e conferenze in Europa e Stati Uniti, ha tradotto libri di Jorge Mario Bergoglio, Amir Valle, Peter Straub e Noble Smith, e saggi su J.R.R. Tolkien e Roberto Bolaño, ed è un esponente del movimento letterario connettivista.
Collabora con i blog La Poesia e lo Spirito, Lankenauta e Postpopuli.

Biagio Cepollaro, undici poesie da La curva del giorno

14

di Biagio Cepollaro

*
il corpo scrive il suo poema e lo fa a giornate
questa è la sua scansione accordata al pianeta
e alle stelle che gli coprono il sonno
ogni mattina prova a riprendere dove
di sera aveva lasciato talvolta aspetta
che asciughi talvolta mescola e sovrappone

 

*

il corpo cresciuto su se stesso per più di cinque
decenni ha visto mutare forme e modi del desiderio
ora nell’abbraccio non sente distanza ma sempre di più
avverte il medesimo: il comune diventa motivo
di compenetrazione tenera come prendendosi cura

 

*
il corpo sente la sua felicità come uno stato assai precario
ma anche miracoloso e vorrebbe dirne e scriverne quasi
che queste operazioni scolpissero nella pietra i segni
del suo giubilo

 

*
il corpo conduce la sua vita facendo astrazione dalla collettiva
mitologia che unica attraversa il globo condizionando immagini
e azioni: è come se in memoria avesse un altro tempo quando
i corpi nel loro insieme si pensavano come storia e come progetto
quando la speranza non era solo di sopravvivere ma di vivere insieme

 

*
il corpo si sa storico per sua intrinseca durata e per suo inevitabile
e progressivo decadimento ma si sa storico anche per contrasto
una volta gli altri erano avvertiti da lui come compartecipi non era
felicità se non collettiva e da soli uno poteva solo riprendere
fiato ma non vivere la vera vita se non come diminuzione

 

*
il corpo è stato a lungo sollecitato nel piacere e anche
ogni mattina nell’andare al lavoro grazie alla prontezza
degli arti alle buone articolazioni che danno il giusto
vincolo al moto. ora alla finestra si sofferma di fronte
al parco mentre da sopra il nuvolo scoraggia ad uscire.
una brulicante umanità si muove e così anche tra le foglie

 

*

il corpo sa che il palazzo di fronte non si regge
per la sua grammatica ma per la pietà del sisma
che lo risparmia: è questione di proporzione ed è
meglio abituare lo sguardo al grande per non
credere che il piccolo basti e che sia tutto: la forza
del fragile è stare dentro una certa verità delle cose

 

*
il corpo fa del pensiero un modo per meglio
godere della luce: trattiene tra le sue dita
e accarezza così come può fare l’ultimo
riflesso prima di sparire dallo specchio
questo ha sapore e questo sapore è l’unico
sapere che sa: il resto è scala da rigettare

 

*
il corpo nel verso dice la sua presenza
sfuggita al racconto della storia e non compresa
neanche dalla presunta compattezza
di un io: lui è là che si muove o sta
nella consumazione cellulare che viene
non detta -prima e dopo- ogni parola

 

*
il corpo nel verso si sottrae al senso
stabilito e si muove come se non vi fosse
argine e direzione: è luogo questo
dove sembra fermarsi il potere
tale è l’impatto del singolo corpo
che di sé nella lingua fa allegoria

 

*
il corpo non chiede al verso di mentire e di rendere
importante quello che è solo un gioco di parole chiede
solo modo di spandersi nel suono e nell’immagine così
come si spande in altro corpo mescolando sempre
all’ascolto il piacere di dimenticare sé in altro nome

 


 

La registrazione video di una lettura di questi testi si può trovare qui

Un video di una lettura di altri testi  si può trovare qui   (Teatro Elfo Puccini di Milano,  25 novembre 2013 )

La curva del giorno (2011-2014), L’arcolaio editore, Forlì 2014, è il secondo libro della trilogia Il poema delle qualità.

Il primo libro è stato editato da La camera verde di Roma nel 2012 e raccoglieva testi poetici scritti tra il 2008 e il 2011.Il testo in pdf  è archiviato qui.

Il terzo libro, dal titolo Al centro dell’inverno, che conclude la trilogia è in corso di lavorazione presso L’arcolaio editore.

Relativamente al primo libro de Le qualità si rimanda a delle conversazioni in interventi critici, mentre gli interventi su La curva del giorno sono reperibili qui

Salviamo Monte Inici

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Un attacco senza precedenti sta devastando il territorio di Castellammare del Golfo, uno dei luoghi turistici più pregevoli della provincia di Trapani.

Nel giro di un mese sono stati presi di mira in rapida successione Monte Inici con quattro incendi consecutivi, Monte Sparagio e la Riserva dello Zingaro. L’ultimo attacco, martedì 25 luglio, ha persino lambito una chiesetta e alcune abitazioni nella periferia del paese.  
Ma questi roghi non sono gli unici che nei giorni scorsi hanno interessato la Sicilia e l’intero Paese. Le fiamme hanno devastato ettari ed ettari di bosco e messo a repentaglio l’incolumità di cittadini e turisti anche in Campania, Lazio, Sardegna, Toscana. 
Noi non sappiamo quali interessi specifici ci siano dietro questi che non esitiamo a definire veri e propri attentati all’ambiente, non abbiamo le prove del giro d’affari che può muoversi intorno alle operazioni di spegnimento degli incendi o alla manutenzione e riqualifica delle aree bruciate.
Sappiamo però riconoscere il linguaggio mafioso e possiamo affermare che quello di fronte al quale ci troviamo, pur senza lupara né tritolo sotto i ponti, è un attacco di stampo mafioso. 
Lo è nelle modalità, perché colpisce il bene comune per favorire gli affari di qualcuno o realizzare le vendette di qualcuno, e lo è negli effetti, nel senso di rabbia impotente e nello sconforto prodotto nei cittadini, che assistono inermi alla devastazione del proprio territorio.
Proprio per questo non possiamo rimanere passivi di fronte a questo ennesimo attacco all’ambiente, all’economia del Paese, alla nostra stessa dignità di cittadini.
La complessità del problema e la sua pervasività sull’intero territorio nazionale ci spinge a chiedere un intervento forte e risolutivo da parte delle istituzioni. 

Chiediamo quindi al Presidente della Repubblica, ai Presidenti di Camera e Senato di istituire prontamente una commissione di inchiesta su quanto sta avvenendo in Italia in questi giorni, volta ad accertare cause, mandati, esecutori degli atti, ma anche ad individuare mancanze, omissioni ed eventuali errori nella gestione della prevenzione e delle emergenze da parte degli organi preposti.
Chiediamo alla Magistratura di intervenire con delle indagini congiunte tra le procure, anche attraverso l’istituzione di un apposito pool di magistrati che sia in grado di affrontare  il fenomeno in tutte le sue articolazioni  e di chiarire quale strategia si nasconde dietro a questi attentati contro l’ambiente.

Comitato Salviamo Monte Inici

Roberto Alajmo, Andrea Bajani, Gianni Biondillo, Caterina Bonvicini, Paola Caridi, Cristiano Cavina, Paolo Chicco, Teresa Ciabatti, Diego De Silva, Enrico Deaglio, Enzo Di Pasquale, Marcello Fois,  Alessandro Garigliano, Helena Janeczeck, Filippo Landi, Bjorn Larsson, Giuseppe Elio Ligotti, Valerio Magrelli, Rossella Milone, Michela Murgia, Valeria Parrella, Alessandra Sarchi, Evelina Santangelo, Fabio Stassi, Chiara Valerio, Hamid Ziarati

Overbooking: Renzo Paris

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Nota critica

di

Alida Airaghi

a Il mattino di domani di Renzo Paris

 

 

Quanta voglia e rimpianto di vita, nell’ultimo volume di poesie di Renzo Paris (Celano, 1944). A cominciare dal titolo, così propositivo e aurorale (Il mattino di domani), per continuare poi nei temi affioranti in tutt’e quattro le sezioni scandite stagionalmente, che dalla primavera dell’infanzia arrivano alla «ridicola vecchiaia» dell’inverno.

