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a work in progress

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scarabeo campanodi

Francesco Forlani

Qui di seguito i primi dieci capitoli del nuovo romanzo a cui sto lavorando. Tutto è cominciato qui su NI e tutto finirà, come condivisione libera, con questa prima parte. Spero di annunciare in giugno la fine della stesura e  magari entro l’anno la sua pubblicazione. Dedico a Giovanni Lamanna questa mia azione per il lavoro che stiamo facendo insieme. Buona lettura. effeffe

*

Le tournant (romanzo, in preparazione) Corsica. Un’edicola votiva, memoriale di un automobilista morto in un incidente. Ma nella realtà non c’era stato nessun incidente e tanto meno il morto, inventato di sana pianta dal sindaco per indurre chiunque passasse di lì alla prudenza. Un’invenzione. Una fantasticheria che però aveva salvato un mucchio di persone. Così alla morte del geniale sindaco la giunta vuole commemorare l’uno, lo storico primo cittadino, e il secondo, il morto che non c’è, premiando quest’ultimo con una nuova vita, anzi vita tout court visto che non era nato nemmeno una volta. E lo fa ingaggiando uno scrittore per scrivere una storia; vitto e alloggio pagato in Corsica, per un anno. Il protagonista si chiama Franck, d’origine italiana ma in Francia da una mezza vita, fisarmonicista e scrittore; comincia a raccontare la saga familiare del morto, inventandosela dalla dominazione genovese, ai moti rivoluzionari dell’Ottocento e all’occupazione fascista degli anni Quaranta dopo la resa della Francia. Lo scrittore se la gode alla grande, come Ulisse da Calypso. Beve e mangia da dio, s’innamora, ma la vera notizia è che i suoi testi man mano pubblicati sulla gazzetta regionale riscuotono un successo che nessuno dei suoi libri aveva mai ottenuto. Tout baigne, direbbero in Francia. Solo che, a un certo punto, riceve un chiaro invito a fermarsi, quando scopre che sotto l’altarino c’erano davvero delle ossa…

 

Ouverture

 

Ci sono due modi per arrivare in Place des Vosges. Uno è percorrendo da Bastille il boulevard Beaumarchais prima di imboccare la rue du Pas-de-la-Mule; ben altra cosa però è raggiungere la meta sfilando lungo la rue des Rosiers, trecento metri di strada, rue des oubliés, des émigrés, des retrouvailles. In un angolo di giardino che precede la piazza, Franck osserva le panchine di legno disposte ad arco e le persone che se ne stanno sedute durante la pausa pranzo. Franck ne distingue i profili e ne indovina le conversazioni nonostante si trovi a una certa distanza e alle spalle. Ad attirare la sua attenzione è la panca di sinistra, dove due donne sulla quarantina hanno disposto nel mezzo alcuni dolci, Blancmange e Baklava, acquistati in uno degli innumerevoli ristorantini, falafel che popolano la strada.

Certamente è colpito dall’eleganza delle due signore, ma è la loro disinvoltura ad attirarlo, per i gesti con cui accompagnano le parole, per la semplicità dell’atto di mangiare una cosa su una panca in un giardino, semplicità rivestita di abiti di marca e calzante scarpe di lusso. Le osserva per un tempo infinito prima di avere come un presentimento di non essere solo. Con la coda dell’occhio ha infatti percepito, al termine di una diagonale che attraversa lo spiazzo, una presenza, concentrata come lui sulle donne, ma per altri motivi, in una prospettiva totalmente diversa dalla sua. Non sa dire se l’altro se ne sia accorto, per quanto, per un breve istante, abbia avuto l’impressione che i loro sguardi si siano incrociati tipo a metà strada, in campo neutro; l’assoluta perseveranza del suo alter ego aveva però dissolto ogni dubbio a riguardo e ne aveva dedotto che della sua presenza non se n’era affatto reso conto.

Una cosa però ora sa di certo; l’attenzione che aveva fino ad allora totalmente dedicata alle due amiche – la confidenzialità che la vicinanza dei corpi trasmetteva faceva pensare a un’amicizia di lunga data- era stata distolta e dedicata ad altro come se la triangolazione in atto tra lui, l’altro e le due donne, al pari di una catena di Sant’Antonio non si potesse rompere e trasformarsi in un accerchiamento. Così Franck osserva i pensieri e i movimenti dell’altro con meticolosa concentrazione, quasi convinto del fatto che qualcun altro stia osservando lui, e quello, a sua volta, sotto gli occhi di un altro ancora come del resto stava già accadendo alle due donne che non lesinavano affatto, tra una battuta e l’altra, una risata, occhiate ai passanti, specie se prestanti o da insicure donne accompagnati.

Ci sono due modi di vedere le cose, le persone. Si possono contemplare, ammirare, riconoscendone un valore superiore, quasi una possibilità di riscatto interiore in quella esperienza di bellezza o di sublime manifestazione di una presenza tanto inattesa quanto catartica, nei fatti; perché uno si sente migliore quando la bellezza diventa un viatico imprescindibile come le parole di un amico prima d’intraprendere un viaggio; lo sguardo allora si lascia fagocitare e allo stesso tempo nutrire e l’estasi indurre a un’immobilità per certi versi feroce dei muscoli se non si avvertisse dentro un movimento frenetico – il battito accelerato del cuore, il freddo alle ginocchia, le vertigini. Diverso è lo sguardo del predatore perché anticipa un movimento, una sequenza ripetuta mentalmente, un piano d’azione che non lascia adito al fallimento, non ammette sconfitta. In realtà esiste un altro modo di guardare ma si tratta piuttosto di un non vedere, come in effetti accade alle due donne sedute sulla panchina molto prese nella conversazione.

Al punto di non accorgersi affatto del topo che dopo averne registrato le pause, i movimenti, la durata delle distrazioni dai dolci- generalmente dopo averne preso uno dal vassoio e per buona educazione attendere la fine della frase prima di portarlo alla bocca- con una mossa del cavallo e un salto da dietro alla panca ne afferra quello più sul bordo, e per quanto grande, ben più grande del muso sgattaiola via sotto alcune lamiere di un cantiere in corso. Certamente Franck è colpito dalla rapidità del roditore ma è soprattutto l’agilità quasi felina del topo ad attirarlo, la precisione dell’azione tutta svolta nel silenzio e con una tale sapienza che le due signore non si sono rese conto di nulla. Franck abbandona la sua posizione dirigendosi verso di loro. Non ha voglia di dirglielo, avvisarle, non vuole interrompere il sodalizio che la giornata di sole, la freschezza del giardino ornato con piante di fico, una pausa pranzo dal lavoro, una certa spensieratezza ha reso possibile.

Ma quando se le ritrova quasi di fronte e ne nota lo stupore di non ritrovarsi uno dei dolci – il numero pari delle porzioni, calorie da spendere in parti uguali, dopo il furto, era ormai decaduto – gli viene un sorriso, lo stesso che la lettura di un’inserzione su Libèration poco prima gli ha provocato:

Cercasi scrittore. Vitto, alloggio, rimborso spese, gettone. Durata un anno. Disponibilità a trasferirsi.

Seguivano indirizzo mail a cui inviare la candidatura e referenze richieste. Franck non ha dubbi adesso. Sarà sa part de gateau.

 

 

 

Le journal

I

 

 

Un giornale che nel 1973 annuncia la sua nascita reclamando la restituzione della parola al popolo. Sartre, Mauriac e Serge July sono seduti al tavolo con altri e immagino il numero di posaceneri, le nubi di fumo che si aprono un varco attraverso larghe finestre che danno sulla rue de Lorraine, per raggiungere le acque immobili del canal de l’Ourcq. Libération dagli anni ottanta abita in un garage al numero 11 della rue Béranger, a una manciata di minuti dalla Marianne de la République.

Ci lavora Marongiu, alle pagine culturali, e Franck che di fatto è un musicista prestato al mondo delle lettere, tiene per lui dei corsi di fisarmonica, per arrotondare. Jean Baptiste, d’origine sarda, una volta alla settimana lo accoglie nella rue d’Alésia, estremo sud della città, per passare un’ora – generalmente la sera dopo aver consegnato il suo pezzo al compositore del giornale- sui tasti in madreperla di una vecchia Meister rossa acquistata al marché aux puces della Porte de Montreuil per pochi franchi. Quando Franck lo chiama, Jean Baptiste è in redazione, sta sorseggiando un caffé ed è convinto, sulle prime, che la telefonata abbia a che fare con il suo corso d’accordéon.

– No, Jean Baptiste, non ci sono problemi per il corso di domani, almeno per me; ti chiamo per un’altra ragione.

– Spara! Mentre lo dice tira fuori una sigaretta dal pacchetto per fumarsela dopo il caffé

– Sai l’annuncio uscito ieri sulle pagine cultura?

– Quello dell’isola? Non dirmi che anche tu! I centralini sono letteralmente impazziti; o qui sono diventati tutti scrittori o non ci ha una lira più nessuno. Lo sapevo che sarebbe finita così ma era un annuncio a pagamento e la mia nota di accompagnamento serviva soltanto per creare un effetto di rêverie.

– E ha funzionato. Infatti se ti ho telefonato è stato solo per via della tua nota

– Tra musicisti ci si capisce, no?

Franck sorride. la velocità con cui l’amico trova una battuta felice, è davvero sorprendente. Così prende fiato e riparte all’attacco quando Jean Baptiste gli chiede: e allora?

– Niente, pensavo che magari, chissà, potrebbe essere una buona idea per sbarcare il lunario…

– Da musicista desideroso di riapprendere a suonare mi guarderei bene dal dare al mio maestro una dritta che me lo porti via ma, c’è un ma; visto che su quell’isola ci passo tutte le mie vacanze, e che il maestro è un bravo scrittore, sai che ti dico?

Franck è sorpreso. Raramente gli ha sentito pronunciare la frase “bravo scrittore” ed è sicuramente per questa ragione che le sue recensioni sono molto seguite dai lettori, temute dagli scrittori per una sua etica inamovibile in materia. Pur frequentando molti autori nessun affetto, peraltro giustificato in certi casi da una vera condivisione e intimità, avrebbe interferito con la sua attività di critico.

– Dai dimmi

– Tra meno di un’ora passano quelli dell’annuncio per firmare un documento che avevano dimenticato di contrassegnare. Se ti precipiti da me ci parli direttamente e en plus ti faccio da garante.

– E in cambio ti pago un couscous chez Omar.

Franck non abita lontano dalla redazione di Libé. C’è un autobus diretto dalla rue Monge e se si dà una mossa- per Franck darsi una mossa equivale a una decisione tanto grave quanto imprescindibile- in una ventina di minuti dovrebbe arrivarci. C’è stato due volte in quella redazione; una per discutere con Jean Baptiste del corso e una seconda in occasione dell’uscita del suo libro che aveva voluto recapitargli di persona. Per accedere ai piani alti bisogna percorrere una rampa a spirale di quelle che in genere si trovano nei parcheggi. Più che un giornale è un’officina delle idee e per quanto lo stampino a St Denis e che al posto delle macchine da scrivere ci siano comodi computer da tavolo, si sente l’odore d’inchiostro, lo stesso che ti lascia le dita sporche di grasso come quelle dei meccanici. Lo accompagna una strana euforia mentre raccoglie curriculum, riviste, una rassegna stampa e un paio di copie salvate dal macero e dagli editori.

 

 

 

La commission

II

 

La sala riunioni della cultura è al quinto piano. Jean Baptiste abbraccia Franck con il solito aplomb da isolano. Alla profonda calma con cui si eseguono convenevoli e gesti consueti di benvenuto, generalmente, corrisponde nell’uso continentale una tale maniera, un tale grado di formalità che diventa difficile nelle metropoli determinare quanta benevolenza ci sia davvero in chi ti accoglie. Franck segue l’amico e con la consueta maldestraggine quasi trascina dietro di sé il portapenne di uno dei colleghi di Jean Baptiste che con prontezza riesce ad evitare il peggio agguantandolo prima che rovini al suolo. Franck vorrebbe fermarsi almeno per scusarsi ma è proprio questo a fargli segno di andare in fretta visto che i due assessori di Piana se ne sarebbero andati via di lì a poco.

– Bene, è appena arrivato l’amico di cui vi dicevo. Come scrittore posso dirvi che è tra i migliori che io conosca; come lavoratore – è il mio professore di fisarmonica, aveva aggiunto per inciso e con un certo orgoglio- ha il rigore di noi isolani, e per finire non è francese ma italiano, il che dovrebbe superare ogni diffidenza che è legittimo provare verso chi non è delle nostre terre solo per uno strano gioco del destino, ma che per carattere e indole sarebbe potuto essere un vostro compagno di scuola o di scorribande.

– La juste distance- aveva aggiunto quello che dei tre era sicuramente il più importante. perché era più anziano, e si sa quanto l’età conti su un’isola nella fabbricazione delle gerarchie, ma soprattutto perché, come aveva notato Franck entrando nella saletta era stato il primo ad alzarsi quasi prevedendo che a lui per primo Jean Baptiste avrebbe rivolto la parola. Cosa sapeva Franck della Corsica? Niente. Ne aveva vista solo la silhouette, il bianco delle scogliere di Bonifacio, dalla torre spagnola di Santa Teresa di Gallura, in Sardegna durante un viaggio reportage con il suo compagno di collegio Marco Murgia, di Cagliari. Più giusta distanza di quella, sinceramente, non poteva immaginarlo.

– Certo, quel mix di appartenenza e di estraneità che dà allo sguardo la possibilità di vedere oltre e soprattutto meglio il bene che vive in un luogo per fare in modo che chi vi abiti non abbia più dubbi sul proprio stare al mondo. Perché proprio quello è il migliore dei mondi possibili indipendentemente dal fatto che quelle radici non si siano scelte, ma soprattutto da quanto sia magnifica o terribile quella che i più con una certa enfasi dicono essere: terra mia.- aveva concluso Marongiu.

Alla parola radici Franck associa immediatamente l’immagine dell’enorme fico secolare che si trova nel jardin accanto alla Place des Vosges. Le braccia che si diramano tentacolari filo terra gli erano sembrate dalla prima volta in cui l’aveva scoperto, dei rami-radici, staccati da terra, aerei, sospesi. Il vice sindaco- perché al momento delle presentazioni era stato svelato l’incarico del più importante- ad ogni frase di Marongiu annuiva come per apporre un sigillo di verità ad ognuna delle affermazioni. Fisicamente somigliava un po’ al Gino Cervi di Peppone e Don Camillo, tanto più che il più giovane, l’assessore alla cultura aveva una vaga, molto vaga somiglianza con Fernandel che del prete manesco era riuscito a dare una rappresentazione quasi più fedele di quella contenuta nell’opera del Guareschi.

– Ha detto bene, Jean Baptiste – il tono confidenziale aveva suggerito a Franck che i due condividessero più di una striscia di mare- allora proverò a spiegare al suo giovane amico di cosa si tratta.

Si mise a sedere pregando Franck di fare lo stesso intorno al tavolo di cristallo che rifletteva tra gli incartamenti il cielo e i tetti del Marais rifratti dalle vetrate dei finestroni.

– Come vecchio vice-sindaco conosco la storia meglio di chiunque altro. Posso dirle ogni cosa dell’allora sindaco, delle sue gesta, della generosità con cui ha governato la Commune facendo in modo che non mancasse nulla ai suoi concittadini. E quando dico nulla mi riferisco non soltanto alle cose materiali ma anche, e soprattutto, ai valori che danno lustro a una comunità o la piombano nella cattiva reputazione. Sindaco dal trentasei fino al novantanove. Può immaginare allora quanta acqua è passata sotto ai ponti, almeno quelli che non furono fatti saltare in aria. Ma il motivo per cui siamo qui, la ragione dell’annuncio che ha potuto leggere ha a che fare solo in parte con il sindaco Angelini. Nel ‘69, infatti con l’unica rivoluzione che abbia veramente cambiato la nostra vita ovvero quella delle quattro ruote e della diffusione delle utilitarie può immaginare di quanto e con che grado di mortalità aumentarono gli incidenti sulle nostre strade. Strade che come avrà modo di vedere con i suoi occhi si arrampicano su per falesie regalando ai passeggeri viste mozzafiato, su cui la cautela deve essere massima e dove basta davvero la minima disattenzione per precipitare in mare senza che le cinture di sicurezza possano evitare il peggio.

Alla parola cinture i due accompagnatori del vicesindaco avevano avuto la medesima reazione di stupore, di quella meraviglia che precede una grassa risata ma che fu soffocata ancor prima di nascere in quella circostanza.

– Così Angelini Mario, di professione sindacalista e sindaco, (in italiano) ma a questo gioco di parole i francesi a differenza di noi corsi e italiani non ci possono arrivare, s’è inventato la storia del morto.

Alla parola morto Franck, completamente preso dal racconto, per lo stile che il vice sindaco riusciva a trasmettere con pause, sguardi, ritmo della parola, aveva chiesto: quale morto?

– Il morto non morto, per essere precisi nemmeno vivo se è per questo. Eravamo insieme proprio durante quei terribili sopralluoghi insieme alla stradale per recuperare una famiglia intera da un dirupo, sulla strada che da Piana porta a Girolata, quando gli è venuta l’idea. Mi aveva prima offerto una emmeesse, a proposito le fanno ancora in Italia? alla vecchia maniera sa? Con un colpetto, facendola scivolare dal pacchetto morbido e dopo averla accesa a entrambi, con una certa aria grave aveva esordito dicendomi: questa storia deve finire. In realtà ci sarebbe un modo e credo che ci si debba mettere all’opera subito. Hai presente il tornante? Certo gli avevo risposto. Non le solite nostre maledette curve, no no, dico le grand tournant quello della strada che porta da Piana a Sartène, sulla D355. Gli avevo fatto segno di aver capito. Con piglio deciso mi ha detto: Domattina ci si va con il necessario e gli uomini giusti e ci inventiamo il morto, il primo vero morto di questa rivoluzione sull’asfalto. Al che gli avevo obiettato che seppure finto un nome doveva pur avercelo, al che aveva ribattuto Ferrari, un genovese sarà perfetto. Costruiamo un’edicola, non un chioschetto mi segua, Vinciguerra – così Franck aveva appreso anche il cognome del suo maggiore interlocutore – e assicuriamo che ci siano sempre fiori, magari si mette a libro paga una delle nostre vecchiette o uno anticu, in modo che ci sia sempre qualcuno a onorare il morto. Sulle prime, le confesserò caro Franck che l’idea mi era sembrata un po’ bislacca, poi me ne convinsi e quando anno dopo anno cominciammo ad avere i primi risultati, u miraculu, ovvero meno incidenti mortali, raggiunsi la certezza che “il Morto” sarebbe riuscito a mantenere non poca gente in vita. La questione è che avremmo voglia di onorare il morto adesso, a trent’anni di distanza dalla costruzione dell’edicola. E onorare il nostro non più vivo sindaco, nella stessa occasione. Però può ben immaginare come sia difficile onorare qualcuno se il qualcuno non è mai esistito. Questo sarà il suo compito Franck – Franck si rese conto solo in quel preciso momento che il posto era suo- raccontare la vita di Paolo Ferrari, della sua famiglia, da quando sbarcò da Genova come dominatore fino al momento della sua morte. Se per lei va bene potrebbe cominciare anche domani.

E gli porse il bigliettino da visita. Ottavio Vinciguerra, vicesindaco. E così conosceva anche il suo nome, adesso

 

 

Hortus

III

 

Prepararsi a fare le valigie, chiudere casa, partire. Delle tre la più difficile è la casa, perché non la chiudi mica come una valigia e di certo non puoi portartela appresso. La casa abbastanza piccola e spoglia che l’unica cosa che sia davvero d’ingombro è molto probabilmente solo Franck, fisico imponente, andava lasciata a qualcuno. ma a chi? E poi se le cose non fossero andate nel migliore dei modi lì in Corsica come riprendere casa adesso che non ha nemmeno più uno straccio di busta paga in grado di assicurare agenti immobiliari e soprattutto i proprietari. Un anno non è un semplice tempo, è una durata, un concetto a cui Franck, da anni non è più abituato; la sua vita, e per vita si intende la sua esistenza, non è mai andata oltre la mesata, l’affitto da pagare, le varie scadenze amministrative e soprattutto i corsi da piazzare qui e lì dove e quando possibile. Certo c’erano i gatti e le piante. Da quando è andato a vivere da solo Franck ha sempre vissuto in quella che ama definire la catena Darwin, senza sapere se fosse una decisione legata alla salvaguardia della specie, la sua specie, o per non essere solo. La pianta è un partner ideale, un esercizio della cura da compiersi in silenzio e i gatti , due gatti trovati nel quartiere, figli ideali cui destinare le carinerie spesso ricambiate al momento dei pasti.

I gatti allora all’amico anarchico portoghese Mani e le piante a Fiammetta e Fortunato. Perché Fiammetta, che ha un laboratorio di ceramica poco distante, ha le mani d’oro e una perizia botanica da giardiniera provetta. Il passaggio da Mani che adora i gatti al punto di portarseli in boîte alla Java che gestisce da sempre è sempre costellato da frasi felici che nessun romanziere sarebbe in grado di sfornare, generalmente in piedi, tra una cosa e l’altra. L’arrivo di Franck alla Java è salutato da Christine con la simpatia che li lega da sempre e dunque senza particolari cerimoniali se non la luce degli occhi e un caldo abbraccio, cose da riservare a pochi, da distribuire con parsimonia altrimenti si rovinano. Sempre.

Mani è nella grande sala a seguire il lavoro dei due operai che stanno rimettendo il parquet e devono assolutamente finire entro le venti all’arrivo dei musicisti. Mani ha appena liberato il più giovane dal peso dell’auto rimossa dalla polizia municipale. Ha chiamato il deposito, pagato la contravvenzione in tempo reale e offerto al carpentiere gli estremi per il ritiro. La gratitudine accresciuta dal gesto si esprime nell’estrema diligenza con cui Mani gli indica come eseguire il lavoro. Perché le lamelle di betulla sembrano a un certo punto piegarsi à banane, e sfuggire all’allineamento. Mani osserva da vicino e dopo un attimo di silenzio dice:

– Sai, sono orbo da un occhio e per questo posso dirti quando le cose sono veramente allineate.

Mani ha perso un occhio da ragazzo, un incidente, ma ha una visione delle cose soprattutto della vita infallibile come quando ha risposto a Franck che gli chiedeva se frequentasse più i suoi amici ballerini:

– Vedi Franck, si cambia amici quando si cambiano le droghe.

Mani conosce i due gatti di Franck. Era già capitato in passato di occuparsene come del resto all’amico italiano quando durante la chiusura della Java Mani e Christine se n’erano partiti per lunghi viaggi in moto.

– Allora che ne dici di questa storia?- gli chiede mentre l’amico gli serve un calvados dal bar.

– Dici la Corsica? Beh ci mancherai, vuol dire che la sera farò un po’ di chiacchiere con loro per non abituarmi alla tua assenza. Tu droghe non ne prendi.

– Ma sei sicuro per la durata? Prima che mi sistemi per bene, di capire se me li posso portare sull’isola passerà almeno un mese.

– Non ti preoccupare, vorrà dire che te li portiamo noi e così ci faremo un po’ di mare.

Stanno per salutarsi quando l’amico anarchico gli porge un libro, pregandolo di leggere la dedica.

– Ma Mani, è la tua copia di quand’eri a scuola, sei sicuro?

– Luís Vaz de Camões ormai ce l’ho dentro. Leggilo, è il nostro Dante e poi il tempo non ti mancherà. Questa invece – intanto era uscito da dietro al bancone per recuperare dalla borsa accanto al casco una partitura- te l’ha presa Christine; l’ha trovata d’occasione su una bancarella e visto che ti mancava ha pensato bene di fartene omaggio.

Il commiato da chi si vuole bene è sempre un momento difficile soprattutto quando l’incertezza del tempo a venire non permette di determinare una data di ritorno.

Da Fortunato e Fiammetta accade lo stesso. Franck ha un numero di amici equivalente alla quantità di parole che riesce a mettere insieme, da sobrio, in una conversazione. Con Fiammetta sono andati all’Hortus della Rue des Rosiers.

– Cosa ci suonerai di bello?- gli aveva chiesto, dando un’occhiata ai fogli che aveva in una mano.

– Cage, Piano works 1935-1948. Dream. Questo è il pezzo che cercavo.

– Un amico spagnolo diceva: El anarquista del silencio. Come te, no?

– Sai Fiammetta, il nostro, per me che suono, per te che lavori con la scultura, non è mai silenzio, è risonanza. Ci sono strumenti, forme d’arte in cui la nota, un gesto muoiono nel momento in cui l’azione si arresta. Prendi una nota di piano, il disegno. Invece per la fisarmonica come per te la terra o la ceramica, si muovono, persistono, vivono, risuonano appunto e a lungo dal momento in cui li abbiamo toccati.

– Ributtano! – aggiunge Fiammetta infilandosi in uno dei sentieri che portano alla piccola serra e cogliere della cicoria ben cresciuta.

– Sai, pensavo alla storia del fico che c’è qui nell’area del sottobosco. Ai rami che sembrano radici. I fichi ributtano come gli ulivi, mi hai detto…

– Quando la pianta sembra essere morta, su un lato, prepara sull’altro la sua rinascita. A proposito visto che c’è Jocelyn, – da lontano sopraggiunge l’addetto comunale al verde pubblico, che nel giardino si occupa della parte a carico della Mairie lasciando il resto alle associazioni di cui si occupa tra l’altro Fiammetta – perché non gli chiediamo da quanti anni c’è il fico?

Jocelyn ha la tuta da lavoro e qualche attrezzo per le pulizie. Un grande sorriso e soprattutto una disponibilità totale verso quei volontari della terra, sempre alla ricerca di consigli utili o di precise diagnosi in caso di cattiva crescita o di funghi come quelli che avevano devastato una buona metà dei meli distesi lungo il muro a rami incrociati.

– Jocelyn, il fico da quanto c’è?

– Son trent’anni che lavoro qui e ai Blancs Manteaux, e c’era già. Ti ho detto del cassettone del compost?

– No, ho appena chiuso una buca che un porcospino s’è scavato per fare colazione coi vermi.

– Porcospini? No, Fiammetta sono topi, e non di taglia modesta. Da un mese a questa parte padroneggiano nel quartiere. Bisognerà fare attenzione ai cassettoni. Il vostro, per esempio va riparato.

Lo sguardo di Franck è assente, preso dall’eleganza delle quattro betulle i cui tronchi bianchi si stagliano contro il cielo. Ha appena ripassato a memoria il cartello informativo che c’è ai piedi del fico. Si dice che la creazione di quel sottobosco ha permesso il proliferare di un certo tipo di fiore, di pianta, d’insetti e perfino il ritorno dei trogloditi mignon.

– Jocelyn cos’è un troglodite mignon?

– Un passerotto, vivace. E se mai ve ne fossero ancora a mio avviso farebbero bene a tenere gli occhi aperti per non diventare un boccone prelibato.

– Per i gatti?

– No, per i topi

– I topi?

 

 

Ferry-boat

IV

 

 

Dalla Gare Maritime di Nizza ad Ajaccio ci vogliono circa sei ore. Quando la nave si stacca da terra il mare l’accoglie digrignando i denti, sferzando l’aria che è schiuma di fiocchi. C’è in questo mezzo di trasporto qualcosa di ancestrale quasi più di un vecchio carro, perché la naturalezza con cui un corpo può lasciarsi portare dalla corrente qui si ripete, nonostante l’artificio del ferro, delle ancore, dei motori. Franck ha trascorso le ultime ore parigine in compagnia di Fortunato, alla libreria. L’amico gli ha offerto il caffè, bien serré, spingendo la capsula nella macchinetta. Gli ha perfino regalato una cartina della Corsica per raccapezzarsi; nella mail il vicesindaco gli ha scritto che verranno a prenderlo in macchina a Bonifacio. Poi escono un attimo, lasciando Fabrizio alla cassa, per fumarsi una sigaretta. Franck gli racconta quello che è appena successo in metropolitana.

– A un certo punto è salito su, un pazzo, cioè mezzo matto, un matto gentile però; era ben vestito, da hipster, con barba e occhiali, e incollando la faccia al vetro delle porte appena chiuse ha cominciato un soliloquio dove era questione di gatti, di gatti e bambini. In realtà non era un soliloquio, non è mai un soliloquio, in questi casi, ma una conversazione in cui esiste un interlocutore anche se non si vede; è invisibile agli occhi di tutti come dio nelle preghiere di chi ci crede. Ora, lo sai Fortunà, il tono interlocutorio di solito è dato dalla maniera di formulare le frasi, dal loro rimontare verso il punto interrogativo della fine, no?

