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La cometa di Halley

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di Antonio Sparzani

vacche al pascolo alle malghe
vacche al pascolo alle malghe

(Pubblico con piacere e commozione questo breve racconto scritto da una persona straordinaria, editore, fotografo, ornitologo e grande amante della natura, Oliviero Dolci, che è purtroppo mancato il 31 dicembre scorso. Il titolo “La cometa di Halley” è suo, ma, vista la data del racconto, marzo 1997, si trattò certamente della cometa di Hale-Bopp, in quel momento molto visibile nei cieli del nostro emisfero, mentre l’ultimo passaggio della cometa di Halley avvenne nel 1986, a.s.)

8 marzo 1997
La mattina entrando in stalla mi accorsi subito che la Mimi aveva lo sguardo innamorato, – cos’hai sei in calore? Fa ridere l’idea che una mucca ti possa guardare con aria innamorata, eppure è proprio così, attraverso lo sguardo trasferisce su di te tutto l’interesse che la sua condizione fisica le impone, essendo tu membro esclusivo del suo branco.

Il coatto e la signora

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di Paolo Sabbagh*

Venerdì 8 gennaio 13:30 ca. siamo alla fermata di via tiburtina e stiamo facendo salire i migranti per accompagnarli ad una mensa e farli mangiare.

Un ragazzo corpulento ci si para davanti e indicando i nostri fratelli migranti dice “questi qui nun entrano”.

A questo punto Pablo gli chiede se è un controllore e di fargli vedere il tesserino; “nun so’ nisuno” risponde il coatto “questi nun entrano e basta!”.

Io e Pablo, visto l’atteggiamento, ci prepariamo allo scontro ma vediamo un signore di mezza età e di pari stazza del coatto che ci precede e gli dice: “be’, ma se non ti piacciono scendi te”; la signora a lui vicino: “ma che sei razzista?”; una ragazza poco dietro con la kefiah al collo: “a fascio demmerda”; il suo ragazzo: “e vattene!”.

Allora il coatto, colto alla sprovvista dal furore dei passeggeri del 163, scende a più miti consigli dicendo: “bene me ne vado, nun ce viaggio co li negri io” ed esce dall’autobus in mezzo agli applausi dei viaggiatori che solidarizzano con i nostri brothers e a Pablo che gli consiglia di prendere il prossimo autobus.

Alla fine io e Pablo ci siamo salvati da una capocciata in faccia beccandoci anche i complimenti da parte di una Bella signora perché “aiutiamo ste povere creature”.

In mezzo ad una Roma, per dirla alla Remotti, fetente, impiegatizia, dei mezzi litri, della coda alla vaccinara, dei ricchi bottegai, del volemose bene e annamo avanti, ce n’è un’altra “dal basso”, comprensiva, generosa, accogliente, luminosa, di grande infinita immensa bellezza.

 

  • Volontario del Baobab di Roma

Sodali

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di Giovanni Bitetto

Sento gridare dentro di me, ma non conosco più il cammino della mia volontà fino alla mia gola.
Il marinaio, Fernando Pessoa

Reinhard non aveva previsto la pioggia.
Heinrich non aveva previsto la pioggia.

Sorseggiava rumorosamente il brodo per coprire il brontolio dei tuoni. I lampi inondavano la sala da pranzo, trascinavano la luce dell’unica candela. S’illuminava il tavolaccio di legno, il vecchio curvo: rimestava nel piatto adoperando il cucchiaio. Heinrich scrutava i pezzi di pasta che galleggiavano a mo’ di arcipelago, la superficie del liquido ambrato, bastava un soffio per scatenare il maremoto, devastarne la geografia provvisoria, squadrava le rotte marittime delle verdure, dei pezzi di carne che avrebbe prelevato con un semplice gesto. Il brodo si raffreddava e lui rimaneva immobile, nutrendosi di tanto in tanto, la bocca schifata dal liquido inerte. Non cessava di piovere.

Čistye Prudy – Il tram Annuška

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[Pubblichiamo un estratto da Viaggiatori nel freddo. Come sopravvivere all’inverno russo con la letteratura, exorma edizioni, 2015]

di sparajurij

All’uscita dalla metropolitana il vento si serve dei primi metri per assalire e respingere i viaggiatori nelle gallerie delle scale mobili. Lo sbalzo di temperatura genera correnti impazzite e l’aria si infila come una ragnatela di lame dentro i cappotti. Quasi un secolo fa, nel 1923, in questo stesso luogo che all’epoca ospitava una trattoria malfamata, la polizia, come fosse vento, spingeva fuori dal locale Sergej Esenin per arrestarlo dopo una serata alcolica e una lite con un avventore troppo curioso.

Post in translation: Dmitrij Gorčev

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allegare-graffetta-simbolo-diagonale_318-61913Graffette

di Dmitrij Gorčev

traduzione di Ida Amlesù 

In un paese lontano viveva un uomo.

Quest’ uomo amava perdutamente una donna. Solo che la vedeva molto di rado. Una volta ogni quattordici anni. E in tutto, una volta e basta.

Un bel giorno, quest’uomo ebbe un gran bisogno di qualcosa. Graffette, forse. O magari vermicelli, chi lo sa.

Ma in quel paese c’era una regola per cui tutto, ma proprio tutto, era gratis, perché tanto soldi non ne aveva nessuno.

Hai bisogno, mettiamo, di una scopa: eccotela in regalo.

Prima, però, bisogna scrivere una richiesta formale a una speciale commissione. Così e cosà, scrivi: ho grande necessità di una scopa. La commissione arriva, controlla tutto, interroga i vicini e un mese dopo si può andare ritirare la propria scopa. E, cosa importante, è gratis.

Ma senza commissione non si può. Magari hai già una scopa. Oppure non hai proprio niente da spazzare. Tutto può essere – magari non hai nemmeno le braccia. E mica ci sono abbastanza scope per tutti.

Perciò l’uomo si sedette e scrisse la richiesta. Io, scrisse, ho grande necessità di graffette. O forse di vermicelli. La recapitò a chi di dovere e se ne tornò a casa ad aspettare la commissione.

Senonché la commissione non venne affatto.

Al nostro avevano persino cominciato a raffreddarsi le gambe. È evidente che aveva un bisogno disperato di queste graffette. O di vermicelli.

Quand’ecco che un giorno qualcuno bussa alla porta. Entrate, dice l’uomo. Ma non si alza da terra per aprire la porta, perché non ne ha le forze. E comunque la porta non ha neanche la serratura.

E a che gli servirebbe una serratura. In quel paese non c’era proprio nessuno che ne avesse una.

Perché può anche essere che diano a qualcuno degli scarponi. Però lui, mettiamo, arriva a casa, prende e muore. Ma la porta è chiusa a chiave. Come farà, ci si chiede, la commissione a togliergli gli scarponi? Perciò le serrature in quel paese non le aveva nessuno.

In quel momento si apre la porta ed entra una donna. Quella stessa donna di cui l’uomo era innamorato. Per la gioia lui si spaventa persino.

Bisognerebbe farla accomodare su una sedia, pensa. Ma una sedia mica ce l’ha.

La donna però non ha intenzione di sedersi. E’ lei, dice, tal dei tali?

Certo che sono io, proprio lui, pensa l’uomo. Ma per la gioia non riesce a dire nulla. Bisognerebbe versarle dell’acqua, pensa. Ma non ha mica un bicchiere. E l’acqua gliel’hanno tagliata chissà quando.

Ma la donna, senza che le dica niente, sa già tutto di lui da tempo. Lei, dice, l’anno scorso ha avuto grande necessità di tappare la finestra, così le è stato dato quasi mezzo chilo di stucco per vetri gratis. Sono già sette mesi che l’inverno è passato, ma lei finora non ha restituito lo stucco. Quindi si muova un po’ a scrostarlo, ché domani vengo a prenderlo. E se ne va.

O Signore, pensa l’uomo, come può credere che non voglia ridarle lo stucco. Si alza in qualche modo e lo scrosta tutto. E il pezzetto di vetro che ci era attaccato lo ripone con cura in un angolino. Si stende di nuovo per terra e si mette ad aspettare che la donna ritorni.

Solo che lei non torna più. Al suo posto arrivò proprio un’altra persona, un uomo, e ritirò lo stucco. Per qualche ragione, ritirò anche il pezzetto di vetro. Ma il nostro non obiettò nulla a riguardo.

Quando però arrivò la commissione per interrogarlo a proposito delle graffette, si scoprì che l’uomo era già morto. Giaceva sul pavimento, tutto coperto di neve, e quando la commissione spalò via la neve vide che l’uomo sorrideva.

E aveva un sorriso così bello che la commissione subito gli tolse gli scarponi e lo seppellì nel cortile.

E nessuno chiese: chi seppellite?

Perché era un uomo, solo.

 

La condizione corsiva. Per Gian Maria Annovi

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di Cristina Babino

(al colmo di questa finitezza
si resta comunque
soli)[1]

Dana Schutz_Head Eater (turquoise shirt), 2004La scena che si svolge ne La scolta[2] è la stessa che si ripete ogni giorno in molte case. Italiane, soprattutto. Un’anziana signora a cui la malattia ha sottratto il movimento e la parola, assistita da una giovane badante straniera, venuta dall’Est. Una scena che ci suona familiare, comune, nella sua amarezza asciutta, ordinaria, e tanto da farsi quasi norma, consuetudine.

Questo piccolo, denso libro racconta – no, anzi, mette in scena, drammatizza – la storia di un dialogo sottinteso, impronunciato, in cui le voci si alternano senza rispondersi, composto dei monologhi proferiti dalle due donne. Una conversazione tutta mentale, a distanza, a dispetto della coabitazione, della prossimità fisica forzata delle due figure, dramatis personae che interpretano se stesse nella nudità smascherata della propria condizione.

Il riferimento al teatro, a quello classico nello specifico, è dichiarato. Il personaggio della scolta – la guardia –  mutuato dall’Orestea di Eschilo, esaurisce il suo scopo e la sua presenza al termine del monologo che apre la trilogia: la sua funzione è attendere, per un lungo anno, il segnale del fuoco di Troia. Avvistate le fiamme sulla città, la scolta scompare, per sempre.

Il parallelo con la badante si lascia facilmente intuire. Anche questa è figura transitoria, che ugualmente assolve al compito di attendere. Qui, nel doppio significato di occuparsi di, assistere, e di aspettare il segno, il momento in cui verrà liberata dalla necessità della sua presenza: la morte della Signora. Una figura attendente, quindi, anch’essa provvisoria, in continuo, precario equilibrismo sulla soglia che ha varcato, liminare.

Dalla tragedia Annovi prende in prestito non solo il personaggio che dà il titolo al libro, ma pure il ricorso a canti (d’ingresso, corrispondente all’antefatto, delle vicine, un coro che commenta il dramma dall’esterno, e d’uscita, consacrato al finale) come prologo, intermezzo e chiusa che accompagnano, spezzano e incorniciano le battute irreciproche, frante, delle due donne protagoniste, ripetute sulla ribalta privata di una casa «che è solo una scena per due sparimenti».[3]

Così il canto d’ingresso racconta il precedente, l’arrivo della scolta in Italia e sulla scena, ricostruito tra le voci di un coro (di nuovo) di «Ucraine, Moldave, Russe» riunite in un parco cittadino all’uscita della messa ortodossa: «in camio ti porta Signore a confine / i piedi nel gelo di frizer // (…) poi c’è la strada la notte per mesi / la fuga // poi c’è casa in campagna // donna malata che non può parlare: // la bada».[4] È una lingua nuova, quella inventata da Annovi, lo si scopre già nei primissimi versi, che vince il rischio, pericolosamente presente, dell’imitazione parodica grazie a un’intuizione poetica profonda: quella del peso – ma anche del valore aggiunto – dell’estraneità, dell’essere straniero nell’esprimersi, in questo caso, in una lingua non propria ma di cui per necessità ci si appropria, piegandola con fatica o automatismo alla cadenza, ai suoni, alla sintassi a cui si è usi.

Una lingua «appesantita dallo sforzo dello spaesamento», come sottolinea Antonella Anedda, «tradotta da un altro alfabeto, un’altra grammatica in cui non esiste l’articolo»,[5] di cui la Signora riconosce però lo slancio vitale, la spinta a una torsione energica, carica di un potenziale altissimo d’invenzione e rinnovamento: «sento la voce di Dante / quando ascolto che parla / lingua la sua che s’innova e che / scalcia».[6]

Al corsivo Gian Maria Annovi affida i pensieri della Signora: parole dette senza voce, silenziose e per questo ancora più gridate, dirompenti («me la mettono in casa per forza / ad aspettare che muoia / una non italiana / una troia»)[7] e articolate –  solo nella mente – in modo ineccepibile, in forza di una cultura («io che insegnavo il latino / che traducevo il greco»)[8], che la malattia ha reso amaramente inservibile, invalidata come il corpo che la custodisce, che quei pensieri rabbiosi trattiene e contiene in un disarmo arreso, afono, immobile: «l’avevo la vita: // io»[9], come un ultimo, estremo tentativo di riaffermare un’identità pronominale disinnescata, proprio perché impronunciabile: qualcosa che mi riporta alla memoria quella «sovrana coscienza dell’impossibilità di dire: -Io-» che Gadda descrive con formidabile esattezza nel passaggio finale de La cognizione del dolore.