Sono ricordi, personali e collettivi: memorie familiari e sociali, percorsi di crescita culturale e politica. E sono paesaggi, istantanee folgoranti di città straniere o italiane (Mosca, Parigi, Marrakech, Helsinki, e l’amatissima Roma sempre più multietnica). Oppure amori, adolescenziali e maturi (la moglie Marina, amanti dimenticate o redivive, sconosciute esploratrici di Facebook); turbamenti sessuali e tentazioni trasgressive («Lolite di un attimo, ragazze curiose, / per favore, smettete di ricordarmi la vita», «Sono un conduttore erotico, / falotico. Vivo dell’altrui piacere. / Luttuoso, voluttuoso, paciere delle arrabbiate, / braciere delle / scostumate»).

E ancora i “cari fantasmi” che emergono dalle brume di un passato lontano ma affettuosamente rivisitato, con un sentimento di nostalgica riconoscenza (il mondo contadino dell’Abruzzo nativo, la madre, le maestre, i compagni di scuola, la gente semplice del paese; e poi gli amici poeti che non vivono più…).

Una sorta di rendiconto morale, di dettagliato inventario su guadagni e perdite dell’esistenza, che però lascia aperti vitalissimi spiragli di progettualità e joie de vivre, anche quando affronta la malinconia del tempo che passa, dello «stupore dell’ultimo tramonto», del distacco dalle persone e dalle cose amate: «Cara vita, che a poco a poco mi abbandoni», «Ho vissuto per ricordare e adesso // che la memoria si cancella, dove vado?».

Renzo Paris, prolifico romanziere, poeta e saggista – nonché traduttore, critico letterario e docente universitario -, non ha mai lesinato il suo impegno culturale e politico: sempre schierato a sinistra, a lungo collaboratore del Manifesto, di Liberazione e oggi del Venerdì di Repubblica, nei versi non dimentica le tragedie umanitarie contemporanee, la fame del terzo mondo, i profughi delle guerre mediorientali, il terrorismo, la disperazione degli ultimi a cui nulla può offrire riparo e consolazione: né la bellezza dell’arte e della natura, né – ovviamente – la poesia («la poesia / sarà pur sempre una cosa da ragazzi?».

Le composizioni di questa raccolta, tutte in terzine di vario metro, con rare indulgenze a rime, assonanze e calembour linguistici, sembrano ambire soprattutto a una chiara intenzionalità comunicativa, a una oggettività descrittiva che non lascia spazio a nebulose interpretazioni psicanalitiche: decise a rivendicare la propria prosaica adesione alla quotidianità dei gesti e dei sentimenti. Il loro autore continuamente ribadisce il suo ossessivo desiderio di partecipazione alla concretezza del reale, col timore che esso rimanga inappagato: «Nel mondo resto sempre a teatro», «Sono affollato di voci e di nessuna realtà». L’aggrapparsi tenacemente alle cose minime che osserva (insetti, uccelli, facce, parole di amore e amicizia) rimane allora il più solido ancoraggio per i mattini futuri.

 

 

 

Operazione Levante di Angelo Petrella

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Come un jab in pieno volto

di Davide Morganti

Sono sempre stato convinto che bisogna raccontare soprattutto ciò che non si conosce, ciò che non ci appartiene, ciò che è lontano da noi; perché quello che ci sta vicino, prima o poi si presenta. L’ultimo romanzo di Angelo Petrella (Operazione Levante, Baldini & Castoldi, pagg. 391, euro 18) viene considerato un thriller, una spy story, lo è, ma non lo conclude perché le storie che lo scrittore napoletano mette insieme hanno ritmo e potenza e una visione del mondo sulla modernità lucidissima. Questi tre uomini sono la spina dorsale del romanzo: Stanley Kavanagh è un esperto di informatica, distrutto dal dolore per la perdita della figlia e della moglie nell’attentato al Bataclan; Miša Bogdanov, ex agente russo, contrabbandiere di petrolio in Siria, rapito dall’Isis; Bob O’Malley, vicedirettore della Cia, chiede aiuto a Kavanagh per sapere di un attacco agli Stati Uniti di cui è venuto a conoscenza. La scrittura di Petrella incide con precisione nella geografia tragica di questi anni, scompone i confini, li delinea, li disegna; l’azione è continua, frenetica, il caso irrompe talvolta per risolvere o complicare, sparigliando le carte che si hanno in mano.

«I volti sono scavati, i bambini hanno piedi sporchi e paura nel volto, c’è perfino un gruppo di mutilati che si trascina sul selciato. Per il resto, soltanto terra e immondizia e macerie», la capitale dell’Isis è il regno del Lurido, dove la miseria umana ha un fetore peggiore della sporcizia. Trame nascoste, doppiogioco, tradimenti, sesso, morti violente, c’è tutto in questo romanzo che, pagina dopo pagina, suda, ansima, sanguina, soffre e spera con i suoi personaggi; lo stile terso di Petrella è deciso, segue tutti sempre da vicino, sembra un drone che dall’alto va in panoramica per poi abbassarsi e portarci ad altezza occhi. La nitidezza della narrazione spinge a seguire le singole vicende – in realtà ognuna intrecciata all’altra – con simpatia, nel senso etimologico della parola: patire insieme. Ci sono uccisioni che rattristano e altre che rallegrano, si avverte il ritmo di grandi serie televisive come Homeland o di House of cards; il petrolio diventa vergogna e morte, perché si muore e si inganna per questo malefico idrocarburo. Petrella descrive il mondo odierno infoiato di danaro e di potere: la Siria, passaggio obbligato di tanti gasdotti, è un martirio per gli innocenti e ingordigia economica per i politici. Bogdanov si muove tra stupore e rabbia, sopravvive di continuo alla vita, da lei ne è sedotto, non prova a dominarla come vorrebbero le mascelle di Obama e Putin; per questo malandrino russo, la vita è come quei compari che non sai mai se vogliono fregarti o meno, però tu alla loro compagnia non rinunci e la sera, quando ti addormenti, ignori se al mattino saranno ancora lì o no.

«Il Bahrein è un’isola a poco più di quattro ore d’auto da Riad. Un regno noto per il Gran Premio, le spiagge infinite e l’alcool a fiumi. Al punto che i giovani arabi lo soprannominano Saudi bar, recandosi in pellegrinaggio il sabato sera e tuffandosi tra discoteche, cinema e perdizione di stampo occidentale». È un mondo in perenne squilibrio quello che Petrella traccia, un ibrido tra est e ovest, sud e nord: i paesi cozzano tra loro come afflitti dalla deriva (economica) dei continenti, gli urti sono violenti e provocano reazioni a catena; ci sono però le guerrigliere curde e yazide che con il loro coraggio difendono il nord della Siria e provano a restituire dignità agli uomini. Romanzo insolito per l’Italia, abituata a un tipo di realismo minimale, da due camera e cucina e poco altro; invece l’opera di Petrella irrompe con forza, dà una spallata al piagnisteo locale su famiglie e femmine in eterna crisi contro i maschi: c’è una vis comunicativa classica, decisa e spedita. Il libro seduce, invoglia a continuare, l’adrenalina è in ogni pagina, una forsennata tensione che spinge verso Francesca (scoprite da soli chi è), Stan, Taahir (come Francesca), Nadwa. Nomi che contengono storie, storie fuori dal comune, esplosive, sono mine antiuomo, quando le si tocca c’è chi resta ucciso; in quasi quattrocento pagine Petrella ci racconta la follia di questo mondo digitale e carnivoro che corre, corre come la troika di Gogol perseguitata da due tragiche domande: Qual è la tua meta? Qual è il tuo destino? Quesiti che a distanza di quasi due secoli si ripetono. Dove corre l’Occidente e dove vanno la Russia e gli Stati Uniti. Romanzo corale, dunque, di grandi e piccole figure, che annaspano tra deserti e città, tra stanze lussuose e camere povere come la fame.

