Per Roberto di Marco, l’avanguardia intransigente

di Nadia Cavalera

È da poco uscito per le edizioni Pendragon “Scritti e libri” di Roberto Di Marco. Il primo libro di una serie che intende far conoscere adeguatamente un intellettuale  di punta del secondo novecento italiano, esponente del “Gruppo 63” e autore con Filippo Bettini dell’antologia “Terza Ondata. L’ultimo movimento della Scrittura in Italia” (Synergon 1993).
Questo primo volume  comprende un saggio inedito su Roberto Roversi  e il testo d’esordio pubblicato nel n.5 di “Menabò” (diretto da Elio Vittorini).
In appendice un primo elenco di preziosi  libri posseduti da Roberto di Marco, la cui vendita mira a finanziare la pubblicazione dell’intera opera dell’autore.

 

Ho conosciuto tardi Roberto di Marco, come scrittore, in concomitanza dell’esperienza di Bollettario, che, realizzata alla fine degli anni ottanta con Sanguineti, mi ha spinto anche a conoscere meglio i componenti del Gruppo 63.
E lui ne era tra i fondatori quale esponente della sperimentale  “Scuola di Palermo”, titolo di un’antologia  che ha fortemente  contestato perché equivocabile, suscettibile di far scambiare il libro per un testo didattico (mentre presentava  tre racconti  di tre autori: Roberto Di Marco, Michele Perriera, Gaetano Testa- pubblicato da Feltrinelli nel 1963, qualche mese prima che nascesse il Gruppo 63). Ma utile evidentemente per Alfredo Giuliani come base del lancio del futuro Gruppo 63.
Avrei voluto leggere subito quanto più possibile su di lui, ma all’epoca trovai in biblioteca a Modena solo Telemachia   (e ancora oggi la situazione non è cambiata), poi  mi procurai L’orto di Ulisse del 1986, recuperai Fughe a Pavullo e per la prefazione I fioretti di San Francesco a Castelnuovo Rangone. Quindi nel 2006  La donna che non c’è.
Purtroppo non conosco a tutt’oggi molto della sua ricca produzione di saggi teorici, di critica letteraria, né gli scritti politici sociologici di critica economica, disseminati in riviste introvabili (e che mi auguro ora vengano ripubblicati in toto, compresi quelli scritti per Bollettario). Solo stralci, recuperati negli anni qua e là.
Utili comunque a delineare ai miei occhi la figura a tutto tondo del  materialista comunista che lui amava essere: un intellettuale coerente e combattivo  fino alla fine contro la becera Cultura dominante. Contro le ferree leggi di  mercato che seppelliscono sempre più la letteratura “nella grande discarica della merce” .
Convinto dell’incompatibilità tra sviluppo di arte e poesia e condizioni sociali capitalistiche, è nell’impegno politico della ora tanto bistrattata lotta di classe che vedeva qualsiasi significanza operativa.
Così che è stato prima fiero oppositore , tenace contestatore della letteratura, boicottandola dall’interno (alla maniera di Sanguineti), poi instancabile assertore della sua morte.
Sempre  a caccia di un Oltre, di un Altro , dell’al di là della poesia, di un narrare differente , di una espressività diversa, non coincidente con la poeticità e affettività, ma  quale «successione di “micro-catastrofi” di senso e appunto espressioni (cioè di microformalizzazioni di atti ideo-affettivi e/o immaginativi)».
Fino a far coincidere la nozione di Avanguardia, passando attraverso la fase dell’ Avanguardia di Strada (e non del Museo di sanguinetiana memoria),  nell’Assenza della Letteratura .
Straordinari, lungo questo percorso, i suoi romanzi-saggio, o meglio saggi-romanzi, dove il tradizionale sviluppo di una traccia narrativa minima veniva a perdersi, a smarrirsi fagocitato dalla marea dei commenti sempre più politici del narratore.
Che sembrava avesse il solo fine di fare dello spettatore-lettore un lettore-osservatore (come ebbe a dire lo stesso Sanguineti nella postfazione di “Telemachia”), che messo di fronte ai fatti formulasse finalmente sue osservazioni, suoi personali punti di vista. Il testo come una ineliminabile quasi dependence del fuori, in cui ravvisare il suo vero centro. La letteratura da abitare, senza mai dimenticare che la sua centralità è nelle contraddizioni economico-sociali-politiche. Che sono fuori.
Una sorta di opera maieutica nell’invito al lettore perché facesse “egli stesso il libro, leggendolo”  e considerasse questo suo intervento capitale perché il libro si facesse. Anzi questa richiesta che avanzava costituiva «tutto il programma di lavoro dell’autore».
Poi gli pseudoracconti senza nessi e «senza una logica narrativa normale», in un’alternanza continua di miti smitizzati, incongruità di senso e gusto, il  «narrare scombinato»…
A ricordarci costantemente che la letteratura era per lui  una «locanda malfamata dalla quale occorreva fuggire subito».
E lui lo ha fatto. Si  è tirato fuori dal contesto generale che chiamava “Azienda”. Anche se questo gli è valso l’isolamento.  «Sono un escluso, un lebbroso,  ma non è la fine del mondo», confessa serenamente ne L’orto di Ulisse  .
Un legame così stretto il suo tra teoria e pratica, da farne il protagonista di un’avanguardia riservata, ma estrema, nel suo atteggiamento critico contro la stessa avanguardia più sponsorizzata negli anni sessanta e nei successivi convegni autocelebrantesi.
Perché l’accusava di essersi arenata in «storie di piccole carriere, melanconiche ripicche di letterati senz’anima, idee fasulle, tanta presunzione e un’incommensurabile voglia d’allori».
«Un’operazione culturale ben riuscita, (…)- sosteneva amaramente – anche a soffocare, depistare e accademizzare l’avanguardia potenziale che conteneva»
Non che lui credesse in un’Avanguardia permanente, ma avrebbe sperato per quella degli anni sessanta una vita più lunga.
Ecco questo l’unico punto che mi trovava dissenziente da lui e peraltro da tutti gli altri, essendo il mio sogno  proprio quello di formare una Avanguardia, pur in mutate forme,  non elitaria, di massa, rispettosa del concetto di umafeminità, e soprattutto stabile. Come d’altronde stabile e mutevole è il Capitalismo a cui si oppone. L’Avanguardia come  «polimorfico indomito contraltare del mutante capitalismo». Ne ho già parlato al Convegno “Avanguardia e comunicazione”, nel 1996.
Anche per Roberto di Marco l’Avanguardia non si può creare a tavolino o evocarla: è un exploit che normalmente rientra[1].  Ma che può ritornare anche a breve. E seppur deluso, da instancabile qual era, ne aveva intravista un’altra avvisaglia nei primi anni novanta, quanto insieme a  Filippo Bettini pubblicò La Terza Ondata. L’ultimo movimento della scrittura in Italia (Synergon, 1993). Fu questa  l’occasione del nostro primo incontro condiviso.
Che mi porterà poi nel 2005 ad inaugurare il Premio Alessandro Tassoni, col conferimento a lui dell’ honoris causa.