Le corrisponde, senza risponderle, la Scolta/badante, con la sua «lingua che pare calcata da un grosso bove»[10] – così l’apostrofa la Signora in un rimprovero colto, di evidente reminiscenza classica («un grosso bove calca la mia lingua» ammette lo stesso personaggio della scolta nell’Agamennone): «Signora è ricca. la casa / con molti libri con cose. / io nulla tocco. / pulisce toglie di polvere / lava e fare il mangiare // che dopo Signora sta bene: // che vive.»[11]

Un divario linguistico e culturale, oltre che fisico e anagrafico, tra estremi (italiana/straniera, colta/ignorante – almeno nel contesto in cui è “ospite”, giovane/anziana, sana/malata), che sembra incolmabile, che pone le due donne in dolorosa, astiosa antitesi: «lava là in fondo che Signora non vuole / e mi grida. / ma io volio profuma di buono / non quello suo odore // di donna che more»[12] dice la Scolta. «’scolta: tu quasi mi anneghi / nella vasca con l’acqua troppo calda / troppo fredda con troppo sapone/ da due soldi // mi tocchi dove tocca solo all’uomo»[13] replica la Signora, invocando la badante tramite l’uso di un troncamento fonico[14] per cui l’imperativo “ascolta” nasconde e al tempo stesso scopre la destinataria dell’esortazione.

Se una ricomposizione c’è, tra le posizioni altrimenti irriducibili delle due personae – un tormentato ed esangue duello domestico per cui Andrea Cortellessa parla di «crudele psicomachia di un monodramma»[15] –  è però in una vena riaffiorata, esposta, di com-passione reciproca al dolore dell’altra, di condivisa, se non proprio solidale, umanità.

Così la Signora, accortasi della bizzarra, prolungata sosta notturna della Scolta davanti al freezer aperto, indovina in quel gesto la spinta turbata di un’invincibile nostalgia: «è la neve, io penso, che ci vede: / il bianco notturno del suo paese»[16] e pare commuoversi pure senza lacrime ai racconti che la donna le fa delle violenze subìte: «la notte, se viene / viene a dirmi cose inconsolabili // cose che le hanno fatto / nel corpo e nella testa»[17].

Moto di compassione che la Scolta interpreta nel voler porre fine alle sofferenze dell’anziana, e nel trattenersi, religiosamente, dal farlo («penso di togliere / il soffio / a la donna. (…) // ma c’è icona di vergine / in calendario di maggio. // dico rosario.»)[18], ma anche nel riconoscersi una nella diade strettissima che l’allaccia, giustificandone la funzione e la presenza – e quindi l’esistenza –  alla Signora: «se Signora mi morde / io dice // facciamo la brava bambina.». Qui la discrasia sintattica traduce e tradisce un’identificazione ormai conclamata, il compiersi di una fusione già preannunciata nella battuta-indizio tratta da Persona di Ingmar Bergman posta in epigrafe del libro («Penso che potrei diventare te, se ci provassi. Dentro, intendo.»), quindi rappresentata specularmente in un vecchio film in bianco e nero che dal televisore racconta una storia «con due signora / che sono come solo / una persona. // donna malata / una // altra donna fermiera.»,[19] infine ammessa nell’ultimo monologo della Scolta («io sono la stessa di / Signora.»)[20] e riassunta nel canto d’uscita in cui le voci delle due donne si fanno una, alte (anche quella finora muta dell’anziana) e indistinguibili nella risoluzione della loro dicotomia. Il monologo conclusivo è quindi un assolo che annuncia la morte come segnale della sparizione, della Signora e della Scolta, che esaurisce così la funzione e il senso del suo essere: «è il momento credo che scompaio / che scompare il motivo dell’attesa // lei lo vede il segnale che cancella / come un fuoco da lontano che si avviva».[21]

La scolta è il risultato brillante di un meditare incessante, allertato e profondo sulla lingua e sulle possibilità di declinazione della voce. Una riflessione che nella scrittura di Gian Maria Annovi riveste un’importanza centrale e attorno alla quale l’autore ha incardinato una ricerca poetica rigorosa, coerente, che trova la sua cifra più riconoscibile nello scavare la parola, restituendole un’autenticità inesorabile, quasi un’impietosa – e imprevista – Sachlichkeit, spogliandola progressivamente di qualsiasi orpello o appiglio emotivo, scarnificandola fino ad esibirne essenziale e lucente l’ossatura.

Kamikaze (e altre persone)[22] è anch’esso, in questo, un libro esemplare e, similmente a La scolta, compiuto in una misura breve. Annovi stesso si definisce un «autore-bonsai»,[23] la cui capacità espressiva sembra trovare idealmente tanta più espansione quanto più è ristretto lo spazio in cui la sua poesia-pensiero,[24] raggrumandosi, si estende: connotazione, o urgenza, di addensata brevità che risulta particolarmente vera anche per le tre raccolte precedenti, Denkmal, Terza persona cortese[25] e Self-eaters.[26]

Kamikaze (e altre persone) segue, come La scolta, una «costruzione per micro-sequenze narrative»,[27] per frammenti, o “macerie”, che nel loro susseguirsi ricompongono un discorso invece mirabilmente compatto. Annovi usa la lingua, nella sua nuda esattezza, come uno strumento di dissezione e sottrazione attraverso il quale arriva ad abbandonare il primato non solo emotivo ma persino affermativo dell’io: è in Terza persona cortese, del 2007, che l’autore compie infatti quella che definisce una «sperimentazione-suicidio pronominale»[28] peraltro già preannunciata in un passaggio del libro d’esordio Denkmal,[29] abdicando alla scrittura in prima persona.

Nell’assistere alla deflagrazione del «corpo-kamikaze» – a cui ci si rivolge con un tu che denota un’alterità drammatica, a un tempo stupefatta e atterrita –  la lingua di Annovi si riveste di una pronuncia, e quindi di un sentire, collettivi, storici, condivisi. Il che ne fa, per altri versi ma al pari de La scolta, un libro dal fortissimo carattere politico, civile.[30]

La storia s’innesca nella scrittura come una fiamma accesa su una striscia di benzina: la parola poetica ne segue affilata e implacabile il corso, la riepiloga e la cristallizza in schegge esplose («parola imbottita di chiodi / e tritolo»),[31] enunciate da una lingua che interpreta la ferocia del secolo presente, cominciato con le stragi dell’undici settembre – uomini che precipitano / (così inizia un secolo)[32] – passando, tra gli altri, per gli orribili fatti del G8 di Genova («sotto il passamontagna / che cede alla sassata e al colpo / rivoltella»)[33],  l’attentato ceceno al teatro Na Dubrovka («la donna cecena / che sgrava tritolo»)[34], e pure può riapplicarsi all’attualità dei recenti attacchi terroristici di Parigi e non solo («passare un presente / indicativo di stragi»).[35]

Una lingua che quasi ossessivamente chiama in causa se stessa, e sembra voler riaffermare ad ogni passo la propria mutevole essenza, le sue infinite possibilità di declinazione, e coniugata qui in molteplici accezioni («lingua-tatuaggio», «lingua-malanno», «questa lingua che non riconosci», «la lingua che ti riguarda», «la lingua che non conosci / che non comprendi ma ha / senso», «la lingua (ti dico) non muore»).[36] Come già osservato per La scolta, e in modo ancora più decisivo in Italics, la riflessione sulla lingua, e nello specifico sull’espressione, in particolare nell’esercizio della scrittura, in un contesto culturale e linguistico diverso da quello di origine, assume un’importanza decisiva.

Emigrato da molti anni negli Stati Uniti (dove continua però, e non è un dettaglio, ad occuparsi di lingua e letteratura italiana), Annovi ci consegna con Italics il manifesto della propria «condizione corsiva»:[37] il titolo stesso indica il carattere corsivo, quello con cui appunto viene riportato un termine straniero e quindi «un elemento estraneo all’interno di un discorso scritto (e parlato) in una lingua differente».[38] Una condizione linguistica che, se è propria di qualsiasi emigrante ed è parte di quel necessario processo di ridefinizione della propria collocazione identitaria e sociale («emigrare – diventare straniero – comporta una costante rinegoziazione della propria identità»),[39] si rivela comune anche al poeta, la cui ricerca espressiva si divide tra il nutrirsi di una lingua data, usata e non di rado sclerotizzata, e la necessità di rinnovarla, aggiornarla, re-suscitarla tramite una voce la cui aderenza al richiamo del reale sia garanzia di efficacia e riconoscibilità.

In Italics è dunque cruciale il tema della migrazione, quella «idea dell’invadere e dell’essere invasi da un Altro»[40] che permea lo scenario domestico de La scolta.

È la percezione di un’alterità che progressivamente occupa uno spazio altrui a cui è consacrata la sezione Rapture (termine che suggerisce un rapimento mistico più che un’invasione ad opera di stranieri, aliens umani più o meno legal), in cui di nuovo ricorre la breve forma monologica attraverso la quale personaggi tra loro incomunicanti affermano la propria esperienza del migrare o del ricevere, e insieme la propria carica di rigetto, diffidenza o meraviglia: «eran Loro ‘sti figli di troia: // stranieri»,[41] «vengono a portarci           via le donne / per farci figli»,[42] «vengono con navicelle / di notte   mica / carrette         vengono / da tutti i lati // ma soprattutto // vengono malati e vuoti»,[43] «come quando ami uno straniero / uno che presempio parla / arabo  /      un marocchino / lo capisci se sai delle parole / ma non sei del mondo da che viene».[44]

Il ricorso al monologo, e a quello teatrale nello specifico – a cui già si è accennato per il «soliloquio a due voci»[45] de La scolta – è del resto esibito già in TT / Duet (The Tempest in LA), «sorta di dramma intransitivo»,[46] come osserva Fabio Zinelli sulle pagine di Alias,  posto in apertura di Italics: Annovi (la cui voce pare forse di riconoscere in quella del personaggio Prospero, intellettuale ed esiliato)  tenta qui una trasposizione contemporanea dell’omonima commedia di Shakespeare evocata tra parentesi, traslandola sul suolo statunitense e ai giorni nostri e lasciandola interpretare a dramatis personae (ancora) che (ancora) tra loro tentano un dialogo senza corrispondersi, figure dall’identità composita, meticcia, come si vuole in una terra – anzi la terra per eccellenza – d’immigrazione.

Segue la serie Self-eaters, ripresa e ampliata rispetto alla plaquette pubblicata nel 2007, ispirata, al di là della semplice tentazione ecfrastica, alle opere dell’artista Dana Schutz.

Annovi è un attento, profondo conoscitore di arte visiva e numerosi sono i riferimenti ad opere ed artisti citati in modo più o meno esplicito nei suoi testi: si pensi, solo per limitarci a due esempi, alla Tonsura duchampiana evocata nella poesia dedicata al G8 di Genova contenuta in Kamikaze (e altre persone) o alle parole di Francis Bacon («Nine-tenth of everything is inessential» poste in epigrafe di 9/10 (dittico in due tempi) che chiude Italics in una visione dell’inessenziale quotidiano accaduto a New York il giorno prima del fatidico 9/11.

Gli Autofagi sembrano impersonare, dare corpo – un corpo smembrato, mutilato, esploso per propria volontà esattamente come quello del Kamikaze – alla stessa idea, tanto ricorrente nella scrittura di Annovi, di una lingua che nel ragionare su se stessa, nel “pensarsi”, si pronuncia e nel medesimo istante s’inghiotte, s’assimila, metamorfizza.

Un «supplizio della lingua»[47] propria del parlante che trova una corrispondenza ferocemente grafica nello sfaldamento autoprodotto del corpo dell’autofago: «è come parlare dello scrivere / un atto che ingoia la parola»,[48] «si mangia le parole / che altri poi rimangiano / e mastica un linguaggio / che abita sul fondo dello stomaco: // non vuole la lingua che marcisce (…) questa parola / che fra pochi secondi / anzi – ora // si distrugge da sola».[49]

È la stessa «lingua che cede e cade dalle gengive»[50] invocata ne La gloriola, poemetto dal titolo di pascoliana reminiscenza posto, tutt’altro che casualmente, al centro di Italics.