«C’è una luce sottile che filtra da qualche parte in alto nella cella umida. Nell’eccitazione del momento non aveva notato una finestra con le ante che si aprono dall’esterno: segno che trova nella parte perimetrale della prigione, o del rifugio che sia. Il braccio che pulsa gli fa improvvisamente ricordare tutto. Ha il volto gonfio, il torace pieno di ecchimosi ed ematomi, e le coste gli sembra che traballino». Questa secchezza descrittiva è una delle caratteristiche di Petrella, poco incline a manierismi, le sue parole sono jab sinistro e destro portati con destrezza. Il mondo arabo, i servizi segreti, i potenti della terra, il male di vivere, l’ossessione per i soldi e per la sopraffazione, la lasciva voglia di ingannare, la necessità di Stato, la polvere africana, l’uomo contro uomo; saggio sull’Occidente e sul suo tramonto che per il momento continua più a illuminare con i fuochi delle guerre che a spegnersi nel buio della stanchezza morale.

Angelo Petrella

Operazione Levante

Baldini & Castoldi editore

Pagg. 400 – euro 18

Dentro una casa di specchi. Su Appartamenti o stanze di Carmen Gallo

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di Franca Mancinelli

Lo sguardo è la nostra possibilità di entrare in contatto con le cose, di conoscere, di tracciare un confine. Non guardando ci consegniamo a un regno dove la realtà e la sua percezione si confondono, lo spazio della nostra identità si apre a riflessi e ombre. Paura degli occhi, il primo libro di Carmen Gallo, (L’Arcolaio, 2014), dichiara questa condizione fin dal titolo. La frequenza di dettagli isolati del corpo e di verbi all’infinito, sono due tracce di una stessa necessità di difesa nei confronti delle profondità brucianti dell’esperienza, delle emozioni. Siamo sulla soglia da cui si presagisce qualcosa di decisivo, che è invocato e insieme temuto: «come svegliarsi nella luce estrema», «come svegliarsi nella luce intera». Il secondo libro di Gallo raccoglie questa forza dirompente che l’esordio annunciava. La preghiera che conteneva fin dall’epigrafe iniziale si compie in Appartamenti o stanze (d’if 2017): «Fa’ che il tuo occhio nella stanza sia un cero, / lo sguardo un lucignolo, / fammi essere cieco quel tanto / da mettergli fuoco» (Paul Celan). Siamo fin da subito condotti in uno spazio interno dove la «paura degli occhi» non è più detta, ma lasciata parlare e agire come in un teatro interiore. Qualcosa di inquietante, inconoscibile e oscuro richiama il lettore-spettatore sempre più dentro, verso zone inaccessibili, pervase da un’angoscia sottile, come in Inland empire di David Linch. Su ogni cosa che accade si proiettano i tratti di una fiaba nera, allucinata, dove l’orrore è allontanato, trattenuto sullo sfondo. Nei gesti quotidiani, negli interni domestici o di un albergo, vibra la stessa allarmante tensione che si addensa attorno a fatti traumatici (il ferimento con cui si apre il libro, un incidente in tangenziale, un ricovero in ospedale). Compaiono sulla scena riverberi di una stessa identità frammentata e smaterializzata: sagome elementari, incise nel bianco e nero, allucinazioni  visivo-uditive, fanstasmi psichici. Non c’è una distinzione netta tra quelle che potrebbero apparire le figure principali (la donna bianca, la donna con i capelli neri, l’uomo ferito), il coro di donne che li accompagna e quella prima persona plurale, pulviscolare, che sembra vegliare e dirigere ogni cosa. Identità e fantasma, presenza e suo riflesso, sono intrecciati l’uno nell’altro. È come se lo schermo quotidiano fosse attraversato da una forte interferenza che pervade i normali canali percettivi e ci connette con dimensioni alterate, distoniche, a pochi millimetri dal dissolvimento dell’identità. Da qui probabilmente proviene la forte istanza ordinatrice che presiede al libro e che si esplica non soltanto nella calibrata e perfetta architettura compositiva, ma anche nella capacità di reggere i fili di questa rappresentazione, come in un teatro di burattini, o in una coreografia di movimenti immobili, di gesti essenziali e taglienti come nel teatro danza di Pina Bausch. Questo libro è a sua volta un appartamento o stanza, qualcosa di simile a una scatola cinese, dove una parete sorge e scompare all’improvviso, una stanza si chiude o si apre dentro l’altra, e non è possibile sapere cosa, come, quando, qualcosa può apparire o svanire. Mano a mano che procede la lettura la sensazione è quella di aggirarsi in una casa di specchi, in un labirinto dove non è possibile distinguere la realtà dalla sua distorsione. A tratti le pareti sembrano di membrana, come fossimo dentro alla mente di qualcuno che ci ospita insieme ai suoi fantasmi. A un certo punto, come nel film The others di Amenábar, ci ritroviamo dall’altra parte, tra le voci che premono, abitano lo spazio della nostra vita, della nostra mente. Forse ciò che siamo chiamati a fare è pronunciare il nostro nome per non esserlo. È proprio quanto accade tra la IV e la V sezione del libro, nel punto in cui la dinamica che lo governa raggiunge il suo acme e apre al suo scioglimento. Nella prima parte, un’enigmatica presenza plurale agisce su altre figure che vengono governate e accudite come in una casa di bambole. Questo esercizio di controllo avviene attraverso lo sguardo costante che lega il “noi” alle sagome di personaggi che si muovono e compiono azioni, inizialmente ignare del potere a cui sono assoggettate, dei confini della cella che li contiene. Quando arrivano a sfiorarne le pareti, il sistema inizia a entrare in crisi: «la donna nell’albergo si è accorta / che di notte sul letto la guardiamo». Lo schermo paralizzante è ormai infranto. Tra la donna e il “noi” si stabilisce un contatto. Questo comporta un’inversione di ruoli: la donna riacquista autonomia di voce e di movimento, mentre la presenza plurale viene relegata nella «stanza più lontana». È ormai chiara la stretta interdipendenza che vige tra queste ombre della psiche: a farle coesistere è la forza ad ampio spettro dello sguardo, che altro non è, in fondo, che la possibilità di mostrare una storia, di farla accadere davanti ai nostri occhi. Nella IV sezione che fin dal titolo dichiara il suo carattere di svelamento, Noi siamo qui, la presenza plurale si palesa nella sua funzione narrativa e nella sua essenza costitutiva: il centro del “noi” è un “noi due” indissolubile, un’identità binaria in cui vige un perfetto rispecchiamento simbiotico che ha la potenza di annullare entrambi, insieme allo spazio che hanno generato. Come nella Trilogia della città di K., a prendere parola è la voce di un’unità gemellare, infantile, di comunione perfetta. È questa la lingua del libro, una lingua capace di sostenere la pluralità e il dissolvimento del soggetto, da una salda presenza duale. Dalla Kristof Gallo ha probabilmente appreso anche il nitore gelido capace di avvicinare contenuti traumatici e dolorosi, con la precisione di una lente che raggiunge effetti stranianti.