Fortunato ascolta, fuma, ne asseconda quel desiderio di parlare che in persone taciturne come Franck ha sempre qualcosa di sorprendente, quasi miracoloso, e sa che quando capita è perché il credito di parole, il loro peso dentro è al limite della sostenibilità e deve allora liberarsene.

– Invece questo ragazzo, ti assicuro, dai modi gentili, un po’ sopra le righe, perfino violento quando tagliava le frasi, come una litania ripeteva, dis-donc, e subito dopo, si chiedeva ma quasi ripetendo la domanda del suo interlocutore – qualcosa aveva suggerito però a Franck che si trattasse di una donna, tipo la sua donna- come si scrive? di i esse di o enne di ci.

– Non mi è mai capitato di sentire una cosa del genere- aveva replicato Fortunato

– Capisci? A che pro chiedere di ripetere la parola lettera per lettera, domandare come si scrivesse visto che il piano di scambio pareva tutto costruito sull’oralità e invece quella frase, quella richiesta pareva venire da qualcuno che stesse prendendo nota; e in quella strana domanda c’era una grazia, un’attenzione che faceva di quell’essere invisibile agli occhi dei più, una presenza benevola e consolatrice.

– Melogrammatica?

Franck era scoppiato a ridere. Con Fortunato condivideva tre grandi amori: il silenzio, che era d’oro, la buona letteratura, l’argento, e che di fatto gli dava da campare e un buon bicchiere di vino la mirra, quest’ultima solo per comporre tutta l’epifania laica del loro incontro.

Ora che la città vista dal ponte gli si stava disgregando a contatto con la distanza non un pensiero, non un ricordo, un pezzo di frase, un’immagine, un affetto lo tratteneva dalla partenza; le piante e il gatto erano in salvo, in buone mani e davanti a sé, oltre all’isola c’era una storia di cui non sapeva assolutamente nulla, e solo lo confortava il fatto che nessuno ne sapeva niente. Per fortuna il suo giubbotto di salvataggio ancora una volta era tutta in quella frase, per di più in latino appresa da ragazzo sui banchi dell’università. Fingunt simulque credunt, mutuata da un libro di Carlo Ginzburg, citata da un’opera di Gian Battista Vico. Frase che aveva mandato a memoria anche nella traduzione dello storico: quel che avevano immaginato, credevano dappoi.

Franck si guarda intorno. Il vento gli sferza la faccia e si alza il collo del cappotto per non esporre la gola a cedimenti. Adesso che è solo non rimpiange affatto, come invece gli era capitato fino al momento dell’imbarco, di essersi portato dietro la fisarmonica. L’enorme custodia la rende invisibile anche se non è tanto difficile indovinare dalla foggia di che strumento si tratti. Uno strumento da zingari diretto in un’isola di banditi. Gli ingredienti per un romanzo criminale c’erano tutti. Prende posto nell’enorme sala che c’è al primo piano. I televisori sospesi negli angoli fanno in modo che dovunque si giri la testa gli occhi ne verranno come stregati. Dagli altoparlanti si informano i viaggiatori della rotta di navigazione, delle condizioni del mare, di quelle metereologiche. Lui decide di cacciare lo strumento un po’ per fargli prendere aria, un po’ per controllare che nei vari passaggi, treno, nave, sia tutto a posto; ma forse lo fa perché nessuno abbia a temere che nasconda qualcosa di brutto, un’arma? una bomba? Da metà degli anni novanta, dall’attentato a St. Michel basta poco per farsi delle strane idee. Però ci piace pensare che Franck lo voglia mostrare per dare un volto al proprio amico del cuore, quello che se anche non si vede c’è e che quando si mette a parlare, quando libera i suoni dai bottoni di madreperla, li soffia, si resta sempre incantati.

Poi dà un’occhiata fuori dai finestroni. Un’altra nave, ma da crociera, enorme quasi li affianca. Gli pare di scorgere in quella silhouette la Vlora, la nave dolce che un mattino d’agosto apparve all’orizzonte di Bari con ventimila anime a bordo.

 

 

 

La bibliothèque

V

Corsica, anello tra le due nazioni. Così la definisce Nicolò Tommaseo che all’isola aveva dedicato le sue migliori energie e i versi che sono su un manifesto all’entrata della biblioteca:
L’ ombre ne’ miei pensier: vedrò ’l pallore

Umile e altero delle Corse donne

Percotermi nel cuor più che d’ amore,

Udrò simile alla cirnea vendetta

Urlar tra i sassi e le ulivete il vento,

E per le selci la levata fiamma;

E il Vócero che cupo a passo lento

Segue l’ombre de’ morti, e chiama sangue.

E te pur penserà, che dalla forte

Terra in cui l’adulato esule nacque,

Mandi del canto l’ospital saluto

 

Franck si aggira tra le sale lettura per trovare un posto tranquillo dove stare. Cécile, la responsabile della sezione manoscritti l’ha presentato al collega Alberto che gli ha già preparato una pila di libri da consultare. Sono passate poche ore dall’arrivo a Piana e già si sente uno di casa. La casa in cui starà ha una vista su più orizzonti. Dalle finestre della cucina si vedono le cime dei monti mentre dalla camera da letto letteralmente si sprofonda nella vista sul mare. I calanchi di Piana ce li avrà sotto al sedere ma non per questo non dormirà sonni tranquilli. Ci sarà una signora a sbrigare le faccende di casa due volte a settimana e con un piccolo supplemento, gli è stato detto, potrebbe perfino preparagli da mangiare. Franck deve abituarsi al lusso che il destino gli ha servito su un vassoio d’argento in un momento in cui non c’erano vassoi in casa a Parigi, ma soprattutto non c’era l’argent. Accade sempre in situazioni come queste che ci si senta come impostori, come dei clandestini – questa sostituzione della parola vita con destino non poteva  essere più appropriata- a meno che non si incorra in quello strano computo, nella sequenza causa-effetto inesorabile per cui se ci succede qualcosa di buono ora tale fortuna verrà pagata poi. In questi casi però Franck aveva elaborato una sua strategia che consisteva nel fare inversione di successione e giustificare il bene inaspettatamente ricevuto per tutto il male subito fino a poco prima. La Corsica ha due grandi biblioteche, una ad Ajaccio e l’altra a Sartene, nel Couvent Saint-Joseph. Ci lavorano cinque persone e la direzione è affidata a Cecile. Il fondo manoscritti è assai ricco e i primi titoli che Franck ha sotto mano sono:

Storia succinta delle rivoluzioni dell’isola di Corsica

Storia delle rivoluzioni dell’isola di Corsica e della esaltazione di Teodoro I al trono di questo stato

Scintille di Nicolò Tommaseo

Relazione della Corsica di Giacomo Boswell scudiere, trasportata in italiano dall’originale inglese.

Journal of a landscape  painter in Corsica di Busch.

Fotografa man mano le pagine che potranno servirgli per la sua saga tutta inventata. Vuole fare proprio il motto che uno storico aveva ripetuto ad una recente conferenza di uno storico italiano, Carlo Ginzburg all’Istituto di Cultura di Parigi. A un certo punto la direttrice aveva chiesto allo storico se nella sua idea di secolarizzazione, ovvero occupazione da parte dello stato degli spazi un tempo destinati al potere religioso vi fosse stato un qualche riferimento all’opera di Carl Schmitt . Il magister aveva avuto come un sussulto, un rigurgito intellettuale e aveva ribattuto assai stizzito che del pensatore nazista – il richiamo ideologico ovviamente era stato intelligentemente evitato da parte della sua interlocutrice- se ne sopravvalutava l’opera tanto a destra che a sinistra e che, comunque sia, ben prima di lui e di certo meglio, altri avevano ben descritto tale ” dinamica”, a partire dagli antichi e continuando con i moderni come Machiavelli e Hobbes. Degli antichi Carlo Ginzburg aveva inoltre ben spiegato la formula chiave, la formula di Tacito che dice: “credevano in ciò che avevano appena immaginato” . “Fingunt simulque credunt”, che tra l’altro Giambattista Vico avrebbe riportato in primo piano nella sua rifondazione delle scienze storiche. Franck aveva così immaginato che se si fossero trovati a un importante colloquio internazionale di medicina e sentito un ipotetico moderatore proporre all’invitato una relazione tra quanto appena detto e le scoperte di Mengele, probabilmente l’intero pubblico in sala avrebbe reagito come lo storico in questione. Allora perché questa differenza di trattamento? Lui comunque avrebbe sicuramente inventato e per quanto riguarda il crederci questo non era contemplato nel contratto. Di certo la cosa più importante era che i lettori vi credessero, ovvero appassionarsi alla storia della famiglia del tale che con la propria morte, con l’incidente in uno dei tornanti e la costruzione della piccola edicola a futura memoria aveva salvato tante vite. Ma allora da dove cominciare non gli era affatto assai chiaro. Certo a Franck sarebbe piaciuto mettersi sulle tracce, almeno nello stile di uno scrittore morto da poco in Sardegna, Sergio Atzeni che con la sua ultima opera, Passavamo sulla terra leggeri, aveva reinventato i miti fondatori dell’isola. Franck però non aveva questa ambizione; il suo sarebbe stato un racconto picaro, qualcosa di più simile a un romanzo d’appendice che a un poema epico. Sull’esempio di una delle storie che Alberto il bibliotecario gli aveva portato, avrebbe riassunto quindici secoli di storia in una ventina di pagine, magari ammantate di mistero, fino alla dominazione genovese e raccontato con più dovizia di particolari le rivoluzioni che tra settecento e ottocento avevano infuocato l’isola. Più o meno tra il trattato di Versailles e la nascita di Napoleone l’inizio per poi continuare con l’ottocento degli anarchici e il novecento dei fascisti. Mentre si lascia andare col pensiero a tutte queste riflessioni si è fatta ora. A cena sarà ospite del vice sindaco. Non vuole presentarsi a mani vuote e così si fa dire da Cécile dove acquistare del buon vino, del vino importante.

 

 

La femme de ménage

VI

 

Franck si muove con circospezione nella villa messa a sua disposizione; la vista sulle calanche ha in sé qualcosa di struggente e l’aria è talmente pura che rischia di farsene un’overdose, con tanta purezza. Pensa ai gatti lasciati a Parigi e alla loro felicità quando verranno a stare da lui. Il giardino è immenso e regolare ed è forse per questo che la villa l’hanno chiamata u pratu ; l’erba è forte e i muretti di cinta a proteggere la proprietà dai cinghiali gli ricordano le trincee della prima guerra mondiale visitate in Trentino anni prima. La signora che si occupa di lui si chiama Rosa. Quando l’ha incontrata in mattinata sulle prime era rimasto un po’ sorpreso; s’aspettava una donna vestita di nero con fazzoletto in testa, dalla faccia segnata dal sale, dalle braccia larghe e di poche parole, una signora. Invece Rosa è giovane, ha un paio di jeans strappati sulle ginocchia, stivaletti neri da pirata e una camicetta la cui scollatura lascia intravedere un reggiseno che ha l’aria di essere il pezzo di sopra del costume. Una ragazza che ama nuotare.

Mentre bevono in terrazza, immersi nel sole di pieno mattino, la curiosità di lei verso quell’uomo forestero è concentrata soprattutto sul suo lavoro; farsi pagare per immaginare storie, inventarsi le cose ecco questo non poteva capirlo. Non solo. Trova perfino ingiusto che si possa fare; in realtà Rosa ama leggere, scrivere, cantare come le capitava fino a poco tempo fa in un locale tenuto da una cugina e che d’estate si riempiva di gente per lo più turisti in cerca di qualcosa di veramente esotico quando nulla poteva esserlo su un’isola di un posto tenuto da sole donne; eppure lei non riesce a sedare la propria sete di risposte, con quanto Franck a volte imbarazzato, per lo più impacciato, le serve insieme alla birra ghiacciata. Franck ne è affascinato. La giovane età? Lo sguardo che occhi liquidi rendono invincibile, il potere di trascinare ogni cosa in chissà quali abissi dell’anima, e che allo stesso tempo come sospeso alle parole, ai gesti, diventa quello di una creatura perduta, perduta e sola, alla maniera di una ragazzina che avesse perduto per via delle correnti l’orientamento e al ritorno da una nuotata non riconoscesse più casa tra le file degli ombrelloni. In questo sono sicuramente simili, però se a salvare Franck è la musica, la fisarmonica, in lei, invece, è la rivolta, il seme della disobbedienza, a farle da angelo custode proprio quello che a Franck mancava e avrebbe sempre desiderato possedere perché qualcosa crescesse in lui.

 

–       Continuo a non capire…- ha aggiunto lei rientrando in casa. Si siede su una delle poltrone e aggiunge – comunque le prometto che mi spiegherò meglio la prossima volta. A proposito, prima di entrare ho sentito che stava ascoltando Janis Joplin

–       Little girl blue

–       È la mia preferita

–       A proposito della fatica, cioè del lavoro che non capisce come si possa definirlo tale, in un certo senso la capisco. Anche a me quando dico che mi guadagno da vivere così in genere il mio interlocutore mi ribatte che deve essere molto figo fare qualcosa che si ama fare, in cui può capitare perfino di divertirsi e in più essere pagato per questo

–       Riassume bene la cosa, questo che mi dice – ha aggiunto lei.

–       Però in realtà tutti dovrebbero campare facendo le cose che si amano, no?

–       Per lo più non è così

–       Infatti nemmeno per me, e faccio la fame

–       Un po’ sciupato lo è, se posso permettermi.

Solo in quel momento Franck realizza quanto siano differenti. Lei ha la pelle abbronzata, i tratti distesi e naturali. Perfino la leggera arrossatura sotto il labbro ha un suo perché come una mela acquistata a peso d’oro in un mercato bio del quinto arrondissement. Le sue mani levigate dai saponi sanno di terra e per la prima volta sente il desiderio di prendergliele tra le sue per poterne sentire le screpolature, alleviarne la durezza ma si trattiene dal passare all’atto. Si sono appena conosciuti e in più lei ora lavorerà per lui.

–       Sa che faccio? Ingrasserò capitolo dopo capitolo e quando sarò bello panciuto vorrà dire che sarò abbastanza voluminoso e pronto per andare in stampa.

–       Tanto lo sa che cucino io

–       Comunque mi ha dato un’idea

–       Cosa?

–       Domani vado in un caccia pesca e tutto sport e mi compro un paio di pesi per polsi

–       Cosa?

–       Sì quelli in piombo che usano i sommozzatori

–       Per andare a fare immersione?

–       In un certo senso, però sulla pagina. L’ho sentito dire a Ferdinando Camon in una conferenza a Parigi, al Pompidou

–       Chi? Cosa? – Rosa sembrava non seguirlo affatto ma il sorriso che aveva fatto seguire alla raffica di domande aveva una leggerezza e una sincerità che sembravano assecondare la voglia di parlare di Franck più che stabilire una distanza, quella rovinosa per cui la gente non si capisce.

–       Camon uno scrittore del nord est figlio di gente che lavorava i campi. Raccontava che aveva cercato di vincere la vergogna della propria emancipazione dalla fatica costringendosi a scrivere mettendo ai polsi i braccialetti da sub e far provare alle mani dello scrittore la stessa fatica dei padri contadini.

–       Se vuole la accompagno io. L’unico negozio che c’è in paese è di mio zio, il Buonarroti

–       Lo scultore?

–       No, l’anarchico, ma non per questo senza il martello

 

Les Innocents

Cap.VII

 

Per descrivere una passeggiata ci vogliono scarpe buone.

Franck non ricorda affatto in quale libro e per bocca di quale autore abbia sentito per la prima volta questa frase; eppure risuona in lui dalla mattina presto in cui la sveglia del mondo con una buona mezz’ora d’anticipo su quella digitale, l’ha tirato giù dal letto.

E insieme alla frase si ripete a mente l’incontro in municipio delle undici con il libraio dell’Adelfia, Cossu Giovanni che con Castellani in Place de la Fontaine si divide la piazza dei libri. Glielo ha presentato lo zio di Rosa, il Buonarroti della chincaglieria dove accompagnato dal vicesindaco si era recato poco prima per procurarsi i pesi per i polsi.

Lo aveva in verità un po’ sorpreso l’indifferenza con cui i due ospiti avevano accolto quella sua richiesta; il fisico da sub di certo non lo aveva, né tanto meno del culturista ma allora a che pro comprarsi quegli attrezzi? L’unico a esserne sorpreso, ma anche un po’ lusingato per la stranezza cui aveva voluto cedere, sembrava proprio lui mentre ne pesava la massa, passandoseli da un palmo all’altro delle mani, e controllato l’aderenza al polso. Se li era fatti regolare dal vicesindaco che sembrava più avvezzo all’uso; di certo adesso Franck poteva solo immaginare in che modo avrebbe influito sulla sua scrittura, quali movimenti condizionato nel battere le frasi al computer visto che se ne avesse mimato sul posto i gesti l’avrebbero rispedito nella capitale con un TSO. Il libraio, alto, leggermente claudicante e con forti labbra da isolano – la barba invece rada e brizzolata sulla faccia scura sembrava tradurre i segni di un mestiere di mare, di navigazione o di porto – si era subito portato disponibile a dare una mano per le sue ricerche d’archivio sciorinando tutta una bibliografia mentre l’anarchico Buonarroti seguiva tacendo e con pochi cenni del capo i consigli del letterato.

– Conosco bene l’Italia; a Firenze; ci ho lavorato a lungo negli anni settanta e animato perfino una comune insieme ad altri pazzi. A me e ai due sardi, di Porto Torres, ci chiamavano gli “incontinenti”

– Non aveva l’aria di essere un complimento- aveva detto Franck posando i pesi sul bancone e preparandosi a pagare

– In un certo senso sì; in quel gioco di parole c’era un sottile apprezzamento per l’intraprendenza di uno dei due, l’architetto e di riflesso la nostra, per semplice natura isolana. Mi ha detto Vinciguerra che ti ispirerai alla crociata dei fanciulli per far cominciare la dinastia del nostro eroe dei tornanti

– Sì, il primo Ferrari, in realtà l’ho immaginato come il figlio di Ugo Ferro uno dei due mercanti che s’era venduto come schiavi i ragazzini al Sultano imbarcandoli a Marsiglia con la promessa di condurli in Terra Santa

– Jolie famille!

– Il punto però è che lui non è come il padre, anzi farà di tutto per riscattare il nome. Sarà la sua personale crociata anche se la storia della famiglia sarà per i secoli a venire segnata da quella maledizione.

L’anarchico negoziante gli aveva lasciato il resto dei cinquanta franchi sul banco. S’era ritirato nel retrobottega per tornare con un libro: una vecchia edizione della Crociata dei fanciulli di Schwob, quella curata da Borges per Franco Maria Ricci. La copertina azzurrina faceva pensare alla carta da zucchero. Franck non conosceva quella edizione. Gli sarebbe tornata utile anche perché all’inizio non era chiaro ai committenti se le puntate della storia sarebbero state in francese o in còrso, salvo poi decidere più o meno all’unanimità che l’avrebbe scritta in italiano e in un secondo momento tradurle nelle due lingue, mttendo sullo stesso piano lingua dei dominatori e dei dominati. “La lingua di Paoli!” aveva sentenziato il vicesindaco alla fine della discussione.

Quando Franck torna a casa la prima cosa che avverte è la presenza di Rosa. Ne cerca ogni traccia di passaggio – la prima cosa che aveva notato era che avesse rifatto il letto nonostante vi avesse provveduto prima di uscire. Ogni stanza sapeva di Javel, e la lavanda sulla mensola della cucina si lasciava portare dalle correnti per coprire l’odore metallico di varichina. La lavatrice era ancora in funzione e sul ripiano aveva trovato una nota, stringata, della ragazza:

“ Ripasso nel primo pomeriggio per stendere i panni. Spero le convengano i detersivi che ho usato. Per strada ho raccolto della lavanda. Non so perché ma pensavo che potesse corrisponderle come profumo. A dopo, comunque. ”

Franck si avvia sul terrazzo grande come per sottrarsi a lei e sistema il tavolino bianco da giardino in modo da poterci appoggiare il computer e i primi libri recuperati in biblioteca e utili per cominciare il racconto. Ha già in mente il titolo, Le tournant, così in francese. Perché la parola suggerisce un luogo, quello per cui è stato chiamato a scrivere, e un personaggio che di colpo ritorna sulla scena per raccontare se stesso. Ferrari, Arturo Ferrari sarà il Revenant. Ha già una fotografia. L’ha trovata sulla rivista che aveva consultato in Biblioteca, una pubblicazione curata dall’associazione Ràdiche. Rappresenta il poeta corso irredentista Santu Casanova. Non sa se l’ha scelta per il nome o effettivamente per la faccia, poco elegante, estremamente ordinaria.

Quando avvicina la sedia in metallo al tavolo ha già indossato i pesi da immersione ai polsi. La prima impressione è di vigore, e quando una volta preso posto comincia a scaldarsi le dita sulla tastiera, non ne ravvede alcun impedimento ma ne percepisce lo sforzo fisico, quello inseguito da Camon e ora da lui realizzato. A penna su un post-it ha scritto due frasi veloci ripensando al bigliettino della lavatrice:

vederti a fior d’acqua lasciarti portare dalle correnti

come quando da bambini impariamo a fare il morto

Per immergersi ha bisogno di una spinta che lo faccia tuffare nel magma di voci e suoni che diventeranno parole, poi pagine, un libro. Tra i vari appunti contenuti in una cartellina rosa pastello emerge all’improvviso la stampata della voce Corsica di wikipedia.

Separata dalla Sardegna dal breve tratto delle Bocche di Bonifacio, emerge come una grande catena montuosa ricca di foreste dal mar Mediterraneo, segnando il confine tra la sua parte occidentale, il mar Tirreno ed il mar Ligure.

Ne ammira la precisione geometrica, la sintesi di una descrizione così concreta. Si chiede chi sia il compilatore ma anche se saprebbe rintracciarne il nome, visto che ha un amico registrato proprio come contributor, in realtà ad interessarlo è proprio la vita del tipo che per ragioni che gli sono oscure ha dedicato alla voce Corsica un periodo della sua vita ma soprattutto la sua eleganza di scrittura. La prima nota con sottolineatura gialla riguarda invece il compare di Hugues Ferro, ovvero Guglielmo Porco.

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Certo, l’idea di un naufragio a pochi anni di distanza dall’eccidio del 1212, che coinvolgesse il figlio di Ferro poteva funzionare e la cosa gli suonava talmente bene che per un attimo pensò al fatto che evocasse l’acqua di vite di terra sarda il filu ‘e ferru.

 

La stesura

Cap.VIII

 

 

Franck non si è accorto del tempo che è trascorso da quando ha cominciato a scrivere le prime dieci pagine del suo memoriale. Non si è reso conto nemmeno del peso ai polsi tranne quando in una delle pause sigaretta infilando istintivamente la mano in una tasca della giacca per tirarne fuori l’accendino poco mancava che ne strappasse il tessuto. Così mentre si porta la sigaretta alle labbra ha seguito la parabola del braccio come intento in un esercizio fisico e non l’ha sentita entrare preso com’era dall’osservazione del corpo che a questo punto non gli sembrava nemmeno più il suo – una tale estraneità l’aveva provata quando dopo una partita con i suoi amici a Vincennes si era storto una caviglia e costretto a inventarsi un modo di camminare diverso s’era sentito espropriato delle sue gambe. Il profumo di lei lo spinge voltarsi e a coglierla prima nell’atto di chinarsi sulla bacinella ricolma di panni appena lavati e a seguire in quello di stendere il primo dei capi sul filo di ferro teso da un capo all’altro del terrazzo. È una camicia bianca che porta le cifre di suo fratello Geppi. Ne distende le maniche con cura e l’immagine che ne ha è la stessa di una maestra di ballo intenta a mostrare all’allievo prediletto la posizione delle braccia. Per eseguire quell’operazione Rosa ha disteso le braccia e Franck rimane come turbato dall’aureola di peli radi che sotto le braccia nude si mostrano in tutta la loro naturalezza. Distoglie lo sguardo da subito come se provasse vergogna di essersi messo a guardare, invece di vedere l’amica nel suo insieme di presenza e ospite, violando il tempo e lo spazio della ragazza. La saluta con garbo per divenire d’improvviso presente. Rosa si volta e gli sorride per ricambiare.

– Rosa, grazie mille per tutto

– Lei lo sa che sono pagata per questo, no?

– Sì, ma non di farlo con la cura che le ho visto dedicare alle mie quattro cose. E comunque, lo sa che siamo in perfetta sincronicità? Sono anch’io alla mia prima stesura

– E allora? Soddisfatto?

– Non so ancora, però…- mentre le sta parlando nota come lo sguardo di lei si sia posato sui polsi inghirlandati dal piombo- ah, dimenticavo di ringraziarla per avermi indicato il negozio di suo zio

– Le stanno bene, sa, se fossi in lei li terrei anche per uscire la sera. Le danno un’aria da galeotto e su un’isola come la nostra è un punto a favore

– Potrebbe essere la mia fuga dai piombi. Intanto signorina le presento il mio protagonista, Casanova Santu_Casanova_-_from_L'Annu_Corsu_1927

Rosa ha preso la fotografia in mano dopo essersela asciugata sui jeans e con aria interessata ha chiesto come facesse di nome

– Santu, Santu Casanova, uno dei vostri più illustri poeti

– Io non ho poeti miei. Quelli che amo appartengono a tutti; per lo più esuli e rivoluzionari.

– Le posso chiedere una cortesia?

– Mi dica pure, però sappia che le toccherà parlare mentre continuo la mia stesura. Come diceva una signora buona da cui lavoravo, i panni appena lavati dopo un minuto muoiono se non li stendi e infatti perdono ogni profumo e puzzano di morte

– Ah già, scusi. Comunque volevo solo chiederle se potevo leggerle le prime dieci pagine del romanzo. La lettura ad alta voce è il primo esame da superare per una scrittura. Se non funziona te lo dice la voce. Però farlo da solo mi annoia; posso prenderle in prestito un orecchio? Non si preoccupi, non le chiederò se le piace

– E perché? Non si fida delle mie orecchie?- per dirglielo s’era voltata e l’aveva fissato tenendosi le orecchie con le mani e piegandole come fanno i bambini quando si trasformano in mostri.

– Allora se vuole, prenderò in prestito anche la sua anima.

– E in cambio?

– Cosa posso darle? Non ho niente

– Ho visto la fisarmonica in camera. Mi piacerebbe sentirla suonare, un’aria, quella che vuole, quando avrò finito il lavoro e chiaramente quando avrà terminato la lettura.

– Affare fatto.

Franck ha recuperato i fogli del primo capitolo e mettendosi a sedere poco distante comincia a leggere il manoscritto. Si è tolto i pesi e solo allora si rende conto dalla pelle arrossata quanto stringessero. L’attacco è perentorio:

“ A nessuno è dato di sapere il giorno, il mese, l’anno preciso in cui la piccola nave che salpata da Marsiglia fece naufragio lungo la costa occidentale della Corsica, da Capo Còrso a Capo Pertusato. Se una tempesta non si fosse abbattuta sul convoglio avrebbe proseguito lungo la Sardegna prima d’inforcare la Ruta de Las islas. Che tra i pochi sopravvissuti vi si trovasse in ceppi Martin Ferru, figlio legittimo di Hugues, nemmeno il padre lo venne mai a sapere e fu un bene per le cose che sarebbero in seguito successe(…)

Mentre dice il testo, assecondandone il passo, la falcata, nei momenti di maggiore enfasi e il suo oscillare tra nature e paesaggi incontaminati, attraversati dalla fatica dei personaggi, di tanto in tanto solleva lo sguardo per cogliere in un’espressione del volto di lei un segno, per quanto minimo di consenso o di perplessità magari di non comprensione di un passaggio o di indifferenza alla storia. E invece non solo in certi momenti Rosa si fermava come per capire meglio e riprendere subito dopo la molletta di legno per fissare un pantalone o una mutanda, ma rideva con gusto dove Franck avrebbe voluto che il lettore ridesse o corrugava la fronte quando l’eroe sembrava perduto come quando nella scena dei lupi il povero Martin si salva dal branco grazie al provvido intervento di un cinghiale gigante.

A un certo punto ha perfino colto in una contrazione del volto di Rosa, quel non so che di orientale che l’aveva colpito dal primo incontro.

Quando legge l’ultima frase si alza dalla sedia e rivolge alla ragazza la domanda che darà alla ragazza la possibilità di esercitare il diritto che spetta stipulato dal principio, l’inalienabile diritto di ogni lettore.

– E allora? Soddisfatta?