Una lingua d’origine continuamente «perduta in assoluta / sommessa rabbia»,[51] recuperata e ricalibrata nella condizione di esule [«lingua che ti riceve sull’isola / tra lampàre e turisti e sirene / non ha la grazia né la gloria / di una madre:/ (…) ti manca la parola per dire sete / (dice la tua disperazione»)],[52] di straniero in una terra straniera, che nel suo rigenerarsi poetico «sappia dire la gloria delle cose».[53]

Ne La gloriola Annovi semina un vocabolo – come un indizio, un segnale (senhal, nella sua definizione)[54] – che ritroveremo poi nel Canto delle vicine contenuto ne La scolta: è cunîn, trait d’union lessicale tra i due libri, termine dialettale emiliano che indica un cucciolo di coniglio. Attraverso di esso il newcomer sembra opporre, nella sua lingua madre, una consapevole, disperata resistenza all’arrivo – a un tempo voluto e temuto – a Coney Island (anglicizzazione dell’olandese Konijnen Eiland, letteralmente “isola dei conigli”), [55] rievocando insieme a questa anche il nome della stessa Isola dei Conigli che sorge di fronte a Lampedusa, terra di approdo stavolta italiana per la disperazione dei migranti.

Tra Los Angeles, quinta su cui si apre il libro, e New York, che lo chiude, l’Italia – o meglio quello spazio sospeso tra l’Italia e l’America, quella dimensione ennesima propria di chi vive a cavallo tra due paesi, due lingue, due identità, due culture – si staglia come una terra mai del tutto abbandonata ma riemersa al centro della geografia di uno spostamento che per Annovi è pure biografico.

Così si sovrappongono, senza incrociarsi, in un flusso migratorio che con mille differenze è però un dato continuo, planetario, le rotte dei barconi naufragati al largo di Lampedusa («e impari a dire: // mia figlia galleggia nel mare»)[56], carichi di migranti – persone – in cerca d’Europa, e quelle di chi emigra in aereo alla volta degli States per immergersi in un «contesto alloglotto»[57], per assistere anche a «un parlare / di cose che non sanno essere in inglese»[58]. Cose vissute da altri, osservate dal margine di altri, frutto di un esilio altrui, di un’altra migrazione.

Questo testo è incluso nel volume “Letture” di Cristina Babino, di prossima pubblicazione per Arcipelago Itaca Edizioni.

[1] G. M. Annovi, Denkmal, Brescia, L’Obliquo, 1998.

[2] G. M. Annovi, La scolta, Roma, nottetempo edizioni, 2013.

[3] Ivi, pag. 17.

[4] Ivi, pag. 9.

[5] A. Anedda, La scolta, nota apparsa su Alfabeta2, https://www.alfabeta2.it/2014/03/14/scolta/

[6] La scolta, op. cit., pag. 28.

[7] Ivi, pag.11.

[8] Ibidem.

[9] Ivi, pag. 14.

[10] Ibidem.

[11] Ivi, pag. 12.

[12] Ivi, pag. 13.

[13] Ivi, pag. 14.

[14] Lo osserva anche Marco Corsi in “La scolta” di Gian Maria Annovi, in Nuovi Argomenti, http://www.nuoviargomenti.net/poesie/la-scolta-di-gian-maria-annovi/

[15] A. Cortellessa, Campioni # 1. Gian Maria Annovi, in doppiozero,  http://www.doppiozero.com/materiali/campioni/gian-maria-annovi

[16] In La scolta, op. cit., pag. 15.

[17] Ivi, pag. 25.

[18] Ivi, pag. 27.

[19] Ivi, pag. 24.

[20] Ivi, pag. 29.

[21] Ivi, pag. 31.

[22] G. M. Annovi, Kamikaze (e altre persone), Massa, Transeuropa, 2010 (versione inglese dei testi di Gian Maria Annovi).

[23] Così l’autore in “Scrivere è convivere con una bestia immaginaria e selvaggia. Dialogo tra Gian Maria Annovi e Laura Pugno”, apparso in Nuovi Argomenti, http://www.nuoviargomenti.net/poesie/dialogo-tra-gian-maria-annovi-e-laura-pugno-scrivere-e-convivere-con-una-bestia-immaginaria-e-selvaggia/

[24] La raccolta di esordio di Annovi ha per titolo un termine tedesco particolarmente indicativo degli sviluppi futuri della sua ricerca poetica: Denkmal (“monumento”), il cui significato letterale è – in virtù del carattere lessicalmente agglutinante, condensante, della lingua tedesca nella costruzione delle parole – quello di un “segno (o confine) del pensiero”.

[25] G. M. Annovi, Terza persona cortese, Napoli, d’if, 2007.

[26] G. M. Annovi, Self-eaters, Modena, Mazzoli, Crmo, 2007, testi poi confluiti in G. M. Annovi, Italics, Torino, Nino Aragno Editore, 2013.

[27] G. M. Annovi, Dialogo con Laura Pugno, cit.

[28] Ivi.

[29] «e fare operazione di confine / di auto-costruzione / auto-castrazione della gola // del pronome.» in Denkmal, op. cit.

[30] Lo osserva già Antonella Anedda nella nota introduttiva a G. M. Annovi, Kamikaze (e altre persone), cit., pp. 3-5.

[31] Ivi, pag. 32.

[32] Ivi, pag. 12.

[33] Ivi, pag. 23.

[34] Ivi, pag. 24.

[35] Ivi, pag. 25.

[36] Ivi, rispettivamente pagg. 31, 35, 21, 27, 32.

[37] G. M. Annovi, Dialogo con Laura Pugno, cit.

[38] Ivi.

[39] Ivi.

[40] Ivi.

[41] G. M. Annovi, Italics, cit., pag. 51.

[42] Ivi, pag. 52.

[43] Ivi, pag. 58.

[44] Ivi, pag. 57.

[45] La definizione è di Andrea Breda Minello, in Scene di vita e morte

nella poesia di Annovi, in Avanti,  http://www.avantionline.it/2014/07/scene-di-vita-e-morte-di-signora-con-badante-nella-poesia-di-annovi/#.VlQqA3YvfIU

[46] Fabio Zinelli, Gian Maria Annovi, esule ma non esiliato, recupera nei versi di “Italics” la distanza dalla sua lingua, in Alias – Il Manifesto, 15 settembre 2013, pag. 4.

[47] La definizione è nella recensione di Roberto Milana a Italics, http://www.retididedalus.it/Archivi/2013/giugno/LETTURE/3_annovi.htm

[48] G. M. Annovi, Italics, cit., pag. 28.

[49] Ivi, pag. 30.

[50] Ivi, pag. 42.

[51] Ivi, pag. 45.

[52] Ivi, pag. 44.

[53] Ivi, pag. 42.

[54] G. M. Annovi, Dialogo con Laura Pugno, cit.

[55] Lo spiega lo stesso Annovi nella Nota al testo in Italics, cit., pag. 73.

[56] G. M. Annovi, Italics, cit., pag. 44.

[57] Lo spiega Annovi nell’intervista di Luigi Carotenuto su L’EstroVerso, 5 novembre 2013 http://www.lestroverso.it/intervista-al-poeta-gian-maria-annovi/

[58] G. M. Annovi, Italics, cit., pag. 67.

L’enigma delle norie

5

di Nicola Fanizza

foto noria

( la fotografia proviene dall’archivio della casa editrice Adda di Bari)

Guglielmo si era levato a tempo debito. Doveva andare nella stalla, distante circa dieci metri dalla sua piccola casa di campagna, per governare Martino, un cavallo che aveva il pelo rosso come il fez dei bersaglieri. Sua madre – Rosina –, la sera precedente, gli aveva dato la consegna di adacquare le piante dei pomodori. Erano passati diversi giorni dall’ultima innaffiatura. Faceva molto caldo. La salsedine, dardeggiata dal sole di Ferragosto, si era rappresa quell’anno persino sugli acini dell’uva che si trovava nella «cavata». Si trattava della parte più bassa del podere, che era situato a meno di trecento metri dal mare. La scelta di piantare la vigna in quel luogo non era stata casuale. Lì, infatti, i vitigni potevano fiorire senza che i germogli fossero bruciati dal vento che veniva dal mare.

Dopo aver dato da mangiare a Martino, gli mise il collare, gli bendò gli occhi, lo legò alla noria (a ngéegne) e, infine, si mise a innaffiare. Mentre era intento al suo lavoro, il cigolio molto particolare della noria stimolò l’attenzione di alcuni soldati inglesi che pattugliavano la costa. Questi ultimi si avvicinarono alla noria, manifestando il loro vivo dissenso nei confronti della pratica di bendare gli animali. Ordinarono, pertanto, a Guglielmo – con le parole e, insieme, con i gesti – di togliere dalla testa del suo cavallo la benda che gli copriva gli occhi. Per loro gli abitanti del Paese delle Norie erano dei barbari che «maltrattavano» gli animali.

Guglielmo cercò di far capire a quei soldati che la bendatura di Martino era comunque necessaria, poiché quest’ultimo, girando con gli occhi aperti intorno al tamburo di Vitruvio, di lì a poco sarebbe svenuto. Disse loro – mimando la vertigine – che la «capa gira» anche ai cavalli! Nondimeno gli Inglesi furono irremovibili. Di fatto, nei tre anni che restarono nel Paese delle Norie, mostrarono in diverse occasioni di amare più gli animali che gli uomini.

Quei soldati non avevano mai sentito parlare delle norie, né avevano mai avuto occasione di vederne una da vicino. Si trattava di un sistema di secchi di rame o di legno inseriti in un nastro a catena che ruotava mediante una puleggia, a trazione animale (di solito cavallo, asino o mula): i secchi si riempivano di acqua in fondo al pozzo e, allorquando giungevano sull’apice della ruota*, rovesciavano il loro contenuto in una piattaforma che era collegata a sua volta a una cisterna (u palemmidde).

Appena i soldati andarono via, Guglielmo riprese il suo lavoro. Mentre rifletteva sulla «sensibilità» degli Inglesi, sentì provenire dalla sua casa l’eco del canto di sua madre. Quest’ultima aveva studiato canto, ma aveva dovuto smettere. Aveva una voce bellissima e per questo la invitavano in Chiesa per cantare l’Ave Maria di Gounod.

Erano passati quasi nove anni dalla morte di suo marito. Dopo quel tagico evento Giovanni – il maggiore dei figli – era stato costretto ad abbandonare gli studi e si era dedicato al lavoro nei campi per far fronte alle esigenze della famiglia. Guglielmo e Isabella, che erano più piccoli, avevano continuato, invece, a studiare. Tuttavia, nella tarda estate del 1941, anche Guglielmo aveva dovuto smettere di studiare. Suo fratello era andato in guerra ed era toccato a lui prendere il suo posto in campagna.

Quando Guglielmo, terminato il lavoro, tornò a casa e informò Isabella e sua madre in merito di ciò che gli era accaduto, quest’ultima gli disse che anche lui quando era piccolo non sopportava che si bendassero gli occhi a Martino e che si metteva persino a piangere per costringere suo padre a rimuovere la bendatura dagli occhi del cavallo.

Guglielmo cascò dalle nuvole. Non si ricordava affatto di quell’episodio e disse che lo aveva, comunque, rimosso. La cancellazione di quell’episodio dalla sua memoria, tuttavia, preoccupò un po’ sua madre e la indusse a chiedere a Guglielmo se aveva riposto nell’oblio anche la sua infantile paura nei confronti dei pozzi. Guglielmo asserì che ne aveva un vivido ricordo e che aveva ancora davanti ai suoi occhi il fuoco da cui si era originata. I vicini di casa gli avevano detto che quando si avvicinava a un pozzo poteva uscire il diavolo (u gaghêure) e trascinalo giù. Prima di scoperchiarlo, pertanto, doveva segnarsi di croce. Il sottosuolo era sede del maligno, dell’oscuro, con tutte le varianti che tale credenza poteva generare.

Guglielmo aggiunse che alcuni anni dopo, grazie allo studio del pensiero illuminista, si era messo alle spalle il fardello di quelle superstizioni. L’occasione per dimostrare che non aveva paura del diavolo si era presentata alcuni anni dopo, allorquando la catena della noria si era spezzata, precipitando insieme ai secchi in fondo al pozzo. Si era offerto volontario per recuperarla ed era sceso, tramite una fune, senza alcun timore nelle viscere della terra.