Questo libro è un contenitore di storie narrate “per stanze”, fotogrammi immobili che si succedono secondo uno svolgimento non sequenziale. Sono storie dentro la storia, che si ripetono come un tema rimosso che torna ad affiorare, nonostante l’ostilità aperta o l’estraneità di chi si trova ad assistere al loro racconto, perché le parole hanno la facoltà di accadere, di occupare la scena, non diversamente dalle altre azioni e fatti presenti nel libro. Così nella prima sezione, dove l’uomo ferito sente la sua stessa storia e piange, fa a pezzi il giornale, chiude a chiave il coro di voci narratrici; così nella penultima, dove di fronte a una storia che torna per due volte a narrarsi, come cercando di avvicinare una verità, «la donna chiude la porta e ci dimentica», l’uomo «torna in cucina, accende la tv». Alla fine è proprio questa sordità, questa mancanza o rifiuto di destinatari della storia, che porta alla sparizione delle voci, al richiudersi dello spazio. La fine della possibilità di narrare coincide infatti con il riassorbirsi nelle pareti di questo “noi due” autore e regista della storia. Il libro è retto da una complessa costruzione pronominale: dall’impersonalità quasi oggettiva, da referto, delle prime sezioni dietro cui la prima persona plurale cerca di mascherarsi, assistendo impassibile allo svolgimento dei fatti, e garantendo l’esistenza dello spazio stesso dell’appartamento o stanza, fino al crescente coinvolgimento del “noi” nelle azioni e nella vita delle figure, all’emergere del “noi due” e al suo svanire lasciando che parli, nella sezione conclusiva, per la prima volta nel libro, un “io”. Come per il sovrapporsi di diverse lenti, ora miopi, ora astigmatiche, in questi testi finali i pronomi oscillano da una persona all’altra per arrivare, solo nei due testi conclusivi, ad assestarsi sulla prima persona che si relaziona a un tu. Questa pronuncia viene come dalla stanza più interna, che è contenuta e contiene tutte le altre: ha assorbito in sé l’indistinto unisono della prima persona plurale, il “noi due”, le voci bisbiglianti. Per questo è stata necessaria una «caduta» dentro se stessi, qualcosa di simile alla caduta dal balcone di una delle storie narrate; più che una morte sull’asfalto è però in realtà un abbandono per esistere, per raggiungere la propria voce, il proprio spazio di percezione. L’aria che alla fine esce dal petto è un respiro, una salvezza: l’uscita da quel luogo della mente che si era fatto claustrofobico.

La storia di cui parla questo libro è essenzialmente una storia di formazione, il dramma di una presenza che si afferma attraverso un percorso doloroso e allucinato. Per contenerlo Gallo ha costruito un congegno perfetto, lasciando l’opera a se stessa, alle sue voci-figure che governano da sole lo spazio. Perfino la Nota al testo conclusiva è infatti scritta da loro (e per questo va letta con la dovuta cautela, senza lasciarsi sviare, ad esempio, dalla facile chiave fornita, per cui ci sarebbero “uomini e donne che agiscono, ragionano, decidono, parlano con i loro fantasmi”). La straordinaria forza di attrazione di Appartamenti o stanze aumenta quanto più ci addentriamo in queste pagine, come se la scrittura, nella sua nudità fosse capace di addensarsi, di crescere in profondità, accogliendo le dimensioni di tutte le stanze che ci ha aperto. E forse proprio nell’ultimo testo, nel momento di congedarci dal libro, abbiamo la misura dell’energia che ci ha guidati. Immessi di nuovo in una stanza,  non possiamo fare a meno di sentirla vibrare di presenze, di voci che si annidano e potrebbero scaturire da questo forte sommovimento interno che pervade ogni cosa, «un nuovo ordine di calamità» che ingiunge di abbandonare questo luogo, nonostante il «taglio vivo smarginato» del pavimento, e «tutti i vetri che ci parlano» come in un’ultima richiesta di ascolto, prima di scomparire. La tentazione è allora quella di voltarsi indietro e ricominciare, seguendo la corrente circolare che attraversa il libro: l’aria infine uscita dal petto, libera da ogni appartamento o stanza e riconduce sulla soglia, alla prima sezione, L’aria adesso.

 

 

 

Carmen Gallo, Appartamenti o stanze, d’if, Napoli 2016

 

*

 

 

Da L’aria adesso

 

L’uomo ha accompagnato il vetro
lungo una linea gonfia e verticale
il sangue si è rappreso in fretta
sul braccio lasciato staccato
dall’asfalto incerto delle luci
le voci sul fondo della piazza
fatta più alta dagli alberi tagliati
la testa reclinata sotto il peso
degli occhi aperti, abbassati
a cercare il bicchiere più vicino.
L’uomo urla e piange sotto di noi
da quel fondo che abbatte coi denti
ha voglia di vedere subito il conto
della città che crepa intorno
e noi seduti a misurare il vuoto
e l’ambulanza troppo vicina ai tavoli
lui ci guarda e ci chiama
mostra lenta la recisione
quelli lo prendono e lo legano
tra fili nudi e trasparenti.

 

 

C’è una donna che siede lì da dieci anni.
L’uomo con il vetro non l’ha mai visto.
Ha sentito la sua voce, ma la donna è bianca
e non riconosce le lingue e i giorni.
Non chiedetele perché sia lì.
La donna ha un ricordo preciso, e uno solo.
Questo le basta perché ha molti fili
e non vuole essere legata altrove.
La donna non vuole nemmeno parlare con noi.
 

L’uomo ha ballato e sudato
per tutto il tempo della festa
ha squarciato l’aria densa
di una stanza affollata
ha mostrato i denti e i passi
ha risposto agli impulsi
cadendo piano all’indietro.
La musica è alta, e la voce
non arriva a spalancare la finestra.
Tutti sentonola mancanza dell’aria.
Noisiamo in piedi a sostenere il soffitto
che è diventatosempre più curvo
e poi è caduto e ci ha raccolti
e siamo diventati pareti bianche
conchiglie con le bocche chiuse.

 

 

 

Da Noi siamo qui

 

Da quando siamo finiti nella stanza più lontana abbiamo cominciato a sparire, uno a uno. Se non possiamo guardarla non siamo più sicuri di esistere. Alcuni non ce la fanno, hanno paura, scompaiono. L’uomo che vive con lei ogni tanto apre la porta e prova a farci uscire. Ci chiede di nascosto di tornare, ma noi siamo soltanto incrostazioni nell’intonaco e non sappiamo come fare. Se lei non viene qui scompariremo. Ad aspettarla siamo rimasti solo in due. Non so se ci siamo scelti, so soltanto che mi somiglia. L’altro sente quello che sento io, vede quello che vedo io. Presto diventeremo una cosa sola e spariremo

 

 

Racconti Molesti – Francesco Cusa

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Due esemplari della raccolta « Racconti molesti » di Francesco Cusa

(illustrato da Daniele La Placa, Iris Edizioni, 2017)

La dottoressa

 

Prologo:

La dottoressa Valastro, illustre e stimata professionista del paese, venne a mancare nel torrido luglio. Franò all’improvviso insieme all’insalatiera e ai tre pomodori appena affettati, ma il suo fantasma continuò a vagare in cucina per giorni. Era stata colpita alla testa due ore prima dal marito, Marzio Scuderi, da sempre ossessionato dalle concupiscenze degli sguardi dei paesani sulla moglie, poi successivamente arrestato e condotto al carcere di Villagrazia. Il medico ne dichiarò la morte per sopravvenuta emorragia interna causata da un pugno ben assestato all’altezza della nuca.

 

Il fatto:

Subito il fantasma della dottoressa Valastro provò a svolazzare per ogni angolo della cucina, alla ricerca di una via di fuga. Ma era come nuotare dentro a un acquario. Tutto sembrava colare da quella rappresentazione duale, ogni cosa, ogni prospettiva del mondo reale e naturale. Ciò che appariva inconcepibile, quantomeno nelle prime fasi di svolazzamento, era la stramba e al contempo familiare percezione d’essere se stessa in altri tempi e luoghi contemporaneamente. Da una parte, nella stessa parte, il cadavere d’una cinquantenne riverso sul pavimento della cucina e, come sovrapposto, un giovane corpo di libellula nella radiosità di un pomeriggio primaverile. Due ologrammi pulsanti nella fissità d’una cartolina spazio-temporale, di un divenire perenne di vite, morti, carni e sudori.