 

 

La bacheca

Cap.IX

 

 

Sulla Place de la Fontaine ci sono la Mairie, il café de la Mairie, L’Eglise de Sainte- Marie, e la libreria Adelfia. Qualsiasi cosa si voglia fare, dovunque si voglia andare, mare o montagna, che si abbia in testa di percorrere a piedi nudi la lunga spiaggia di Arona o rimanere in religioso silenzio sulle calanche rosse e chiedersi come fare per raggiungere la caletta che s’intravede, è da li che si deve passare. Franck ha approfittato della bella giornata per farsi accompagnare fin lassù da Rosa. La segue nei discorsi, nelle descrizioni e nelle storie che racconta molto più vive di quelle un po’ alla volta ricostruite attraverso i libri della biblioteca e le ricerche in rete. L’acqua è sicuramente l’elemento che domina ogni cosa. L’acqua e la pietra. Tanto più conosce meno sa Franck di quest’isola che gli avevano detto – perché l’aveva letto? Perché in Francia così si diceva di questa strana gente? Di tutti i popoli d’Europa gli isolani di Corsica sono i soli che siano nati per essere continuamente infelici. Eppure a Franck, per quanto cosciente del privilegio che gli era stato accordato per quel suo nuovo lavoro, i Corsi gli sembravano tutt’altro che infelici. Anarchici sicuramente, e altrettanto certamente consci della propria storia rivoluzionaria, memoria alimentata da elementi mitici capaci di tenere insieme giganti come Napoleone o bislacchi monarchi come lo fu Theodor Stephan von Neuhoff, detto anche Teodoro I di Corsica, che per nove mesi tentò in pieno settecento di liberare l’isola dal dominio dei genovesi. Un re improbabile pieno di debiti. Ma è l’acqua che affascina Franck più di ogni cosa e a un certo punto lo dice a Rosa che un’acqua così non l’aveva vista mai.

–       L’ochji sò d’acqua- ribatte lei tenendosi un po’ distante dalla ringhiera a strapiombo sul mare come chi soffra di vertigini mentre Franck ci tiene i gomiti appoggiati mentre parla. È alto, molto più alto di lei e seppure abbia poco più che quarant’anni in realtà ne dimostra una trentina. Da quando le ha suonato l’indifférence ha un solo desiderio ed è che lui le insegni a suonarla.

–       Cosa vuol dire?

–       Che quel che vedono i nostri occhi non è infallibile

Franck si è voltato verso di lei quasi a contraddire quanto appena detto. Potrebbe essere sua figlia e Franck non ha figli. Potrebbe essere però un’amica importante e poiché di amici ne avrà bisogno per un anno, bisognava pur cominciare da qualche parte. Così girandosi verso di lei voleva solo dirle che a lei, lui credeva e che se questo era stato possibile lo si doveva di certo agli occhi di lei, per come sembravano dire più di quanto la parola potesse, ma anche i suoi che ne avevano indovinato la profondità.

Rosa si è fatta avanti tirando un bel respiro come di chi debba vincere una paura sottile del vuoto e indicandogli un punto imprecisato della spiaggia deserta gli dice:

–       Lì, vedi, alla baia d’Arone, grazie a un sommergibile sbarcarono le armi per la Resistenza. 450 mitragliatrici e 60 000 cartucce.

–       E come si chiamava ?

–       Michel Bozzi

–       No, chiedevo il sottomarino

–       Casablanca

–       Nulla in quest’isola è lasciato all’immaginazione

–       E ancora non sa nulla

 

Quando sono ritornati nel pomeriggio in paese Franck non si aspettava di trovare un capannello di persone davanti alla bacheca esterna del municipio. Man mano che si avvicinava il presentimento che la cosa lo riguardasse sembrava dopo aver preso piede cominciato a battere in segno di vittoria. Il che non era affatto cosa nuova per Franck. Come tutti coloro che escono di rado dal silenzio, che non si lasciano erodere l’anima dal linguaggio, dalla voce, dal vento delle parole, anche lui s’era dotato d’una grammatica dell’ascolto e del sentire che lo aveva reso granitico nelle convinzioni  premonizioni e che per lo più si rivelavano vere. Non aveva nemmeno attraversato la piazza che un paio di loro, fino a pochi minuti assorti nella lettura, di un comunicato? Un annuncio del sindaco? Lo avevano raggiunto per complimentarsi con lui.

Franck faceva finta di aver capito annuendo e tendendo la mano a chi protendendo la propria ne richiedeva la stretta. Solo quando il vice sindaco Vinciguerra quasi sottraendolo alla foga, per quanto benevolente dei suoi concittadini, lo prende sottobraccio, gli rivela l’arcano; di come avesse deciso in mattinata, poco dopo aver ricevuto il primo capitolo di stamparlo e affliggerlo in bacheca.

–       Affliggermi?

–       Affliggere? Ma no, cosa ha capito, affiggere, afficher, affissà a historia nant’à i muri.- aveva replicato facendosi una grassa risata

–       E allora ?

Nel giro di poche ore per ben tre volte si era trovato davanti al muro di quella domanda. Chiunque abbia avuto l’occasione di fare qualcosa che non solo pretendesse un interlocutore, per sua natura, ma che dovesse a questi per forza piacere per onorare un contratto, sa bene quanto pesante possa essere quel tipo di domanda, pesantezza da cui soltanto la risposta insindacabile e positiva del committente poteva liberare. Il primo capitolo della sua storia, della storia di un’isola di cui non sapeva nulla, di cui non possedeva alcun ricordo o memoria poetica, cui non lo legava nulla, e di cui, ne era certo, mille altri avrebbero potuto molto meglio di lui dire, era piaciuta. Non poteva di certo sapere Franck se la decisione del vicesindaco di metterla in bacheca fosse legata a una sua incertezza, a un non sapere dire se quanto iniziato fosse nella giusta direzione, dunque prigioniero anche lui di un e allora? Oppure l’avesse messa proprio per dare lustro all’impresa che lui per primo aveva architettato per la città di Piana.

–       Lo sa che nel nostro paese di Porcu e Ferro ne trova quanti ne vuole?- dice facendo riferimento ai due mercanti che s’erano venduti i ragazzini delle crociate al sultano

Sono entrati nel café de la Mairie e Franck non ha potuto rifiutare il moresque che gli è stato appena offerto. Per la prima volta si trova a faccia a faccia con lui. Ne scorge la barba ruvida, la pelle segnata dal sole come la frusta di vento fa con la sabbia senza farla sanguinare. Ne sente il tabacco delle emmeesse, inconfondibile come l’incenso in chiesa, e prova una profonda invidia per quelle mani che pesano il doppio delle sue anche se le dita agili quando stringono il baffo sinistro o accarezzano il bicchiere sembrano quelle di un pianista.

– Lo so, Vinciguerra, ma forse quello che nessuno sa è che questa è un’isola abitata da fanciulli. E aggiunge- fanciulli felici.

 

 

 

 

 

 

Attesa, apparizione, scomparsa. Un Fort/Da di Sophie Calle

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 Où et Quand ? - Lourdes - de Sophie Calle © Actes Sud 2009 per l'Opificio di Letteratura reale
Où et Quand ? – Lourdes – de Sophie Calle
© Actes Sud 2009 per l’Opificio di Letteratura reale

[Questo articolo è tratto da Le Attese – opificio di letteratura reale /2, seconda pubblicazione dell’Opificio di letteratura reale, gruppo di ricerca nato in seno all’Università degli Studi di Napoli Federico II, creato e diretto da Francesco de Cristofaro e Gianni Maffei. Il volume, curato da Elisabetta Abignente ed Emanuele Canzaniello (Napoli, ad est dell’equatore, 2015), contiene testi di: Arrigo Stara, Elisabetta Abignente, Daniela Allocca, Pasquale Bellotta, Antonio Bibbò, Vincenzo Birra, Emanuele Canzaniello, Annalisa Carbone, Francesco Chianese, Mirta Cimmino, Federica Coluzzi, Bruna Corradini, Enza Dammiano, Francesco de Cristofaro, Giovanni De Leva, Giuseppina Dell’Aria, Paola Di Gennaro, Brigida Di Schiavi, Alberta Fasano, Carmine Ferraro, Luca Ferraro, Marianna Ferriol, Fernando Fevola, Carmen Gallo, Stefano Genua, Ida Grasso, Valeria Gravina, Fausto Maria Greco, Mara Imbrogno, Michela Iovino, Giovanni Maffei, Anastasia Manna, Natalia Manuela Marino, Marilisa Moccia, Elena Munafò, Gianluca Nativo, Alfredo Palomba, Dominique Pellecchia, Viviana Pezzullo, Francesca Piccirillo, Jacopo Pignatiello, Isabella Puca, Annarita Rendina, Andrea Salvo Rossi, Chiara Salierno, Maria Chiara Sassano, Gennaro Schiano, Assunta Claudia Scotto di Carlo, Giulia Scuro, Francesco Serao, Ernesto Severino, Gabriella Sgambati, Francesco Sielo, Laura Staiano, Nicole Suppa, Ornella Tajani, Mariangela Tartaglione, Marco Viscardi. o.t.

 

di Ornella Tajani

De tout consultant, quel qu’il soit, j’attends qu’il me dise :
« La personne que vous aimez vous aime et va vous le dire ce soir »

 

Si fa assumere come cameriera in un albergo veneziano e fotografa le tracce del passaggio dei clienti nelle varie stanze. Trova una rubrica sul marciapiede e contatta tutte le persone delle quali è indicato il recapito con l’obiettivo di ricostruire, partendo dai loro racconti, un ritratto del proprietario. Chiede a dei non vedenti dalla nascita di raccontarle quale sia la loro immagine della bellezza. In vari musei, domanda ai visitatori e allo staff di descriverle i quadri che mancano perché temporaneamente esposti altrove, o fotografa le pareti vuote lasciate dai quadri rubati. Fa installare, sul Pont du Garigliano, una cabina dotata di un telefono al quale lei sola può telefonare per dialogare con i passanti che avranno voglia di rispondere. Invita centosette donne a commentare, sulla scia delle rispettive specialità professionali, la lettera con la quale il suo compagno l’ha lasciata. Dedica più di un lavoro alla madre defunta.
Basta una rapida e sommaria panoramica delle performance che strutturano il lavoro di Sophie Calle per notare una costante: le sue operazioni artistiche ruotano spesso intorno alla dicotomia apparizione/scomparsa; del resto alcuni suoi titoli, come Les Anges, Fantômes, Last seen, Disparitions, lo confermano in maniera esplicita.
Nel 2013, invitata a partecipare alle ricerche dell’Opificio di Letteratura reale sul tema dell’attesa d’amore, Sophie Calle ha inviato un testo di sua scelta, inedito in italiano, tratto da Où et quand ? Lourdes (Actes Sud, 2009), secondo volume di una trilogia. In quest’opera Calle coniuga apparizione e scomparsa – già parzialmente evocate nel titolo, che racchiude il miracolo – con il binomio attesa/ricerca.
Non sono poche le figure dei Fragments d’un discours amoureux di Barthes, testo di riferimento per i nostri lavori sull’attesa d’amore, che possono farsi indicazioni teoriche del percorso artistico di Sophie Calle. D’altronde la stessa scrittura in frammenti è tipica di alcuni autori che, nel corso della loro carriera, hanno giocato con quella che nei Cahiers de la photographie veniva definita «photobiographie»: Roland Barthes in La chambre claire, Sophie Calle in tutte le sue opere e il loro comune amico Hervé Guibert, scrittore e magnifico fotografo, sono alcuni dei nomi interessati da questa pratica scrittoria, come racconta Magali Nachtergael nel suo articolo Photographie et machineries fictionnelles.

Al di là di questi punti in comune, è chiaro che c’è un legame affascinante, per quanto incongruo, tra i membri di questo trio improbabile formato dallo scrittore, il critico e l’artista. Il loro frequente utilizzo della fotografia, il gusto per le piccole storie e per il frammento finiscono per mettere in scena dei «soggetti autobiografici» le cui strade si incrociano, a volte anche nella vita quotidiana,

scrive Nachtergael (Nachtergael 2010. Trad. mia). Mettere in scena dei «soggetti autobiografici»: nelle gallerie che ospitano i lavori di Sophie Calle, quella di cui lo spettatore fruisce è sempre, prima d’ogni altra cosa, una autobiografia frammentata. Sta in questo utilizzo della modalità-frammento il primo punto di contatto tra Calle e Barthes.
Tornando ai Fragments, lasciando da parte la figura che il semiologo dedica all’attesa, ce n’è un’altra che si presta meglio come ouverture a un commento di Où et quand ? : è quella intitolata La dernière feuille e dedicata alla magia.

Magia. Nella vita del soggetto amoroso, non importa a quale cultura esso appartenga, non mancano mai le consultazioni magiche, i piccoli riti segreti e le azioni votive (Barthes, 1977: 132).

Questo lavoro su Lourdes inizia, come il precedente volume della trilogia, con la consulenza che l’artista chiede a Maud Kristen, famosa medium francese. La domanda che apre la lettura delle carte è sempre la stessa: «Dove e quando?» – un quesito, lo si nota subito, tutt’altro che estraneo all’innamorato che aspetta. Tuttavia, nel momento in cui lo si rivolge all’ignoto, la scena si cristallizza nell’attesa di un accadimento che non si conosce e si declina in maniera diversa rispetto alla Erwartung classicamente intesa: si trasforma cioè in qualcosa di più simile a una ricerca. Seguendo Barthes in La dernière feuille individuiamo una leggera ma ben codificata distinzione grammaticale che conferma quanto detto:

Per poter interrogare il destino, c’è bisogno d’una domanda alternativa (Mi amerà/Non mi amerà), di un oggetto suscettibile di una modificazione anche semplice (Cadrà/Non cadrà) e di una forza estrinseca (divinità, caso, vento) che contrassegni uno dei poli della modificazione. Io faccio sempre la stessa domanda (sarò amato?) e questa domanda è alternativa: o tutto o niente […]. Io non sono dialettico (ibid.).

In realtà, al cospetto di un indovino, la «question alternative» di cui parla Barthes, ossia l’interrogativa disgiuntiva, si trasforma spesso in una interrogativa totale: mi ama? La risposta può essere soltanto affermativa o negativa, non ci sono vie di mezzo: je ne suis pas dialectique. Invece, la domanda di partenza della Calle è qui un’interrogativa parziale: dove e quando? – domanda per la quale «Lourdes» rappresenta un sottotitolo, più che una risposta.
In questo volume chi pone la domanda iniziale non è una donna innamorata, bensì qualcuno che desidera «andare incontro al futuro, batterlo sul tempo», come l’autrice dichiara sin dall’incipit. In questo sta la prima e fondamentale differenza tra la Calle e il sujet amoureux di cui parla Barthes, al quale al contrario questo genere di gioco con il tempo è precluso, poiché egli non è in alcun modo in grado di dominarlo.
Come mai dunque l’autrice, sollecitata a prendere parte a un lavoro sull’attesa d’amore, ha scelto proprio un estratto di questo volume, se non è specificamente d’amore che il volume tratta? Vediamo il testo:

Come si saranno incontrati gli altri, quelli che si amano ancora? I luoghi. Le date. Le parole dette… Li avrei imitati, mi sarei messa in uno stesso posto, a una stessa ora. Avrei aspettato. E visto se il miracolo poteva ripetersi.
Ieri, d’un tratto, così, senza motivo, sono andata sul Pont du Garigliano, alle otto, e ho aspettato di incrociare un uomo con un giubbotto di pelle, com’era successo a Jeanne tre anni prima, un bell’uomo di quarantadue anni, bruno, un uomo di cui aveva sentito parlare spesso perché facevano lo stesso lavoro, ma che non aveva mai incontrato, un uomo che aveva fatto le ore piccole e tornava a casa a dormire in quel mattino ventoso.
Avrebbe sorriso, avrebbe rallentato il passo, mi avrebbe chiesto se ero proprio io quella donna di cui anche lui conosceva l’esistenza. E il vento forte ci avrebbe spinti a rifugiarci nel caffé più vicino, all’uscita del métro Balard.
Ieri c’era vento, ma nessuno mi ha sorriso. Sono passati due mendicanti con un carrello del supermercato, senza guardarmi. Un ciclista si è voltato verso di me, ma ha proseguito. Alle nove ho rinunciato. Nessun miracolo. Però mi piaceva. Simulare altri incontri, andare a sperare altrove… Se questo progetto andrà in porto, lo intitolerò Lourdes.
(Calle 2009: 19. Trad. mia per tutte le sue cit.).

In questo frammento ci troviamo di fronte a un singolare tipo di attesa d’amore (o meglio dell’amore). Calle non prova alcun tipo di delirio, non ha la possibilità di dire: «Je suis celle qui attend. L’autre n’attend jamais», poiché l’altro non esiste, o non ancora. Nel constatare l’assenza dell’altro, lei non pensa: «je suis moins aimée que je n’aime». Piuttosto, si tratta di una sfida: è come se l’artista sperimentasse l’attesa in via preventiva, con la speranza che un objet aimé si manifesti, si materializzi di colpo. Calle riutilizza la scenografia dell’attesa di amori altrui, sperando che il miracolo dell’incontro possa compiersi una seconda volta.
L’attesa «che qualcosa accada» è il fil rouge dell’intera operazione messa in scena in Lourdes, all’interno della quale Calle si trasforma in una sorta di semiologo non dissimile da quello che, nei Fragments, Barthes identifica con il sujet amoureux. Una volta nella città santa – dove, su indicazione dei tarocchi, è andata a cercare qualcosa che non conosce, forse una rivelazione – l’artista studia i segni. Il 23 gennaio, ad esempio, annota sul suo diario che, passeggiando per strada, ha trovato un’insegna con il suo nome, Sophie: «pista sbagliata», commenta immediatamente. Poco dopo si ritrova davanti all’hotel Sainte Monique, e Monique è il nome della madre: un altro segno? Qui Calle svela qualcosa in più, usando una citazione: «tutte le scorciatoie iniziano a convergere sulla tua ossessione» (Calle: 113). L’ossessione di questo volume è proprio la madre morente, Rachel Monique, come da titolo di un’altra sua opera. L’artista parte per Lourdes già sapendo che la madre è in fin di vita: il volume si apre con un ironico autoritratto in cui lei si mostra con il capo coperto da uno scialle fucsia e il trucco sciolto, come una madonna Kitsch, e si conclude con un’istantanea che Calle si scatta dietro prescrizione telefonica della veggente; in questa ultima fotografia l’artista appare stanca, pallida, provata. «Torni subito» (Calle: 143), recita infatti la didascalia.
Al termine del libro, il lettore scopre di aver accompagnato l’autrice durante una sorta di attesa luttuosa e al contempo purgatoriale, poiché la morte rappresenta in ogni caso una liberazione. Al centro del volume sono poste sessantasette pagine di carta velina, semitrasparenti, in bianco e nero, sulle quali figurano i nomi delle malattie miracolosamente guarite dalla Madonna di Lourdes. Nella lista compare soltanto per imbroglio dell’artista il male di sua madre, inserito in maniera posticcia e truffaldina, certamente con un intento esoterico e bene augurante.
«Ciò che lei sta andando a cercare a Lourdes è di ordine guerriero. Un modo di celebrare il suo lutto in grande» (Calle: 97), predicono le carte prima della partenza. Il termine deuil è qui carico di due significati: il lutto è certamente quello, imminente, della madre, ma è anche l’attente-deuil barthesiana; un’attesa del lutto, in questo caso. Sophie Calle non è nuova a esperimenti di manipolazione del tempo, nei quali gioca con la ripetizione (Les dormeurs), la durata (Douleur exquise) o l’incompiutezza della fine (En finir). Alla manipolazione si aggiunge qui il gioco fantasmatico dell’alternanza tra apparizione e scomparsa, cui l’artista si riferisce esplicitamente in più di un caso: «una scomparsa comporta un’apparizione» (ibid.), annota prima di partire, quasi si trattasse di un mantra.
In effetti, in Lourdes si può pensare che l’autrice dialoghi con l’attesa, la scomparsa, le coincidenze attraverso un personalissimo gioco del Fort/Da di stampo freudiano. Analizzato nel secondo capitolo di Al di la del principio di piacere, il cosiddetto «gioco del rocchetto» è quello osservato da Freud nel nipotino di diciotto mesi, consistente nel gettare oltre la culla un rocchetto con uno spago, per poi recuperarlo, accompagnando il tutto con i due vocalizzi «o-o-o/a-a-a», che Freud identifica con i due termini «Fort» (via, lontano) e «Da» (qui, ecco). Nella lettura freudiana, per il bambino il rocchetto rappresenta la madre, laddove l’altalena fra i due fonemi è il simbolo della possibilità della sua perdita.
Come ben sintetizza lo psicanalista Jacques Sédat, Freud propone due diverse interpretazioni del gioco:

  1. Il bambino, da passivo che era, abbandonato dalla madre, diviene attivo mettendo in gioco una «pulsione di appropriazione» […] che consiste nel «rompere» in qualche modo l’oggetto, in mancanza del potere di elaborare la sua assenza.

  2. Attraverso la duplice sequenza Fort e Da, il bambino può fare a meno dell’oggetto senza doverlo distruggere, costituendolo al di fuori come oggetto perduto; egli cioè elabora psichicamente l’assenza dell’oggetto separandosene, mediante un’operazione in cui l’oggetto materno è privato della sua onnipotenza e in cui, in effetti, egli acquisisce la possibilità di assentarsi da esso (Sédat 1998).

Il primo caso rappresenta l’opzione semplice del gioco, ossia quella che prevede soltanto il “Fort”. Invece, il caso della Calle è evidentemente il secondo: l’artista si allontana dalla madre morente (Fort) per recarsi a Lourdes, quasi a caccia del miracolo che possa salvarla (Da). Mentre è in viaggio commenta: «Il mio riflesso nel finestrino del treno appare e svanisce continuamente. Inizio a scorgere ciò che sono venuta a cercare. La scomparsa» (Calle: 101), il che riconduce nel dominio del Fort. Tuttavia, l’ultimo suggerimento della veggente è: «Torni subito […]. Non ci sono segni. Tutto resta nella scomparsa» (Calle: 141). Nella città santa si resta nella scomparsa: è esattamente questo il motivo per il quale occorre tornare subito a Parigi (Da), dove la madre sta per morire.
Apparizione, scomparsa, attesa vissuta come un rito da compiere per accelerare il destino, per «andargli incontro»: è questo il triangolo intorno al quale si muove la Calle in Où et quand ? – domanda che alla fine resta inevasa. Il sottotitolo Lourdes non è altro che la traccia più evidente dell’«idéal féminin maternel» che l’artista continuamente insegue e rifugge, e intorno al quale finisce per girare disordinatamente, ma con costanza, perché esso rappresenta una delle sue più possenti ossessioni. È per questo che la dinamica del Fort/Da mi è parsa prestarsi particolarmente bene come chiave interpretativa di questo lavoro. Del resto, Catherine Mavrikakis aveva già fatto riferimento alla medesima analisi freudiana in occasione di altri lavori della Calle, come Les Aveugles:

Se Sophie ha scritto sui non vedenti e se ha lavorato sulla cecità, è evidente che il fulcro del suo lavoro è la necessità di essere vista, pedinata, fotografata, filmata. Ha bisogno di giocare con la sparizione in un fort-da freudiano che governi l’assenza e la presenza e che le metta in scena, senza che sia sempre possibile sapere se è la presenza o l’assenza a essere rappresentata, senza che sia possibile pensare l’apparizione senza la scomparsa (Mavrikakis 2006: 133. Trad. mia anche per la succ.).

Il movimento dialettico è ormai chiaro: avvicinamento/allontanamento, apparizione/scomparsa. Al suo interno, l’attesa diventa così un tentativo di giocare con il tempo: allontanando l’evento negativo che si sta aspettando, come in Lourdes (Fort); o cercando di «attirare» gli accadimenti desiderati (Da), come nel caso del frammento d’argomento più «amoroso» con il quale la Calle ha scelto di partecipare ai lavori dell’Opificio. Queste due diverse declinazioni di uno stesso esperimento di manipolazione del destino, delle coincidenze e del passato sono le coordinate di quella «volontà di creare una presenza spettrale, […] di restituire il mondo alla vita» (Mavrikakis: 136) che costituisce una delle cifre artistiche di Sophie Calle.

 

Bibliografia

Barthes, Roland, Frammenti di un discorso amoroso, Torino, Einaudi, 2001 (1979)
Calle, Sophie, Où et quand ? Lourdes, Arles, Actes Sud, 2009
Freud, Sigmund, Tre saggi sulla teoria sessuale. Al di là del principio di piacere, Torino, Bollati Boringhieri, 2012
Mavrikakis, Catherine, Quelques r.-v. avec Hervé. Quand Sophie Calle rencontre encore Hervé Guibert, in «Intermédialités : histoire et théorie des arts, des lettres et des techniques / Intermediality: History and Theory of the Arts, Literatures and Technologies», n. 7, 2006
Nachtergael, Magali, Photographie et machineries fictionnelles. Les mythologies de Roland Barthes, Sophie Calle et Hervé Guibert, «Épistémocritique», VOL. VI – Hiver 2010
Sédat, Jacques, Pour introduire l’amour en Psychanalyse, in F. Perrier, L’amour, Paris, Hachette, 1998

Inutilità del concorsone #2

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Come se non bastasse l’Inutilità del concorsone #1 gli avvenimenti dei giorni scorsi consentono una Inutilità del concorsone #2. Esse (le inutilità), nella mia testa, si armonizzano in una gigantesca Inutilità globale che finisce, tra le altre cose, per rivelare il graduale infiltrarsi dell’impolitica laddove meno te la aspetti, ovvero nella politica governativa. Che certe scelte del Governo in carica siano politicamente suicidali (sia a breve che a lungo termine) mi sembra ovvio, ma di questo mi importa relativamente. Che la politica italiana non sia in grado di uscire dal pantano in cui siamo immersi da tanto (mixando débâcle della Prima Repubblica, ventennio berlusconiano, avvento dei populismi, ecc.), giocando pericolosamente con l’ideale democratico, mi preoccupa assai di più. Prima delle riflessioni generali, però, la hit parade delle Inutilità del concorsone della settimana.

Bracciate #2- Dario De Marco

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Il secondo racconto della rubrica Bracciate è « Il triangolo del crimine », raccolto da Dario De Marco. Costui ha fatto il giornalista per quindici anni, collaborando con prestigiose testate (Repubblica, Sole24ore, Mattino, Blow up…) e contribuendo a fondare il compianto mensile Giudizio Universale; poi si è disintossicato e oggi lavora in una pizzeria in provincia di Torino. De Marco ha pubblicato finora due autobiografie, una in forma di romanzo (Non siamo mai abbastanza, 66thand2nd, 2011) e una in forma di saggio (Mia figlia spiegata a mia figlia, LiberAria, 2014). Aristide Maselli è suo cugino.

IL TRIANGOLO DEL CRIMINE

un finto noir di Aristide Maselli

Ponte Estaiada

 

Destino paradossale quello di Aristide Maselli. Brasiliano puro, ma con un nome-e-cognome che ne denuncia le chiare origini italiane, eppure pressoché sconosciuto qui da noi. Nato e cresciuto nello Stato di Minas Gerais, e quindi mineiro, che alla lettera vuol dire minatore, è invece di famiglia tanto ricca che non ha mai dovuto lavorare per vivere. Tessitore di trame linguistiche complesse, che ibridano il portoghese letterario con localismi dialettali e perfino inserti di lingue indie, è inedito in patria e pubblicato solo in Argentina, quindi in traduzione spagnola; beffa suprema, la sua gauchissima casa editrice ha un nome brasiliano, Grande do Sul.

È uscito l’anno scorso il suo secondo o forse terzo libro, che l’editore ha con scarsa originalità intitolato El triàngulo criminoso (nel risvolto di copertina si lascia intendere che il titolo caldeggiato dall’autore fosse un altro, senza però rivelare quale). È una storia la cui geometrica semplicità sfiora i limiti del didascalico.

[Attenzione: spoiler. Nelle righe seguenti viene rivelata in tutto o in parte la trama dell’opera]

Guilherme Blanco detto Billy, investigatore privato alla fine di una carriera che non è mai iniziata davvero, riceve un incarico inaspettatamente prestigioso, da parte dell’industriale Arnaldo Antunes. È lo stesso Antunes che piomba personalmente a chiedergli aiuto (non ci viene risparmiato il topos del noir vecchio stile, l’incipit con il cliente che entra nell’ufficetto mentre l’eroe indolente fuma e beve con i piedi sul tavolo: ironia metaletteraria? Speriamo), e Billy accetta anche se il compito gli sembra subito superiore alle proprie capacità. Sostiene Antunes che tale Francisco “Chico” César (l’azione si svolge tra i sobborghi e la City di una São Paulo irreale) si è messo in testa, chissà perché, di ucciderlo. Ma siccome appunto le motivazioni sono oscure e gli indizi labili, l’industriale teme che a proteggerlo siano insufficienti i gorilla di cui dispone a iosa, e tanto più l’intervento delle forze di polizia. Blanco dovrebbe seguire i movimenti di César, carpirne il movente e nel caso prevenire gli attentati alla vita di Antunes. L’investigatore si mette all’opera.