Quella sera, Guglielmo non riuscì a dormire. Gli vennero in mente gli eventi del suo passato più o meno recente. Si trattava delle piccole apocalissi che avevano reso meno opaca e monotona la sua vita. Ricordò in particolare la lezione del professore di storia, in cui aveva raccontato agli studenti il seguente aneddoto relativo alla vita di Cristoforo Colombo:

«Nel 1491, il navigatore genovese si era recato a Cordova per incontrare la regina Elisabetta la Cattolica. Ma aveva dovuto aspettare più di una settimana prima di essere ricevuto. La regina, infatti, da quando era giunta in Andalusia non riusciva più a dormire. Ciò che le toglieva il sonno era proprio il cigolio della noria che alimentava i giardini dell’Alcàzar. E pertanto ordinò che venisse distrutta. Non è un caso – aveva asserito il professore – che la parola “noria” derivava proprio dal cigolio molto particolare prodotto dalla ruota».

Per Guglielmo quel suono lento e tenue era simile a quello di un organo melanconico. La noria aveva la straordinaria capacità di diffondere nelle campagne intorno un suono rassicurante e, nel contempo, inquietante. L’immagine circolare del tempo di cui la noria era il simbolo non riusciva a neutralizzare del tutto lo spettro della morte. Quel suono gli appariva, infatti, come un vero e proprio pianto di morte. Da qui la necessità di vincere la morte, da qui la necessità di mettersi in gioco, di mettersi a girare come fanno i bambini, come i bambini che, però, girano con gli occhi aperti e non hanno paura della vertigine.

Quel suono era connaturato al paesaggio ancestrale di cui era la manifestazione uditiva indissolubile. Era un suono che era destinato, comunque, a scomparire, poiché già negli anni Trenta le norie cominciavano a essere sostituite con le prime motopompe elettriche. Di lì a poco tempo, la meccanizzazione del lavoro agricolo avrebbe introdotto nuovi rumori nei silenzi delle campagne, dove prima echeggiavano, insieme al cigolio delle norie, solo i gridi dei contadini o i loro canti.

D’altra parte, nessuno riusciva a dare risposte esaustive alle sue domande. Quando erano arrivate le prime norie nel suo Paese? Chi le aveva portate? Perché le norie erano presenti per lo più nel territorio rivierasco del suo Paese ed erano quasi del tutto assenti nelle altre riviere?

Il giorno dopo, Guglielmo smise di pensare al suo passato e rivolse la sua attenzione alla sua condizione presente e cominciò a prefigurare anche il suo futuro. Si era reso conto che non riusciva a vivere solo della sua vita, sentiva l’esigenza di ascoltare gli altri. E, per di più, si trovava a vivere in uno spazio sociale in cui erano quasi del tutto assenti le relazioni degne.

Avvertiva l’esigenza di andare via. Cominciò a pensare alla sua vita sul mare e chissà forse viaggiando, avrebbe creato nuove situazioni esistenziali e avrebbe trovato anche l’occasione per risolvere l’enigma delle norie.

La vita in campagna continuava nella sua monotonia. Benedetto, un vecchio marinaio che possedeva un piccolo fondo contiguo a quello della sua famiglia, gli ripeteva sempre la stessa filastrocca: «Ho visto mio nonno per diversi anni zappare in questo fondo per tirare via le pietre; in seguito, ho visto mio padre per trent’anni zappare in questo fondo per tirare via le pietre; e, infine, sono più di quarant’anni che anch’io zappo in questo fondo per tirare via le pietre. Ebbene Guglielmo, sono convinto che le pietre crescono!».

Per converso, Andrea era il solo contadino capace di ravvivare l’ambiente con le sue feste. Ballerino e giocatore, viveva una vita allegra e spensierata, una vita fatta di banchetti e di balli che teneva spesso nella sua casa di campagna. Terminata la guerra, aveva organizzato una grande festa per l’arrivo dagli USA di suo fratello Vito con la moglie americana. I bambini si aspettavano di vederla vestita come una pellerossa, ma, pur rimanendo delusi, erano rimasti comunque incantati dal fascino della bella signora.

Intanto, Giovanni nel dicembre nel 1944 si era fatto vivo con una lettera, in cui diceva che era stato fatto prigioniero e che si trovava in Inghilterra. Guglielmo non poteva abbandonare sua madre e sua sorella fino al ritorno a casa di suo fratello. Nell’attesa, si sottopose alle visite mediche per ottenere il libretto di navigazione.

Verso la fine del 1946, gli Inglesi liberarono tutti i prigionieri e suo fratello ritornò a casa. Subito dopo, Guglielmo riuscì a trovare un imbarco come mozzo su un motopeschereccio e, finalmente, partì per il Levante!

 

 

* La ruota verticale che stazionava sull’imboccatura del pozzo era collegata, mediate una trave di ferro, lunga circa sei metri, a un’altra ruota sempre verticale (vedi immagine), collegata, mediante denti di ferro a un tamburo orizzontale – il «tamburo» di Vitruvio! –, da cui si originava un’asta di legno alla quale veniva legato il cavallo.

 

Da “L’abitante” (II)

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di Domenico Lombardini

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Dalla sezione La forma

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Osservazione 3

un tavolo autoptico:
sul palmo è il nero del putrefatto,
prova sicura dello sfatto; docilmente
si mostrano a noi irrevocabili:
il privilegio di sentirci qui e ora;
e il compito di dimenticarlo.

Overbooking: Lorenzo Mazzoni

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di

Francesco Forlani

 

In uno dei più famosi saggi sulla letteratura fantastica, quello scritto da Todorov, Introduction à la littérature fantastique (traduz. it. La letteratura fantastica, Milano, Garzanti, collana Gli elefanti, 2000) c’è un passaggio che riporta tra le varie definizioni  quella adottata da P.G.Castex, in Le conte fantastique en France (Paris 1951), «il fantastico si caratterizza per un’intrusione brutale del mistero nella sfera della vita reale».

Nel romanzo fiume di Lorenzo Mazzoni, Quando le chitarre facevano l’amore, (Spartaco Edizioni, 2015) accade esattamente il contrario: il fantastico si caratterizza per un’intrusione brutale della vita reale nella sfera del mistero. La sfera del mistero è la custodia di una chitarra, personaggio che oltre a dare il titolo al libro parla, racconta, evoca alla prima persona quello che è davvero essenziale in questo romanzo, ovvero come sia stato possibile il passaggio dal Finale di gruppo al Finale di un gruppo rispettivamente titoli del penultimo e ultimo capitolo.

La band è The Love’s White Rabbits, gruppo realmente esistito, davvero dotato di repertorio psichedelico, ma a Ferrara e non in un’oscura cittadina americana ma soprattutto senza un manager che sembra in tutto e per tutto, ma solo fisicamente, corrispondere al profilo di uno dei più ricercati e insieme meno noti criminali nazisti, ovvero il segretario di Hitler, Martin Bormann.

 «Lui è totalmente sconosciuto al popolo americano. In verità anche allora il suo volto non era poi così noto. Ci pensi, signor Portaleone. La gente generalmente si ricorda di quel depravato poliomielitico di Goebbels, del viso da ragioniere psicopatico di Himmler e della grossa faccia di Göering, ma chi può dire di conoscere davvero il viso di Martin Bormann?».

«E come è arrivato negli Stati Uniti?» leggiamo poco dopo. Questo più o meno si sa; quello che invece non sapevamo e che per una buona metà del libro scopriremo tra mille colpi di scena e di fucili mitragliatori M16, è che da angoli tra i più reconditi del pianeta, con storie e origini tra le più politicamente diverse e profondamente incorrect, ma soprattutto con moventi che vanno dalla giustizia politica alla vendetta sentimentale, un’ondata di personaggi, uno tsunami praticamente, converge su Anita, luogo in cui la band e l’ex criminale nazista tentano di far partire disordini, caos e anarchia. 

«Martin Weisberg (la nuova identità di Bormann) è stato visto ai convegni di Lake Villa, di Cleveland e San Francisco. Da fonti sicure mi è giunta voce che il nostro ragazzo sia il tramite fra la Mobilitazione nazionale e i gruppi della Liberazione negra».

Il senso della psicorivoluzione in atto ce lo suggerisce del resto la citazione presente nel nome della band protagonista e che tra letteratura e musica, Alice nel paese delle meraviglie e Jefferson Airplane, ritroviamo in una delle più celebri canzoni di questi ultimi.

« One pill makes you larger,
and one pill makes you small
And the ones that mother gives you
don’t do anything at all
Go ask Alice when she’s ten feet tall »

« Una pillola ti rende grande
e una pillola ti rende piccolo
E quelle che ti dà la mamma
in fondo non fanno nulla;
Domandalo ad Alice, quando è alta tre metri »

(White Rabbit, Jefferson Airplane)

 

Le parole seguono, le frasi inseguono Luigi Portaleone, Robert e Peter, José e Ramirez, Paco Ignacio, Cindy Johnson, Lolicia Smith, tutti diretti da una sola persona Martin Bormann, con una sola missione: ucciderlo. Così Lorenzo Mazzoni tesse una “reale” cartografia, vera e propria tela di ragno in cui i punti d’incrocio, Singapore, Guatemala,Tan Son Nhat, Houston, Berlino, Trieste, Los Angeles, New Mexico, convergono su quell’unico e misterioso luogo fondato da un garibaldino innamorato della donna dell’eroe dei due mondi, Anita.

FBI, CIA, Mossad, colpi di stato, rock band, in un sessantotto d’oltreoceano tanto immaginario quanto terribilmente reale, agitano i fili della storia che per quanto intricati non potranno mai competere per durezza e resistenza con le corde di una chitarra modello di Les Paul GoldTop serie 1957/58 e la storia che vorrà raccontarci, suonarci a patto che l’ascoltatore come lettore sia pervaso da tarab, art di farsi commuovere da gioia o da dolore, dall’incanto.

 

150 anni di Alice e oltre: regali e segnalazioni

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L’anniversario di Alice è trascorso da poco, ma continuano ad arrivare contributi e omaggi e quindi non vedo perché interrompere la serie.  I post già pubblicati si possono trovare QUI. Oggi pubblico alcune cose che mi sono state prontamente segnalate o inviate (NDF).

Inizio con le immagini di un piccolo libro pensato da Elena Baila e realizzato da Pulcinoelefante, edizioni minuscole, della misura giusta per una tana di coniglio o per il buco di una serratura da cui si intravede un giardino incantato. 

“..ma serbando curioso modo

nel decifrar l’enigma..”

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alice tiratura bassa ris

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Proseguo con le illustrazioni a china e penna bic e l’immaginario inquieto di Cristiano Baricelli e segnalo un articolo a firma Anna Castellari su Nèura, riguardo le opere dell’artista in mostra fino al 15 gennaio alla Galleria libreria dell’Arco, Via dell’Arco 17, Santa Margherita Ligure.

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Sornione
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La colazione

Infine un ricco saggio di Paolo Pecere apparso su Prismo, che esplora Alice e le sue varie mutazioni cinematografiche: da Disney a Tideland di Gilliam, a Miyazaki, Kubrick e Lynch.

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Buon viaggio dietro al vostro coniglio!

Avanzi di natale: la colpevolezza del poeta

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di Andrea Inglese

(Questo dialoghetto si è esaurito prima di concludersi, per stanchezza di fine d’anno. Si può con agio saltare. D’altra parte, voleva esporre un’idea sulla comunicazione in generale, perché pare che tutti quanti quelli che scrivono, scrivono per dire qualcosa, mentre ci sono quelli come i poeti che scrivono per non dire nulla. Però ci sarebbe da osservare che, ad esempio, la parola dei politici di professione, ma anche di quelli semiprofessionisti, spesso assomiglia alla poesia, perché non si sa se davvero si riferisca al mondo, o al nulla, ma anche in televisione spesso sembra…  Ecco mi fermerei qui.)

Gianluigi – Certo che poi, anche voi, voglio dire, con quel vostro atteggiamento…

Io – …

Gianluigi – Tu fai il poeta vero? Ho visto una cosa, non mi ricordo più…

Il tuffatore

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di Jacopo La Forgia

Procul recedant somnia,

Et noctium phantasmata

Cara Alice,

 

oggi è il 7 ottobre e sono seduto in un bar di Venezia. Davanti a me ho il ponte dell’Accademia. L’ultima ora l’ho trascorsa a pensare al prisma che hai tatuato sull’avambraccio. Ricordo molto bene quanto fosse spesso l’inchiostro nero dei contorni. La forma del disegno, invece, non la riesco più a evocare. Ho sforzato la memoria a lungo perché ne ricomponesse l’immagine, ma mi sfugge.

Peccati capitali: una verifica politica

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di Giorgio Mascitelli

L’amara consapevolezza che durante le feste natalizie il peccato di gola mi ha tratto seco mi ha indotto ad avventurarmi in questo giochino un po’ idiota di fare una sorta di borsino di valori dei peccati capitali nella nostra società: chi scende, chi sale e così via. A mia difesa per tanta frivolezza posso solo riecheggiare le parole del Santo Padre: meglio questo che fidarsi delle profezie degli astrologi e degli economisti.