 

Quesiti:

Che fosse quello l’inferno? La condanna dannata alla contemplazione di due monadi pulsanti? E poi perché quei due momenti della sua stessa vita? Perché non una Valastro piccina, o la donna trentenne in carriera? Perché non quel bacio poco fuori dal bar, in quella giornata di pioggia, o l’incidente d’auto? Tutto questo sentire risuonava distante, in un plesso solare alieno, come di protesi esterna e interna al contempo. Una eco carnale, una materica onda vibrante in uno spazio conchiuso, finito. Impossibile uscire fuori da questo diluirsi perenne di insalatiera rotta, di pomodori tagliati e profumi di gelsomino, di fitte alla testa e pavimenti in cotto, di piegamenti muscolari nell’andatura, di giunture giovani e carni fresche e bianche, di polpacci ben torniti e camicette a fiori, di mancamento e tonfo in terra, di ciocca di capelli perennemente tenuta nel piegamento sensuale del collo. Era la decomposizione al suo inizio, la prospettiva di un incontro al tramonto, il profumo della campagna etnea, l’odore acre dei pomodori appena affettati. Era vivere tutte le vite di quell’essere in ogni direzione, avanti e indietro, dall’adolescenza alla nascita, dalla morte all’adolescenza in uno scatenarsi di passioni, affetti, pianti e dolori senza requie, dinamico nella pulsante rappresentazione di quelle “cartoline”.

 

Conclusioni:

La dannazione eterna è vivere in cucina. L’aver commesso qualche errore. Forse un banale problema di peccati in vita? Di ortodossia? Frattanto correvano i giorni, vorticosi come una cascata, lenti come i movimenti di una danza butho. V’era da scandagliare quel residuato di senso di colpa? Del resto la sua avvenenza non poteva di certo passare inosservata, la sua bellezza matura essendo manifestazione tardiva d’una rinnovata infiorescenza, della grazia dei cinquant’anni che ammanta alcune creature. Era forse quel disagio senza nome? Quella riservata voluttà? Era in quella sensazione di uno scandalo perenne che la attanagliava come un morbo alle caviglie che occorreva setacciare? Era in quel suo senso di alterità, nelle sue buone maniere, nella nobiltà dei suoi gesti? Forse per quel suo modo sensuale di tenere il collo leggermente inclinato? Gli occhiali all’angolo sinistro della bocca? Colavano in un perenne quadro prospettico le cartoline delle due Valastro, si scioglievano senza soluzione come le deformità d’oggetti nei quadri di Dalì. Il fantasma della Dottoressa Valastro cominciò a sbattere tra le pareti della cucina.

Un colibrì intrappolato dentro a un cubo di Rubrick.

Le meraviglie della prima fase fotonica.

 

 

 

Rosa Croce

 

L’occhio è alle navate in cerca di nuovi particolari, al legno intarsiato della cattedra, con le sue immagini di morti e teschi in sequenza ciclica. L’omelia di Padre Reginaldo, ampia e solenne, accompagna la deriva del mio sguardo, che ora si sofferma sul suo abito talare, al rosso e alla porpora, e ai ghirigori del mantello. La mano di Rosa stringe la mia, noncurante della sudorazione.

Rosa, fervente cattolica, tanto devota quanto rovente e ingorda fra le lenzuola, statuaria Rosa, lo sguardo rapito e fermo di chi è oltre la vita. Guarda in maniera disturbata il crocifisso, che campeggia imponente sopra alla testa del prete, quel crocifisso che è anima, corpo e sguardo del devoto.

Un raggio di sole attraversa la bifora e lambisce i sacri sandali di San Giovanni, come in certe immaginette votive. È un evento noto ai parrocchiani, segna il mezzogiorno, e anche il momento di sospensione, di contemplativo stupore per un evento che asseconda la liturgia. In quel frangente mia moglie distoglie lo sguardo dal flusso, prende a guardarmi dagli occhioni color nocciola e mima con la bocca le parole “ti amo”. È il momento di massimo fervore del prete, la cui cadenza portoghese mai risolta, rimanda ai miei anni da militare a Genova, agli spaghetti col pesto e alla fugassa. Una cantilena che si espande per le navate, circumnavigando fin dove possibile la pianta semicircolare dell’abside, passando per i contorni del ciborio a far vibrare le edicole dei vari santi, in un fremito di vita statuaria e sovraumana. La volta maestosa è opprimente; sento l’energia sottile dell’immane cappa, di quella simulazione di Empireo, dell’enorme architettura che simula l’archetipo dentro alla quale siamo tutti conficcati come animelle. La sento farsi minacciosa, ostile. Osservo le enormi chiappe di Rosa, strette in un tailleur color salsa rosa e vorrei prenderle a morsi, insinuare in lei la molestia, spezzare quell’incantamento volgare che mi esclude. Dietro di noi Gino, il salumiere, pare scoppiare di una salute malsana, rosso come un peperone e con le dita a salsiccia. Non guarda il poderoso culo di mia moglie. No. Contempla anche lui il crocifisso. Come è possibile? Guarda che enorme culo ha quella gran gnocca di mia moglie, Gino, lo vuoi toccare, lo vuoi tastare? Cento grammi di mortadella dentro a un panino ci devi mettere, Gino, cento grammi, sennò niente da fare. Ecco vorrei dirgli questo, mentre suona la campanella del commiato e noi andiamo in pace. Usciamo a braccetto nel marzo di sole terso e limpido, come un cristallo di ghiaccio in Antartide, respirando a piene narici fra voli di rondini e furente scampanar di sagrestano e scendiamo le scale del sagrato che spaccano in due la piazza. Siamo una coppia di paese, conficcati in questa realtà essoterica, esseri privi di divenire, di una prospettiva, di un domani.

Le scarpe di Rosa sono marroni, con un bel tacco; scarpe di gran classe. E quello è un signor polpaccio. Passiamo davanti al Bar Commercio e salutiamo con un leggero inchino, all’unisono, come in una danza, fra le brame lussuriose dei vecchi privi di ogni contegno, La mia Rosa è come la donna di Montecristo, tal Haydèe, essere sublime, e creatura senza tempo, a me devota vita natural durante. Solo la domenica, alla messa, mi pare distante, assente, come fosse rapita, catturata da questa ossessione del Cristo, della parrocchia, della dottrina, del catechismo, della santità, e dice di vedere le ferite di nostro Signore e la Beata Vergine che pulisce e cura le sue piaghe. La notte sogno santi e angeli dai falli priapici, enormi con la faccia di Padre Reginaldo, che fanno ressa attorno a Rosa. Le strappano i vestiti, buttano via le scarpe, la palpano, la penetrano, e tutto questo sembra a lei piacere; Rosa non protesta anzi, mi guarda con gli occhi da folle, gli stessi occhi che ha quando siamo in chiesa, aperti sul niente, su una sostanza fluida che fluttua. Io la percepisco, ma lei la vede. In questi anni, durante tutte queste domeniche, io mi sono dato da fare, ho scrutato ogni particolare della chiesa e ho preso la mia decisione: «Rosa, non devi più andare a messa ».

 

 

Francesco Cusa è nato a Catania nel 1966. È batterista e compositore jazz di fama internazionale. Attivo nell’ambito dell’interdisciplinarietà artistica, ha realizzato numerosi lavori di creazione di musiche per film, spettacoli teatrali e letterari, danza e arti visive, collaborando con ballerini, poeti e visual performers. Alterna la carriera da musicista a quella di scrittore e critico cinematografico. Collabora con le riviste Lapis e Cultura commestibile su cui cura la rubrica “Il cattivissimo”. Novelle Crudeli. Dall’orrore e dal grottesco quotidiani è la sua prima raccolta di racconti edita da Eris edizioni nel 2014.