Man mano che l’indagine va avanti e gli elementi di prova si accumulano, Billy Blanco si imbatte in luoghi circostanze e persone che gli ricordano i vari episodi di una carriera costellata di insuccessi: delitti irrisolti, omicidi non evitati, tradimenti rimasti nascosti, fughe di notizie non arginate. Si inseriscono quindi nel romanzo tanti segmenti narrativi autonomi, a volte brevi, a volte invece brevissimi; un espediente che ci piacerebbe definire postmoderno, ma che alla fine è antico almeno come Boccaccio o le Mille e una notte. Questo procedere per frammenti ha però l’effetto, non si sa quanto voluto, di distogliere il lettore da un fatto rilevante. Prima ho scritto: man mano che l’indagine va avanti, che gli elementi di prova si accumulano. Avrei dovuto scrivere: man mano che l’indagine non va avanti e gli elementi di prova non si accumulano. Quasi subito infatti Billy scopre l’essenziale su Chico César: passa quattordici ore al giorno nel suo negozio di ferramenta, uscendo solo per tornare a casa; all’apparenza è una persona pacifica e fisicamente è tutt’altro che un energumeno; non sembra figurare tra le conoscenze, presenti o passate, di Arnaldo Antunes, né vengono a galla collegamenti anche indiretti tra le vite dei due. Con un ritardo esasperante, quasi surreale (d’altra parte il fatto che i protagonisti abbiano tutti e tre il nome e il cognome che iniziano con la stessa lettera, come i personaggi dei cartoni animati; il fatto che queste lettere siano A, B e C, proprio come gli angoli di un triangolo; il fatto infine che tutti e tre si chiamino come famosi cantanti brasiliani: sono cose che non contribuiscono certo al realismo del libro), finalmente Billy capisce che c’è qualcosa di losco, e che è su Antunes che dovrebbe indagare. In un lungo e appassionante capitolo il detective scava a fondo nel passato del capitano d’industria, gettando luce sulla sua misteriosa ascesa nel panorama della capitale economica, e scopre legami imbarazzanti, corruzione, sfruttamento di minori e altre efferatezze; è al fine in grado di mettere a frutto le sue capacità investigative, sente che la sua mediocre vita è riscattata; purtroppo nell’ultima riga del capitolo si capisce che è solo un programma, meglio una fantasia, un sogno a occhi aperti di Blanco.

Il giorno dopo, mentre per l’ennesima volta parla con Chico fingendo di essere un cliente, Billy ha l’illuminazione: non è César che vuole uccidere Antunes, ma Antunes che vuole morto César; e il braccio armato, tanto più efficace in quanto non consapevole, il killer designato sarebbe proprio lui, l’investigatore. Billy interrompe la conversazione e si precipita verso la porta, deciso a uscire per sempre da quel negozio, e da quella storia, quando l’anziano ferramenta che già era sospettoso (non si entra più di due volte in un negozio semideserto della periferia, facendo domande da inetto al lavoro manuale, senza farsi notare) lo aggredisce con una chiave inglese. Segue l’unica scena veramente d’azione di quello che pretenderebbe di essere un noir: la colluttazione è lunga e patetica, Billy cerca di difendersi con un trapano spento, ma senza troppa convinzione, sembra quasi che preferirebbe morire piuttosto che assecondare il piano diabolico di Antunes. Mentre César sta per sferrare il colpo decisivo, Blanco ha un’altra intuizione, che capovolge nuovamente la lettura della trama: il regista malintenzionato è sempre Antunes, ma la vittima predestinata non è il commerciante, bensì lui stesso; è l’investigatore che deve morire. E muore, perché quando cerca di sottrarsi (per salvarsi la vita, ma anche per sventare la trama del criminale, per non morire da marionetta com’è vissuto), è troppo tardi.

A questo punto avvengono ben due colpi di scena, uno stilistico e uno propriamente di intreccio. Bisogna premettere che il Triàngulo è scritto tutto in seconda persona, cioè al protagonista Billy Blanco lo scrittore dà del tu, oppure, specularmente, il lettore viene chiamato Billy, identificato con lui. È una scelta stilistica non frequente, ma neppure del tutto inedita, e nel caso di Maselli addirittura ripercorre la strada seguita nel suo romanzo d’esordio, Stringiamoci a corte: che è una finta autobiografia del suo alter ego italiano – della persona che Aristide avrebbe potuto essere se i suoi avi non fossero in massa emigrati nel nuovo mondo – e contemporaneamente una storia moderna d’Italia vista attraverso la lente del calcio, delle partite della nazionale ai mondiali. Diciamo che lì il “tu” aveva una ragione anche in relazione al contenuto, mentre qui può sembrare un semplice artificio. Fino alla fine del penultimo capitolo, che termina così: “Lo capisti solo allora, lo intuisti in che senso girava quel perverso triangolo virtuale, proprio un attimo prima che quell’esagono (un esagono! Quell’inutile superfetazione d’infiniti triangoli) fin troppo reale, fatto di inossidabile acciaio, entrasse dalla tempia sinistra nel tuo cervello, ponendo fine al suo incessante montaggio e smontaggio della realtà. E un attimo prima di perdere, per una volta vincesti. O almeno, questo è quanto piace pensare a me”.

Si gira pagina e si scopre che la voce narrante, la mai esplicitata prima persona, appartiene a Eliane Elias, la fidanzata del detective. Che ricostruisce a posteriori tutta la vicenda; e nell’ultimo capitolo vi entra in prima persona, diventando protagonista, anzi deus ex machina. La sua azione decisa ci riserva infatti un altro colpo di scena sicuro, e forse uno ulteriore ancora nelle ultime righe: pur non essendoci un vero e proprio “finale aperto” (quest’altro parassita del postmodernismo), Maselli affaccia un sospetto, e quasi con sprezzo l’abbandona alla malizia del lettore, ne faccia egli quel che vuole. A questo punto, però, raccontare oltre è davvero impossibile.



 

Inattuali

4

di Gilda Policastro

n.13

Nel dolorificio tu non tormenti gli amici con le ubbie matrimoniali
non spieghi la metafora a tua figlia con sei bella come il sole
(nella fase dei perché apocalittici e mamma come nascono)
o se, per un caso sui miliardi possibili, la incontri dove non dovrebbe stare
non accorri a documentarla, perché no, non ha alcun interesse per me,
nel dolorificio, di quanti private message sfilaccino
la tramatura dei se e dei perché non –

Nel dolorificio ci sono i pescecani o anche i cani soli,
io so e darò le prove: testimone
del non so dov’era né com’è andata,
ma se c’erano dei sorveglianti l’hanno calata
nel dolorificio e la madre spera (non pratica l’ellissi,
ogni minuto particolare)
nell’altrovevita se non altro per fotterli, fuor di metafora

Nel dolorificio mancano loro, e ne parlavi subito
ma adesso mai, perché quando era presto riavvolgeva da capo
il filo della pesca à rebours e adesso l’intervallo-ἐποχή alterna lo sconcio
del caro rimembrare con l’ombra secca dei cumuli lapidari:
sei, nel dolorificio: stecco
			     chiuso
			     giallo

Quando esci dal dolorificio ti aspettano di sotto, oppure: no,
non sanno di preciso come muoversi dentrintorno      Tutti lo fingono,
ma nessuno veramente lo apprende      tu, tu solo, nel dolorificio hai capito
la morte e la spalmi sulle nostre diatribe quotidiane come burro ontologico:
grasso che cola se non ce ne andiamo tutti come in Giovanni 
										le cose di prima non saranno
nel dolorificio a vestircene la bocca e foderarci il teschio
travisato dal make-up secolare
Quando ci siamo noi, che ne parliamo, ne parliamo sempre e non ne
profittiamo
se ci spianano la strada: un’idea nuova e l’agone dei perché nei social epitaffi
e le squadre di chi lo sa e chi no
						tu, per esempio,
l’incalzare delle fiamme di cui parlava
la depressa nel romanzo, e dall’altra parte falling man che pareva
											il sollievo ed era,
rispetto alla cosa (specie quando non erano le effettivamente fiamme
nel dolorificio, a braccarti), un modo soltanto, malgrado i differenti squilibri
e per qualcuno hobby quello che ad altri è patto
Quanto più sei giovane sarai divertito se no buh, fuori
									nel dolorificio
PG non guarisce le ossa spolpate dall’a tutti i costi dieta
con la Ferrari: ha 27 anni,
e in tre soli rapidi mesi la risolve PZ, a 41, da cirrosi in morte subitanea
LP ne ha 63 quando l’ospedale la studia da cavia degli endoscopici i più invasivi:
un successo l’intervento con tutte le metastasi
tranne quando non si evidenziavano, che poi difatti muori
nel dolorificio, d’incidente o di cancro
e se trascolori nelle giornate vuote finisce che balli
e se traballi che resta, che resta di te
fino a domani, fino a tutti i domani in cui la terra vive come opaco –
e mamma, allora, che cos’è la metafora, che cos’è
una cosa che dici con altre parole e una vita che vivi come fosse ogni giorno
morte da illeso morte e nient’altro, fin quando puoi,
e per il resto
			passo:
non sono brava, con i finali

———

NOTA: Il testo originale ha una distribuzione nello spazio e nei versi leggermente diversa, che qui si perde a causa della formattazione. [23.4.2016: formattazione sistemata. N.d.I.]

Tratto da Gilda Policastro, Inattuali, Transeuropa 2016

Per Roberto di Marco, l’avanguardia intransigente

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di Nadia Cavalera

È da poco uscito per le edizioni Pendragon “Scritti e libri” di Roberto Di Marco. Il primo libro di una serie che intende far conoscere adeguatamente un intellettuale  di punta del secondo novecento italiano, esponente del “Gruppo 63” e autore con Filippo Bettini dell’antologia “Terza Ondata. L’ultimo movimento della Scrittura in Italia” (Synergon 1993).
Questo primo volume  comprende un saggio inedito su Roberto Roversi  e il testo d’esordio pubblicato nel n.5 di “Menabò” (diretto da Elio Vittorini).
In appendice un primo elenco di preziosi  libri posseduti da Roberto di Marco, la cui vendita mira a finanziare la pubblicazione dell’intera opera dell’autore.

 

Ho conosciuto tardi Roberto di Marco, come scrittore, in concomitanza dell’esperienza di Bollettario, che, realizzata alla fine degli anni ottanta con Sanguineti, mi ha spinto anche a conoscere meglio i componenti del Gruppo 63.
E lui ne era tra i fondatori quale esponente della sperimentale  “Scuola di Palermo”, titolo di un’antologia  che ha fortemente  contestato perché equivocabile, suscettibile di far scambiare il libro per un testo didattico (mentre presentava  tre racconti  di tre autori: Roberto Di Marco, Michele Perriera, Gaetano Testa- pubblicato da Feltrinelli nel 1963, qualche mese prima che nascesse il Gruppo 63). Ma utile evidentemente per Alfredo Giuliani come base del lancio del futuro Gruppo 63.
Avrei voluto leggere subito quanto più possibile su di lui, ma all’epoca trovai in biblioteca a Modena solo Telemachia   (e ancora oggi la situazione non è cambiata), poi  mi procurai L’orto di Ulisse del 1986, recuperai Fughe a Pavullo e per la prefazione I fioretti di San Francesco a Castelnuovo Rangone. Quindi nel 2006  La donna che non c’è.
Purtroppo non conosco a tutt’oggi molto della sua ricca produzione di saggi teorici, di critica letteraria, né gli scritti politici sociologici di critica economica, disseminati in riviste introvabili (e che mi auguro ora vengano ripubblicati in toto, compresi quelli scritti per Bollettario). Solo stralci, recuperati negli anni qua e là.
Utili comunque a delineare ai miei occhi la figura a tutto tondo del  materialista comunista che lui amava essere: un intellettuale coerente e combattivo  fino alla fine contro la becera Cultura dominante. Contro le ferree leggi di  mercato che seppelliscono sempre più la letteratura “nella grande discarica della merce” .
Convinto dell’incompatibilità tra sviluppo di arte e poesia e condizioni sociali capitalistiche, è nell’impegno politico della ora tanto bistrattata lotta di classe che vedeva qualsiasi significanza operativa.
Così che è stato prima fiero oppositore , tenace contestatore della letteratura, boicottandola dall’interno (alla maniera di Sanguineti), poi instancabile assertore della sua morte.
Sempre  a caccia di un Oltre, di un Altro , dell’al di là della poesia, di un narrare differente , di una espressività diversa, non coincidente con la poeticità e affettività, ma  quale «successione di “micro-catastrofi” di senso e appunto espressioni (cioè di microformalizzazioni di atti ideo-affettivi e/o immaginativi)».
Fino a far coincidere la nozione di Avanguardia, passando attraverso la fase dell’ Avanguardia di Strada (e non del Museo di sanguinetiana memoria),  nell’Assenza della Letteratura .
Straordinari, lungo questo percorso, i suoi romanzi-saggio, o meglio saggi-romanzi, dove il tradizionale sviluppo di una traccia narrativa minima veniva a perdersi, a smarrirsi fagocitato dalla marea dei commenti sempre più politici del narratore.
Che sembrava avesse il solo fine di fare dello spettatore-lettore un lettore-osservatore (come ebbe a dire lo stesso Sanguineti nella postfazione di “Telemachia”), che messo di fronte ai fatti formulasse finalmente sue osservazioni, suoi personali punti di vista. Il testo come una ineliminabile quasi dependence del fuori, in cui ravvisare il suo vero centro. La letteratura da abitare, senza mai dimenticare che la sua centralità è nelle contraddizioni economico-sociali-politiche. Che sono fuori.
Una sorta di opera maieutica nell’invito al lettore perché facesse “egli stesso il libro, leggendolo”  e considerasse questo suo intervento capitale perché il libro si facesse. Anzi questa richiesta che avanzava costituiva «tutto il programma di lavoro dell’autore».
Poi gli pseudoracconti senza nessi e «senza una logica narrativa normale», in un’alternanza continua di miti smitizzati, incongruità di senso e gusto, il  «narrare scombinato»…
A ricordarci costantemente che la letteratura era per lui  una «locanda malfamata dalla quale occorreva fuggire subito».
E lui lo ha fatto. Si  è tirato fuori dal contesto generale che chiamava “Azienda”. Anche se questo gli è valso l’isolamento.  «Sono un escluso, un lebbroso,  ma non è la fine del mondo», confessa serenamente ne L’orto di Ulisse  .
Un legame così stretto il suo tra teoria e pratica, da farne il protagonista di un’avanguardia riservata, ma estrema, nel suo atteggiamento critico contro la stessa avanguardia più sponsorizzata negli anni sessanta e nei successivi convegni autocelebrantesi.
Perché l’accusava di essersi arenata in «storie di piccole carriere, melanconiche ripicche di letterati senz’anima, idee fasulle, tanta presunzione e un’incommensurabile voglia d’allori».
«Un’operazione culturale ben riuscita, (…)- sosteneva amaramente – anche a soffocare, depistare e accademizzare l’avanguardia potenziale che conteneva»
Non che lui credesse in un’Avanguardia permanente, ma avrebbe sperato per quella degli anni sessanta una vita più lunga.
Ecco questo l’unico punto che mi trovava dissenziente da lui e peraltro da tutti gli altri, essendo il mio sogno  proprio quello di formare una Avanguardia, pur in mutate forme,  non elitaria, di massa, rispettosa del concetto di umafeminità, e soprattutto stabile. Come d’altronde stabile e mutevole è il Capitalismo a cui si oppone. L’Avanguardia come  «polimorfico indomito contraltare del mutante capitalismo». Ne ho già parlato al Convegno “Avanguardia e comunicazione”, nel 1996.
Anche per Roberto di Marco l’Avanguardia non si può creare a tavolino o evocarla: è un exploit che normalmente rientra[1].  Ma che può ritornare anche a breve. E seppur deluso, da instancabile qual era, ne aveva intravista un’altra avvisaglia nei primi anni novanta, quanto insieme a  Filippo Bettini pubblicò La Terza Ondata. L’ultimo movimento della scrittura in Italia (Synergon, 1993). Fu questa  l’occasione del nostro primo incontro condiviso.
Che mi porterà poi nel 2005 ad inaugurare il Premio Alessandro Tassoni, col conferimento a lui dell’ honoris causa.

 

RAPPORTI CON BOLLETTARIO
Nel primi anni novanta Di Marco lesse i miei scritti che gli erano stati proposti da Bettini e io, volendolo tra i collaboratori di Bollettario, gli feci avere i primi numeri pubblicati.
Mi rispose il 12 agosto del 1992, comunicandomi innanzitutto l’inserimento nell’antologia Terza Ondata, la cui pubblicazione lui riteneva imminente (ottobre 1992) e che invece sarebbe avvenuta nel marzo 1993. Espresse perplessità sul ruolo di Sanguineti e apprezzando l’inserto su Corrado Costa (n.  19/20) mi preannunciò un convegno (che non so se sia stato mai fatto)su di lui in primavera.
Ha scritto precisamente:
« Tu, com’è giusto, sarai , con altri pochi autori, nella prossimissima (il libro esce a ottobre) Terza Ondata d’Avanguardia italiana. Del libro ti parlerò in dettaglio appena ci vediamo (telefonami: ……………).
Ho letto tutti i numeri del Bollettario  che hai avuto la grazia di spedirmi. Non mi è chiaro il ruolo di Sanguineti, che si lascia mosaicamente intervistare ma non firma mai un testo o un articolo. Sembra un semplice mallevadore. Nei tempi che si aprono occorre altro.
Ottimo l’inserto su Costa, ma faremo su di lui un convegno di studio in primavera a Reggio.». Seguono Ringraziamenti e  saluti.

Sul ruolo di Sanguineti abbiamo avuto modo di chiarirci poi. Ciò che diceva era comunque più che giusto. Ma pur di portare avanti l’iniziativa in cui credevo (la rivista l’avevamo fondata insieme ma l’input era stato mio), come stimolo alla ripresa dell’azione, la sua presenza era indispensabile, e a me andava bene così.

Personalmente ci conoscemmo a Reggio Emilia, in occasione del “Convegno di dibattito e proposta 63/93 Trent’anni di ricerca Letteraria”, tenutosi a Reggio l’ 1.2.3 Aprile 1993.
Le giornate erano scandite in questo modo:
-la prima, dedicata alle relazioni introduttive di Barilli e Luperini + serata della poesia (con vecchi autori: i Novissimi, Spatola, Vicinelli e Costa + qualche nome nuovo: Frasca, Frixione,  Voce).
– la seconda legata alla poesia + serata di narrativa. Io Leggevo in questa di venerdì 2 aprile (2 poete – io e Alessandra Berardi- e 7 poeti:  Mariano Baino, Piero Cademartori, Giuseppe Caliceti, Michelangelo Coviello, Paolo Gentiluomo, Giuliano Mesa e Enzo Minarelli)

Di Marco era tra i relatori  del 3 aprile (con lui Angelo Guglielmi e Francesco Leonetti), giorno dedicato alle letture di prosa (tra le autrici anche la figlia Mariarosa) . E in conclusione una tavola rotonda.

In seguito tante le occasioni di incontro, per festival o le varie presentazioni di “Terza ondata” a Milano, Roma, Bologna, Modena (due volte, alla festa nazionale dell’Unità e a quella di Rifondazione), anticipate proprio dal Convegno di Reggio Emilia.
Dove l’antologia era stata accolta con diffidenza dalla maggior parte dei convegnisti, tanto che Renato Barilli anni dopo, nel 2000, si è sentito autorizzato ad appropriarsi di quella sigla per epurarla evidentemente da interpretazioni, secondo lui,  improprie, e oscurare l’esperienza precedente con la sua personale panoramica.
“E’ arrivata la terza ondata. Dalla neo-alla neo-neoavanguardia” (Test&Immagine 2000) è per me un’operazione evidente di revisionismo, una mistificazione dei fatti plateale.
In questa pubblicazione si identifica la Terza Ondata in poesia  con gli autori presenti al Convegno di Reggio Emilia e definiti, per mantenere la similitudine militare che la definizione evoca, come l’ «avanzata di una falange armata procedente tetragona e compatta portandosi dietro anche, come era giusto, qualcuno degli infelici rari nantes trovatisi ad operare nei difficili e ingrati anni Settanta , come per es. Michelangelo Coviello e Enzo Minarelli». Così Barilli alle pagg. 81-82.
Nella terza ondata barilliana scompaiono, di quei nove, soltanto  Giuliano Mesa e la sottoscritta, forse adombrati nella figura degli «infelici rari nantes» ma tali da non essere meritevoli nemmeno di citazione.
Ignorata dunque l’unica  poeta dell’antologia canonica (l’unica invitata a quel Convegno proprio da Sanguineti…) e il cui libro preso in considerazione Vita Novissima  sarebbe stato definito proprio da Roberto Di Marco (in una lettera del 2003) «Testo stupendo nonostante certo sanguinetismo dello stile» ). Ignorata anche la nascita di Bollettario, a cui secondo me andava invece ascritta la percezione nell’aria del «clima nuovamente teso ed energico»  (pag. 80) che aveva costituito l’antefatto della Terza Ondata e aveva forse convinto Nanni Balestrini e lo stesso Barilli a celebrare il trentennale della fondazione del Gruppo (che in futuro divenne poi una triste consuetudine) .

Se Edoardo Sanguineti si era avventurato per la prima volta a fondare nel 1990  una rivista letteraria, forse era tempo che si rimettesse in campo la ripresa  sì, ma controllata, della Ricerca, si saranno detti Balestrini e Barilli.. Da lì il primo RICERCARE.

Sì secondo me proprio la rivista Bollettario con la scesa in campo di Sanguineti  (era alla sua prima esperienza in tal senso[2]) aveva contribuito in modo rilevante al rinnovo dell’impegno. Aveva costituito un esempio. Ed era stato questo il motivo per cui io mi ero rivolta a lui nel 1989. «C’è ancora bisogno di avanguardia»  avevo esordito nella prima lettera che gli scrissi per invitarlo a fondare con me una nuova rivista.
Comunque l’operazione barilliana non ha avuto il successo auspicato, tant’è che proprio di recente è stata ristampata invece “Terza Ondata” (Abeditore, 2014), l’edizione canonica cui bisognerà dare finalmente tutta l’attenzione che merita.

______________

[1]

Rientro da me deprecato e in cui vedo la causa di ogni insuccesso dell’Avanguardia finora registrato. Invece di un saltuario Coitus persino interruptus, come mi è già capitato di definire soprattutto il Gruppo 63, la mia proposta è sempre stata di una regolare e costante pratica (di cui può essere metafora il volo delle anatre, splendidamente descritto da Eduardo Galeano in “Memoria del fuoco”:  «Per salvarci dobbiamo raggrupparci. Come le dita di una stessa mano. Come le anatre di uno stesso stormo. Tecnologia del volo collettivo. La prima anatra si lancia e apre la strada alla seconda che indica il percorso alla terza; la spinta della terza fa spiccare il volo alla quarta che trascina la quinta; lo slancio della quinta provoca il volo della sesta che fa coraggio alla settima….. Quando l’anatra esploratrice si stanca, raggiunge la coda dello sciame e lascia il posto ad un’altra che risale alla punta di questa V capovolta che le anatre disegnano in volo. Tutte a turno prenderanno la testa e la coda del gruppo. Nessuna anatra si considera animale super per il fatto che vola davanti, né animale minore se vola in coda .».
[2] Sanguineti aveva diretto “Cervo volante” con Achille Bonito Oliva, ma per soli due anni

La melancolia come simbolo della condizione umana

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Melanconiadi Pierangelo Schiera

Quarant’anni di ricerche di Pierangelo Schiera, storico delle dottrine politiche, raccolti nel volume Società e Stato per una identità borghese. Scritti scelti. Già solo una lettura dell’indice restituisce l’immagine di un’intelligenza fluttuante, libera di muoversi in diversi ambiti storiografici – storia, storia dell’arte, della scienza, delle idee… – e capace di tenere insieme, in particolare grazie al concetto-guida di “melancolia”, riflessioni sul Buongoverno di Ambrogio Lorenzetti, sul significato socio-culturale della musica di Bach, sulla concezione weberiana di disciplina, sulla costituzione dell’identità borghese, insieme a molte altre trame. Con il consenso dell’autore condividiamo su Nazione Indiana un estratto dal capitolo “La melancolia come fattore originario del romanticismo: appunti sul caso tedesco”. Il libro, pubblicato come Quaderno n. 4 di Scienza & Politica, è interamente scaricabile in open access a questo link: < http://scienzaepolitica.unibo.it/pages/view/supplement > – altro merito del volume e dell’autore. (Alberto Brodesco)

Interrogarsi sul rapporto fra melancolia e romanticismo significa innanzi tutto chiedersi che cosa s’intenda per melancolia prima di quest’ultimo. L’ampia letteratura esistente sull’argomento mostra quanto profondamente radicata fosse la struttura della melancolia nella storia della cultura occidentale. Essa non fu assolutamente, come si sa, un’invenzione del romanticismo: bisognerebbe semmai porsi la domanda opposta, se cioè, in qualche modo, non sia stato proprio il romanticismo una creazione della melancolia. A tanto probabilmente non arriveremo, ma non ci fermeremo molto distante da lì nella nostra ricostruzione. Una cosa certa è che, nell’impiego plurisecolare, se non ultra-millenario, che il termine ebbe in tutte le lingue occidentali colte, si succedettero molti significati, anche concorrenti o in contraddizione fra loro (basti pensare alla contrapposizione più vistosa: quella fra melancolia intesa come segno di genialità o come segno di isolamento e di follia).

Tali mutamenti del campo semantico coperto dal nostro termine corrisposero sempre, com’è comprensibile, a trasformazioni profonde del modo di concepire l’uomo e la sua posizione nel mondo. Cosicché si può certamente adottare il punto di vista presentato per primo da Aby Warburg che colse nella melancolia (come espressa in particolare da Dürer nella sua famosa incisione del 1514) il puro e semplice simbolo della condizione umana. Ciò che, d’altra parte, corrisponde perfettamente alla semantica stessa del concetto di simbolo, recante in sé la radice nostalgica, se non già melancolica, della condivisione di un ricordo e di una speranza comune, forse da ricomporre in un futuro lontano.

Orbene, secondo tale interpretazione, la melancolia non può che acquistare un significato diverso tutte le volte che si afferma una nuova antropologia, una nuova concezione dell’uomo e del suo posto nel mondo. Ciò equivale a collegare la storia della melancolia alla storia della modernità, in quanto è proprio quest’ultima a segnare le svolte nell’interpretazione di volta in volta data, sul piano filosofico come su quello empirico, all’esistenza mondana dell’uomo.

È sulla base di considerazioni di questo genere che io stesso condivido l’opinione di chi vede l’inizio di una nuova storia della melancolia proprio nell’epoca in cui si afferma per la prima volta in Occidente (ed è in tal modo che, a mio avviso, nasce l’idea stessa di Occidente) la possibilità di interrogarsi liberamente sul senso dell’uomo. Ciò accade solo a cristianizzazione avvenuta, cioè dopo la svolta del Mille, allorché si può ritenere universalmente accettabile il nuovo codice basato sulla possibilità di esistenza di un mondo tendenzialmente popolato di uomini liberi, laici, responsabili e razionali, cioè moderni. Da allora in poi, la melancolia ha accompagnato (spesso dotandole di peso e di qualità particolari) le fasi successive di modernizzazione dell’umanità occidentale, scandendo fra l’altro anche il carattere più tipico di quest’ultima nella sua stessa storicità politica: che è stato – almeno fino a oggi o a poco fa – la straordinaria capacità di socializzazione e dunque di sempre più sofisticata istituzionalizzazione dell’obbligazione politica.

Non è questa la sede per diffondersi su queste cose, ma era necessario prenderla così da lontano per comprendere il possente abbrivio, la forza d’inerzia che l’idea di melancolia già possiede quando incrocia il nascere del movimento romantico di cui vogliamo occuparci qui.

Tanto più importante, allora, è tornare a sottolineare che col romanticismo la melancolia acquista un significato del tutto nuovo. Si tratta però di chiedersi, a questo punto, se è il romanticismo a dare alla melancolia quel significato o se è quest’ultima a fare del romanticismo ciò che esso è stato. Dall’XI a tutto il XVII secolo, la melancolia era stata sempre studiata e considerata all’interno della fondamentale dottrina dei temperamenti. I quattro elementi empedoclei stavano alla base della più antica fisica e filosofia greca, i temperamenti erano a loro volta la base della costituzione individuale, in cui si condensò per secoli l’intero regimen sanitatis. A parte ogni altra complicazione va ricordato che, benché il regime migliore e la costituzione ideale fossero sempre ritenuti quelli dominati dal temperamento sanguigno, fu tuttavia a quello melancolico che venne prestata l’attenzione maggiore. Al punto che il termine impiegato per designare l’umore (melancolia, appunto, nel senso etimologico di bile nera) giunse ben presto a indicare il temperamento corrispondente, cosa che non accadde per nessuno degli altri tre umori (sangue, bile gialla e flegma).