In fondo poi se ci si pensa un attimo, i peccati capitali veicolano un immaginario collettivo anche in società secolarizzate come le nostre e questo non solo perché molte delle categorie religiose continuano a funzionare seppur in forma laica anche oggi. La disapprovazione, poco importa se dovuta alle autorità spirituali o a quelle mediatiche, agisce sempre come un ottimo collante ideologico e come indicazione implicita di quelle che sono le virtù raccomandabili. Ho classificato i vecchi peccati capitali in tre gruppi: gli stazionari, quelli che si sono aggravati e quelli che hanno fatto il grande salto sociale diventando virtù.

Tra i peccati stazionari va indicata la superbia in primo luogo: essa è condannabile e va contro l’imperativo spettacolare della simpatia universale ( quella incarnata da uomini politici che raccontano barzellette o fanno smorfie e gestacci in occasioni di foto ricordo ai vertici internazionali), ma da un certo punto di vista rappresenta anche il legittimo crisma delle persone di successo e pertanto non va stigmatizzata oltre il ragionevole, anche perché può essere sempre giustificata come una forma di sincerità che, come è noto, è un elemento indispensabile per una relazione stabile. In ogni caso il peccato di superbia mantiene una vita carsica perché talvolta riemerge d’improvviso quando torna utile rimproverarlo a quelle voci che acquistano notorietà difendendo cause perse o innominabili: ne è un esempio l’ex ministro delle finanze greco Varoufakis, che la scorsa primavera ha insolentito con la sua insopportabile superbia il povero Dissenbloijm e i pazienti creditori.

Anche l’ira mantiene questa statuto mediano: da un lato la mansuetudine è raccomandabile sia a livello di grandi uomini ( si pensi a Blair che si scusa per la guerra in Iraq dopo solo una dozzina d’anni, ammettendo con umiltà che si poteva fare di meglio e lo si farà, lo si farà) (1) sia a livello di gente comune ( si pensi alle domande sul perdono rivolte dai media ai famigliari di vittime di atti criminali), dall’altro ci sono delle categorie di persone che hanno diritto all’ira e che solo uno sciocco temerario può provocare. Nei rispettivi sottosistemi mediatici sono Putin ed Erdogan ad essere gli iracondi di successo, nel nostro è senz’altro il ministro delle finanze tedesco Schäuble: per tutti costoro l’ira non è un peccato, ma una normale manifestazione della loro superiorità. Ma gli iracondi di successo per eccellenza sono i mercati: la manifestazione della loro ira ha sempre qualcosa in comune con quelle degli dei del mondo antico e come quelle ha motivi imperscrutabili ma fondatissimi. E di recente s’incazzano spessissimo. D’altronde qui la colpa è del Vangelo: non si arrabbiò forse Gesù con i mercanti nel tempio? Nulla di più logico che i mercanti si adirino quando qualcuno d’indesiderato si aggira nel loro tempio che è il mondo.

Tra i peccati che si sono aggravati ci metto subito quello da me commesso, la gola: troppo culto per i corpi perfetti e troppo sospetto per il tempo perso a tavola quando ci si può nutrire efficacemente in piedi e su due piedi per poter sperare in un’assoluzione. La prova più eloquente è che in televisione l’immaginario alimentare è stato sdoganato sotto forma di competizione tra i cuochi e non in quello tradizionale di cuccagna. Le lunghe serate in cui un gruppo di amici si mette intorno a un piatto di pasta non senza la provvidenziale presenza di qualche bottiglia e senza altro scopo che quello improduttivo di stare insieme in allegria restano un peccato mortale.

Anche l’accidia è tra i peccati che si sono aggravati nel corso del tempo e ciò in ragione in primo luogo della sua difficoltà di definizione. In un’epoca che non ama troppo le sottigliezze e in cui si può dire tutto purché in trenta secondi, la natura di questo peccato di per sé è un’aggravante. Poi sia che lo s’intenda come gli sceneggiatori di Seven come il trionfo della droga sia come come il Petrarca come l’incapacità di rinunciare alle cose che ci fanno stare male risulta sospetto per la perdita di tempo che comporta. Se ci aggiungiamo il fatto che forse questo perdere tempo potrebbe avere a che fare con la riflessione su di sé anziché sforzarsi di cambiare la propria vita in una sorta di perenne gara contro se stessi per vedere se si è più bravi degli altri, come ci consiglia un filosofo importante quale Sloterdijk, oppure anziché spenderla nella ricerca di scariche di adrenalina che hanno miglior mercato, si può comprendere quanto l’accidia sia intollerabile per il nostro mondo.

Il peccato più grave di tutti, però, resta l’invidia e questo in ragione di due sue qualità logiche. La prima è che nell’immaginario collettivo è un peccato da cui vanno immuni i principi e i potenti della Terra di ogni tipo e genere, che naturalmente non possono invidiare gli altri essendo loro i migliori; la seconda è che esso ha a che fare con la critica. Qualsiasi critica infatti può essere descritta come frutto d’invidia ( perfino questa mia alla ricezione sociale dei vari peccati potrebbe essere descritta con qualche efficacia retorica come espressione dell’invidia di un goloso nei confronti degli altri peccati capitali) e ciò è estremamente comodo per bloccare a priori qualsiasi discorso critico, tramutando ogni criticato in un biondo Sigfrido e ogni critico in un nano che trama nell’oscurità. Naturalmente non si può essere naif, se si designa ogni critica espressamente come prodotto dell’invidia, è chiaro che si sortisce un effetto comico involontario, ma se con più prudenza ora si parla di ressentiment, ora di cieco furore ideologico ora di odio atavico si ottengono risultati di gran valore, tenendo conto che la statistica dà una mano perchè alcune critiche derivano effettivamente da sentimenti d’invidia.

Veniamo ora ai peccati che ce l’hanno fatta e che sono diventate virtù: lussuria e avarizia. Sulla lussuria c’è poco da dire da desiderio peccaminoso e irrealizzabile è diventata parte integrante del codice performativo attivistico per cui il vero terrore dei nostri tempi non è cadere nel peccato di lussuria ma essere ghettizzati nella temperanza. Bisogna darsi da fare in ogni campo. Il primo ad accorgersi degli albori di questo fenomeno fu Adorno in uno dei suoi minima moralia, mi pare, nel quale nota un po’ sprezzantemente, del resto era verosimilmente un superbo, che qualsiasi impiegata dei suoi tempi poteva vantare un’esperienza sessuale che nel secolo XVIII era riservata a M.me Pompadour e poche altre donne del suo rango. Sarebbe fin troppo facile citare qui la dichiarazione berlusconiana sulla propria giornata tipo costituita da 18 ore di lavoro 3 di sonno e altrettante di sesso, che tra l’altro implica che atti intimi e sonno vengano consumati sul posto di lavoro non essendo riservato alcuno spazio temporale per i trasferimenti. Più interessanti appaiano da un lato la fitta casuistica e il connesso galateo su ogni pratica sessuale resi noti con apprezzabile continuità dal mondo mediatico in uno slancio in cui la volontà di sapere incontra quella di performance, dall’altro lo sviluppo di una biopolitica dell’amore che prevede la traduzione in diritto politico individuale di ogni desiderio: di recente per esempio si è scoperto il diritto alla genitorialità da garantire tramite la liberalizzazione del mercato dei neonati a coppie abbienti a vario titolo sterili.

In un certo senso però la trasformazione più spettacolare è stata quella dell’avariza ossia di quella che noi chiamiamo avidità, essendo un tempo chiamata ‘miseria’ la nostra avarizia. Il discorso sportivo, vincono solo le squadre che hanno fame di vittoria, e quello finanziario, che parla encomiasticamente di ‘grandi predatori’ e di ‘spiriti animali del capitalismo’, sono i principali sintomi della metamorfosi virtuosa e travolgente di questo peccato. A questo proposito basta fare una prova: chiunque facesse un’affermazione del genere ‘ oggi uno dei problemi è che c’è in giro troppa gente avida che desidera semplicemente troppo denaro, con il problema di non sapere più che farsene perchè la stessa avidità rende impossibile investirlo’ verrebbe accolto con la costernazione che si riserva agli alienati anche da parte di chi in linea teorica sarebbe d’accordo. Eppure due grandi predatori intelligenti, reazionari non sprovvisti di senso storico che oggi pertanto risultano dei progressisti, come George Soros e Warren Buffet hanno dimostrato di temere questo trionfo dell’avidità come pericoloso per il corso stesso dei loro affari: non è un mistero per nessuno, ad esempio, che sono state le fondazioni di Soros a finanziare l’importante e complessa ricerca di Piketty sul capitale del XXI secolo. Ma l’episodio più sofisticato di questo processo di assunzione in cielo dell’avidità resta l’articolo che l’attrice erotica Valentina Nappi pubblicò un paio di anni fa su Micromega. In questo articolo l’autrice spiegava che la cosa migliore per la sinistra era rinunciare a mettere in discussione il primato delle banche, cosa che ormai fanno solo i fascisti, mentre esse di questi tempi rappresentano il progresso, e occuparsi solo di diritti civili. Era una splendida allegoria in cui la lussuria sdogana l’avidità in nome dei diritti dell’individuo libero ormai dalle arcaiche superstizioni collettivistiche.

(1): anche se personalmente resto un fan di quelle date dalla Chiesa Cattolica a Galileo, che possono essere riassunte così: “scusaci, abbiamo sbagliato oggi, ma all’epoca avevamo ragione noi”.

 

Neve, cane, piede

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Cop_NEVE_CANE1di Claudio Morandini

La gente immagina che la montagna sotto la neve sia il regno del silenzio. Ma neve e ghiaccio sono creature rumorose, sfrontate, beffarde. Tutto scricchiola, sotto il peso della neve, e sono scricchiolii che tolgono il respiro, perché sembrano preludere allo schianto di un crollo. Gli assestamenti delle masse di neve e di ghiaccio rimbombano a lungo, attraversando la terra sotto i piedi e trasmettendosi all’aria. Le grandi valanghe parlano con boati spaventosi, che riempiono di orrore, e con il sibilo feroce dello spostamento d’aria. Ma anche le semplici slavine tuonano e riecheggiano nei valloni, e quel suono oscilla tra le pareti di roccia ben oltre il cedimento.

La riviera dei fiori

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acqua

di Orso Tosco

La pittura è spessa e viscosa. Sembra bitume, forse lo è. Va data in modo uniforme ma di corsa, perché la pioggia è in agguato, e la pittura nera deve impedire che l’acqua filtri nei vecchi muri della casa. Lavora nello stretto, lui. Lavora nello stretto, con i capelli radi appiccicati contro la fronte dal sudore, gli occhi illuminati di sbieco, e non dai lampioni, nemmeno dalla luna che inizia, ma da una luce interna, interna e cattiva, innocua e blanda.

Da un lato ha la grondaia, a cui il porco che l’ha montata non ha imposto la giusta pendenza. Dall’altro lato un muretto, irregolare, di cemento armato. E sopra, sporgente, quel che resta di una vecchia serra: i vetri bianchi, sporchi, rotti, l’intelaiatura arrugginita. È abbandonata da tempo, i garofani costano meno altrove. Resta comunque ingombrante. La spigolosa adolescenza della vita passata di questi luoghi, adolescenza vecchia che non diventa niente e nemmeno muore: ormai pigra come un krapfen.

Osserva il pennello, lui, il pennello carico di pittura che sembra un grumo di strada fresca, e osserva la propria mano, la trova coperta da un guanto da cucina rosa. Guarda sopra. Ha le braccia tagliate. I tagli sono leggeri e sciocchi, figli di potature maldestre. L’unico colore acceso è il sangue rosso delle zanzare tigre spiaccicate sugli avambracci. Lente a causa dell’autunno, sono ormai comode prede da uccidere bestemmiando. Fischiano e volano, poi esplodono oppure sfuggono: partiture su partiture.

A osservare il lavoro di pittura, già l’istante successivo alla fine del lavoro stesso, si capisce subito che è fatto male. Per nulla uniforme. L’acqua stagnerà, filtrerà, causerà danni.

I sorci che vivono nel sottotetto emettono un rumore stridente, come una corda di pianoforte sfregata con unghie lunghe. Il rumore è breve, passa subito. Lui pensa al veleno che dovrebbe piazzare a bordo tegola. Ma anche il pensiero è breve. Passa, passa anche lui.

Altri pensieri arrivano a eseguire le loro figure libere. Pensieri come l’idea che lui non sia bravo a fare nulla. Non bravo con il bitume, non bravo a leggere le bollette del gas, non bravo a vendere soldi e non bravo a salvare soldi, non bravo a scrivere, a saltare.

Buono a nulla e nel nulla.