Piccoli combattenti

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di Gianni Biondillo

Raquel Robles, Piccoli combattenti, Guanda, 2016, 155 pagine, traduzione di Iaia Caputo

Non esistono limiti d’età per essere arruolati a combattere contro il male. Lo sa perfettamente la protagonista di Piccoli combattenti. Ha dodici anni e suo fratello minore ancora meno. I genitori sono scomparsi, una notte qualsiasi, portati via da casa con la forza da un gruppo di “nemici”. Tutto è accaduto senza rumore, senza esplosione di colpi. Il “Peggio” è accaduto in silenzio. Più che lo stupore della scomparsa, è la frustrazione di non aver potuto aiutare i genitori che attanaglia i due giovani combattenti. La spiegazione che hanno ricevuto dagli zii è che i genitori si sono lasciati catturare per difenderli. Così riferiscono anche le due nonne che vivono con loro. Una un po’ matta, sempre con la testa nei ricordi di gioventù nel ghetto di Varsavia, l’altra ormai abbandonata al dolore, sempre con un fazzoletto zuppo di lacrime, in attesa davanti alla finestra di rivedere il ritorno della figlia portata via dalle milizie: perché è di desaparecidos, dittatura argentina e militanti montoneros stiamo parlando, in questa lucida favola di Raquel Robles.

È più che evidente che la protagonista del romanzo, non avendo nome, non è nient’altro che la proiezione letteraria dell’esperienza autobiografica dell’autrice, anch’essa figlia di desaparecidos tutt’ora impegnata nella lotta contro i crimini perpetrati negli anni della dittatura.

La forza di questo romanzo sta in una lingua semplice ma mai mimetica – nessun infantilismo – e nella descrizione puntuale della psicologia dei due piccoli protagonisti. Veri e propri eroi di una guerra che non si vede, difensori di una fortezza già espugnata, in attesa di un ritorno che si fa, di giorno in giorno sempre più improbabile, i due bambini crescono in un vuoto incolmabile, eppure ritti contro il male, maturi e consapevoli del loro ruolo testimoniale. Perché nulla venga dimenticato.

(precedentemente pubblicato su Cooperazione numero 13 del 29 marzo 2016)

LEZIONE SU CARMELO BENE

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di Giorgiomaria Cornelio

 

 

 

 

“E’ stato detto e scritto che Carmelo Bene non ha eredi, è falso. Sono eredi
tutti coloro che, rintracciando nella sua opera quell’alito che continua a cantare
oltre le sue contingenze linguistiche e biografiche, sanno e sapranno registrarlo,
custodirlo, innestarlo nella propria disciplina a salute della conoscenza.”*

 

Nel Giugno di quest’anno è stato pubblicato, per la collana “Minimo Teatro”, il libro Lezione su Carmelo Bene di Maurizio Boldrini, compendio affrancato dalla pretesa di essere totale e quindi studio dei singoli materiali, dei reperti lavati dallo storicismo mirabolante che li ha già predisposti, fissati come tinte del genio.
Boldrini ribadisce, piuttosto, che la poesia è in superficie, che la nobiltà viene dall’esattezza del gesto (il libro saluta i lettori con una nota di Italo Calvino da Lezioni americane), e che le specifiche competono a chi conosce l’elemento primo, non all’industria spettacolare. Troppo occupati a trattenere, di Carmelo Bene, solo quanto è chiassoso  e ricevibile (quello che nel libro Boldrini indica come uno dei suoi “limiti di sartoria”) abbiamo consegnato il resto del canto alla semplice indifferenza. Un esempio su tutti: mentre le Opere pubblicate da Bompiani non sono più disponibili, le due serate al Maurizio Costanzo sono divenute un catalogo mitologico di tic, un roboante oggetto televisivo con una propria grammatica ripetibile, da giocare ad oltranza come partitura scaduta, a conforto di un C.B. “parafrasato”.

A Boldrini interessa invece “essere dalla parte dell’operatore del tracciato labirintico”, quindi studiare, per prima cosa, la lista che Carmelo Bene ha indicato come sintesi dei suoi traguardi nell’ Autografia di un ritratto,  illustrazione del “teatro senza spettacolo”, a proposito del quale Boldrini scrive:

Nel crinale tra il predisposto e il predisposto appresso, in questa zona di scarto, avviene il teatro che lui non sa ed è. Egli qui vive, nell’estremo di un calcolo puramente corporeo dove ogni estetica, anche la più raffinata, declina, riconducendo l’attore all’acrobata, alla presa in volo, che suscita sì meraviglia nello spettatore, ma che è poca cosa rispetto alla maestria dell’operatore. Egli brucia in un gesto le teorie, le letture matematiche e fisiche: è dimostrazione poetica del suo essere indiscutibilmente esatto per l’immediato.

Già nelle pubblicazioni precedenti (La voce recitante ed Enciclopedia dell’attore finito, entrambe pubblicate da Bulzoni), e in particolare nel suo Teatralfilosofia (Mariano e Giovanni Prosperi Editori, 2013) Boldrini evitava le divisioni del pensiero, riconducendo lo studio teatrale a dinamica del degenere, a combinazione del disarmo: chiudere l’operato di Carmelo Bene nella sola attività di regista-attore  vorrebbe dire ignorarne l’etimo indisciplinato e i tanti assalti incontenibili nelle corsie della storia dell’arte. Sembra, però, che si voglia fare con Bene quanto si è fatto, ad esempio, con la Pietà di Michelangelo, opera “posta in attesa secolare di comprensione, depositata nel ricovero dei capolavori invece che adottata come misura di conoscenza, metro di giudizio nelle cause pendenti.”

Altro punto scalato da Boldrini è quello della “macchina attoriale”, lo strumento dell’attore “per mettersi costantemente fuori luogo, fuori da ogni luogo comune, per restituire la voce-immagine alla purezza dell’essere”, quindi come dispositivo per attentare al canto,  per fissare a corpo la cortocircuitazione. Prima di operare questa trascolorazione espressiva (trascolorazione: immediata condensa dell’equilibrio), bisogna che l’attore esamini le singole tinte sulla scena (due le principali: “collera e tenerezza”) e che poi, “recitandosi addosso”, le ribalti combinandole in poesia, sfuggendo perciò all’automatismo e ponendosi in un ambito di percezione in cui il dialogo disintegra  i ruoli di artefice e spettatore:

Lo spettatore fisicamente disapprova l’attore mentre egli si attiva, l’attore lo percepisce immediatamente e reagisce di scarto. È questo concorso, in cui non ci sono né vincitori né vinti, il nuovo luogo inventato in sostituzione del luogo atletico drammatico, del campo di battaglia. Il recitarsi addosso è, pertanto, condizione operativa irrinunciabile per minimizzare la lontananza tra spettatore e attore, perché la distinzione perda senso a favore di un seme di umana comprensione.

Sempre più  l’attore è tolto alla legislazione spettacolare, al suo ruolo di dicitore di battute, per essere nuovamente compreso nell’ambito della strumentazione fonica mossa a flusso organizzato. Insieme, egli s’appresta ad essere misura rigorosa della partitura che esegue: non traduttore delle parole  del poeta ma poeta esso stesso, che dicendo il predisposto, in simultanea si ascolta e reagisce, quindi edifica un nuovo senso non adulterato dalla “bella lettura” o saturato dal congegno sociale-politico. Il passaggio, quindi, è quello che Boldrini definisce “dal simulatore all’acrobata”:

Il simulatore, similattore, finge di essere un personaggio. L’attore, nel senso di Bene, gioca coscientemente, suo malgrado, se stesso sulla corda tesa della poesia. L’interesse fondamentale del primo consiste nel risultare credibile, l’arte del secondo consiste di almeno tre congiunti interessi: essere stupore, essere equilibrio oltre il limite provato dell’equilibrio, essere manifestazione.