Vero o non vero che ciò sia dipeso dalla prima avvertenza, attraverso il dolore (il mal di pancia, la colite), dell’oggettività e dell’autonomia corporea da parte dell’uomo greco, è assai attendibile riconoscere nella melancolia il segno di un’individualità, ma anche forse di un’umanità, che nel contesto occidentale sarebbe appunto diventata simbolica, come ci ha suggerito il già citato Warburg. Melancolia, sofferenza, individualità, umanità, dunque. Una plurima valenza a cui la nostra idea non riuscirà mai a sottrarsi lungo tutta la sua storia, a dimostrazione dell’intrinseca bipolarità che segna l’intima strutturalità che essa ha rappresentato per la storia dell’uomo occidentale. Tale plurivalenza si traduce nel modo più indicativo sul piano stesso della politicità, che rappresenta forse il campo in cui gli uomini occidentali si sono maggiormente distaccati, nel corso di pochi secoli, dagli altri gruppi culturali umani.

Rispetto alla politica, il melancolico svolge un ruolo profondamente ambiguo. Egli è, tendenzialmente, rustico e solitario, cioè a-sociale. Egli è malcontento e intollerante di ogni “conversazione”. Egli è sedizioso ed eretico e può essere ricondotto alla ragione solo grazie all’unico strumento di cura che la sua dis-ragione (la melancolia appunto) conosce, che è la disciplina.

Ma, contemporaneamente, il distacco dal mondo sociale proprio del melancolico è la qualità più richiesta dalla politica stessa a chi si deve far carico del governo delle sorti individuali: del sovrano in primo luogo, che come garante del patto sociale è opportuno che stia sopra le parti, distaccato dagli interessi in gioco e volto soltanto alla coltivazione e al perseguimento del bene comune. Si spiega forse così la grande fortuna moderna dell’antica giustificazione aristotelica, poi anche rinascimental-neoplatonica, della melancolia in capo ai sovrani, oltre che ai filosofi, agli artisti e ai grandi anacoreti. Come si spiega anche l’opposta, maniacale insistenza sulle più diverse pratiche di disciplina per tutti gli altri soggetti-sudditi, obbligati ad apprendere, a indottrinarsi, a disciplinarsi, per rendersi capaci di una seria e reale vita sociale e dunque, per tale via, per incivilirsi.

*img : Melanconia, acquaforte di Luigi Conconi, 1852-1917

Hai sentito il terremoto. Memorie dal sottosuolo

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di Davide Orecchio

gibellina

– In Italia 25mila persone, attraverso un sito web, descrivono terremoti. Compilano questionari. Alcune di loro rendicontano la paura, le sensazioni che hanno provato, l’intensità delle oscillazioni sismiche, gli effetti sulle case che abitano. I racconti si sedimentano in un archivio digitale che va oltre la sismologia, si fa memoria e fonte dei sismi. –

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Si potrebbe cominciare dalla notte. E da una ragazza. Sei anni fa. All’Aquila. Esce dalla Casa dello studente. È aprile. La primavera già lenisce il freddo e il buio dove s’incammina quando le appare “un fenomeno molto strano”, e lo ricorderà, e lo riporterà: verso Coppito affiora la luce intensa di un colore blu, ma una luce “che non viene dall’alto”, come un fulmine che sgorghi dalla terra, rovesciato. Eppure non piove. Non c’è temporale. La ragazza vede il lampo, però. Non l’ha sognato. Lo manda a memoria. S’allontana dalla Casa che poche ore dopo deve crollare, e deve uccidere studenti. Una luce blu.

Altrove, non distante nel tempo ma nello spazio: un appartamento, un uomo solo. Mentre il sisma piega l’abitazione ai gesti di un personaggio che prende vita e paura prima di morire forse, prima di abbattersi al suolo forse, e comanda le finestre a scuotersi, le ante a oscillare, gli scaffali a inclinarsi, l’uomo si concentra solo sull’assito e gli pare che il gres sia mutato in ghiaccio. L’uomo percepisce ghiaccio. L’uomo scivola due volte su un pavimento che “sembra ghiaccio” e lo ricorderà, e lo riporterà: “Non riuscivo a restare in piedi”.

“Ho provato confusione totale. La terra è bollente.
Piccoli insetti volano bassi e tutti insieme”

Un altro invece dorme. Poi le scosse lo svegliano assieme alla compagna. Cosa ricorda? Cosa riporta? “Ho provato confusione totale”. Ma resta calmo: “Per proteggere mia moglie”. Il letto sbatte “da avanti a dietro”, s’impenna “dalla schiena, non so di quanto, forse 30 centimetri”. Gli armadi grandi attorno non cadono. Solo quelli piccoli (“scarpiere, librerie”). Finiti i sussulti esce per strada. Fuma una sigaretta. Ha l’impressione che le nuvole si siano avvicinate alla terra. E la terra, quella, “è bollente”, il contrario del ghiaccio, e “piccoli insetti volano bassi e tutti insieme”. Mentre i gatti restano immobili con le code raccolte, negli angoli di un cortile terremotato.

*

Queste memorie hanno dei custodi. Tre geologi e un webmaster dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv) – Patrizia Tosi, Paola Sbarra, Valerio De Rubeis e Diego Sorrentino – curano un sito (www.haisentitoilterremoto.it) che nel corso degli anni è diventato punto di riferimento e incontro tra la comunità scientifica e i cittadini. È qui che i quattro ricercatori hanno archiviato, e continuano ad archiviare, segnalazioni, testimonianze personali, informazioni. “Il sito – leggo nel disclaimer – è nato per monitorare in tempo reale gli effetti dei terremoti italiani e per informare la popolazione sull’attività sismica. La sua realizzazione è resa possibile grazie al contributo di ogni persona che, compilando il nostro questionario macrosismico, descrive la propria esperienza”.

Sì, c’è un questionario da compilare. Pone domande molto precise. Dove ti trovavi quand’è avvenuto il terremoto? In un edificio? A quale piano? Stavi all’aperto? In un mezzo di trasporto? Cosa facevi: dormivi, eri fermo, oppure eri in movimento? Le risposte alimentano un database immenso che, filtrato ed elaborato dai computer, ha consentito al gruppo di ricercatori di pubblicare studi e statistiche innovative sulla percezione dei sismi e di dimostrare, tra l’altro, che l’attività dell’osservatore incide più della sua posizione sull’intensità con cui avverte la scossa. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, ad esempio, una persona ferma all’aperto percepisce il terremoto più chiaramente rispetto a una in movimento, ma chiusa nel piano alto di un edificio.

Ma non finisce qui. La homepage del sito espone una cronologia di cartine. Sono le “mappe dei risentimenti dei terremoti avvertiti dalla popolazione”, elaborate utilizzando i dati dei questionari. Fino a oggi haisentitoilterremoto.it ha raccolto più di 700 mila questionari, ha rappresentato oltre 9 mila terremoti e conta su una rete di 24 mila 500 “corrispondenti fissi”. Ogni volta che la sala di sorveglianza sismica dell’Istituto segnala un terremoto, mi spiega Patrizia Tosi, “il nostro sistema invia una mail ai corrispondenti geolocalizzati nell’epicentro e oltre la stretta zona epicentrale, fino a lambire la zona del ‘non avvertito’”. Tutta l’area, infatti, è d’interesse scientifico. Inoltre, prosegue Tosi, “dal punto di vista sociale è importante far comprendere che un terremoto (o meglio i suoi effetti) non è confinato nella stretta area epicentrale, non è quindi solo causa di tragedie, ma si esprime senza soluzione di continuità dalle intensità più alte fino alle più impercettibili vibrazioni”. Le risposte inviate dai corrispondenti aggiornano automaticamente le mappe on line: “Non solo ci forniscono dati scientificamente utili, ma anche informazioni preziose per comprendere la situazione e organizzare i primi soccorsi”. E se non arrivano risposte? “È un segnale grave”, risponde Patrizia. All’Aquila nel 2009, nelle prime ore, andò così. C’era un buco di silenzio. L’epicentro taceva. Anche quella, anzi soprattutto quella, fu un’informazione.

L’Ingv si trova a Roma, sulla via Laurentina, vicino all’Eur. Quando arrivo, vedo sul confine dell’area parcheggi, oltre una rete, un gregge di pecore pascolare tra un prato e un boschetto di canne. “Qui accanto c’è un istituto agrario”, mi spiega Valerio De Rubeis sorridendo. Poi mi accompagna dentro; in questa storia. Valerio e Patrizia non sono solo compagni di ricerca. Lo sono anche di vita. “Già eravamo fidanzati ai tempi dell’università, a Geologia”, mi spiega lui mentre completiamo la visita di rito all’Ingv. “Abbiamo studiato assieme. Ci siamo corretti e migliorati a vicenda”. Adesso condividono una famiglia, dei figli adolescenti, un progetto scientifico, una stanza piena di computer.

La rete mondiale dei sismometri nasce con la guerra fredda

Entriamo nella sala di sorveglianza sismica. Qui è dove controllano 24 ore su 24 le scosse in Italia. Un orologio atomico scandisce il tempo. Dodici schermi su una parete intera di metri quadrati rilevano i segnali dalle stazioni sismiche e dai sensori. Ogni simbolo sugli schermi rappresenta una stazione sismica. La magnitudo varia sulla mappa in sfere di colori diversi. Il rosso è il più grave. C’è anche un telefono rosso, e uno bianco: servono per comunicare col ministero dell’Interno e la Protezione civile. Da questa mattina sono avvenuti già tredici terremoti, in poche ore, non percepiti da nessuno probabilmente. Valerio mi indica il quattordicesimo. Succede proprio adesso: uno schermo brilla all’altezza di Modena, la magnitudo è inferiore a 2. La rete mondiale dei sismometri – spiega Valerio – nasce con la guerra fredda. Presero a fare i test nucleari sotto terra, e a camuffarli nelle zone sismiche, dentro le onde sismiche. Così, per avere intelligenza gli uni degli altri, e dell’altrui potenza nucleare, svilupparono la scienza dei sismometri, e la tecnologia che ci resta.

Usciamo. Sulle scale Valerio si ferma e asserisce: “La verità è che i terremoti si collocano al centro esatto tra imprevedibilità e determinismo”. Mi sembra un luogo irraggiungibile, questo “centro esatto”, e caotico, e letale. Mi vengono in mente le immagini dell’Irpinia, di San Giuliano di Puglia, dell’Abruzzo. Ora entriamo nella stanza dov’è il resto del gruppo. Inizio a farmi spiegare. Loro, a differenza dei colleghi nella sala di sorveglianza, studiano gli esseri umani, il rapporto tra individuo e sisma, l’intensità, la percezione, non la magnitudo (o ampiezza) delle scosse telluriche. Alcuni considerano il loro campo obsoleto, “pre-strumentale”, ma tant’è, vanno avanti. Patrizia è – credo – la vera anima del progetto. Fu sua l’idea di creare il sito, nel lontano 1997 (con Fortran, nei labirinti dell’html). Nel 2007 l’hanno ristrutturato. Nel 2009, dopo l’Aquila, haisentitoilterremoto.it è diventato più importante e seguìto, una fonte di crowdsourcing dati e uno strumento di informazione pluridirezionale. Ancora Patrizia mi spiega che i sensori, le macchine certo sono più precise ma non basteranno mai a controllare tutta l’Italia; ce ne vorrebbero troppe. “Invece tante persone interagiscono con noi e danno sempre informazioni esatte. Anche la descrizione della paura è esatta. Non è mai sproporzionata rispetto all’intensità del sisma. Si comportano come strumenti. Sono accelerometri umani”. Il sito, in cambio, ‘libera’ i corrispondenti dall’esperienza del terremoto come un evento puramente distruttivo, un cataclisma dal quale non si torna indietro; sollecitando descrizioni, interazione, racconto, li aiuta a convivere col “fenomeno naturale”, a comprenderlo, e rinsalda anche un legame di fiducia tra gli ‘esperti’ e le persone.

“Stiamo raccogliendo le testimonianze.
Molte sono davvero suggestive”

“Da qualche tempo – aggiunge Valerio – abbiamo affiancato ai questionari un’area di compilazione libera. Qui gli utenti possono caricare i loro testi, descrizioni, storie, senza limitarsi a rispondere alle domande. Stiamo raccogliendo moltissime testimonianze. Molte sono davvero suggestive”. I ricercatori non hanno ancora deciso che uso fare di questi materiali, ma sono convinti che l’esperienza del sito, nata da motivazioni scientifiche, si stia allargando sempre più a un piano sociale ed etico.

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Si potrebbe parlare di una madre. E di sua figlia che, preoccupata, la racconta. Abita in una grande città, la signora, al terzo piano di un condominio, e non s’è accorta del terremoto. Eppure, durante la notte, “ha avuto tachicardia inspiegabile, con vampate di sudorazione atipiche per lei”. La figlia chiede: cosa significa? Devo preoccupami? Poi preme il tasto di invio.

Un uomo usa un linguaggio tecnico che si nutre di “onde non sinusoidali” non della stessa intensità ma che cambiano “con accelerazioni e decelerazioni”. Descrive poi “una sensazione di nausea e un effetto acustico onnidirezionale. Evidentemente [il terremoto] era sotto la soglia dei 200Hz, con spostamenti da destra verso sinistra”.

“Vedo la casa come una trappola.
Andare a dormire è angosciante,
temo per me e per i miei figli, ho paura dei crolli”

Una donna scrive dal sud. Confessa: “Vedo la casa come una trappola”. Abita in un palazzo degli anni sessanta, in cemento armato, ma ha paura lo stesso. Vive a un piano alto. Non rincasa più volentieri. “Andare a dormire è angosciante, temo per me e per i miei figli, ho paura dei crolli. Chissà quanta gente vi scrive con queste angosce”. Scrivere dal sud. Scrivere da una zona qualsiasi d’Italia dove non si fa più manutenzione. Neppure quel minimo che serve a non avere paura. Cosa teme davvero la donna: il terremoto o chi ha costruito la casa? Ipotizza di prendere calmanti. “La tv”, aggiunge, “non aiuta”, “trasmette in continuazione e su tutti i canali scene terribili”. Manda servizi che dicono: alla prossima scossa il centro storico della città crollerà in venti minuti. Una donna scrive dal sud: “Perché non controllano tutte le case quando il terremoto non c’è?”. Perché non ci salvano prima?

“Una grande lenta spinta come quando a un lungo treno fermo si aggancia un nuovo vagone e noi siamo all'altra estremità; ma molto meno brusca”

Si potrebbe parlare di un uomo che ha deciso di descrivere tutto. Quasi un diario di bordo. Un prodigio della memoria. Gli è sembrato “di udire qualcosa di abbastanza simile a un leggero fruscio, molto lieve, come una folata di vento; subito dopo c’è stata non una oscillazione, ma uno spostamento, come se l’edificio intero avesse ricevuto una sorta di ‘spinta’ secondo una direzione approssimativamente est-ovest”. Trattenere e rilasciare osservazioni. Prima di premere il tasto invio. “Una grande lenta spinta come quando a un lungo treno fermo si aggancia un nuovo vagone e noi siamo all’altra estremità; ma molto meno brusca”. Testimoniare. “Poi è iniziata una sorta di oscillazione moderata. Il cambio di direzione era relativamente brusco, con una ‘frenata’ netta. Quindi non un’oscillazione pendolare, in cui verso l’estremità la velocità rallenta”. Venti secondi. Poi tutto finisce. Ma il diario prosegue: “Non particolarmente impressionante sul piano emotivo perché si è trattato di uno scuotimento regolare, che non peggiorava di ampiezza e ritmo (dunque non dava la sensazione di poter evolvere in modo grave)”. Nel 1980 (Irpinia) lui viveva già qui, in questa casa. Ricorda tutto. “Rammento benissimo”. E oggi “l’oscillazione residua dei lampadari è stata assai meno ampia, ma il ‘cambio di direzione’ in ogni oscillazione nettamente più ‘secco’ e ‘bruscamente frenato’”. Clic.

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Nell’ultimo capolavoro di Hayao Miyazaki, Si alza il vento, c’è una scena indimenticabile e terribile. Raffigura il terremoto del Kantō (1923): una forza si solleva dalla terra, travolge un treno, campagne, villaggi, sembra che mugugni mostruosamente, volge verso Tokyo con le sue onde cantilenate e la devasta. Chiedo ai ricercatori dell’Ingv se sia una scena realistica e Paola, la più giovane dei tre, annuisce: “Quando passano le onde sismiche, la terra è come un grande altoparlante”.

Beppe Sebaste, uno scrittore che s’è innamorato di questo progetto, ha scritto: “Difficile non ammettere che il terremoto sia percepito dal senso comune come un disastro, un deragliamento dai binari”, come un evento “ostile, alieno”, “una sorta di capriccio venuto da una Natura ‘matrigna’. Oppure ancora come se si trattasse di un imperdonabile atto terroristico da parte di ignoti incarnati dalla Natura stessa”. “Uno dei primi importanti effetti del questionario – prosegue Sebaste – è abolire questa distanza, far acquisire una familiarità con la natura dei terremoti, creare delle relazioni naturali tra i moti della terra e i moti dell’anima umana (andare, in un certo senso, all’origine stessa di questa parola, di questa metafora, di questo paradigma)”.

Mentre li ascolto, mi convinco che questi geologi, coi loro metodi tra la teoria e l’empiria, con l’uso del web e delle parole, stanno reinventando la sismologia, la portano nella sociologia, nell’antropologia e, giorno dopo giorno, archiviano la storia stessa dei sismi percepiti dagli italiani.

*

“Avete notizia di altri casi simili al mio?”

Da una casa. Da un computer. Un uomo avvisa che il suo corpo potrebbe essere un mezzo, uno strumento che percepisce e prevede. Il terremoto. Mette le mani avanti, però. Si vergogna: “Ho una certa età. Non vorrei diventare un fenomeno da baraccone. Sicuramente ci sono altre spiegazioni a queste mie sensazioni premonitorie”. Eppure le dice, le scrive. C’è un dolore “tra coscia e inizio ginocchio” che a volte gli scuote le gambe e si trasforma in “scossette”. Ha notato che, durante la sua permanenza nella città di X, “a seguito di queste sensazioni avvenivano delle scosse telluriche, a distanza di poche ore”. Una notte, di nuovo, il dolore alla gamba gli diventa uno spasmo muscolare: “I soliti ‘sintomi’ che provo prima del sisma. Di lì a cinque, sei ore, ecco che si è verificata la scossa”. “Avete notizia di altri casi simili al mio?”. Clic.

 “Dormivo e mi sono svegliata pensando
di essere in una culla, così oscillava il letto.
Sembrava di essere in mare”

Vive in una grande città, in un vecchio palazzo, al quarto piano. Anche lui ha un problema, e lo riporta: “Riesco a percepire lievi movimenti del pavimento che, in seguito a controlli, ho scoperto essere riflessi degli spostamenti tellurici”. Vuol’essere preciso: “Per intenderci, se viene registrato un terremoto di 2,5 gradi Richter, io, non so perché, riesco ad avvertirlo. Sono quasi dieci giorni che avverto oscillare il pavimento”. Spera di non essere diventato pazzo, eppure avverte le scosse anche quando cammina per strada “e le altre persone non percepiscono nulla”. Sente “come delle onde, delle oscillazioni”. È così: spesso sentono onde lievi, oscillazioni. Specialmente se si trovano lontani dall’epicentro, se l’intensità è bassa, se l’ampiezza è minima. Una donna racconta: “Dormivo e mi sono svegliata pensando di essere in una culla, così oscillava il letto. Sembrava di essere in mare”.

Spesso. Non sempre.

Un uomo ricorda tutta un’altra esperienza. E la riporta:

Per rendere l’idea della sensazione che ho provato, immaginate un elastico teso. Un elastico che, improvvisamente, si spezza”.

Clic.

(Pubblicato su Pagina 99, Anno III, n. 3, 16-22 gennaio 2016).

(Immagine: Gibellina vecchia, il Cretto di Alberto Burri).

Tutti i ragni 6 – Ragni che attaccano

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di Vanni Santoni

6migale1Due anni più tardi, da una diversa città nordeuropea, mi aggrego a una carovana di tekno traveler, incurante del fatto che potrei non trovare da tornare indietro in tempo per il mio volo. Ora, costoro possiedono effettivamente un soundsystem ma ben presto scopro che sono soprattutto dediti all’acquisto in stock di sostanze e alla rivendita delle medesime in occasione di teknival e feste varie. Salendo sul loro camion mi ritrovo a correre per le strade spoglie dell’est Europa, a schivare pattuglie sgarrupate e sonnolenti posti di blocco, a dormire in appartamenti occupati alla periferia di Tallinn, mi ritrovo un giorno nella casa del guardiano di uno zoo ceco.

La ketamina è un anestetico per uso pediatrico e veterinario: se negli ospedali è posta sotto stretto controllo, per gli zoo ottenerla è più semplice, così come è semplice sovrastimare gli ordini e rivendere il surplus. Ed ecco i miei accompagnatori che vanno da questo guardiano ad acquistare qualche centinaio di flaconi di Ketaset. In casa ha dei terrari. Spiega che una volta lo zoo aveva una sezione con ragni, serpenti, iguana. Poi gli iguana sono morti e la sezione ha chiuso e allora lui si è preso in casa questi quattro ragni, per fargli compagnia, dice, e mentre mi spiega sento un urlo e Tchou-tchou, un francese della carovana, si tiene la mano e grida e sul palmo e sull’interno dell’indice e del medio ha degli aculei, sottilissimi, come se avesse agguantato un cactus, e il guardiano gli dice coglione o qualcosa del genere in ceco e lo spinge via e chiude il coperchio del terrario della tarantola red knee e Tchou-tchou, grande grosso e cattivo, Tchou-tchou che a Linz due giorni prima aveva rotto i denti a uno con una testata, piange come un marmocchio e guarda quei piccoli aculei e non crede ai suoi occhi e Sylvie e Rex e Thea e io ridiamo come matti e lui si incazza e dice vorrei vedere voi figli di puttana e intanto il guardiano rientra con una pinzetta e un batuffolo di cotone facendo nx nx nx.

Il mio amico Staderini, più solerte di me e dunque laureatosi ingegnere oltre che chierico, forte di un 110 e lode si trasferisce a fare un dottorato in Texas.

Al Czechtek dell’anno prima la polizia ci ha sgomberati con la forza; in tutta Europa quel movimento a cui tardivamente mi ero aggregato subisce repressioni. Alcuni amici, gente che non vive sui camion, gente a cui interessano in fin dei conti solo le feste, iniziano ad andare per festival goa, hanno del resto uno stpendio e preferiscono pagare un biglietto e farsi una settimana di rave tranquilli piuttosto che vivere il sogno dei free party e rischiare sgomberi e mazzate. La cosa mi deprime un poco e per quell’estate decido di andare a trovare lo Staderini.

Texas, la casa del ragno eremita. Quante volte avevo sfogliato il mio libro a quella pagina; quante avevo osato scrivere quelle due parole su Google images e visto uscir fuori gallerie di ferite piagate, di dita maciullate, di primi piani di questo ragno affilato, scattante, immancabilmente definito “vicious”.

Sapevo che il vicious brown recluse mi aspettava lì. Del resto nella suburbia di Houston non ci sarebbe stato molto da fare e il mio amico non era il tipo che sapeva andar dietro alla scia di locali ed eventi. Faccio dunque la valigia immaginando di andare incontro a quel ragno, già scherzando con l’idea di riportarne indietro una coppia per errore, nascosta nel bagaglio, e dare luogo a un’invasione di ragni eremita in Toscana.

Quando ne parlo al mio amico, lui mastica il suo controfiletto e dice che non ne ha mai visto uno.

L’incontro avviene al terzo giorno, mentre leggo steso sul letto, un futon ad altezza suolo. Volto il capo a sinistra e lo riconosco. Sta lì, a poco più di un metro di distanza. Inevitabile. Brandisco il libro, ma appena l’ombra del mio braccio incoccia il ragno, quello scatta via. Si nasconde in un mucchio di vestiti. Vado al mucchio, lo percuoto con una sedia, non vedo movimenti, lo percuoto ancora un po’. Inizio a lanciar via gli indumenti uno per uno, e al terzo che tiro via lo sento che mi punge. Grido e scaglio in terra quella felpa, la pesticcio e pesticcio mentre la punta del mignolo mi diventa livida. Il dolore è intenso, ma non terribile. Tuttavia sento un capogiro, mi sale una specie di febbre. Ricordo di aver visto un ospedale lì vicino, nei giorni precedenti. Prendo la macchina del mio amico e ci vado. Mi anestetizzano e mi asportano la parte avvelenata, necrotizzata. Mi mettono cinque punti sul polpastrello del mignolo, che rimarrà come smussato, rispetto alla pienezza dell’altro. Che è successo, te l’ha mangiato un ragno? Sì.

[VI – continua]

Primo capitolo

Secondo capitolo

Terzo capitolo

Quarto capitolo

Quinto capitolo

 

aforismi e dintorni/2

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Modesti tentativi per tramandare un ricordo di Nuvola scrittore

di Damiano Sinfonico

(inediti)

Attese una lettera tutta la vita; quando arrivò, diceva soltanto: “Qui piove”.

Ossequiava i suoi interlocutori con un silenzio fragoroso.

In giro chiedeva se qualcuno fosse stato in Nepal, per caso o per errore.

La sua ombra era più corta delle altre.

I racconti inediti di Bove

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di Emmanuel Bove

Bove_-_Una_visita_serale_443Come mai ero così triste? I miei libri, tutti i miei libri, riposavano nella biblioteca. Nessuno aveva parlato male di me. Nessuna preoccupazione affliggeva la mia famiglia e i miei amici. Sentivo di avere tutto sotto controllo. Non avevo motivo di temere che gli eventi prendessero una direzione per me impossibile da modificare. Non ero scontento di me. E, anche se lo fossi stato, ciò non sarebbe bastato a giustificare il sentimento che provavo.
Erano le undici di sera. Una lampada senza paralume rischiarava il mio tavolo di lavoro. Non ero uscito per tutto il giorno. Quando il mio viso non ha modo di prendere colore all’aria aperta, non mi sento a mio agio. Le mie guance sono più lisce. Trovo sgradevole la setosità della peluria che le copre. E mi disturba dovermi coricare con tanta vitalità inespressa.
Me ne stavo appisolato in poltrona. La cucitura della stoffa rossa era fissata al legno da chiodini con la testa dorata. Nel punto in cui un chiodino mancava, la sutura era più lasca. Me ne stavo immobile. Tuttavia, la mia mano tirava la cucitura, senza che me ne accorgessi, cercando di far cedere il chiodino successivo.
Fu solo quando raggiunsi tale scopo che mi resi conto di quel che facevo. Questa scoperta mi diede una gioia leggera. È così ogni volta che mi sorprendo ad agire senza averne coscienza o che scopro in me un sentimento che ignoravo. Ciò mi rallegra quanto un raggio di sole o una buona parola. Chi mi rimprovera questa piccola gioia non mi potrà mai comprendere. Mi sembra che cercare di conoscersi sia la più pura delle cose. Rimproverarmi di riflettere troppo su me stesso sarebbe come rimproverarmi di essere felice.
Bisogna però dire che questa gioia è assai fragile. Non è uniforme come quella che ci regala un raggio di sole. Sparisce rapidamente e devo cercare in me qualcosa che la rinnovi. In questi momenti, sento che tutto mi è ostile e chi ho intorno, abituato a gioie più semplici, mi appare più felice di me.