Questi pensieri ci mettono poco a diventare verità. E le verità sono come un pelo di capra, o di pecora o maiale, che gli cresce attorno al collo mentre si butta tra le canne di bambù per tornare a casa. Si torna a casa con il collo caldo e sporco di verità perché la porta va aperta con un misto di saggezza e disperazione. Bisogna tornare a casa fallendo nell’equilibrio.

Le ceneri di suo padre lo guardano, appollaiate davanti alla finestra che dà sul giardino. Sono rinchiuse dentro una scatola verde che assomiglia a quelle in cui si tengono le carte da gioco. Le ceneri hanno occhi fatti di piccola frutta talmente vecchia da apparire irriconoscibile, forse acini d’uva, forse semi.

Cosa vogliono dirgli? Dicono qualcosa, gli occhi della cenere fresca di suo padre?

Non si sa. Ciònonostante, ogni martedì e giovedì lui sottopone loro delle giocate del lotto, uno o due ambi, un terno, affinché suo padre guardi e, eventualmente, decida. Il sabato invece non gioca. Gli piace far finta di aver dimenticato di giocare. Ama sdraiarsi, il sabato sera, a pensare ai rimpianti, a puzzare.

Ma oggi non è sabato, è un altro giorno.

È stanco, sono mesi che è stanco. Da quando la malattia di suo padre si è incattivita e lui è tornato a vivere con i genitori, è da allora che si sente stanco. È normale, è normale, si dice.

Gli ospedali, i sintomi, la mancanza cronica di miglioramenti, di buone notizie.

Ma questa stanchezza arriva da più lontano, da prima, e questo è meno normale, meno normale, meno normale, ripete a bassa voce, in bagno o sopra qualche albero, oppure seduto in disparte in un bar quasi vuoto. (Quanti uomini, quanti uomini gli hanno detto “Mi dispiace per tuo padre” in questi mesi? E quante volte ha osservato le loro camicie piene di tasche e ha risposto “Grazie”, come dopo un complimento? E quanti uomini hanno taciuto, guardato e taciuto? Non importa.)

Sua madre si aggiusta il cappello di lana che è costretta a indossare quando la cervicale le dà noie. Di solito poco prima che il vento cresca, iniziando sul mare, per poi salire verso di loro, che stanno tra gli alberi e le serre abbandonate.

“Hai chiamato il notaio?” domanda sua madre “Si? E allora, che dice?”

“Che ci sta lavorando.”

L’espressione del volto di sua madre significa che lei sa benissimo che nessuno ha chiamato nessuno, e che nessuno lavora a niente. Sono buono a nulla e per nulla, pensa lui, ma mia madre vuole immaginarmi diverso, migliore.

Lui la bacia sulla fronte come altri pregano, con l’abitudine di una pianta che ricresce.

Il giardino oltre la finestra del soggiorno subisce gli scarti del tramonto. Tutte le ombre grossolane, color barbabietola, e le profondità del rosso cupo fanno sembrare gli aranci e i limoni come ricoperti di ardesia, di ardesia sbiadita. Le foglie mosse degli alberi diventano vaghe, si trasformano in materiale da chiesa spoglia, da chiesa spoglia che all’improvviso offre un bagliore e subito lo rinnega. Invece sua madre esce a camminare col cane. E lui beve, beve vino da tavola dentro una tazza macchiata.

Il fuoco ai fuochisti il mare ai maremoti il cuore ai rincuorati.

Prima, prima di tornare a casa a vivere la malattia e il lutto con sua madre, prima, a lui piaceva bere e bere, bere fino a ubriacarsi, per ore. Per troppe ore, soprattutto. Bere oltre il momento in cui non ha più senso bere. Quello gli piaceva. Adesso, invece, gli piace bere alla pari di certe vecchie signore morenti, che si sentono in colpa per le preoccupazioni causate agli altri, ma che al tempo stesso ne vanno fiere e, nel mentre, bevono di nascosto. Come per correggere un breve raschio in gola, una tosse che non merita commenti.

A lui piace bere poco e male, bere vino da tavola aspro, o rosolio venuto così così. E gli piace bere da solo, di nascosto, buttando immediatamente la bottiglia vuota e lavando subito il bicchiere. Come a dire, non è successo niente, non è passato nessuno, il campanello non ha suonato, la porta non si è spalancata. Quel tipo di bere che, forse, a raccontarlo gli si fa un torto. Come a voler attribuire un tono a certe facce che lui vede in paese, la sera. Facce che un tono ce l’hanno, ce l’hanno: un qualcosa riguardante la lobotomia frontale, una certa signorile demenza, diciamo. Ma che, ecco, già si sente, a spiegarle, si finisce con lo sprecarle.

Perché invece non accettare l’inspiegabile come si accetta lo sguardo di un cinghiale o di un vigile urbano? Perché non dargli da fumare? Accettiamolo, accogliamolo.

Accogliamo la casa vuota e buia, accogliamo la maniera brusca con cui le finestre sporche distorcono il verde delle piante, i movimenti disperati del verde e la sommessa voglia di scomparire delle ombre, accogliamo e vezzeggiamo le tante cose che, anche oggi, lui ha cercato di risolvere e che ha fallito. Accettiamo le tante cose che ha fallito.

Arriva la cena, e con la cena arriva per lui il momento per i buoni propositi. Ogni sera una fine dell’anno, un inizio di scuola, un matrimonio, ogni cena un nuovo, energico contratto con la vita. Invece, poi, lui beve di nascosto, e smentisce tutto. Va a letto e resta a fissare il soffitto rugoso, a buccia d’arancia vecchia, e pensa alle donne con cui è stato a letto. L’immagine di una costola gonfiata e sgonfiata riflessa in uno specchio appoggiato al muro. Una frase sconcia e buffa e confortevole. L’odore sulle dita. L’odore di merda e di detersivo e di broccoli. Le labbra storte. I piedi da lepre. La piega del ginocchio e la voce che ci si spegne dentro.

Tutte cose belle e tristi che lui pensa e ripensa fino a quando si vede nel riflesso della finestra: e allora smette; smette perché si accorge di avere una barba da cronaca nera minore e gli occhi stanchi, stanchi e cattivi. E ha la tentazione di domandarsi: ma è così che divento, questo divento, di già?

Così smette, smette di pensare ai corpi e ai rumori dei corpi e al calore dei corpi e alla loro amorevole e incomprensibile casualità, e legge.

Apre un libro a caso. Legge disordinatamente, saltando pagine e pagine, capitoli interi, alla ricerca di specifici gruppi di parole. Quali gruppi di parole?

Dipende. Certe sere lui sente il bisogno d’immagini riguardanti i settori, le inferiate. Altre volte cerca i risvegli, i nomi di strada, gli stagni. Altre volte ancora i colori, le ostriche, le battutine. Può capitare che senta di aver bisogno di maledizioni, di fiabe, di canzoni. Ma è raro.

Quando ha trovato qualcosa, lo legge e rilegge senza sosta. Allontana il sonno e la voglia di saperne di più, legge e rilegge la stessa frase, la stessa mezza frase, le stesse tre parole in croce fino a quando ritiene di essere stato accettato, per davvero, di aver stipulato con loro, con le parole, un patto, un accordo del tutto indifferente alla storia e al senso.

Allora crolla, dorme immediatamente. Senza sogni. I sogni di un bicchiere dimenticato sono splendidi e alti e la loro maledizione è vuota e si allontana. Lui si sveglia spesso. Perché i bicchieri vuoti non hanno pace e perché sente la casa fare i rumori. E quando si sveglia, lui prende il bastone di legno che tiene vicino al letto e lo stringe come si stringe un cornicione per non cadere. Poi si alza in piedi e ha paura.

Al buio, con la casa che fa i rumori e un bastone in mano, lui ha paura.

Dietro ogni rumore potrebbe esserci un assassino. Ogni rumore è un assassino che non vuole fare rumore. Lui lo sa e ha paura. Avrà il coraggio di uccidere l’assassino? Avrà la forza e l’abilità? E poi: gli piacerà?

Lui teme di si. Ha così paura dei rumori della casa, ha così paura degli intrusi che possono infilarsi dentro quei rumori e sgattaiolare in salotto, al piano di sotto. Ha paura di loro, e ha paura del dolore che su di loro sente di voler sperimentare, perché crede che possa piacergli.

Lo sa. Non è sicuro di avere il coraggio per sperimentarlo. Ma è certo che, se trovasse il coraggio necessario, quel dolore gli piacerebbe. Colpirebbe a bocca chiusa e senza labbra, colpirebbe oltre il respiro, lascerebbe il male al male, aggiungerebbe male al male.

Cammina per la casa buia. Stringe il bastone tra le mani, sente le nocche vivere pienamente. Quando entra nel bagno colpisce l’aria con forza. (È nell’aria che stanno gli assassini, ovunque.)

Il legno del bastone fischia e si zittisce. (È nell’aria che bisogna colpire, colpire e sperare.)

Lui ha le mani che tremano a causa della paura e dei rumori. Il lampione oltre la siepe lo sa e si fa bianco di luce, di una luce più bianca della luna bianca. Lui guarda la siepe e sputa, sputa come una seppia.

È molto bello, lui, adesso. Da solo, nel bagno. È convinto che ci sia un vecchio che lo aspetta nella doccia. È molto bello, lui, quando si volta a controllare, sicuro, certo di trovare un vecchio bonario, in attesa, con una coltello in mano. Ed è certo che se il vecchio ci sarà, se il vecchio avrà avuto la pazienza di aspettarlo, lui non lo colpirà con il bastone; no.

Lui poserà in terra il bastone giallo, sulle piastrelle, e si avvicinerà alla lama, per aiutare il vecchio a farsela entrare nello stomaco, con una lentezza così dolce e ingiusta, con una lentezza spossante e oscena e delicata.

Ma il vecchio non ha avuto pazienza. È andato. Ancora una volta è notte e ancora una volta il bagno è vuoto. Il bastone resta tra le mani, fischia nell’aria, dove bisogna colpire. Ma c’è soltanto aria, gli assassini si nascondono bene, sono bravi, restano rannicchiati dietro i rumori della casa e aspettano.

Lui ritorna a letto. Ha paura di dormire troppo profondamente. Così si palpa lo stomaco e le chiappe, si palpa i coglioni ed è stanco. Fuori, gli altri, ascoltano le voci aspettando il turno per usare la propria, decorano le vetrine, arrotolano le corde, si rifugiano nelle cantine dove poi si baciano, e hanno così ragione, così tanta ragione, ciascuno di loro.

Quanto ancora vi devo? Questo, questo pensa lui. E poi, ancora più sdolcinato e irrimediabile, pensa che dovrebbe piovere carta da regalo, che la stanza dovrebbe riempirsi di ricci di plastica, e che il dolore dovrebbe essere meno arioso.

Lui osserva il profilo del bastone nel buio della stanza, la forma. Ha il naso ghiacciato.
E sono frasi brevi e brutte, queste, mentre i suoi pensieri sono brutti e lunghi.

Una notte-questi sono i suoi pensieri triturati come scarto di carne-una notte io sentirò il vero rumore, il rumore che sto cercando e che si farà riconoscere. Un rumore vivo, che mi sfiderà.

Allora stringerò il mio bastone, e il mio bastone giallo avrà fame. Scenderò le scale quasi senza sollevare i piedi, come se stessi passandomi la lingua sui denti, e arriverò in salotto.

In salotto troverò la luce buia che si vede in mare a occhi aperti, quando l’acqua è divorata dalle alghe e dalla schiuma. E io morderò il muro, spalancando la bocca fino a strapparmi la carne sulle guance, per far parlare gli zigomi. Con grande eleganza. Con l’eleganza di un ballerino a cui siano stati distrutti i muscoli e le ossa e che, pur ritrovandosi soltanto con i tendini, scopra di avere comunque troppo. Ma nessuno, nessuno dei morti rannicchiati al centro del salotto mi noterà. Perché i morti sono sbadati. E perché i morti saranno troppo impegnati a lacerare e scavare.

Cosa scavano i morti, i miei morti? Mi chiederò conoscendo già la risposta.

In cosa affondano le dita? Domanderò soltanto per avere la scusa di sorridere da ogni dente.

E che voglia, che voglia di rimpiangervi tutti e tutte avrò, guardando il mio corpo in terra, steso al centro del salotto, e quanta voglia di avere mancanza di voi avrò, nel vedermi scavato e spolpato dalle mani dei miei morti, dalle loro mani così delicate, quasi di schiuma.

E con quanto amore per voi, con quale splendida, soave qualità d’amore per voi colpirò il mio corpo già sventrato, il mio corpo spalancato, il mio corpo illustrato nelle varie gradazioni del sangue.

Con quanto amore, con quanto amore che serve a niente e che non passa, e che giustifica le notti e sbaglia, e che rassicura, e brucia in silenzio, e non basta, e non passa, con quanto amore purissimo farò scempio di me, rannicchiandomi infine dentro il mio stesso cadavere con la dolcezza di una civetta che ritorna senza essere notata.