Eccedendo l’ingombrante teatrino della storia e la sua praticabilità orizzontale, Bene ha ribadito che l’orchestrazione e la scrittura di scena avvengono altrove rispetto al luogo del dramma. Nel suo Otello dal “gesto addormentato” il mezzo televisivo viene forsennato in caduta, impiegando la cinepresa come protesi per trivellare l’immagine (Boldrini registra solo  66 campi medi su 698 inquadrature: per il resto, primi o primissimi piani). In questa alluvione di volti sparisce una volta per tutte la la custodia della narrazione, in questo caso domestica, e nasce “l’opera lirica altra, poiché sottratta dalla vicenda, amplificata nei meandri del canto, sparata a portata estrema d’orecchio e d’occhio.”

Prima di concludere il suo studio in divagazione (tra le altre cose, il libro è dedicata alla memoria di Riccardo Cucciolla e di Nando Gazzolo), Boldrini lancia un appello a sconfinare questa lezione agli altri ambiti operativi: ne verrà, da parte degli studenti che insisteranno ad orchestrarsi, una lettura spietata del presente. Parte del disinteresse verso il teatro è dovuto, mi sembra, proprio a questa irrigidita circoscrizione, alla letargia di quei dipartimenti già così radicalmente smantellati da Carmelo Bene. Muoviamoci altrove:

È ora che almeno qualche “scienziato” delle sedicenti scienze esatte (esatte per produrre) si prenda il lusso di andare a scuola da scienziati delle arti (…). Potranno così impiantarsi di nuovo nelle rispettive discipline, con una luce che da soli non avrebbero potuto immaginare.

Questo piccolo cosciente nulla che siamo, non è prossimo alla fine, è ancora da inventare!

 

 

*Tutte le citazioni, laddove non riportato diversamente, sono citazioni del libro Lezione su Carmelo Bene, per gentile concessione dell’autore.

Vite salvate #1

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di Davide Orecchio

 

Al mattino ero nel sole, ero sulla strada, io sono una cellula germinale che prolifera nella città, nessuna terapia può annientarmi né cronicizzarmi, comunque mi autocancellerò, ero sul motorino, scendevo verso i quartieri di valle e ho visto una donna salire dal serpente d’asfalto, neppure sul marciapiede, camminava nella mia corsia, è vecchia, s’appoggia a un bastone, su dai fianchi la schiena le architetta un angolo ottuso appena protetto dalla camicia larga coi fiori, questa donna è una cellula germinale che prolifera nella città, ma sta per autocancellarsi, ero nel sole, ero sulla strada, ho visto che la donna si ferma, poi lasciò cadere il bastone, portò la mano sul cuore, per questo ho frenato, chiesi Ha bisogno di aiuto?; non rispondeva, sta per autocancellarsi, non conosco bene la procedura ma credo includa dei gesti come camminare in salita sul serpente d’asfalto, nella corsia delle auto, non sul marciapiede, e lasciare il bastone, e portarsi al cuore la mano, e restare nell’angolo ottuso, la paura viene un momento prima dell’autocancellazione, poi anche quella svapora, noi siamo cellule germinali che proliferano nella città, ci insegniamo l’un l’altra a morire

ma sono sceso dal motorino, l’ho parcheggiato, salgo verso la donna e quando le sono vicino lei mi sussurra Non respiro, ho dolore al petto; allora le mostrai i giardinetti poco sopra di noi dove c’è una panchina sotto l’ombra degli eucalipti, e una fontanella per dissetarsi: Vogliamo andare su insieme?; la donna fa cenno di no: non riesce più a muoversi, forse questa cellula mi sta insegnando a morire, le cellule germinali della città, nel momento in cui imparano a morire, insegnano a morire, ma io ero nel sole, ero sulla strada, non ho voglia di imparare quest’oggi io/l’ho presa in braccio come una sposa, come Benigni con Berlinguer e con la donna ho scalato i gradini di marmo fino alla panchina nell’ombra dell’eucalipto, l’ho messa a sedere, andai alla fontanella dell’acqua e ne raccolsi nelle mani serrate, tornai dalla donna che bevve dalle mie mani, così lei ora respira e dice Forse ho meno dolore,

aspettiamo nell’ombra, le cellule germinali sanno occasionalmente fermarsi, allora l’autocancellazione va in pausa, non c’è ancora la morte, c’è stata, ci sarà, ma non adesso, e questo si chiama presente, e chiedo alla donna Ha un numero che possa chiamare?; lei mi porge il telefono dalla borsetta e disse Cerchi “Serena nipote”, non “Serena portiera”, non si confonda; così chiamai “Serena nipote” che disse Arrivo; così l’aspettiamo, la donna sdraiata, io seduto sulla panchina, offro il mio grembo alla testa grigia di lei, si fermò una Fiat Cinquecento ed ecco “Serena nipote”, ho dato alla ragazza sua nonna, la ragazza l’ha fatta sdraiare nell’auto, le cellule germinali proliferano nella città egoisticamente ma occasionalmente offrono riparazioni alle sorelle gratuitamente, hanno la facoltà di fermare l’autocancellazione delle sorelle, questo solo nel presente, non vale per il futuro, e la ragazza portò via la donna dell’angolo ottuso, e ne raccolse il bastone, ma prima che vada le lascio il mio numero per sapere la fine.

Ed ecco la fine.

Il giorno dopo mi chiama: L’ho portata dal medico, ha detto che poteva morire, è molto fragile, ma si ostina con le sue passeggiate, la proliferazione ostinata delle cellule germinali della città, insomma se non c’eri tu non ci sarebbe più lei, le hai salvato la vita, cosa posso fare per sdebitarmi?

Non puoi fare nulla, nulla di nulla, hai già fatto tutto, mi hai appena detto che ho salvato una vita, nel presente delle cellule germinali questo è possibile sebbene raro, mi hai detto quello che serve.

E questa è stata la mia prima vita salvata.

Immagine tratta da https://pixabay.com/it/users/Witizia-261998.

L’importanza di essere piccoli – VII edizione

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…Con una coda ma senza la testa
solo per finta, solo per festa
solo per fiamma che brucia per fuoco
fammi giocare per gioco

B.Tognolini, Rime Raminghe, Salani

 

L’importanza di essere piccoli – VII edizione

poesia e musica nei borghi dell’Appennino

VII edizione 1-6 agosto 2017

un progetto dell’Associazione Arci SassiScritti

con il contributo di

Regione Emilia-Romagna, Arci Bologna progetto Polimero

e dei comuni di Alto Reno Terme, Castiglione dei Pepoli, Grizzana Morandi,

Pistoia, Sambuca Pistoiese

BCC Alto Reno e COOP Reno

LA POESIA COME FUOCO, LA VITA COME GIOCO

con

PAOLO BENVEGNÙ, MURUBUTU, LUCIO CORSI, IVAN TALARICO, GABRIELLA LUCIA GRASSO, SAVERIO LANZA, BRUNO TOGNOLINI, GIULIANO SCABIA, CARLO BORDINI, ALESSANDRO RICCIONI, ANDREA DE ALBERTI, FRANCESCA GENTI, MANUELA DAGO

Questo è il settimo anno in cui l’Appennino è reinventato e ricreato dall’incontro di poeti e musicisti con gli abitanti di paesi abbarbicati sui crinali tra Emilia e Toscana. Un piccolo festival con una dignità da gigante che si propaga tra bosco e radura, tra monti e borghi disabitati prendendosi tutto il tempo e il lusso dell’ascolto di un paesaggio parlante.

I versi di Bruno Tognolini e il dinosauro fuoritempo e fuoriluogo ritratto da Guido Mencari, raccontano l’anima de l’importanza di essere piccoli con una speciale dedica ai mondi intermedi e incandescenti dei bambini, così vicini e aderenti a quelli inattuali della poesia.

Un’edizione pensata per un pubblico multiforme che segue un ricordo d’infanzia, un giocattolo testimone della serietà del gioco che mette tutti al pari ed entra nel mondo con il passo leggero di chi si accinge a vivere un’avventura.