***

Stavo leggendo, quando bussarono alla porta. Era il mio amico Paul. Entrò come un colpo di vento e la porta che aveva spinto dietro di sé per chiuderla rimase semiaperta.
˗ Che cos’hai, Paul?
˗ Niente.
Il suo viso era pallido. I suoi occhi, più scuri del solito. Crollò sul divano, che sapeva essere morbido.
˗ Ma che cos’hai?
Si alzò, camminò per la stanza mentre posavo il mio libro, si accese una sigaretta, poi si rimise a sedere. Fumava come fanno i nervosi, tenendo la sigaretta mollemente. Di tanto in tanto, sputacchiava pagliuzze di tabacco.
˗ Ti supplico, Paul, dimmi cosa ti è successo.
Lo guardai. Mi sforzavo di trovare nel suo comportamento un gesto, un’espressione che mi rassicurasse. Ma niente. Se avesse avuto in mano un qualche oggetto, le sue dita avrebbero tremato. Doveva esserne consapevole perché evitava di toccare alcunché.
˗ Paul, sono tuo amico. Raccontami tutto. Sai bene che se posso fare qualcosa per te, non esiterò. Mi fa male vederti così, senza poterti aiutare.
Era in preda a un tale nervosismo da non sentire neppure le mie parole. Le vedevo passare sopra la sua testa senza mai raggiungere le sue orecchie. Sembravano pallottole indirizzate male. E proprio nel momento in cui, spossato dalla sua distrazione, io stesso non prestavo più attenzione a quanto dicevo, egli parve ascoltarmi.
Mi si avvicinò con titubanza. Come se temesse che anche il minimo rumore mi avrebbe fatto chiudere la bocca, che guardava strizzando le palpebre mancanti di alcune ciglia. La luce della lampada scivolava sulla rotondità dei suoi occhi, occultandone il colore. Scoppiò a ridere. Sì, scoppiò a ridere. Le sue dita tremavano una dopo l’altra. Alcuni denti, a me sconosciuti, apparvero dal fondo della sua bocca, denti simili agli altri ai quali però non ero abituato. Mi rivelavano qualche mistero fisico. Capii di non avere più di fronte un amico, ma un uomo come me.
˗ Perché ridi?
˗ Eh! Non lo so… È vero… non dovrei…
E continuava a ridere. Il naso sembrava più lungo in mezzo alle contrazioni del suo viso. La bocca, che aveva perduto il ritmo della respirazione, cercava di ricomporsi. Poiché in questo subbuglio, malgrado tutto, doveva respirare, il fiato gli vibrava sul palato prima di uscire.

…..

 

NdR: questo è l’inizio del primo testo della raccolta di racconti inediti in italiano pubblicata recentemente da Fusta Editore (CN), nella collana Bassa Stagione (a cura di Marino Magliani e Stefano Costa), nella traduzione di Claudio Panella.
Emmanuel Bove (1898-1945) è stato un autore molto prolifico, firmando una trentina tra romanzi e raccolte di racconti in appena due decenni di attività. La carriera di Bove ebbe inizio proprio grazie a un racconto, che convinse la celebre scrittrice Colette a favorire la pubblicazione del suo libro d’esordio, Mes amis (1924), tradotto in Italia nel 1991 con il titolo I miei amici da Beppe Sebaste per Feltrinelli, che lo ha ristampato nel 2015. Bove è un autore di culto ancora troppo poco conosciuto in Italia, soprattutto per quanto riguarda le sue prose brevi in cui esercitò al meglio un talento straordinario e di cui Una visita serale e altri racconti costituisce la prima raccolta italiana.
I protagonisti dei suoi racconti sono personaggi maschili, per lo più scrittori, che si guardano da fuori, che si guardano vivere; si tratta di uomini che desiderano controllare la propria vita ma sono perseguitati dai fantasmi del proprio insuccesso, della propria inettitudine.

 

su questo libro si veda anche: il primo amore e margutte

 

sarà presentato a Torino alla libreria Luna’sTorta (via Belfiore 50), mercoledì 4 maggio ore 20.30

 

Mind the gap. Da Chaucer a Les Blank

1

di Jamila Mascat

zahn

 

 

 

 

 

 

 

C’è uno spazio di piccole dimensioni che, nonostante tutti gli odiosi dispositivi cyborg usati per sopprimerlo, continua a resistere a oltranza: quello tra i miei due incisivi superiori.

Il nome di battesimo è diastema (dal greco, ovviamente, διάστημα) e indica negli esseri umani un vuoto d’essere che si insinua generalmente tra i due denti anteriori della mascella superiore. Erbivori come i cavalli (famosi per le gigantesche distese che separano i canini dai premolari) e roditori (privi di canini tra incisivi e molari) lo esibiscono con disinvoltura. Così anche i bambini piccoli, la cui dentizione primaria spesso presenta un corridoio d’aria in bocca, che intenerisce e in ogni caso non turba né disturba. Ma se, come talvolta accade, l’imperfezione si ripresenta quando arrivano i denti definitivi, c’è bisogno di correre ai ripari con apparecchi ortodontici di varia forma e fattura che nel giro di qualche anno dovrebbero risolvere la questione e riserrare i ranghi. Se il problema persiste, e per qualche ragione lo si vuole eliminare a tutti i costi, la chirurgia interviene per rimuovere il frenulo labiale sovradimensionato o applicando faccette di ceramica per tappare i buchi. Sembra che alla fine sia tutta colpa delle gengive, e che il fattore ereditario abbia un ruolo determinante nel 49/% dei casi.

Assurto tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta, grazie a Brigitte Bardot, Lauren Hutton, Madonna e Vanessa Paradis, a difetto più quotato nel firmamento delle dive, e poi ostentato con spudoratezza dalle mannequins del terzo millennio, stile Lara Jagger, che ne hanno fatto un’arma di ribellione contro le ingiunzioni al perfezionismo della moda démodée – il diastema, in tempi non sospetti e lontani dal glamour, aveva stregato Chaucer già nel Trecento.

Il contributo dei Canterbury Tales (1387-1400) alla canonizzazione estetica del diastema – un’ironica e irriverente canonizzazione al femminile nel segno della voluttà – è cosa nota ai cultori della materia.

Nel prologo generale dei Racconti, dove Chaucer introduce i 29 personaggi in pellegrinaggio da Southwark a Canterbury, tra il profilo di un Dottor fisico che “amava l’oro sopra ogni cosa” e “metteva tutto da parte quel che guadagnava in tempo di pestilenza” e il ritratto di un “povero parroco di campagna” che “tuttavia era ricco di pensieri e d’opere sante”, fa capolino un cammeo della brava comare di Bath*.

“Ricca di meriti” (She was a worthy womman al hir lyve /  She was a worthy woman all her life), infaticabile viaggiatrice e amante del riso e della chiacchiera, iniziata fin da giovanissima alla buona compagnia e al divertimento ed esperta in fatto di rimedi d’amore, arte di cui vantava profonda conoscenza, la wife of Bath esibisce un aspetto e una postura che tradiscono le sue inclinazioni: donna dal viso impertinente e dal colorito acceso, seduta a cavallo e finemente vestita, con scarpe morbide, calze rosso scarlatto e un immenso cappello posato sul capo.

Peccato, era un po’ sorda” (But she was somdel deef, and that was scathe /  But she was somewhat deaf, and that was a pity), nota Chaucer, e “avesse i denti spaziati, a dire il vero” (Gat-tothed was she, soothly for to seye / She had teeth widely set apart, truly to say). La versione di E. Barisone (Utet, Torino, 1981) traduce: “i suoi denti infatti erano radi”, sottolineando la scarsità più che la spaziatura a cui l’aggettivo gap-toothed invece rimanda, caratteristica a quanto pare diffusa tra i pellegrini, che, così vuole la leggenda, il gap proteggeva e destinava alle cure di una buona stella. Ragion per cui l’autore dei Racconti collega il diastema all’abitudine di girovagare (She koude muchel of wandrynge by the weye / She knew much about wandering by the way).

Nel prologo che precede il suo tale (il sesto), la Comare di Bath si racconta in prima personaVedova di cinque mariti – “E benvenuto il sesto, quando capiterà!” (Welcome the sixte, whan that evere he shal) – nata sotto il segno di Venere e Marte – “Venere mi ha dato passione e cuore, e Marte il mio trepido ardimento” (Venus me yaf my lust, my likerousnesse/ And Mars yaf me my sturdy hardynesse) – rivendica con fierezza la propria devozione all’amore (Allas, allas! That evere love was synne!/I folwed ay myn inclinacioun/ By vertu of my constellacioun) e un disinvolto e generoso appetito sessuale: “Dio mi perdoni, ma non ho mai saputo amare con discrezione. Ho sempre seguito il mio appetito, corti o lunghi, neri o bianchi che fossero; purché mi amassero, non stavo a guardare se erano poveri o di che rango” (I ne loved nevere by no discrecioun, But evere folwede myn appetit, Al were he short, or long, or blak, or whit;I took no kep, so that he liked me, How poore he was, ne eek of what degree).

Dai presunti eccessi di Venere associati al diastema discende la mitologia della pessima (o ottima) reputazione delle sue portatrici sane. E anche se non si conosce ad oggi nessuna evidenza scientificamente comprovata del rapporto tra l’esuberante attività libidica e la distanza che separa gli incisivi superiori, l’erotizzazione (maschile) del diastema (femminile) e di altre imperfezioni dentarie rimane un’idée reçue, tutta eterocentrata, dura a morire e sorprendentemente senza confini.

Nel 2015 l’Australian Dental Association (ADA) lanciava l’allarme della nuova moda dei denti-Dracula, cioè dei canini artificialmente allungati e appuntiti, divampata in Giappone nel corso degli ultimi anni e che minaccia di contagiare tutta la regione australo-asiatica. Paragonato a piercing e tatuaggi, questo intervento di dentistica cosmetica appartiene al novero di quelle pratiche di modificazione anatomica a cui in tanti si sottopongono con fierezza ed entusiasmo per ragioni che altrettanti considerano un arcano sciocco e ingiustificabile. Il trend dei denti-Dracula (in giapponese yaeba, espressione che designa precisamente denti di forma irregolare e tagliente) sarebbe diventato un vezzo diffusissimo tra le giovanissime, desiderose di apparire ancora più giovani proprio grazie a questa curiosa imperfezione concepita per restituire al sorriso un delizioso sapore infantile.

In Nigeria (e in altri paesi dell’Africa occidentale), dove il diastema è diventato un simbolo di autenticità, bellezza e fertilità e va per la maggiore, il ricorso diffuso alle ricostruzioni artificiali dei denti spaziati è stato indagato parallelamente da studi etnografici e odontoiatrici che testimoniano dell’importanza di questo fenomeno.

Sorprendentemente, invece, in Francia “les dents du bonheur” rivelano una genealogia tutta maschile. Infatti, una delle spiegazioni (non documentate ma diffuse) di questa felice designazione (l’altra allude alla dentizione decidua dei bambini, spaziata perché alterata dalla suzione del pollice, che in età adulta ricorderebbe i piaceri dell’infanzia) risale al tempo delle guerre napoleoniche, quando i soldati in guerra dovevano usare i denti per ricaricare i fucili, per aprire cioè le cartouches papier, le confezioni di carta che imballavano la polvere da sparo e i proiettili. Gli uomini che non vantavano una dentatura impeccabile venivano esentati dalla leva e potevano per questo ritenersi fortunati (da cui anche l’espressione “dents de chance”).

 

gap

Questa immagine è la foto di una mela morsa da un morso inconfondibilmente diastemico – niente a che vedere con i morsi levigati e seriali delle mele incise sul dorso di computer e cellulari. 

Il diastema è, tra le altre cose, un sigillo inscritto nel cibo, la traccia inequivocabile di un atto compiuto,  la prova schiacciante di un divieto alimentare trasgredito:

 

Les Blank (1935-2013) è un regista dalle curiose ossessioni orali – mi riferisco al cavo orale, al palato e al gusto.

Nel 1980 aveva girato una docu-inchiesta sull’aglio intitolata “Garlic is as good as ten mothers” (ispirata al detto fatidico Garlic is as good as ten mothers…. for keeping the girls away).

L’anno prima, nel 1979, aveva filmato la cerimonia di lancio all’UC Theatre di Berkeley di Gates of Heaven, opera prima di Errol Morris, durante la quale Werner Herzog onorava la promessa di mangiare una scarpa cucinata tra i fornelli di Chez Panisse con l’aiuto della cheffe Alice Waters. Addentando pezzi di tomaia, discorrendo nel frattempo di cinema, volontà, sapori e sentimenti, il regista di Fitzcarraldo teneva così fede alla scommessa fatta al suo allievo qualche anno prima: se Morris avesse completato la pellicola, Herzog avrebbe divorato una scarpa cotta. “Le scarpe, precisa, sono quelle che indossavo quando ho scommesso con Errol, perché ho pensato che avrei dovuto prendere le stesse. Avrei potuto mettermi delle scarpe più leggere, ma non avrebbe avuto senso. Non mi piacciono i codardi”. Così Werner Herzog eats his shoe (e rende omaggio a Chaplin in The Gold Rush):

Nel 1987 realizza Gap-toothed women, un documentario di 37 minuti costruito sul montaggio di récits di donne diversissime – tra cui l’attrice Lauren Hutton e l’allora giudice della Corte Suprema Sandra Day O’Connor, insieme ad altre meno note – che la natura ha unito nel segno del diastema. Ciascuna racconta la propria esperienza di una vita vissuta con lo spazio tra i denti con vergogna, fierezza, rassegnazione o, perfino, misticismo. La telecamera inquadra una dopo l’altra queste dentature vistosamente imperfette – come nell’estratto video postato poco sopra – per rendere omaggio al gap. E alle fantasie amorose del regista da adolescente: [il video che segue sembra uguale al primo, ma non lo è. Si tratta di un’intervista a Les Blank che racconta la sua infatuazione per una gap-toothed girl alle medie]:

 

______________________________________________________________

*E c’era una brava Comare dei dintorni di Bath, ma, peccato, era un po’ sorda. A tessere il panno era così pratica, da battere quelli di Ypres e di Gand. In tutta la parrocchia non c’era donna che avesse il coraggio di passarle avanti a far l’offerta: se mai qualcuna s’arrischiava, a lei veniva una tal bile, che usciva fuori d’ogni grazia. I suoi fazzoletti erano di tessuto finissimo: giurerei che pesavano dieci libbre quelli che si metteva in capo la domenica. Le sue calze erano d’un bel rosso scarlatto, ben attillate; le scarpe morbidissime e nuove. Aveva un volto impertinente, bello, di colorito acceso. Era una donna ricca di meriti, che in vita sua aveva condotto ben cinque mariti sulla porta di chiesa, senza contare altre amicizie di gioventù… ma non è il caso di parlarne proprio ora. Tre volte era andata a Gerusalemme, e di fiumi stranieri ne aveva attraversati molti: era stata a Roma, a Boulogne, a San Giacomo in Galizia e a Colonia. Aveva insomma parecchia pratica di viaggi: i suoi denti infatti erano radi. Sul cavallo sedeva comodamente, ben avvolta da un soggólo, con un cappello in testa largo come un brocchiere o uno scudo; una gualdrappa intorno ai larghi fianchi, e ai piedi un paio di speroni aguzzi. In compagnia sapeva ridere e chiacchierare; e doveva intendersene di rimedi d’amore, poiché di quell’arte conosceva certo l’antica danza“.

[G. Chaucer, I racconti di Canterbury (versi 445-476), a cura di E. Barison, Utet, Torino].

In inglese:

445         A good WIF was ther OF biside BATHE,
There was a good WIFE OF beside BATH,
446         But she was somdel deef, and that was scathe.
But she was somewhat deaf, and that was a pity.
447         Of clooth-makyng she hadde swich an haunt
She had such a skill in cloth-making
448         She passed hem of Ypres and of Gaunt.
She surpassed them of Ypres and of Ghent.
449         In al the parisshe wif ne was ther noon
In all the parish there was no wife
450         That to the offrynge bifore hire sholde goon;
Who should go to the Offering before her;
451         And if ther dide, certeyn so wrooth was she
And if there did, certainly she was so angry
452         That she was out of alle charitee.
That she was out of all charity (love for her neighbor).
453         Hir coverchiefs ful fyne weren of ground;
Her kerchiefs were very fine in texture;
454         I dorste swere they weyeden ten pound
I dare swear they weighed ten pound
455         That on a Sonday weren upon hir heed.
That on a Sunday were upon her head.
456         Hir hosen weren of fyn scarlet reed,
Her stockings were of fine scarlet red,
457         Ful streite yteyd, and shoes ful moyste and newe.
Very closely laced, and shoes very supple and new.
458         Boold was hir face, and fair, and reed of hewe.
Bold was her face, and fair, and red of hue.
459         She was a worthy womman al hir lyve:
She was a worthy woman all her life:
460         Housbondes at chirche dore she hadde fyve,
She had (married) five husbands at the church door,
461         Withouten oother compaignye in youthe —
Not counting other company in youth —
462         But thereof nedeth nat to speke as nowthe.
But there is no need to speak of that right now.
463         And thries hadde she been at Jerusalem;
And she had been three times at Jerusalem;
464         She hadde passed many a straunge strem;
She had passed many a foreign sea;
465         At Rome she hadde been, and at Boloigne,
She had been at Rome, and at Boulogne,
466         In Galice at Seint-Jame, and at Coloigne.
In Galicia at Saint-James (of Compostella), and at Cologne.
467         She koude muchel of wandrynge by the weye.
She knew much about wandering by the way.
468         Gat-tothed was she, soothly for to seye.
She had teeth widely set apart, truly to say.
469         Upon an amblere esily she sat,
She sat easily upon a pacing horse,
470         Ywympled wel, and on hir heed an hat
Wearing a large wimple, and on her head a hat
471         As brood as is a bokeler or a targe;
As broad as a buckler or a shield;
472         A foot-mantel aboute hir hipes large,
An overskirt about her large hips,
473         And on hir feet a paire of spores sharpe.
And on her feet a pair of sharp spurs.
474         In felaweshipe wel koude she laughe and carpe.
In fellowship she well knew how to laugh and chatter.
475         Of remedies of love she knew per chaunce,
She knew, as it happened, about remedies for love
476         For she koude of that art the olde daunce.
For she knew the old dance (tricks of the trade) of that art.

[dal General Prologue].

Collana Croma K (Oèdipus): un’anticipazione + un programma minimo

0

[Proponiamo un’anticipazione delle prossime uscite (Durante, Frungillo, Scaramuccia, Padua, Sirente) della collana Croma K (Oèdipus) curata da Ivan Schiavone, con un testo programmatico del curatore]

 

da Quarantore di Lorenzo Durante – Croma k 1

 

[1]

 

A chi il Nostro Figlio, il Nostro Ideale, il Nostro Cammino?

A Noi. Ti sopravviviamo, estremi, postremi, mal congiunti…

 

Nella notte cosmica

3

di Roberta Durante

Una storia a pezzi, il mondo che è finito e unica testimone una vecchia bambina che fa la Sirenetta intorno al globo domandandosi se sia davvero tutto qui. Oppure un viaggio a tappe, dove si oscilla continuamente tra il

dis-astro e la perfezione, il viaggio dell’umanità e delle cose verso la dissoluzione cosmica o l’involuzione dell’universo.

La Terra, limitata e condizionata dal tempo, dove il viaggio comincia; il Cielo, stato cuscinetto che assorbe le miserie del mondo e infine la Luna, sconosciuta e attraente, dove tutto finisce ma per ricominciare e come un metallo fuso si riforma, nel buio che fa sparire ogni cosa. E non resta che fingere che sia tutto vero.

 

Terra

 

la luna m’interruppe “troppo entusiasmo – disse non va bene
che tu non creda – continuò
che farti un giro senza gravità ti renda più leggera”;

la gravità del mondo avrei capito dopo

non era trasformabile in veste d’astronauta

*

e continuai come un elenco
a dire tutto ciò che mi passava per la testa:
le fantasie represse
i passi falsi già studiati
tutte le finte raccolte fino ad ora in una scatola

svuotata come al porto la mattina
coi pesci mezzi vivi e mezzi morti sulla strada

 

 

 

 

 

Cielo

 

non c’era carica né forza “eppur mi muovo”

dissi poi borbottando già in quel modo

neanche una chiave sulla schiena tipo bambola

facevo il carillon in carne ed ossa

giravo su me stessa
con asse al centro quella corda

poco più di kebab colava la mia essenza sulla terra

 

*

l’immagine era questa:
le nuvole sotto di me fatte a tappeto bianco tipo pelle polare
e il mio colore rosa pallido di pelle molle che da sotto lo bucava;
divenni così l’iniezione nel cielo
l’ago che da terra
forava ed apriva tutto il manto stellare

 

 

Luna

 

era la prima volta
che mi sentivo proprio nello spazio
aprivo e richiudevo le mie braccia
le gambe lisce come tazze
si aprivano nell’aria senza traccia di cammino:

facevo la Vitruvio distante anni luce
dalla mia gravità

 

 

Aiace paranoico

1

Ajax_suicide

 

di Alfredo Palomba

Così come lo dipinge Sofocle nella tragedia omonima, l’eroe Aiace reca in sé tutti i segni della paranoia e può essere preso a modello esemplificativo e caso-limite per rappresentare come la condizione paranoica agisca sull’individuo, sia esso antico o contemporaneo, empirico o narrativo. La tragedia sofoclea si apre a fatto già compiuto: beffato da Atena, che ha suggerito «immagini fallaci alle sue ciglia» (Sofocle; v. 62), Aiace ha compiuto una strage di greggi e pastori, convinto invece di aver sterminato l’esercito degli Achei. Il pomo della discordia è costituito dalle armi del defunto Achille, reclamate da Aiace in virtù della sua forza, ma assegnate ad Odisseo: le voci più grosse della giuria sono infatti quelle di Menelao e Agamennone, alleati del figlio di Laerte. Il migliore dei greci è dunque l’abile Odisseo, non il forte Aiace: non ne possiede, quest’ultimo, la complessità, le sfaccettature, le doti ‘femminili’ di intelligenza e pragmatismo. Il suo unico interesse, l’unico, pulsante intento che lo muove è, come ci conferma Luigi Zoja, dimostrare al mondo di essere l’eroe più potente:

Avendo un solo interesse, esistendo solo in quell’interesse, il suo modo di vita è la solitudine. Aiace si nutre di pensieri solitari. Ma il vuoto di persone e di interessi è contrario alla natura della psiche, che reagisce riempiendolo. Pian piano le presenze rifiutate nella realtà riappaiono nella mente. Rigettate come realtà, riappaiono come incubi e ossessioni. È il ritorno vittorioso di quel che si voleva negare. La vita mentale di Aiace è sospetto pronto a esplodere. (Zoja, 2011; 9)

Aiace è un solitario. Non chiede aiuto agli dèi, sente di non averne bisogno. Tale tracotante ostinazione, unita a una convinzione semplice e sfacciata di sentirsi nel giusto, lo rendono inviso ai numi, che non tollerano l’indifferenza. Aiace, pur sempre umano, si sente onnipotente e ciò lo mette di fronte a rischi gravissimi. Zoja riflette su come pensiero tragico e pensiero paranoico non siano compatibili, anzi:

Sono due opposti. La tragedia non voleva solo intrattenere, ma educare: insegnare che la vita è contraddittoria: l’uomo vuole il bene ma contribuisce al male, la volontà è niente perché non sa cosa vuole davvero.

Aiace non sbaglia perché sbaglia, ma perché, cedendo alla paranoia, è dominato da un’unica idea, sorda alla complessità umana. Da quando quella idea fissa gli si è rivelata, crede di aver capito l’essenziale. (Zoja, 2011; 10, 11)

Quest’unica idea lo isola dal mondo, lo spoglia del sostegno di dèi e compagni, lo mette in competizione con gli altri guerrieri. E le armi di Achille sono state negate proprio a colui al quale spettavano di diritto. «Poco alla volta, la mente di Aiace non vede più alternative. Le armi di Achille non sono più un premio, una possibilità, sono una necessità. Le armi sono tutto. E le armi si riscattano con le armi» (Zoja, 2011; 11). L’enormità della sua ossessione è tale da farlo sentire circondato da nemici che hanno complottato contro di lui e da non permettergli più di aspettare. Infatti, tra tutti i nemici che il soggetto paranoico vede intorno a sé, uno dei più infidi è l’impersonale tempo. Una volta concepita la sua idea il paranoico non può attendere, deve attuarla subito: «Come non accetta spazi vuoti nel pensiero, così non li accetta nel tempo. Non vuole rinviare» (Zoja, 2011; 12).

Così Aiace esce nottetempo dalla tenda per uccidere Agamennone, Menelao e l’odiato Odisseo, ed è solo grazie alle immagini false di Atena che l’ira viene sviata e la strage evitata. «La sua trappola è stata l’autoinganno di chi troppo si affida alla solitudine e al sospetto» (Zoja, 2011; 12). Già folle di rabbia e spintosi troppo in là nelle sue fantasie persecutorie, Aiace è stato ulteriormente ingannato: e la beffa è delle più crudeli. Il possente, tremendo eroe ha bagnato la terra del sangue di pastori e pecore. Il successore del prode Achille, il braccio armato della Grecia è stato ridotto, da Atena, a vile macellaio. «E rider d’un nemico è il più bel riso» (Sofocle; v. 95), sussurra la dea a Odisseo.

La paranoia rende ridicoli. Ma possiamo anche rovesciare la prospettiva: le risate degli altri risvegliano la paranoia dormiente. Chiunque può diventare ansioso, se gli altri ridono di lui e non sa perché. Il riso, infatti, contagia il gruppo proprio come l’aggressività. Spesso è aggressività trasformata. Quando il sospetto vede nemici, il nemico più atroce è quello armato non di spada, ma di una risata. Il sospetto, però, scopre nemici o li crea? […]

L’incapacità di ridere è il più antico indicatore di paranoia. La capacità di farlo è la più istintiva difesa contro questo male: non per niente è un tradizionale strumento di difesa per un popolo vittima di attacchi paranoici, quello ebraico. Il derubato che sa sorridere, ha detto Shakespeare, ruba a sua volta al ladro. (Zoja, 2011; 12)

Sostanzialmente vuota e refrattaria al riso, la mente di Aiace non può riempirsi d’altro che di sospetto e attesa di un nemico da sgominare; «chi vive in mezzo alla diffidenza non vive fra uomini, vive fra avversari. E il solo dovere verso gli avversari è sconfiggerli» (Zoja, 2011; 14). Quando la questione delle armi di Achille gli fornisce un movente per passare all’azione, egli è pronto. Tuttavia il mattino, che con la moglie Tecmessa ha portato la notizia della reale entità del massacro, non riserva oro ad Aiace, ma il sapore plumbeo della disillusione e l’orribile paura del pubblico scherno. Il «risveglio non lo libera, ma lo rinchiude nell’eterna prigione del rimorso» (Zoja, 2011; 14). L’unica via d’uscita dal dolore, per l’eroe, è quella di darsi una morte onorevole: dopo aver conficcato nella sabbia l’impugnatura della spada regalatagli da Ettore in cambio della sua cintura, Aiace le corre incontro e si lascia trafiggere: «fa, di quella spada, un uso capovolto. Il rovesciamento dei processi simbolici è una tragica ricorrenza nei paranoici di ogni tempo: nelle menti armate di sospetto la creatività dei simboli si trasforma in distruttività, il processo vitale in processo mortale» (Zoja, 2011; 17, 18).

Aiace può a ragione essere considerato un modello paranoico per la tendenza a creare un sistema chiuso di sospetti e immagini fasulle che si autoalimenta e costringe l’eroe tragico ad agire al di fuori della norma, ma conformemente a una norma che egli stesso ha creato e ritiene coerente e ‘giusta’. L’eroe rivela la propria folie raisonnante o folie lucide, delle molte denominazioni di “paranoia” quella più antica, usata in Francia già ai primi del diciannovesimo secolo. La paranoia, allora, appartiene sia al sistema di pensiero della ragione che a quello del delirio; essendo così ambivalente essa riesce a dissimularsi ed è, rispetto ad altri disturbi della personalità, molto più difficile da riconoscere. È un vero e proprio ‘stile sragionante’ che «non solo non si oppone alla ragione, ma finge di collaborare con lei» (Zoja, 2011; 20): passibile di colpire anche il più insospettabile tra gli uomini e da considerarsi sempre più come possibilità che come malattia. Possibilità che colpisce in genere un soggetto di età media e intelligenza media o superiore alla norma, tendenzialmente insicuro e propenso a proiettare all’esterno le ragioni di insuccessi e frustrazioni personali, capace di offrire informazioni minuziose, se atte a convincere l’interlocutore delle proprie ragioni, ma attento a non esporsi troppo perché consapevole della facilità con cui gli altri potrebbero fraintenderlo. Un soggetto che, come Aiace, si isola dal mondo. «Poco alla volta perde i sentimenti, mentre si raffina come macchina, fino a costruire un sistema razionalmente plausibile, che ha al suo centro un complotto organizzato contro di lui da una coalizione crescente di nemici» (Zoja, 2011; 24).