IMMAGINE DI CLARISSA BELL

La battaglia al contrario

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nave_guerradi Romano A. Fiocchi

(La battaglia” è il titolo del capitolo numero Sei di un bi-romanzo di trentaquattro capitoli ancora work in progress. Bi-romanzo in quanto si tratta di due romanzi intrecciati dove i capitoli si alternano sino a confluire in un unico finale. Quello descritto non è uno scontro qualsiasi ma la battaglia navale che determinò il trionfo dell’Occidente sull’Oriente. Era il 2 settembre del 31 a.C. Con il mio intervento letterario ne ho fatto una battaglia al contrario, nel senso che ho capovolto storicamente le sorti dell’evento. In fondo è così anche nel mondo reale: basta un nulla per cambiare il corso di una civiltà. r.a.f)

* * *

Mio padre odiava la guerra, disse il giovane marinaio.

La odiavamo insieme, disse Catullo.

Allungò il braccio, l’indice teso verso una striscia scura che affiorava sull’orizzonte. La costa dell’Acarnania. Gli occhi di lattuga di mare erano trasparenti:

Laggiù c’è Azio, – disse.

Era un altro tassello della sua idea monolitica: la battaglia di Azio. L’odore di quella battaglia sul mare si era perso nei secoli ma Catullo sapeva che era lì che il mondo aveva voltato pagina. Era davvero l’unica battaglia che avesse avuto un senso nella storia dell’umanità, per quanto l’umanità e la sua storia potessero averne. Il nonno di suo nonno vi aveva partecipato. Oppure era stato il padre del nonno di suo nonno. Chiunque fosse, il suo avo aveva calcato la terra del promontorio di Azio al seguito delle legioni di Publio Canidio Crasso e vi aveva perso la mano destra, dilaniata da una catapulta e poi amputata. Fu allora che pronunciò la storica frase: “Cazzo, ecco l’occasione per provare la forza dei mancini!” Era un uomo che pensava positivo. Il fantasma dell’eroica mano amputata ossessionò per generazioni la famiglia di Catullo come se la battaglia di Azio si riducesse a quell’unico episodio. Era il fantasma di una mano che prima di essere dilaniata aveva risposto al cenno di Antonio quando aveva dato il via alla battaglia. Le grida di comando si erano propagate di nave in nave e avevano rotto il silenzio che regnava sul mare. I tamburi incominciarono a pulsare come cuori nei ventri degli scafi. Gli scalmi gemettero sotto lo sforzo dei remi che battevano all’unisono la superficie e sollevavano piccole onde di schiuma. La flotta di Antonio e Cleopatra lasciava il golfo di Ambracia. Il nemico l’attendeva al di là del promontorio. E con il nemico, la Storia. Qualche giorno prima, la squadra di Gaio Sosio aveva approfittato della nebbia ed era uscita per valutare la situazione. La sortita improvvisa aveva permesso a Sosio di assalire la squadra di Arrunzio ma il luogotenente di Ottaviano, Marco Vipsanio Agrippa, si era precipitato in suo aiuto e aveva costretto l’aggressore a ripiegare nel golfo. Anche Canidio, con le sue legioni che controllavano l’imbocco del canale e i piedi del promontorio, aveva confermato il blocco navale. La flotta di Ottaviano tagliava i rifornimenti via mare, ben sapendo che via terra sarebbero stati impossibili. Era un gatto davanti alla tana del topo. La battaglia navale divenne inevitabile. Occorreva spazzare l’ingresso del golfo e riprendere il controllo del mare.

Si alzò una leggera brezza. Scendeva dalle coste dalmate e investiva tutta l’Acarnania. Le navi scivolavano via con i loro rostri taglienti. Fendevano le onde sul pelo dell’acqua. L’aria sapeva di morte. Antonio pensava alle vele che aveva caricato a bordo e che molti avevano guardato con sospetto. Nessuno porta con sé le vele per una battaglia, in battaglia si usano i remi. Sapeva che i paurosi lo credevano pronto ad una fuga, i valorosi all’inseguimento delle liburne di Ottaviano molto più leggere delle sue quinqueremi. Ecco perché le vele. L’Antonias, nave ammiraglia di Cleopatra, navigava dietro di lui accompagnata dalle sue sessanta quinqueremi da guerra. Antonio ne distingueva il vessillo che garriva contro il cielo azzurro. Avrebbe preferito un vento da sud, che gli portasse l’odore di Alessandria, l’aroma dei legni bruciati sul Faro, i profumi salmastri del lago Mareotide. Ma Alessandria era lontana. Soprattutto per lui, che cominciava a sentirla come la sua città.

Davanti al golfo apparve lo schieramento delle navi di Ottaviano. Erano quasi tutte triremi e liburne, imbarcazioni che nulla avrebbero potuto contro le possenti quinqueremi della flotta egizio-romana. Antonio sapeva che da parte delle navi di Ottaviano sarebbe stata, più che una battaglia, una scaramuccia continua fatta di incursioni giocate sull’agilità di manovra. Piccole e insistenti ferite che avrebbero potuto dissanguarlo. Doveva aggirare il nemico, bloccarne il movimento con le sue fortezze galleggianti.

La flotta romana era disposta in semicerchio, da meridione verso settentrione. Le squadre dell’ala destra erano comandate da Marco Lurio, al centro Lucio Arrunzio, a sinistra Agrippa. Con Agrippa c’era la nave di Ottaviano. Antonio dispiegò le sue navi di fronte a quelle romane, anche lui in semicerchio. Sosio al comando dell’ala sinistra, di fronte a Lurio, e Lucio Gellio Publicola a destra. Le spalle di Publicola erano coperte dalla quinquereme di Antonio. Al centro, gli antoniani Marco Insteio e Marco Ottavio insidiavano le squadre di Lucio Arrunzio. Le navi di Cleopatra erano anche loro in posizione centrale, nelle retrovie, pronte a forzare il blocco. Gli equipaggi di entrambi gli schieramenti si guardavano in silenzio. I tamburi tacevano. Cigolii di corde e di legni impregnavano l’aria. I rematori riposavano prima dello sforzo supremo. Sembravano tutti cose già morte. E la morte era lì, con la sua enorme falce, in compagnia delle Parche. Tra non molto avrebbe regnato su quelle imbarcazioni. Soltanto allora Antonio si rese conto che stava spingendo la propria gente contro la propria gente. La nuova Roma d’Oriente contro la vecchia Roma d’Occidente. Era una battaglia contro se stesso. Comunque fosse andata, avrebbe perso. La vera vittoria poteva appartenere soltanto a Cleopatra.

Un grido. I tamburi della squadra di Sosio incominciarono a pulsare, le pale dei remi a tuffarsi. Sosio costrinse Lurio a ripiegare stringendo il cerchio. Anche Agrippa, sull’ala opposta, retrocesse sotto la pressione di Publicola. La flotta di Antonio abbracciò la flotta romana in una morsa. La linea delle imbarcazioni si sgranò lasciando scoperto il centro. Fu allora che Cleopatra si introdusse nel cuore della flotta nemica dando inizio alla battaglia. Lo speronamento con i rostri acuminati aveva già fatto le prime vittime nelle squadre di Ottaviano. Alcune triremi affondavano miseramente tra le urla dei rematori rinchiusi nei ventri delle navi e quelle dei legionari che affogavano sotto il peso delle corazze. I rostri delle navi di Ottaviano non riuscivano a fare altrettanto: le quinqueremi di Antonio erano rinforzate con fasci di legname e placche di ferro. Il genio di Agrippa sfoderò allora l’arma segreta: il corvo, enorme rampone d’arrembaggio. Le sue navi affiancavano quelle nemiche e lo lasciavano cadere sul ponte avversario sfasciando i parapetti e conficcando gli uncini nella tolda. Sulla passerella del corvo scorreva gridando un fiume di legionari pronti al combattimento. La battaglia da navale si trasformava in terrestre. Intanto dalle torri di triremi e quinqueremi gli arcieri scatenavano una pioggia di frecce. Il cielo era solcato dai proiettili infuocati scagliati dagli onagri. Uomini squarciati dai dardi delle baliste. Braccia troncate. Carni trafitte. Corpo a corpo cruenti. Sangue che sprizzava. Grida di aiuto e di dolore. I corvi azzannavano le navi nemiche con velocità sorprendente ma la flotta di Antonio stringeva sempre più le sue mascelle proprio sull’ala sinistra, quella di Agrippa. Gli arcieri di Cleopatra offuscavano il cielo di frecce cosparse di pece accesa. Ovunque urla, fumo, incendi. Sempre più limitate nei movimenti dalla morsa egizio-romana, le liburne e le triremi di Ottaviano non riuscivano ad evitare gli speronamenti. Il mare ribolliva di morte. La superficie era ricoperta di rottami, cadaveri, pezzi di legno fumanti. Tutto, nel giro di qualche giorno, sarebbe finito sulle coste dell’Acarnania. Il mare rigetta ciò che non gli appartiene, compreso il dolore. La trireme di Ottaviano, colpita dal rostro di bronzo della nave di Publicola, imbarcava acqua. Ottaviano si trasferì sulla liburna di Agrippa. Ma fu lì che Cleopatra, a bordo dell’Antonias, lo vide. La splendida regina alzò le braccia al cielo e invocò la forza del dio Serapide, più potente di tutti gli dei di Roma perché concentrava in sé la rabbia di Osiride Api Dionisio Zeus Esculapio Plutone. Poi chiamò forte Alessandro, protettore dei Lagidi e di tutti gli abitanti della città da lui fondata. Dal mare emerse lo spirito di un guerriero con la causìa in testa, dietro di lui migliaia di altri spiriti guerrieri che diedero forma alla terribile falange macedone. Un grido di battaglia e le onde si sollevarono sotto una forza impetuosa travolgendo le flotte. Le imbarcazioni di Ottaviano, più leggere, furono scagliate in tutte le direzioni. I corvi piantati da Agrippa nelle quinqueremi avversarie furono strappati alla base, i remi spezzati, affondate le navi in avaria. La tempesta travolse tutti ma le navi delle flotta egizio-romana, grazie alla loro stazza, mantennero il controllo e riuscirono a restare in formazione. Quando la violenza del mare cessò, i legionari di Antonio e le truppe egizie di Cleopatra fecero il resto. Assalite le navi avversarie, ormai disorientate e divise, ne massacrarono gli equipaggi risparmiando soltanto chi giurava fedeltà ad Antonio. Agrippa, avvertita la disfatta, si gettò sulla propria spada. Arrunzio si arrese e fu costretto schierarsi con Antonio. Lurio morì colpito dal dardo di una balista. Il corpo di Ottaviano non fu mai ritrovato.

Intanto a terra, le legioni di Canidio venivano trasbordate dalle squadre di Sosio sull’altra sponda del canale e sbaragliavano le legioni di Tauro, terrorizzate dalla voce della disastrosa sconfitta navale e decimate dalle diserzioni. Tra i vincitori si contarono alcuni morti, qualche ferito e una mano destra dilaniata da una catapulta.

La notizia del trionfo di Antonio e Cleopatra raggiunse Alessandria. Antonio fu proclamato Imperatore. Fu una festa sfrenata sino a notte fonda.