 

RAPPORTI CON BOLLETTARIO
Nel primi anni novanta Di Marco lesse i miei scritti che gli erano stati proposti da Bettini e io, volendolo tra i collaboratori di Bollettario, gli feci avere i primi numeri pubblicati.
Mi rispose il 12 agosto del 1992, comunicandomi innanzitutto l’inserimento nell’antologia Terza Ondata, la cui pubblicazione lui riteneva imminente (ottobre 1992) e che invece sarebbe avvenuta nel marzo 1993. Espresse perplessità sul ruolo di Sanguineti e apprezzando l’inserto su Corrado Costa (n.  19/20) mi preannunciò un convegno (che non so se sia stato mai fatto)su di lui in primavera.
Ha scritto precisamente:
« Tu, com’è giusto, sarai , con altri pochi autori, nella prossimissima (il libro esce a ottobre) Terza Ondata d’Avanguardia italiana. Del libro ti parlerò in dettaglio appena ci vediamo (telefonami: ……………).
Ho letto tutti i numeri del Bollettario  che hai avuto la grazia di spedirmi. Non mi è chiaro il ruolo di Sanguineti, che si lascia mosaicamente intervistare ma non firma mai un testo o un articolo. Sembra un semplice mallevadore. Nei tempi che si aprono occorre altro.
Ottimo l’inserto su Costa, ma faremo su di lui un convegno di studio in primavera a Reggio.». Seguono Ringraziamenti e  saluti.

Sul ruolo di Sanguineti abbiamo avuto modo di chiarirci poi. Ciò che diceva era comunque più che giusto. Ma pur di portare avanti l’iniziativa in cui credevo (la rivista l’avevamo fondata insieme ma l’input era stato mio), come stimolo alla ripresa dell’azione, la sua presenza era indispensabile, e a me andava bene così.

Personalmente ci conoscemmo a Reggio Emilia, in occasione del “Convegno di dibattito e proposta 63/93 Trent’anni di ricerca Letteraria”, tenutosi a Reggio l’ 1.2.3 Aprile 1993.
Le giornate erano scandite in questo modo:
-la prima, dedicata alle relazioni introduttive di Barilli e Luperini + serata della poesia (con vecchi autori: i Novissimi, Spatola, Vicinelli e Costa + qualche nome nuovo: Frasca, Frixione,  Voce).
– la seconda legata alla poesia + serata di narrativa. Io Leggevo in questa di venerdì 2 aprile (2 poete – io e Alessandra Berardi- e 7 poeti:  Mariano Baino, Piero Cademartori, Giuseppe Caliceti, Michelangelo Coviello, Paolo Gentiluomo, Giuliano Mesa e Enzo Minarelli)

Di Marco era tra i relatori  del 3 aprile (con lui Angelo Guglielmi e Francesco Leonetti), giorno dedicato alle letture di prosa (tra le autrici anche la figlia Mariarosa) . E in conclusione una tavola rotonda.