Questa sua solitudine, che è causa ma anche conseguenza della sospettosità, è spezzata dalla fantasia di essere al centro dell’interesse di tutto il mondo. Il motivo per cui le persone non gli riconoscono alcun merito non risiede nella sua effettiva carenza di qualità, ma in una coalizione dovuta alla gelosia altrui, che gli impedisce di riscuotere il successo ambito e dovuto. Il delirio di grandezza, in questo modo, non fa che crescere all’interno di un circolo autotelico e autoreferenziale che sempre più esclude il paranoico dalla società e da una onesta presa di coscienza delle proprie reali capacità, attitudini, debolezze. È facile a questo punto incrociare «le componenti «laterali» più frequenti della paranoia: megalomania e invidia, che vengono attribuite ai rivali ma in realtà appartengono al soggetto» (Zoja, 2011; 24). La bipolarità del paranoico, quindi, pone lui da un lato e il resto del mondo dall’altro, in un regime di sospetto che alimenta se stesso radicalizzandosi e distorcendo sempre più il reale. Nei casi di paranoia estrema, da questo regime può scaturire la cosiddetta sindrome da accerchiamento accompagnata dalla convinzione che attorno a sé si stia architettando un complotto. E proprio come una bestia che si crede accerchiata, quando è convinto di aver subito un torto il paranoico agisce con sproporzionalità, con la replica esagerata ed esasperata di chi crede che quel torto sia solo la punta di un iceberg, l’inizio di una persecuzione.

Ogni forma di paranoia completa è una costruzione logica edificata a partire da un nucleo delirante e da un assunto di base falsificato. Col paranoico si può discutere la parte logica del suo pensiero, ma il nucleo centrale, anche se chiaramente falso, rimane indiscutibile e incorreggibile. Esso precede la logica. Non appartiene alla razionalità ma alla vitalità. […] [Il paranoico] Possiede una verità immediata che non richiede giustificazioni, ma che a sua volta tutto giustifica. (Zoja, 2011; 25)

Abbiamo visto come Aiace, caso emblematico di megalomania e delirio di persecuzione, faccia un uso allusivamente ‘capovolto’ della spada di Ettore, conficcandola nella sabbia per l’elsa e trafiggendo con la lama colui che è divenuto il suo peggior nemico, se stesso: l’inversione delle cause è infatti un elemento molto frequente nel soggetto paranoico. Se l’assunto di base è falsificato (o rivoltato), di tutte le prove che ne smantellerebbero la tendenziosa interpretazione viene fatto un uso a sua volta opposto: esse non riportano il soggetto alla realtà tramite l’evidenza e la logica, ma ancor di più lo isolano, radicandolo nelle proprie convinzioni. Le prove al contrario alimentano il circolo vizioso della paranoia, accumulandosi e trasformando il sospetto in evidenza. «Si attiva in tal modo un’altra caratteristica di questo male, l’autotropia: una volta posta in moto, la paranoia ha la capacità di alimentarsi da sola» (Zoja, 2011; 25). E il circolo vizioso tende vieppiù a chiudersi, perché i vari sintomi che lo sostanziano si trovano in rapporto di reciproca dipendenza e si tengono tra loro, incastrandosi e combaciando come i tasselli di un puzzle. Il paranoico, convinto delle macchinazioni ai suoi danni operate da altri o da un ‘Altro’, diventa riservato, tendente a non dichiarare a gran voce, in pubblico, le sue teorie. Egli circonda cioè di un segreto quasi religioso le sue convinzioni, che assumono i connotati di una ‘fede’ rivelata, coesa e funzionante alla perfezione.

Una variante del segreto è […] l’allusione (in inglese innuendo, espressione latina che significa «fare appena un cenno», anche senza parlare). Essa lascia in vita l’equivoco e aperte le interpretazioni. L’allusione paranoica, però, non si limita a «dire senza dire»: contiene anche una minaccia e una sfida. «Fra coloro che mi ascoltano», sottintende, «c’è il nemico. Egli sa che parlo a lui e che lo combatterò».(Zoja, 2011; 25, 26)

Il paranoico ha ben chiaro, in conclusione, il sentiero da percorrere, e può cominciare a percorrerlo con una certa lentezza. Tuttavia, abbiamo già visto come egli consideri il tempo uno dei suoi nemici: ha fretta e, guarda caso, il sentiero che decide di percorrere non è mai in piano, ma inclinato. Prima o poi la sua pendenza diverrà tale che egli, rigido e fragile al contempo, non potrà più controllare il suo passo, mutato in corsa e, infine, in caduta libera. Il paranoico, anti-autocritico, «logico e impossibile, coerente e contraddittorio, umano e disumano» (Zoja, 2011; 28), precipita lungo la strada imboccata più o meno consapevolmente, con la sua maschera da personaggio tragico, «che però non copre il volto di un eroe, ma quello di un essere radicalmente insicuro, che inganna anche se stesso» (Zoja, 2011; 28).

 

Bibliografia

  • Sofocle, Aiace, Venezia, Marsilio, 1999
  • Luigi Zoja, Paranoia. La follia che fa la storia, Torino, Bollati Boringhieri, 2011

 

Le concrezioni e i precipitati del senso nella poesia di Martina Campi *

2

di Sonia Caporossi

Sette giorni in ospedale.

Sette giorni di odissea e smarrimento, di caduta a picco nei meandri stordenti della propria identità franta. La stessa durata del viaggio di Dante nei tre Regni. Lo stesso periodo della Genesi.  E in questa sorta di Bildungsroman in forma di poemetto, per certi versi quasi mistico ma anche molto legato al verumfactum delle proprie concrezioni di realtà, si raddensa la dimensione esperienziale messa in versi da Martina Campi. La saggezza dei corpi racconta infatti un viaggio dentro gli “asettici inferni” (Sereni) delle corsie dell’ospedale in cui la poetessa è stata ricoverata per un malore la scorsa estate, episodio di vita vissuta che apre un percorso autobiografico di riconoscimento allo specchio in cui, poeticamente, l’Autrice vuole in qualche modo superare i ristretti confini della propria singolarità per cercare (e trovare) il bandolo della matassa universale periodicamente disperso e ingarbugliato dall’umanità tutta, dibattendosi col tema, proverbialmente carico di difficoltà espressive (e filosofiche), del senso e della perdita di senso.

Per ottenere un tale risultato poetico, e soprattutto per renderlo con quella leggerezza di immagini, ritmi e suoni che è da sempre tipica del suo versificare, Martina Campi rabbercia e rinsalda con i punti di sutura del linguaggio “l’anello che non tiene” (Montale), riallacciando brano a brano, in una definizione unitaria, lo spazio nel tempo e il tempo nello spazio, facendo tornare sinolo ciò che nel male e nel dolore si dà per scisso. L’Autrice, alla fine del proprio viaggio all’interno di se stessa, giunge così alla consapevolezza che il cronotopo, quando la patologia inganna i sensi, non è altro che una convenzione poetica, per cui ci vuole ben altro rispetto al semplice individuarne i confini e le modalità per potersi dire vivi o anche solo presenti a se stessi. Ecco perché il nesso tra lo spazio e il tempo può essere sciolto e ricucito come e dove l’esperiente vuole, anche e soprattutto in certe situazioni di vita al limite, come nella fenomenologia dello spaesamento e del distacco dalla linearità del tempo tipiche della malattia.

Per riuscire a tradurre in poesia un’esperienza di tale profondità e coinvolgimento, alla Campi è sufficiente la pratica poetica di ciò che si potrebbe definire come il circolo ermeneutico fondante che collega descrizione e sensazione, tale che, partendo dall’abituale descrizione di sensazioni, la poetessa riesce a esprimere l’inusuale, lo scarto, la sensazione delle descrizioni, fondendo dimensione interiore ed esteriore, soggettiva e oggettiva, all’interno d un dominio topologico compiutamente estetico.

L’ingresso in ospedale, in questo senso, è vissuto come un’ectopia della mente, un esodo dai sensi e dal senso delle cose (“è un fiume oggi la ferrovia / dal quale straripano i binari e oltre / gli argini folli i fogli, i sedili / galleggiano e si allontanano, lasciati (andare, / via) c’è una mano tra i palazzi e un muso / tra i raggi del sole che sbatte e sbatte ancora / da dove vieni? dov’è trascorsa la notte?”). Il mondo esterno si allontana, si sfalda, perde le sue certezze e i suoi punti fissi in una catabasi straniante all’interno delle proprie asfittiche paure, la principale delle quali, la perdita del controllo di sé, del proprio corpo e dell’interazione col macrocosmo circostante, è espressa attraverso espedienti poetici ben delineati, come ad esempio le ripetizioni (“non c’è acqua? Non c’è acqua?”, frase rivelatrice delle prime avvisaglie del malore); oppure attraverso l’uso di parentesi rivelatorie, epifaniche (“forse sono gli occhi, ed è un tentativo / quanta è la realtà dentro (agli occhi) / cedevole e ondeggiante, e distesa e sensibile / quanta, ne puoi (toccare con gl’indici), questa / o la pianta dei piedi, un divenire (divampare) / in linea retta per la via / il corridoio, (quanta) nelle braccia / aperte, camminando / e se fosse molto, molto più mossa / (di quella che si può restituire) / e se fosse molto / molto più rotonda?”); o ancora, attraverso l’uso di immagini ricolme di densità semantica e aggettivale, come improvvise finestre che si spalancano sui significati abituali cogliendone l’essenza immediata ma contemporaneamente cercando di riottenerne il dominio semantico ad ogni istante e ad ogni passo, per non smarrirsi (“avremmo forse voluto spalancare (preferendo) / le braccia, tra l’oggi / e il domani di carta carbone / raccontato, necessario, riverso / mescolarci forse alla pioggia / tradurci nella luce / avvicinarci / un poco, di più, almeno / concederci un’adeguata quantità / di sguardi amorevoli / disarmare gli elefanti / credere alle mani / avremmo forse preferito (davvero) / trattenere le armate / sconfinare sorrisi, a tavola / scambiarci il sale e il pane”).

Ed ecco che, in ospedale, la condizione di “straniera alla vita” (Pagliarani) che la poetessa mostra senza remore e senza veli, si riverbera in quieta ob-sessione attraverso l’enumerazione morbida e ovattata degli oggetti e dei fantasmi sfuggenti della corsia (“gli aghi nel braccio e le coperte di lana /  il freddo disumano della stanza”), attraverso la considerazione scarna e minimale dei gesti così nuovi e alienanti eppure immediatamente divenuti abitudinari, avvolti dal feltro protettivo e tranquillizzante di una normalità autoimposta proprio a contrasto con l’eccezionalità di una situazione eteroimposta: quella del ricovero in nosocomio improvviso e indesiderato.

L’immersione evanescente delle cose quotidiane nella cappa diafana del color bianco che avvolge e permea le pareti, le lenzuola, le luci al neon dei corridoi e delle stanze, strappa sistematicamente quegli stessi oggetti dal loro contesto d’uso, li pone in evidenza, li ionizza e ne fa galleggiare il substrato di realtà nell’amnio di una parvenza disvelata in senso heideggeriano, laddove l’aletheia altra non è che la surreale presa di coscienza della perdita di coscienza che subito diviene un livello superiore di coscienza. Il bianco è il colore degli ospedali, il bianco è il colore dei manicomi che accolgono il Degente Archetipico e lo proteggono nell’alveo sospeso e atemporale delle sue cannule, dei suoi aghi e delle sue brande; e la “terra straniera”, così, non è più dentro la corsia, è “fuori”, se è vero che il ricovero è paura e malattia ma anche, nella dimensione evenemenziale della krisis, l’ottenimento confortante e salvifico di una consapevolezza: quella di essere “scampate al sospetto /  della bruta follia”.

Tra l’incipit che riguarda l’entrata in ospedale e la fine che inquadra la strada percorsa a ritroso, in un rientro verso l’ovocita familiare delle quattro mura di casa, nel panta rei esteriore del nostos e del ritorno, scopriamo che lo straniamento non riguarda i giorni e le ore trascorsi nel ricovero all’interno del quale invece la protagonista si è subito adattata ricostruendo una dimensione ovattata e familiare  (“andiamo a farci una nuotata, a turno / nel nostro bagno in comune e in accordo / e andiamo a nutrirci insieme ch’è il mezzodì / al tavolino, ai piedi del muro (arid’osso): / quando restiamo tra noi ci scambiamo gli avanzi / e ci diciamo buon appetito, (ti sia gradito) / guardiamo i morti passare / nei silenzi, che le voci bisbigliano rosari”); lo straniamento, piuttosto, come si scopre fin dal secondo giorno, riguarda invece lo scollamento e il discidium col fichtiano Non – Io, cioè col mondo esterno all’ospedale, che solo era prima considerato reale (“perché fuori è una terra straniera / fuori è tutta un’altra storia / e anche loro che arrivano, con l’amore / nelle borse, e le migliori intenzioni”).

Come in un gioco di specchi e di maschere pirandelliane, insomma, si scopre che l’esser stata sradicata dalla propria quotidianità a causa della veemenza della malattia ha consentito alla poetessa di raggiungere un livello superiore di percezione e di ermeneusi del mondo, laddove il poeticum risiede nel segno che è imago a se stesso, nel prepotente divario tra dentro e fuori o, con le parole della Campi, nella scissione tra “vita normale/vita in sospeso, chiusa, malata, condivisa con perfetti estranei; che poi, anche se il tutto è durato pochi giorni, erano loro il mio mondo, e stranieri invece i visi di tutti i giorni, gli affetti, le abitudini”. E così, prima o poi si rompe il nuovo equilibrio, come se l’unico equilibrio consistesse nel tornare ogni volta a smarrire il lume della candela (“e so che dovrete andare / e so che dovrò andare anch’io / per diverse stanze, corridoi / che non s’incontrano più / abitudini che attraversano il caldo / agguantano i bianchi del giorno irreversibili / le ore / scorrono / non curanti / dalle terrazze / dalle sale d’attesa / dalle stanze con la televisione”). Ecco che, oltrepassando il cancello del nosocomio dopo la dimissione, quasi accecata dalla luce esterna che apre un rinnovato squarcio sull’antica ferita dell’autoriconoscersi (“troppo il sole / in una volta, sola”), i parenti, gli amici accorsi a prenderla divengono all’istante “sconosciuti alla fretta / sconosciuti alle conversazioni / ai come stai / che te ne pare”; e allora diventa difficile riallacciare i rapporti con ciò che la stessa poetessa, in un colloquio privato, ha avuto modo di definire in questi termini: “il sole, guardarsi indietro, il silenzio, le conversazioni di convenzione, ricercando la normale familiarità con la propria vita”.

In una tale esperienza emozionale di inversione di contesto si fatica molto, in genere, a tornare in se stessi, a recuperare la vestizione della maschera, ma si ottiene in compenso la vantaggiosa condizione del cecchino che può sparare sulle macchie, sulle incongruenze e sui punti oscuri del sistema heisenberghianamente osservato cogliendo le asperità scabre delle concrezioni di realtà in costante mutamento e rivoluzione: un sistema aperto, quello del proprio microcosmo irriducibilmente in conflitto col macrocosmo, e proprio per questo, modificato e modificabile nel momento esatto in cui viene guardato, ovvero versificato; finché poi, alla fine “[…]  tutto ritorna com’è / e tutto intorno s’aggira fino / ai prossimi giorni, ignoti”.

Martina Campi è riuscita, in questo breve poemetto, a lanciare uno sguardo oltre il confine del senso, giacché, come scrive Emilio Garroni,  “l’artista sta sempre, esemplarmente, sul discrimine invisibile che separa senso e non senso; così come, non esemplarmente, ci stiamo tutti”: compito dell’arte e, precipuamente, della poesia, è proprio scardinare le certezze convenzionali della norma e la stessa aderenza del circolo ermeneutico tra significato e segno, per aprire squarci dis-velatori (sempre con Heidegger), che possano generare costruttivisticamente barlumi di alterità all’interno delle precipitazioni chimiche del qui-ed-ora. Altra funzione, a ben vedere, la poesia non ha: e Martina Campi dimostra con questa sua opera matura di saperlo molto bene.

* Prefazione a Martina Campi, La saggezza dei corpi, L’Arcolaio, Forlì 2015.

Tre racconti dell’astratto

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di Hugo Bertello

IL PONTE DI DARJEEN

 

Racconto perché si deve pur continuare

 

 

 

…tua madre deve averti detto ieri di non sporgerti su questo pozzo senza fondo tu le chiederai ancora stanotte perché non ha fondo e nuovamente ripetendosi lei ripeterà perché esce dall’altra parte del mondo.

GUILLHERMO CABRERA-INFANTE: TRE TRISTI TIGRI

 

 

 

1 Il principe Darjeen sapeva solo una cosa: detestava il mare. 2 Il principe Darjeen desiderava soltanto una cosa: vedere cosa ci fosse oltre, al mare. 3 Recatosi di fronte al seggio, disse, «Padre, vorrei implorare il vostro aiuto.» 4 «Per quale motivo figlio mio?», rispose il sovrano. 5 «Per la costruzione di un ponte.» 6 «La vostra richiesta mi pare ragionevole, eppure non conta ponti a sufficienza il nostro regno? 7 Più di venti uniscono le sponde del fiume Pajal, altri dieci legano ad occidente e ad oriente le terre d’Urlad, due altissimi e solenni portano alle nostre residenze sul lago, 8 mentre infiniti altri superano gli infiniti ruscelli che donano vita a tutto ciò che io possiedo e che un giorno tu possiederai.» 9 «Mio padre e mio re, capisco le vostre rimostranze, ma il ponte di cui vi parlo non ha nulla in comune con quelli che già si innalzano sulle nostre acque.» 10 «Non capisco, di che ponte si tratta, figlio mio? 11 Dove dovrebbe sorgere? E quali terre vorrebbe avvicinare?» 12 «Padre, invero non vi sono terre che vorrebbe avvicinare. 13 Il mio ponte avrà una sola sponda: partirà dalla costa e proseguirà dritto verso il mare.» 14 «Figlio mio, le tue parole sono per me motivo di grande sorpresa. Ero certo che avessi giovato dei precetti più sensibili ed educati, 15 come sei giunto ad una considerazione tanto spropositata quanto un ponte con una sola sponda?» 16 «Mio re, il proposito è notoriamente schiavo della conoscenza. 17 Dovete sapere che tale ponte porterebbe i più grandi vantaggi al regno.» 18 «Abbi la grazia di spiegare.» 19 «Da molti decenni i nostri uomini migliori come le navi dagli scafi più robusti e le polene pregiate si perdono nell’intenzione di trovare una nuova terra che sorga oltre l’orizzonte, 20 quella terra promessa al popolo e della quale non si ha avvisaglia da tanto tempo, 21 il cui ricordo risiede solamente nei libri degli antenati.» 22 «Il fato non ci è stato certo d’aiuto.» 23 «Con la costruzione di questo ponte, la ricerca di ciò che si cela dietro l’orizzonte si farebbe finalmente più agevole. 24 Gli uomini, anziché affidarsi a bordo di fragili vascelli alle cieche volontà del mare, potrebbero lavorare di giorno alla costruzione di robuste volte e campate, 25 e di notte fare ritorno ai propri figli ed alle proprie mogli, percorrendo a ritroso la strada alle loro spalle.» 26 «Certo, tale istanza parrebbe vantaggiosa.» 27 «Inoltre voi, padre, sareste capace di verificare l’avanzamento dei lavori di persona, in qualsiasi momento, 28 e se a distanza di pochi mesi – o piuttosto di anni – dovessimo arrivare alla terra anelata, voi potreste raggiungerla montando in sella al vostro cavallo, 29 e non ci sarebbe limite alla quantità di pietre preziose e di animali esotici che potreste riportare nel regno, 30 meravigliando i vostri sudditi.» 31 «Caro figlio», concluse il sovrano, «il vostro ingegno mi sorprende. Vi dono la mia più incondizionata approvazione.» 32 La costruzione del ponte di Darjeen venne annunciata dal suo inventore a bordo di un calesse d’oro, 33 e la notizia fu accolta tra le grida di gioia del popolo. 34 I lavori iniziarono all’alba del tredicesimo giorno. I sudditi del regno, senza eccezione alcuna, si misero immediatamente al servizio della grande impresa. 35 Non ci fu sarto, fabbro, contadino, allevatore, scultore, maniscalco o manovale che non dedicò tutto sé stesso per favorire il più rapido avanzamento dell’opera. 36 Nelle prima due settimane, il ponte avanzò di più di tre campate al giorno, e più il suo limite ultimo si allontanava, più l’entusiasmo di Darjeen e dei suoi uomini cresceva, 37 consapevoli che la meta si stava poco alla volta avvicinando. 38 Alla fine del primo mese, il ritmo di costruzione dovette poco alla volta rallentare, 39 dacché le profondità delle acque richiedevano un pilastro sempre più lungo prima di offrire un appoggio sicuro. 40 Alla luce delle nuove necessità, non fu un solo uomo a scoraggiarsi, 41 poiché un nuovo grido d’incitamento emerse gioioso tra essi, «Abbiamo cominciato, dobbiamo pur continuare!» 42 Mentre le risa ed i canti si facevano pascimento per gli animi, i materiali da costruzione venivano estratti con maggior frenesia. 43 Osservando il ponte dalla cima del monte, esso appariva ora come una linea bianca e perfettamente diritta che si stagliava sullo sfondo azzurro del mare, 44 sulla cui lunghezza si spostavano in continuo riciclo carri ricolmi di basalto, di granito, di luccicante alabastro e di enormi assi di legno, 45 come altri che si muovevano vuoti in direzione opposta, pronti a ripartire al traino di buoi, di cavalli e dei loro nocchieri. 46 Allorché la sottile riga arrivò a toccare l’orizzonte nel punto in cui esso si trovava per chi lo contemplasse dal regno, il principe Darjeen dispose la costruzione di un’immensa cattedrale, come primo presagio della terra lontana. 47 Non appena il maestoso edificio venne perfezionato in ogni sua guglia ed in ogni suo guizzo, il principe indisse una sfarzosa inaugurazione, 48 a cui ebbero l’onore di partecipare tutti gli uomini e le donne della regione, 49 così come il re, sempre più compiuto nel prestigio crescente di cui godeva. 50 I festeggiamenti durarono tre giorni e tre notti, 51 e non vi fu alcun conteggio delle coppe di vino versate e dei beni della terra che furono distribuiti ad ognuno secondo le proprie volontà. 52 L’opera riprese con rinnovato slancio, ed il ponte proseguì nella sua lenta conquista. 53 Tra le mura del regno, da quelle ricolme di ornamenti fino alle altre più umili e spoglie, di nulla si parlava se non dell’immane impresa. 54 Con l’avanzare delle stagioni, l’intervallo che separava l’estremità ultima dei lavori dalle terre ferme diventò tale da impedire agli uomini un ritorno alle tiepide abitazioni una volta terminata l’ora del lavoro. 55 Il ponte venne dunque allargato di un tratto sufficiente ad ospitare un piccolo villaggio, dove le mogli ed i figli di chi donava il proprio vigore al magnifico progetto potessero alloggiare. 56 Il re tornò a fare visita al figlio, e si rallegrò di ciò che vide, 57 giacché il suo regno continuava ad espandersi, non solo in terra, ma anche in mare, 58 contando ora una città in più che in precedenza. 59 Darjeen ed i suoi compagni continuarono ad avanzare per molti anni su quella linea retta e giusta, 60 e non dubitarono mai che la terra oltre l’orizzonte fosse sempre più prossima, 61 con il solito grido che si alzava al cielo, «Abbiamo cominciato, dobbiamo pur continuare!» 62 Se inizialmente per sottrarre una decina di metri all’acqua servivano pochi massi dislocati ordinatamente l’uno sull’altro, e poi decine su decine di blocchi del pesante materiale, 63 ormai per gettare una singola campata era necessario riversare in mare un’intera montagna, 64 trasportata dal continente a bordo di innumerevoli carri che gli animali trascinavano da sé, ormai sciolti dalla mano dell’uomo. 65 La distanza dal fondo divenne tanto più grande, e se la qualità migliore di chi lavorava era prima la forza, ora questa diventava la pazienza, 66 poiché giorni e settimane e stagioni intere potevano trascorrere mentre la roccia bucava la superficie e si perdeva in fondo alle acque, 67 senza mai traboccare. 68 Un debole scoraggiamento fece breccia tra Darjeen ed i suoi compagni, prontamente temperato dalla stessa frase che sorgeva come un balsamo dalle loro bocche, «Abbiamo cominciato, dobbiamo pur continuare!» 69 I contatti con il regno divennero tanto più frammentari quanto il cammino che separava i due estremi arrivò a superare i cento giorni, 70 ed allora quando i visitatori da paesi lontani giungevano nel regno e domandavano, «dov’è il principe?», e poi, quando il padre se ne andò, «dov’è il re?», 71 i sudditi non potevano far altro che rispondere, «È là», indicando il mare. 72 In mezzo a silenzi lunghi anni, dalla costa si poteva ogni tanto scorgere una minuta figura percorrere il ponte a ritroso, 73 un messaggero mandato dal principe Darjeen per annunciare, «I lavori vanno avanti! La terra è vicina!» 74 Trascorso un tempo poco inferiore alla vita di un uomo, ogni comunicazione dovette cessare. 75 Chi si trovava sulla terra, continuò a lavorare incessantemente all’impresa, osservando gli infiniti carri contenenti i frutti dei loro sacrifici gettarsi dietro l’orizzonte senza mai nulla restituire; 76 molti presero a domandarsi se vi fosse alcuna grazia nella costruzione di un ponte con una sola sponda, 77 un ponte che vada dritto all’orizzonte e verso una terra spendente in tutte le sue proprietà, tranne in quella di farsi sostanza. 78 Eppure non uno solo tra i sudditi voltò le spalle al magnifico progetto. 79 Se non per rimanere fedeli ad un antico ideale, perlomeno perché tutti ebbero l’accortezza di domandare: 80 che popolo è un popolo che abbandoni il proprio re in mezzo al mare? 81 Chi si trovava sull’estremità più sola proseguì nella paziente costruzione, vivendo dei doni del mare e di quei beni che i carri interminabili portavano loro, 82 con la stessa semplicità con cui il calore asciuga il panno steso al sole ed il pesce abbocca all’amo. 83 Numerosi piccoli templi vennero eretti, ognuno contenente il più ricco artefatto oppure un solo singolo ramo, 84 trasportato dalla superficie dell’acqua e dal fluttuare delle correnti come preghiera di una terra lontana. 85 A distanza di molte stagioni, il giovane principe Darjeen si fece prima uomo, poi vecchio, ad infine lasciò quel mondo terreno. 86 Non per questo gli uomini ed i figli degli uomini smisero la sua maestosa ambizione. 87 Continuarono ostinatamente allora a costruire il ponte, e lungo il ponte – qualora ne fosse fatta esigenza – una città, 88 seguendo un grido che si faceva ormai cantilena, «Abbiamo cominciato, dobbiamo pur continuare!» 89 Nonostante le esclamazioni, a poco a poco ciascuno di essi dimenticò il motivo del proprio stare su quella strettoia in mezzo al mare. 90 Ogni uomo ed ogni donna, se si trovava tra gli altri, non era allora che un impostore, 91 giacché non era gioia che esprimeva, ma la sua finzione; non un credo, ma la sua immagine bianca. 92 Eppure naturalmente perseverò nel compiere i gesti che chi prima di lui aveva compiuto: 93 porre pietra su pietra, aspettare, osservare le pietre perdersi, anche per anni, innalzare infine una piccola volta, una tremula campata. 94 Quando sull’estremità del ponte non rimasero occhi che avessero incontrato il profilo della terra, 95 non più uno fu in grado di stabilire se questa esistesse veramente, 96 o se non fosse una leggenda che i padri avevano raccontato loro di notte, attorno al fuoco, 97 per rassicurarsi ed ammansirli, e per fare sì che il giorno dopo, con un nuovo sole, si svegliassero in quel punto in mezzo al nulla e 98 decidessero che valeva la pena di continuare, 99 perché una volta che si è iniziato, si deve pur continuare.

 

 

POSTILLE A DISCREZIONE DEL LETTORE

 

 

A centinaia ed alcuni anni di distanza dalla vicenda appena narrata, il regno di Darjeen ha cessato di esistere. Sul trono si è insediato un nuovo re, che ha promulgato nuove leggi e deposto le antiche tradizioni. L’approvvigionamento di carri che fino a poco tempo prima ancora si muovevano senza sosta in quella direzione che dalla costa punta dritta all’orizzonte è stato interrotto, e chiunque faccia riferimento alla tremenda costruzione viene additato in quanto infermo. Tale evenienza eppure si verifica di rado, poiché nessuno ha più interesse a sapere cosa si nasconda oltre il mare. A questa regola fa eccezione un giovane uomo, che un mattino di una stagione prodiga di fiori stabilisce di lasciare ciò che ha, per tentare l’attraversata. Omaggiata la propria famiglia e disposti nel bagaglio pochi abiti e gli attrezzi per la pesca, il giovane poggia il piede sulla superficie ferma del ponte ed inaugura la religiosa processione. Lungo la strada visita un’immensa cattedrale, non più intera ed ormai spoglia di ogni suo bene; riposa nelle sottili città e nei casolari dei costruttori, dove rinviene ora un tavolo, ora una scodella, così come preghiere e disegni che si rincorrono e ritraggono montagne, e pascoli, e specie terrestri e marine; preme i suoi passi sulla stessa incisione, che dalla pietra ritmicamente si ripete ancora, «Abbiamo cominciato, dobbiamo pur continuare!», oppure, «La terra è vicina!»; trascorre le notti a sottrarre un pesce al mare e a contemplare l’abisso scuro di sotto e quello pieno di luci là sopra, chiedendosi se vi sia un ponte che unisca i due fra loro. In un giorno di sole, poi, scorge in lontananza una flebile linea, poco meno azzurra dell’orizzonte. Avvicinandosi con lentezza – dacché gli anni sono ormai tanti –, si commuove nel constatare che le macchie indistinte si fanno docili colline, magnifici alberi esotici e palazzi mai visti. Giunto alla meta tanto cercata, poggia con fatica il piede nel porto, e rivolgendosi ad un ambulante, dice, «Buon uomo, io che ti parlo vengo dalla parte opposta. Dal mare.» E poi, «Mi sai dire che città è questa?» «Dove mi trovo?» L’altro, guardandolo negli occhi con comprensione, fermamente risponde, «Questa è Chennai, città orientale dell’antico regno di Darjeen. Non lo sapete? Il ponte è terminato.»