Sei giorni di festa in sei luoghi speciali, lontano dalle ragioni dei giorni feriali.

Un dinosauro giocattolo a capo di una sequela di esploratori che il primo agosto inizia la sua avventura dal versante toscano, dalla minuscola stazione di Castagno di Piteccio (PT) per ascoltare Paolo Benvegnù e il suo viaggio interstellare dentro i misteri di “H3+”, la molecola che sta alla base dell’Universo ispiratrice del suo ultimo album. Con lui Alessadro RIccioni poeta e bibliotecario dell’Appennino dei cui nativi ‘monti tondi’ la sua poesia porta traccia. La tribù del dinosauro il 2 agosto si sposta in Emilia e si addentra in un bosco di castagni monumentali nei pressi di Granaglione, qui la parola si fa epica grazie alla ‘letteraturap’ di Murubutu, in cui sonorità hip hop classiche fanno da tappeto a testi dalla forte curvatura cantautorale; insieme al “cantante filosofo” il “poeta-oste” Andrea de Alberti che con le poesie tratte dal suo Dall’interno della specie (Einaudi 2017) intraprende un viaggio antropologico-sentimentale dentro l’umanità. Cambiando versante il dinosauro il 3 agosto arriva a Rasora, nel comune di Castiglione dei Pepoli (BO) accolto dall’antica Casa del Popolo e dai testi scanzonati del cantautore Ivan Talarico, già attore e autore di libri dal sapore ironico. Uno sguardo limpido e sbarazzino è anche quello di Carlo Bordini, poeta e narratore romano che, pur non rinnegando le difficoltà dell’esistenza, non cede mai il fianco al nichilismo. Giunti a metà percorso le orme preistoriche conducono a La Scola nel comune di Grizzana Morandi in uno dei borghi più belli del versante bolognese: qui risuonano tre voci femminili, quella dal timbro purissimo della siciliana Gabriella Lucia Grasso che presenta il suo ultimo album Vussia Cuscenza, uscito per Narciso Records, etichetta indipendente fondata da Carmen Consoli. Se la Grasso porta nel fresco delle montagne un po’ della luce catanese, dal nord arrivano le sorprendenti Manuela Dago e Francesca Genti poetesse unite da un’amicizia profonda e dal progetto editoriale Sartoria Utopia, una ‘capanna editrice’ che produce libri di poesia cuciti a mano. Come un cerchio magico la chiusura del festival è in Toscana: venerdì 5 agosto a Monachino, nel comune di Sambuca Pistoiese (PT), in una graziosa valle in cui si intrecciano 4 province. Ad accogliere il dinosauro sono gli animali selvatici evocati dal giovane cantautore maremmano Lucio Corsi nel suo disco delicato e metamorfico Bestiario musicale. La poesia è invece affidata alla voce incantatrice di Bruno Tognolini, autore generalmente considerato per bambini anche se come dice lo stesso poeta, due volte Premio Andersen, quello che scrive è “per i bambini e i loro grandi”.

L’ultimo giorno di festival è a Spedaletto, paese che prende il nome dalla sua antica tradizione di ospitalità: se nel medioevo ai viandanti veniva offerto rifugio, ai seguaci dei piccoli domenca 6 agosto è donata una piazza trasformata da due artisti. A differenza degli altri giorni si inizia alle 19 con Saverio Lanza, musicista, compositore e produttore discografico che presenta il progetto originale Vocazioni, messa spontanea per coro misto con cinque solisti e il coro della Scuola di Musica Mabellini di Pistoia. Dopo la performance, che concilia il sacro al profano, gli spettatori e artisti sono invitati a fare una pausa per prepararsi all’ascolto di Giuliano Scabia, legato al festival da una tenera amicizia e da una profonda affinità elettiva. Per il festival il ‘più imprevedibile dei poeti’, così scrive Gianni D’Elia nella prefazione del libretto edito dalla casa editrice catanese “Le farfalle” che ne custodisce i versi, dà voce ai Canti brevi per il cielo della notte. Dentro un paese mutato dalla presenza di ospiti invisibili; poeti, bestie, persone e dèi sono cinguettati e vivificati da Scabia e amplificati da Saverio Lanza con i cantanti che poco prima hanno partecipato a Vocazioni.

PROGRAMMA

Tutti gli eventi sono a ingresso gratuito e si terranno anche in caso di pioggia nei luoghi indicati

Martedì 1 agosto ore 21-Castagno di Piteccio, PT

Paolo Benvegnù (live)
Alessandro Riccioni (lettura/incontro)
Mercoledì 2 agosto ore 21 -Parco didattico sperimentale del Castagno, Varano, Granaglione, Alto Reno Terme BO

Murubutu (live)
Andrea De Alberti (lettura/incontro)

 

Giovedì 3 agosto ore 21 – Rasora, Castiglione dei Pepoli, BO

Ivan Talarico (live)
Carlo Bordini (lettura/incontro)

 

Venerdì 4 agosto ore 21 – La Scola, Grizzana Morandi, BO

Gabriella Lucia Grasso (live)
Francesca Genti, Manuela Dago (lettura/incontro)

 

Sabato 5 agosto ore 21-Monachino, Sambuca Pistoiese, PT

Lucio Corsi (live)
Bruno Tognolini (lettura/incontro)

 

Domenica 6 agosto ore 19- Spedaletto, PT

VOCAZIONI, messa spontanea per coro misto di Saverio Lanza
CANTI BREVI PER IL CIELO DELLA NOTTE di Giuliano Scabia

 

ufficio stampa SassiScritti:

Daria Balducelli mob. 349 3690407; d.balducelli@gmail.com

 

Per le indicazioni stradali consultare la pagina FB SassiScritti_ L’importanza di essere piccoli

In caso di pioggia tutti gli eventi si terranno comunque in posti al chiuso nei luoghi indicati

Per tutte le info www.sassiscritti.org ; info@sassiscritti.org ; 3493690407 – 3495311807

 

L’importanza di essere piccoli c’è grazie a: Daria Balducelli, Ambrogina Bertone, Andrea Biagioli, Alessandro Borri, Azzurra D’Agostino, Sante Di Clemente, Lucia Mazzoncini, Guido Mencari, Andrea Montagnani, Lara Monterastelli, Silvia Tesone

Video Andrea Montagnani www.pupillaquara.com Fotografie Guido Mencari www.gmencari.com

Con la collaborazione di:

associazione La Sculca, Pro loco di Spedaletto, Pro loco di Castagno, Parco Didattico sperimentale del castagno, Casa del popolo circolo arci di Rasora, libreria l’Arcobaleno di Vergato, libreria Lo spazio di via dell’Ospizio di Pistoia, Hotel Helvetia Thermal Spa, Califfo ristopub di Porretta Terme, Birra del Reno di Castel di Casio, Le grandi ricette di Anna B. catering Castel di Casio, Hotel Roma di Porretta Terme, gelateria la Baracchina di Porretta Terme, Birrificio Beltaine.

(Le nostre) Nuvole di fango

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di Francesca Fiorletta

Nabokov ci aveva già avvertiti, con la sua incredibile Lolita: leggere e soprattuto descrivere l’attrazione erotica irrefrenabile nei confronti di un giovanissimo essere umano, non è certo cosa semplice.

Non è cosa semplice, a maggior ragione, se l’età dell’oggetto (soggetto) d’amore – o, diremmo, d’ossessione – diminuisce ancora, fino a sfiorare solo in maniera contingentale la pubertà.

Non è cosa semplice, ancora, fare tutto questo con un primo libro, un’iniziale prova letteraria. Forse, addirittura, con “Un esordio straordinario”, come lo definisce The Telegraph.
Inge Schilperoord, psicologa forense olandese, classe 1973, nel 2015 ha vinto il Bronze Book Owl come miglior debutto dell’anno proprio con Nuvole di fango, oggi pubblicato in Italia da Fazi Editore, con la traduzione di Stefano Musilli.