In seguito tante le occasioni di incontro, per festival o le varie presentazioni di “Terza ondata” a Milano, Roma, Bologna, Modena (due volte, alla festa nazionale dell’Unità e a quella di Rifondazione), anticipate proprio dal Convegno di Reggio Emilia.
Dove l’antologia era stata accolta con diffidenza dalla maggior parte dei convegnisti, tanto che Renato Barilli anni dopo, nel 2000, si è sentito autorizzato ad appropriarsi di quella sigla per epurarla evidentemente da interpretazioni, secondo lui,  improprie, e oscurare l’esperienza precedente con la sua personale panoramica.
“E’ arrivata la terza ondata. Dalla neo-alla neo-neoavanguardia” (Test&Immagine 2000) è per me un’operazione evidente di revisionismo, una mistificazione dei fatti plateale.
In questa pubblicazione si identifica la Terza Ondata in poesia  con gli autori presenti al Convegno di Reggio Emilia e definiti, per mantenere la similitudine militare che la definizione evoca, come l’ «avanzata di una falange armata procedente tetragona e compatta portandosi dietro anche, come era giusto, qualcuno degli infelici rari nantes trovatisi ad operare nei difficili e ingrati anni Settanta , come per es. Michelangelo Coviello e Enzo Minarelli». Così Barilli alle pagg. 81-82.
Nella terza ondata barilliana scompaiono, di quei nove, soltanto  Giuliano Mesa e la sottoscritta, forse adombrati nella figura degli «infelici rari nantes» ma tali da non essere meritevoli nemmeno di citazione.
Ignorata dunque l’unica  poeta dell’antologia canonica (l’unica invitata a quel Convegno proprio da Sanguineti…) e il cui libro preso in considerazione Vita Novissima  sarebbe stato definito proprio da Roberto Di Marco (in una lettera del 2003) «Testo stupendo nonostante certo sanguinetismo dello stile» ). Ignorata anche la nascita di Bollettario, a cui secondo me andava invece ascritta la percezione nell’aria del «clima nuovamente teso ed energico»  (pag. 80) che aveva costituito l’antefatto della Terza Ondata e aveva forse convinto Nanni Balestrini e lo stesso Barilli a celebrare il trentennale della fondazione del Gruppo (che in futuro divenne poi una triste consuetudine) .

Se Edoardo Sanguineti si era avventurato per la prima volta a fondare nel 1990  una rivista letteraria, forse era tempo che si rimettesse in campo la ripresa  sì, ma controllata, della Ricerca, si saranno detti Balestrini e Barilli.. Da lì il primo RICERCARE.

Sì secondo me proprio la rivista Bollettario con la scesa in campo di Sanguineti  (era alla sua prima esperienza in tal senso[2]) aveva contribuito in modo rilevante al rinnovo dell’impegno. Aveva costituito un esempio. Ed era stato questo il motivo per cui io mi ero rivolta a lui nel 1989. «C’è ancora bisogno di avanguardia»  avevo esordito nella prima lettera che gli scrissi per invitarlo a fondare con me una nuova rivista.
Comunque l’operazione barilliana non ha avuto il successo auspicato, tant’è che proprio di recente è stata ristampata invece “Terza Ondata” (Abeditore, 2014), l’edizione canonica cui bisognerà dare finalmente tutta l’attenzione che merita.

______________

[1]

Rientro da me deprecato e in cui vedo la causa di ogni insuccesso dell’Avanguardia finora registrato. Invece di un saltuario Coitus persino interruptus, come mi è già capitato di definire soprattutto il Gruppo 63, la mia proposta è sempre stata di una regolare e costante pratica (di cui può essere metafora il volo delle anatre, splendidamente descritto da Eduardo Galeano in “Memoria del fuoco”:  «Per salvarci dobbiamo raggrupparci. Come le dita di una stessa mano. Come le anatre di uno stesso stormo. Tecnologia del volo collettivo. La prima anatra si lancia e apre la strada alla seconda che indica il percorso alla terza; la spinta della terza fa spiccare il volo alla quarta che trascina la quinta; lo slancio della quinta provoca il volo della sesta che fa coraggio alla settima….. Quando l’anatra esploratrice si stanca, raggiunge la coda dello sciame e lascia il posto ad un’altra che risale alla punta di questa V capovolta che le anatre disegnano in volo. Tutte a turno prenderanno la testa e la coda del gruppo. Nessuna anatra si considera animale super per il fatto che vola davanti, né animale minore se vola in coda .».
[2] Sanguineti aveva diretto “Cervo volante” con Achille Bonito Oliva, ma per soli due anni

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Daniele Ventre (Napoli, 19 maggio 1974) insegna lingue classiche nei licei ed è autore di una traduzione isometra dell'Iliade, pubblicata nel 2010 per i tipi della casa editrice Mesogea (Messina).
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