 

 

 

 

 

 

 

IL GIOCO

 

Racconto concentrico

 

 

 

La mia operazione è stata il più delle volte una sottrazione di peso.

ITALO CALVINO: LA LEGGEREZZA

 

 

 

E do i primi due colpi e la crepa è piccola, ha la forma di un fiore, e ne do altri dieci e si apre più grande – come un airone, dieci e poi dieci e coi calcinacci che scendono arriva a coprire il profilo di un uomo, e solo due ancora e vien giù la parete, così l’attraverso ma trovo altro spazio con un’altra parete e i primi due colpi ben assestati una stella ed Orione, ed altri due un poco leggeri: è una rondine in volo, e continuo a colpire e mi guardo attorno e tutto è uguale, di fronte il bianco da non superare e l’erba di sotto ed il cielo di sopra, e non so più da quanto è iniziato, così siedo per terra per sentirmi più solo, ed ogni cosa che esiste là fuori che può essere pensata la penso ed in quell’istante mi reca dolore, e le braccia non reggono e allora mi dico riposo e risposo, meglio svegliarsi domani oppure anche oggi e ricominciare e do i primi due colpi e la crepa è piccola, ha la forma di un fiore, e ne do altri dieci e si apre più grande – come un airone, dieci e poi dieci e coi calcinacci che scendono arriva a coprire il profilo di un uomo, e solo due ancora e vien giù la parete, così l’attraverso ma trovo altro spazio con un’altra parete e i primi due colpi ben assestati una stella ed Orione, ed altri due un poco leggeri: è una rondine in volo, e continuo a colpire ma non ricordo neppure di chi fosse l’idea, se mia o se sua, di certo prima del gioco però nulla era uguale, noi due nella casa pomeriggi interi a fare origami, e la carta si intreccia ed ecco la rana e poi il tulipano, e lei che innaffia una pianta con lo stesso bicchiere che usa per bere e a sera chiude le tende fino al mattino, e nel buio mi dice che sarebbe più bello essere in tanti e di tenerci strette le dita perché non si stacchino se ci addormentiamo ed io adesso raggiungo il prossimo cesto di pane ed è ancora raffermo, quasi ammuffito, e deve esser lontana ci vuole pazienza – dovrò aspettare, e do i primi due colpi e la crepa è piccola, ha la forma di un fiore, e ne do altri dieci e si apre più grande – come un airone, dieci e poi dieci e coi calcinacci che scendono arriva a coprire il profilo di un uomo, e solo due ancora e vien giù la parete, così l’attraverso ma trovo altro spazio con un’altra parete e i primi due colpi ben assestati una stella ed Orione, ed altri due un poco leggeri, è una rondine in volo e continuo a colpire e mi guardo alle spalle e la ferita è profonda: la sento vicina, e immagino le sue tenere mani sporche di calce e di creta, a lavorare, e non si ferma nemmeno un minuto e non pensa a Nina e al piccolo Lucio a casa e sua madre e la colazione insieme al mattino, e cammino in cerchio una volta a vedere se un pezzo è mancato ma lei è accorta non dimentica nulla così non mi resta altro da fare, e do i primi due colpi e la crepa è piccola, ha la forma di un fiore, e ne do altri dieci e si apre più grande – come un airone, dieci e poi dieci e coi calcinacci che scendono arriva a coprire il profilo di un uomo, e solo due ancora e vien giù la parete, così l’attraverso ma trovo altro spazio con un’altra parete e i primi due colpi ben assestati una stella ed Orione, ed altri due un poco leggeri, è una rondine in volo e continuo a colpire e adesso la ascolto di notte che cuoce i mattoni e di giorno a cantare, e la chiamo e allora lei tace e c’è silenzio assoluto tranne in alto anche per ore, poi ricomincia ed io mi dico non posso dormire, devo colpire più in fretta e più in fretta e nella medesima direzione del suono, ed il sole nel punto del giorno senza le ombre mi brucia la pelle ma il pane che lascia è sempre più fresco: son quasi arrivato, e do i primi due colpi e la crepa è piccola, ha la forma di un fiore, e ne do altri dieci e si apre più grande – come un airone, dieci e poi dieci e coi calcinacci che scendono arriva a coprire il profilo di un uomo, e solo due ancora e vien giù la parete e l’attraverso e finalmente la vedo mentre dispone un poco di argilla sul bianco muro incompleto e la raggiungo e lei corre e la prendo e lei ride mi abbraccia mi bacia e le sono tanto mancato e io rido l’abbraccio la bacio e mi è tanto mancata e le chiedo se non è stanca del gioco se da tanto è iniziato, e a casa la pianta con l’acqua che scende ed i suoi origami, e lei che risponde ti prego ti prego è un gioco bellissimo ancora una volta ricominciamo, questa volta io dentro e tu fuori – a costruire –, e la vedo tanto felice e abbasso gli occhi e le chiedo con quanto vantaggio devo partire, e lei che salta di gioia e risponde dieci giorni può andare, e io respiro profondo e confermo e corriamo in un prato intoccato e le lascio il martello ed un cesto di pane e con mattoni e secchiello costruisco la prima parete attorno a lei che fa ciao con la mano, e non la vedrò più per un poco, e perché – perché si ostina a giocare?, e Nina? e il piccolo Lucio? E quando la vita è soltanto stupore.

 

 

 

 

 

 

 

IL RACCOTNO DEI REFUSSI

 

Raccotno come inocente epserimento metalettrerario

 

 

 

La lingua sarà anche uno specchio deformante, ma è l’unico specchio che abbaiamo.

MICHAEL DUMMETT: FILOSOFIA DELLE LINGUE

 

 

 

Quello che vi proponiamo in queste pagine è forse il primo esempio nella storia della lettreratura di ciò che sarà d’ora in poi e per sempre noto come “Il raccotno dei refussi”.

A beneficio di chi non sia al corrente delle più sottili sfumature grammaticali, un refusso è ciò che viene fuori ogni qual volta siamo in procinto di scrivivere una certa cosa, ma in realtà stiamo pensando ad un’anatra.

Alternativamente, un refusso può manifestarsi in quelle occasioni inn cui, mentre scriviamo, non siamo troppo attenti ha certi precetti ortografici e di punteggiatura;,, o molto più semplicemente stiamo pigiando umm po’’ sbadabattamente ii taxi shulla notstra taxtiera:.

A ragione, molti lettori troveranno la lettura di un raccotno dei refussi un po” pesante, se non proprio pastidiosa. Con le più sincere scuse per tale sconvenienza, ci sta a cuore precisare che il notsro raccontno è strato pensato non per nuocere a noi che scriviamo, né a voi che leggete, ma prerché tutti ne traggano ilpiù grande giovamento. Arvrete di fatti notato anche voi che un libro – d’abitudine – contiene un certonumero di refussi, disseminati in modo imprevedibile e un po’ casuale tra lesue decine, se non centinaia di fagine. Noi, anziché arrischiarci nell’immane e quasi certamente vana impresa di elimimarli uno ad uno, abbaiamo pensato invece di attrirarli – prima – e di intrappolarli – poi – in un raccotno solo – quetso! –  di modo da rendere gli atrii meno accidentati e dunque piiù piacevoli alla lettura.

Dopo aver appreso della mobile natura delle notstre intenzioni siamo certi che ci avrete già accordato il votstro perdono, di cui v’ì siamo inestimabili debitori.

 

Prima di inizziare con una narrazzione pertinente ed articolata del nostro raccotno dei refussi, c’ì piacerebbe fornire le tre regole fondamentali perché chiunque ne avesse voglia possa scrivere un raccotno dei refussi tutto suo, di modoché questi possa entrare a far parte di tutti i libri di raccotni che verranno scritti in futuro, assumendo a poco a poco lo status di vero e proprio genere lettrerario.

Procedendo con ordine, dovete sapere che la prima e un poco sfortunata regola per scrivere un raccotno dei refussi conforme alle procedure di genere prevede che quasti oggni prarola all interno dì unn raccontno dei refussi deba essrere effettivamemente um refusso, benché allo scrittore che si confronti con l’impresa per la prima volta venga fatto consiglio di abbracciare tale dettame gradualmente, cimementandosi dapprima com racconti inn cui solamete una prarola su ddue possa classificsrsi propriamente comme un refusso.

La seconda regola per scrivivere un raccotno dei refussi che sottolinei una certa abilità del propositore, stabilisce poi che alcuni refussi si presentino nel texsto non in ordine sparso, ma che siano congeniati in un divertente incastro, di modo che ogni tanto facciano un po’ radere chi li regge.

Infine, essendo esso un semplice epserimento metalettrerario, la terza regolla per scrivere un raccotno dei refussi stabilisce che il raccontno dei refussi non debba prer forza avere una trama precisa, né descrivere una vicenda con uno vsiluppo lineare.

Pertanto, quando scrivivete un raccotno dei refussi, sentitevi liberi di giocare con la forma quanto volete (anch’essa, a modo suo, è un refusso!). Sentitevi liberi dunque di inziare un raccotno dal l’ultima riga, o di finilrlo con la prima. Oppure ancora di mischiarle frutte fra loro – le righe – rimuovendone la metàa e aggiungendole dove vi pare. Infine, prendete in considerazione di seguire il notstro esempio, evitandovi ogni problema e decidendo quindi di intemperrompere la voststra narrazione ancora pirma cheabbia inizio, senza alcun preavviso.

 

 

PINNE

 

 

Inutilità del concorsone e altre devastazioni della cosa pubblica

2

strange people

di Renata Morresi

Si parla molto dell’imminente concorso a cattedra. È un gran circo, in effetti. Il TAR è inondato di ricorsi. I presidi incitano a boicottare le commissioni giudicatrici. Arrivano inaspettati endorsement da parte di personaggi pubblici con tanto di dichiarazioni #noconcorsotruffa. Gli insegnanti già abilitati e “selezionati sul fabbisogno” si chiedono perché devono ripetere prove su cui sono già stati ampiamente esaminati. Qualcuno ha parlato dell’assurdità del didattichese, una neo-lingua usata solo nei documenti scolastici e che umilia l’intelligenza. Qualcuno è andato a sfogliare certi manuali di preparazione, venduti a trenta o quaranta euro a volume, scoprendo che sono plagi da Wikipedia.

Perché questo concorso è fatto male? Perché è inutile?

Non sono tanto le complicazioni kafkiane. Che pure citerò, perché danno la dimensione del caos di cui molto si intuisce ma poco si sa. Non si è ha parlato, ad esempio, dell’obbrobrio metodologico che era il modello di iscrizione, da compilare on-line. Deve o no l’aspirante prof spuntare l’affermazione “ha insegnato nei Paesi UE”? Se ha lavorato in Italia, che a occhio è un “paese UE”, parrebbe di sì. Ma appena va col clic si apre una finestra in cui gli vengono richiesti incomprensibili documenti, equipollenze, certificati. Dopo sei ore spese a cercare di districarsi, a telefonare a un numero verde sempre occupato, a iscriversi a forum pieni di colleghi furibondi, il disperato aspirante scopre che la dicitura in realtà va intesa come “ha insegnato in ALTRI Paesi UE” (bastava dirlo). Niente si è detto – altro esempio – della scheda in cui inserire i titoli di eventuali pubblicazioni. Congegnata con limitazioni che concedono di inserire solo un tot di caratteri e non permettono di usare apostrofi, due punti, vocali accentate, ecc., ha trasformato titoli di sobri e ponderati saggi critici in mostri sintattici. Ma queste ormai sono facezie in confronto al resto.

Consideriamo l’ingiustizia nel calcolo dei giorni di servizio a scuola già svolti come supplenti. Tutti sanno che i precari – in quanto tali – possono essere costretti a firmare decine di contratti all’anno (che ‘casualmente’, anche nella stessa scuola, terminano il 23 dicembre e ricominciano il 7 gennaio, per esempio). Che senso ha valorizzare solo i rapporti di lavoro con contratti continuativi quando le interruzioni sono imposte?

Si è commentata un poco, tra qualche risata amara, l’organizzazione malata del concorso, coi commissari pagati 50 cent a prova (in molte sedi introvabili, in fuga, coi certificati medici pronti nel cassetto per evitare la precettazione). Si è detto appena della fatica di trovare aule informatiche adeguate per il formato computer-based delle prove, ancor meno del fatto che il ministero ha dovuto elaborare una tabella di equivalenze per i caratteri mancanti nella piattaforma scelta. Insomma, i candidati si scordino la β tedesca o i segni diacritici del francese, per non parlare dei simboli matematici o delle formule di chimica.

Tuttavia, non sono neanche questi i nodi cruciali. Questi sono problemi marginali rispetto alle questioni enormi che pongono le circostanze (che pone il futuro). Come arginare la dispersione scolastica? Come motivare i più deboli? Come valorizzare i migliori? Come gestire le nuove difficoltà (classi numerose, multilingui, proliferare di disturbi di apprendimento, deficit dell’attenzione, bisogni speciali, ecc.)? Come formare i più giovani alla complessità, a una cittadinanza etica non meramente italiana ma planetaria? Come avviarli a un mondo della conoscenza che si è frammentato in molte nicchie settoriali ma che, proprio a ragione di questo, ha sempre più bisogno di mediatori, non solo di specialisti, di capire come siamo in relazione, non solo connessi, di comprensione olistica e non solo di culto della téchne? Come incoraggiare alla ricerca della verità? Da intendersi non in senso assolutistico e universalizzante, ma nella sua sostanza processuale, come studio continuo e attento, al di là della surfata su qualche sito acchiappa-clic. Come promuovere la libertà della scienza? Che non obbedisce agli stra-citati bisogni del territorio, alle necessità mercantili immediate. Come insegnare agli alunni non tanto a procurarsi un lavoro e ‘ringraziare il cielo’, ma a crearsi le occasioni per fare cose nuove?

Su tutto questo al momento non c’è dibattito pubblico. C’è il concorsone. C’è l’urgenza di avere modelli di quesiti (non ci sono),  di capire come scorreranno le graduatorie di merito (non è chiaro), di conoscere in anticipo i criteri di valutazione (non disponibili). Cosa spinge un ministero a organizzare un concorso in questa confusione? Cosa induce a mettere in moto tale carrozzone per selezionare gente già selezionata? Una serie di credenze o pregiudizi, che si trasformano in meme, che sotto le pressioni populiste diventano ossessioni.

Per esempio: “La qualità!” “La meritocrazia!”, si dice compulsivamente. Tuttavia, invece di valorizzare le carriere migliori, di premiare lo studio e la preparazione, li si mortifica, instaurando una filiera di controlli prolissi e insidiosi, in stile persecuzione maccartista. Come si può dare valore al famigerato merito se ogni paio d’anni la formazione dei docenti viene ripensata, stravolte le modalità di accesso all’insegnamento? Le abilitazioni TFA, ad esempio, prese appena un anno o due anni fa, che avevano selezionato con svariate prove d’ingresso e di uscita un dieci per cento degli aspiranti totali, oggi valgono ben poco. Perché? Sembra quasi che il ministero boicotti le università, e i corsi da esse promossi, che boicotti le scuole stesse irridendo gli insegnanti non di ruolo (eppure col pieno titolo per insegnare), che costringa il sistema, a ogni turno, a resettare tutto e ricominciare la partita da capo.

So spiegarmelo solo con un insano culto del presente, con una sorda volontà di performance che comprende soltanto l’istante attuale: smaniosi di misurare il rendimento ma troppo impazienti per perseguirlo in modo coerente e curarne le condizioni, i governi italiani degli ultimi dieci anni non hanno fatto che distruggere la capacità dei loro cittadini di credere che il cambiamento sia possibile.

Perché si sta per fare un altro concorso? Forse solo per propaganda. O per punire, con un tocco brunettiano, gli ‘statali fannulloni’, per alimentare ‘la guerra civile cellulare’ tra precari, per piegare le professioni riflessive all’obbedienza alle ‘esigenze del lavoro’? Forse solo per togliersi di torno una mole di professionisti che non possono rientrare nel nuovo, grande (?) progetto affidato in delega al governo dalla legge 107 (creare corsi universitari ad indirizzo didattico, da cui i laureati escano pronti per farsi due/tre anni di lavoro quasi gratis chiamato ‘tirocinio’). Oppure: per sbaglio.

 

della vostra mistica inerzia

1

di vito m. bonito

(inediti)

1

loro parlano sulla mia testa

io seguivo le scarpe
entrare uscire
dal muro…

2

sono in grado
di applaudire
divorare il sole
la mente dei neonati

tutte le unghie

Essendo il dentro un fuori infinito #9

6

di Mariasole Ariot

Alessia cammina al rallentatore, ha un buco sulla schiena, tutto l’indicibile sofferto nella rotellina che l’accompagna. Gira a destra, si velocizza, gira a sinistra, si rallenta, la rotellina non gira mai, Alessia non cammina, muove piccoli passi come una tartaruga senza guscio.

Madre : della tartaruga che hanno mangiato i cani hai sepolto solo la corazza.

Ci ritroviamo nella zona scura del corridoio, Alessia mastica lentamente il pasto minore, si confonde con la lentezza dei tramonti che da quassù non servono a niente se non a mostrarci un cuore bollente nel cielo, un polmone agitato come noi lo vediamo : Alessia non ha gli occhi lenti : il mondo si muove velocemente, scosse telluriche sugli scogli, sulle mani, sulla testa. Alessia vede soli in movimento costante, soli che girano che vorticano impazziti come animali dalla testa troppo grande per essere afferrati.

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La messa a nudo è irrimediabile. La ragazza tartaruga si trascina lasciando la bava di lumaca fuoriuscirle dalla schiena

Hai una rotellina : girala

La rotellina è arruginita

Girala, fanne un cortocircuito

E così Alessia cortocircuita con il mondo, accompagnata dall’uomo zoppo che ha trovato nel campo aperto. Alessia ha messo radici come una pianta innaffiata per errore, dalla testa ai piedi è incistata nel pianto del prato, Alessia non vive, una vegetazione scomposta.

Alle due di notte ci ritroviamo nella zona dell’asimmetrie ordinate. Lei predica la notte, io le dipingo unghie nere sugli scogli : le sue mani sono rocce, diventano il tutto che non è dato scoprire, Alessia muove dieci passi e si ferma. Immobile, roccia come sono roccia io, nello stare accovacciata a due metri dal terreno. E la guardo.

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Cara S., il mio dolore è quantificabile con una manciata di terra caduta dalla luna. Ho un corpo al centro del corpo che continua a scalpitare, muove i primi passi poi demorde. Da fuori mi vedono ferma ma io dentro sto correndo, rischio un tribunale di incidenti, rischio di arrivare alla meta, ma la meta è sempre la metà di un’altra menzogna. Io non mi muovo, resto ferma nell’azzurro di questo cielo torbido quando c’è nebbia, aperto quando si spalanca. Cara S., mi cadono fiori nella bocca : ho le labbra accese aspettando un bacio. Dice una lingua per i benvenuti, dice una stretta, dice una rabbia. Qui nessuno la vede : sono invisibile, con l’elmo di Wagner sulla testa, una piccola presa in giro all’indecenza. A volte smetto di sforzare, mi siedo sulla grata e aspetto che qualcuno mi porti un caffé : fa male a dirsi, fa male a farsi, fa male il continuo rigirarmi lenta sul letto. Non servono i nastri di contenzione : sono già contenuta : il mio corpo è fermo.

Cara A., ti ho vista ridere la tua voce liberata, quando il tempo è fermo come il tuo corpo e noi sgattaioliamo tra le aiuole, nella sala dall’odore acre del giallo, ti ho vista chinarti per raccogliere una lingua, ti ho vista piangere come solo tu sai fare : in silenzio, con le lacrime all’indietro, acqua che entra dalle pupille e ricade sulla gola, ti ho vista baciare l’uomo azzurro, la promessa di un volto.
Qui, nella casa delle tre porte tendo l’orecchio per sentirti ancora cantare – una canzone metallica, vecchia di eroi e di nient’altro, una copia di un desiderio proibito, e mentre tendo l’orecchio si spezza, mi frantuma la testa in pezzi sconosciuti. Ho ancora una madre, le guardo gli occhi prima che cadano, e i miei, ferite sulle sue aperture. Ricordi il giorno dell’incontro? La rotellina girata a sinistra, il caffè scivolato per la rabbia sulla schiena?
Cara A., il dolore si lega ai nomi, ha un nome proprio : il tuo, il nostro. Scriviamoci come se non ci fosse il tempo per farlo.

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Mi hai raccontato la teoria del fratello sulla mela marcia. Tu – dice, sei la mela che si dilata per mangiucchiare le altre del cesto. Il padre è caduto, la madre è caduta, il fratello è uscito dalla cesta.
Sulla scia limpida di vecchiaia noi parliamo lingue dei disperati, armiamo le cellule più deboli per farne una spina : abbiamo gabbie nella retina e gabbie al centro della testa. Di tutto quello che possiamo dirci resta una figura cava, che torna come torna la dimenticanza. Tutto si accosta al divenire, io mi accosto, ti aspetto. Non arriverai mai : ti aspetto comunque. Arriverai comunque.

Da “Il Martirio Dei Poeti”

3

di Andrea Bassani

 

Luci nel buio

Le luci dei lampioni si sono spente.
Nella penombra fiorentina prosegue
la parata delle anime sognanti.

Io vedo la tristezza dove tu non vedi:
dietro le maschere, sotto i fondotinta
i volti non splendono.
Vedo paure, incertezze, colpi di tosse,
il suono ansioso dei tacchi
che pestano rimorsi
e il sangue innocente dei ciottoli
che li assorbono.

Vedo ragazzi simili a negozi,
illuminati a giorno da decine di faretti
ma chiusi a chiave,
vuoti di voci e di gente.
E vedo la malinconia,
goccia a goccia dai tetti
scendere giù come vernice,
fino a noi che ne siamo dipinti.

Nell’aria scie chimiche di profumi,
stravaganti vanità, inutili suppellettili,
borse, cappelli, cinture di coccodrillo,
smalti, rossetti, orologi preziosi
e lancette stanche di gridare: “è tempo!”.

Un niente cibernetico è divenuto cupola regnante,
un substrato di cielo insonorizzante.

Una puttana si avvicina,
è cosciente.

Le puttane sanno tutto del buio
e nel buio vedono tutto.

Le puttane sono molto sagge:
sono le sole rimaste sincere
su queste strade di menzogna.

 

Invecchiare

Oggi comprendo cosa sia invecchiare,
davanti al desiderio di un bacio che non avrò,
per i tuoi occhi giovani
davanti ai quali sono trasparente.

La società ti ha insegnato
che sono troppo vecchio per te.
Pertanto apprendo cosa mi aspetta:
oggi comprendo cosa sia invecchiare.
E tremo come l’ombra al calar del lume.

Non ho bisogno di una barba bianca per saperlo,
non più mi occorre un bastone
né devo attendere una dentiera.
Adesso mi è chiaro:
invecchiare è avere freddo
in un caldo pomeriggio d’estate.

 

Ishaan

Ishaan ha smarrito la strada.
Dall’India è partito e va veloce ad occidente.
Vorrebbe perdersi e dimenticare
l’odore di morte, l’oriente,
la bocca ferita d’infante affamata,
gli odori speziati
che saziano soltanto l’ambiente.

Ishaan ha smarrito la strada.
Sotto cortine di lumi infernali
e costumi di scena,
non più corone né mandala,
non più mantra.
Ishaan non indossa più seta,
più giada né ambra.
E il suo giovane cuore lo prega,
lo prega di tornare,
ma Ishaan è cambiato
e non si volta.

Ishaan ha smarrito la strada.
Dall’India è partito e va veloce ad occidente,
e l’anima sua mesta reclama,
silenziosa come i morti del Gange,
e lo spirito esangue rimpiange la casa
costruita sulle rocce di una madre e di un padre.

Eppure Ishaan la sente,
sente che la sua patria chiama.
Ma non vuol più ricordare
né il suo collo risudare
l’aroma del sandalo,
della curcuma, del cumino,
del coriandolo.

Ishaan ha smarrito la strada:
si cerca in un orgasmo
come un perfetto occidentale.
E negli occhi ha la rovina di lontane ricchezze,
e dall’anima scordata
esule si disperde
abbandonato,
tra lapilli d’oblio e un messia dimenticato,
nel suo tanto agognato fumo grigio di Londra.

Benedico con la mano la sua fronte
nonostante il mio peccato,
ma Ishaan non ritorna felice,
non sorride.

Ha perduto il miracolo dal sangue:
non ricorda gli Dei dai volti variopinti;
non ricorda il colore dei venti
né la mano con cui sua madre
offriva i fiori agli altari dei templi.

Ishaan ha smarrito la strada.
Dall’India è partito e va veloce
ad Occidente.

 

Un’altra lotta

Se incassare i colpi è combattere
allora stanotte ho lottato.
Mi sono alzato senza forze dal divano
e sono caduto al tappeto.

Non sentivo dolore.
Con la testa avevo solo schivato lo spigolo
e la morte non dava segni di vita.
Volevo arrivare al bagno
ma era troppo distante. Mi scappava forte la pipì.
Sono strisciato fino alla cucina.
Mi sono sollevato
diritto su tutte e due le gambe,
e le gambe tremavano come pilastri di un grattacielo
che sta per crollare su se stesso.
Ho pisciato nel lavabo
tra le tazzine di caffè
sporche del giorno prima.
Poi sono svenuto,
l’occhio appoggiato sul pavimento,
quasi morto e quasi vivo.
Ho atteso l’alba, ammutolito,
senza chiedere aiuto.
Sapevo che il mio “non so chi”
mi avrebbe salvato.

 

Paroxetina

Vogliono che assuma antidepressivi:
Paroxetina per l’esattezza.
Eppure non sono depresso,
sono un uomo deluso.

La società è malata e vogliono curare me.
Tuttavia ho rifiutato anche oggi la compressa,
non per orgoglio né per vergogna,
ma perché voglio essere denunciato.

Se accettassi di passare per depresso
la società ne uscirebbe pulita.
Debbo resistere a professionisti, parenti,
amici, consiglieri, servizi segreti.
Tutti vogliano curare me
che sto male per contrasto,
ammalato di lucidità
in un mondo di pazzi.

 

Supermarket

Non ci sono prodotti interessanti
al di là di un collutorio al pompelmo
antibatterico e fluorizzante.

Le persone da queste parti
si muovono a scatti
con i carrelli pieni di rifiuti
e l’isteria nelle orbite.

Mi congelo davanti all’obitorio delle carni.
Nessuna differenza
tra le bistecche umane in piedi
e i filetti di bovino stesi nei freezer.

 

Il martirio dei poeti

I poeti non scelgono,
lasciano che sia.
La poesia l’accettano.
E si ritrovano ad ardere
una manciata di parole
in un falò fantasioso
che li riscaldi un poco.
Perché i poeti sono quelli
che tremano il gelo
del ghiaccio sociale.

Martiri della pazienza,
strattonati, trascinati, offesi,
i poeti hanno breve vita
e muoiono a lungo.

 

Parlami del presente

Parlami del presente se ne sei capace.
Questo presente che è già tutto passato
e già tutto futuro,
questa frazione di secondo contesa
fra i secoli di ieri e quelli di domani,
questo granello d’illusione, impalpabile,
conficcato come punto di confine
tra le due ere infinite del tempo.

Tu mi dici ti amo e già me l’hai detto:
quando lo scrivo è ricordo.

Ma sarà o è già stato?
“Prevedere il futuro è leggere il passato”,
ti risponde il chiaroveggente.

Adesso è passato. Domani è passato.
Si vive nel passato di un passato già passato.

E ora parlami del presente se ne sei capace.