“Nature morte”. Cinque poesie di Yoshioka Minoru

5
Yoshioka Minoru

Yoshioka Minoru, Nature morte

 

 

traduzione di Andrea Raos




Natura morta

Dietro la dura superficie del vaso da notte
crescono in splendore
frutti autunnali
mele castagne uva
e tutti alla rinfusa
accatastati
verso il sonno
verso una sola armonia
verso una musica che cresce si raccolgono
tendono al recesso più buio
i loro noccioli scivolano piano di lato
e intorno
aleggia l'ora della prospera decomposizione
adesso davanti ai denti dei morti
stanno immobili come pietre
tutti quei tipi di frutta
che dentro al vaso da notte
sempre più greve
sul rovescio di questa notte apparente
talvolta
paurosamente oscillano

*
 
Natura morta

Dalla rapida notte avviluppati
i pesci dentro cui
posate per un attimo
le ossa
scivolano via dal mare pieno di stelle,
sopra il piatto
in segreto si dissolve
la luce della lampada
che poi si sposta a un altro piatto
dove ereditata la fame di vita
nel fondo di quello
prima l'ombra
poi l'uovo chiama

*
 
Natura morta

In fondo a una bottiglia vuota
legate al turacciolo
le nostre gole
le nostre esili carni
splendide serpi che oscillano con la bilancia
le nostre pupille non reggono il peso dell'oro
da ricordare è il sole
data sempre nuova distanza
i nostri muscoli cardiaci
percorrono l'intero corridoio dell'estate
avvoltolato nei lunghi intestini di un cavallo
e verso il mare di notte tutto meduse
per metà immerse
le nostre teste
generano cose senza luce

*
 
Natura morta

Il sale sporco della cucina
il sesso pendulo di un cane
un chiodo sporgente dal soffitto

mentre un angolo della loro morbida metà inferiore
si riflette in uno specchio scuro
infine
gli arti non ancora formati di un feto
un cavallo sulla spiaggia fantasticato da un pittore
calcoli che non tornano
e altre simili astrazioni
verso un'altra stanza		un'altra dimensione
vengono trasportati

A portare queste cose disparate
a uguali altezza e angolazione
è la meravigliosa astuzia del lavorio della notte
che tuttavia
poiché altrimenti peserebbe troppo
è un uovo soltanto
poggiato sul davanzale

e lì, via dall'oscena confusione della notte
luccicante un uovo si volge a una luna

*

Un mondo

Nel crepuscolo       destati da un richiamo       riscossi       infine alzati       fanno per chiamare       groppi di gialle forme astratte       ovvero un caos di cose a mucchi simili a lumache       da sotto a quelle pieghe ingrandite appaiono       le nostre sembianze       da cui colano liquidi copiosi       i nostri nasi       che rigurgitano vomito per sopravvivere       le nostre gole       poi esposti senza riguardi alla luce invernale       screpolati ogni giorno di più       i nostri denti       sempre spinte in cerca di quel punto buio e remoto       arrotolate le nostre lingue       adesso sprofondano nel mare del disco del tramonto       un mondo di ossa recise dai muscoli       ma, giunte prima       le nostre bocche di colpo enormi eruttano saliva gelata

 

*

Da Seibutsu 静物 [Nature morte], 1949-1955, in Iijima Kōichi 飯島耕一 et al. (a cura di), Yoshioka Minoru zenshishū 吉岡実全詩集 [Poesie complete di Y. M.], Tokyo, Chikuma Shobō 筑摩書房, 1996, p. 57 – 62.

*

Qui alcune informazioni su Yoshioka (in inglese).

 

Yoshioka Minoru

Christmas Carol

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di Daniele Ventre

Dicono che partorì poggiata a una palma in deserto
d’oasi in un mare di sabbia Al-ilāt-Maria sul cammello
nave fra forme di dune –ondeggiante in groppa alle dune
col femminile di Allah –Kâf, Hâ’, Ya’, Aîn, Sâd –da tenerne
sempre all’oscuro i bambini feroci –in un mare di sabbia
dicono –si raccomanda però di tenersi alla guida
delle scritture –tenersi a destra –e cinture allacciate.
Dicono che partorì poggiata a una palma in deserto
d’isola in mezzo al Gran Verde Ilāt –nome d’arte Latona
–Lato-Letò per gli amici –Maria –una madre di Apollo
Lato la madre di Apollo –e la palla in pelle di dèi-
uomini. Dicono poi che Latò –nome d’arte Latona–
si nascondesse anche lei dall’invidia scesa dall’alto:
lei il femminile di Allah –che non si conosce davvero
l’isola in mezzo al Gran Verde o l’oasi chiusa fra dune,
chiusa fra forme di dune –ondeggianti in forme di seni
dal femminile di Allah –per associazione di dee
e associazione di idee. –Ma gli associatori, che teste!
Decapitiamoli un po’. –ma dicono poi che in effetti
è luminoso anche Ilah –tanto più col suo femminile
è luminoso anche Ilah senz’articolo –nome d’arte
Zeus –con affianco il gran verde e Ilāt –nome d’arte Latona
–Lato-Letò per gli amici –Maria per i più sconoscenti:
per i bambini feroci all’oscuro accanto alla grotta:
cuori contenti alla lobby –per scelta: eretismo di dee
per eresia di presepe –che eretici pieni di ardore!
Inceneriamoli un po’, così ci calmiamo le feste
col femminile di Allah. –Ma gli associatori, che teste!
decapitiamoli un po’. –Si faranno un po’ compagnia
con i compagni bruciati sui roghi –e ne abbiamo per tutti
di media-evo –è la media degli evi –e dei figli d’un’Eva
figli d’Ishah –tutti figli di un’Iside (figli di un’Isis?
Squallide le omonimie) nel presepe insieme ai pastori
e ai bombardieri e ai regali e al petrolio e ai datteri e ai giochi
di strategia in un tempo irreale. –E dicono sempre
che ha partorito Maria –in arte Al-Ilāt o Latona
–Lato-Letò per gli amici –Una mamma: certo una Maia:
una mammina col bimbo in grotta –un bambino ruffiano
ladro di vacche e cantante. –E poi era Vergine (Astrea:
giochi d’oroscopo antico –ci credi all’oroscopo? Tutti
ci hanno creduto a suo tempo –si vedono le conseguenze
per i compagni bruciati sui roghi). –E lo dicono sempre
che ha partorito Maria –in arte Al-Ilāt o Latona
–Lato-Letò per gli amici –una terra in preda agli incendi:
Semele in cenere sotto i fulmini –dicono sempre
si nascondesse anche lei dall’invidia scesa dall’alto
quella mammina col bimbo in pancia –un bambino ubriacato
e spacciatore e sciamano –un dio crocifisso nel vino.
Dicono che ha partorito Miryam o Maryam o Maria
stella del mare da amare amara Israele in Egitto:
pure non si era contenti al quia –ci vedemmo soltanto
una Afrodite –e però non dirlo ai bambini feroci:
tutti vicini a presepi e grotte in virtù di eretismi
psichici –quante eresie per associazioni di dee!
Inceneriamole un po’. –Ma gli associatori: che teste!
decapitiamoli un po’. –Si faranno un po’ compagnia
tutti vicini al presepe e alla Kaaba tutti adoranti
Stella-del-mare da amare amara –israeliana in Egitto:
Imma –Eva-due-punto-zero –una vera Ishah col restyling
sotto la grotta vicino all’albero stretta alla palma:
profuga dai bombardieri per Siria e Israele e in Egitto
e si nasconde anche lei da un’invidia scesa dall’alto
–esodi erodi ed eredi e cammelli in groppa alle dune
col femminile di Allah, di Zeus e di Dio. –Ma non dirlo
mai a Famiglia Cristiana –non dirlo ai bambini feroci
figli di un’Isis minore –e di un’Iside –di un’Astrea
Vergine –torna davvero la Vergine –torna Saturno:
torna Virgilio –il profeta casuale –e ci torna anche Dante:
“Vedi com’io mi dilacco? e come è storpiato Maometto?
Per non parlare di Cristo?” –Rimangono tutti col mitra
–tornano tutti con Mitra –anche lui lì in grotta –la madre
Vergine –giochi d’antico oroscopo –lì con il Toro
con l’Asinello del Sud –con la sciarpa azzurra -e comunque
c’entra un San Paolo e la casba con i bombardieri e i regali:
le associazioni di dee –ci tornano tutti col mitra:
i camorristi perfino –ci tornano tutti con Mitra
–tornano tutti con Mitra –anche lui lì in grotta –la madre
Vergine –giochi d’antico oroscopo –lì con il Toro
con l’Asinello del Sud –e il papino che si inginocchia
–nascita doppia che il Sole è bambino dentro il presepe.
Dicono che ha partorito, Miryam o Maryam o Maria
stella del mare da amare amara Israele in Egitto:
una Afrodite –Kâf, Hâ’, Ya’, Aîn, Sâd – Al-Ilāt o Latona:
dicono che partorì poggiata a una palma in deserto
(isola in mezzo al gran verde o un’oasi in un mare di sabbia)
lei –il femminile di Allah –non dirlo ai bambini feroci
tutti vicini a presepi e grotte a giocare col mitra
quanno nascett’o nennillo a Bbettlemme ’mmiez’e pasture,
coi bombardieri e i regali –è già nato il dio della guerra:
ci hanno creduto a suo tempo –si vedono le conseguenze
dicono. –Si raccomanda però di tenersi alla guida
delle scritture –e tenersi a destra –e cinture allacciate
e rispettare le fiamme e i roghi –è già sorto il solstizio
con il maschile di Al-Lāt (Dio e Zeus e Jahwèh per gli amici:
poi come dèi sono quello che sono –e non c’è da capire)
torna la gente con l’oro. –Sorridi a mammina, tu, bimbo:
al femminile di Allah. –Piangi in braccio a Isis, tu, bimbo
fra i bombardieri e i briganti: fra palme i tre re sul cammello
–navi fra forme di dune a ondeggiare in groppa alle dune–
hanno portato i regali: il petrolio e l’incendio e i mitra:
Babbo Natale è arrivato –id est furor –Wotan sorride:
bimbo, sorridi a mammina, Harry Potter: tu dalle stelle
scendi, o signore del cielo, Allah: loro ti amano tutti,
cuori contenti alla lobby –è già nato il dio della guerra.

Do you remember George Best?

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di

Francesco Forlani

C’è qualcosa d’ipnotico in un gol; liddentro deve esserci per forza qualcosa di simile all’incantesimo di una fiaba, per fare in modo che la ripetizione della scena, dell’azione, il replay, riesca a suscitare la stessa meraviglia provata per la prima volta dallo spettatore. Ecco perché nel periodo natalizio, oltre ai famosi Totò e Peppino trasmessi  a getto continuo o alla Vita è una cosa meravigliosa di Frank Capra, nelle case del Sud si ripassano a memoria i gol di Maradona attraverso canali dedicati o malridotte VHS riposte in un vecchio armadio e tirate fuori, per l’occasione, insieme all’impolverato videoregistratore.

Così il gol diventa doppiamente ipnotico se consumato in Rete, su internet, facendo però ben attenzione a non “farsi rovinare” le feste dalle playlist, tipo i migliori dribbling di tutti i tempi, le migliori punizioni, ecc; il flusso vitale, ininterrotto, deve essere monografico, non necessariamente organizzato in ordine cronologico, al massimo orientato da micro percorsi tematici, tipo assist, pali traverse, dribbling e appunto gol. Come in ogni flusso di coscienza è fondamentale, nella narrazione, prevedere dei salti, flashback, condensazioni, travestimenti, esattamente come accade nei sogni.

Riuscire a raccontare un sogno, gran bella impresa! Lo sappiamo tutti avendo almeno una volta sperimentato la difficoltà a “rendere” se non vera, almeno verosimile l’esperienza allucinatoria appena trascorsa. Eppure Duncan Hamilton, autore di questa biografia romanzata riesce non solo a “renderci” i dati di quella esperienza ma a trasmetterci la stessa energia. Ci sono delle vite che potrebbero indubbiamente raccontarsi da sole e quella di George Best è sicuramente una di queste; sono delle vite per certi versi esemplari, come quelle dei dandy in cui l’opera è la vita, e dove un semplice aneddoto apre una breccia nell’immaginario collettivo. Quello che riesce invece a Duncan Hamilton ed è grazie allo stile e alla passione della sua scrittura (eccellente la traduzione di Francesca Benocci e Roberto Serrai ), è la variazione su uno stesso tema, quello della caduta e ascesa di una popstar, oltre che campione sportivo, capitolo dopo capitolo, passaggio dopo passaggio; variazioni che si reggono attraverso innumerevoli rimandi, musicali, cinematografici, televisivi talmente essenziali che in più di un caso si lascia la pagina scritta per riascoltare i 10cc – I m Not In Love,   o vedere per intero il film più amato da George Best, diretto e interpretato da Albert Finney, Charlie Bubbles.

George Best è stato un’icona Pop a tutti gli effetti con un successo che gli esplode letteralmente tra i piedi in occasione della finale della coppia dei campioni, giocata a Wembley tra il Manchester United e il Benfica.

“Qualcuno gli allungò una copia di «Bola» col titolo in prima pagina stampato in nero e rosso. Lui chiese che glielo traducessero. «Un Beatle chiamato Best distrugge il Benfica» risposero – e il paragone con il gruppo, che aveva già venduto centocinquanta milioni di dischi in tutto il mondo, da quel momento gli rimase addosso per sempre. Diventò il «Quinto Beatle».

Icona che una vita spesa bene, tra macchine, abiti e belle donne contribuì a mantenere a lungo ben oltre i successi sportivi e nonostante il deterioramento fisico e psicologico causato dall’alcol. Il confine tra artista e professionista è superato d’un solo balzo, la parola che accompagna il guado è maudit.

Glass fu anche testimone della stima che circondava Best. In un ristorante di Londra fu avvicinato, in maniera molto cortese, da un uomo con i capelli lunghi e scuri, gli zigomi prominenti e il naso sottile. Fece un profondo inchino a Best e si scusò sinceramente per averlo disturbato durante la cena. «Lei è un vero artista» spiegò l’uomo, come preludio all’inevitabile richiesta di un autografo. Come sempre, Best firmò volentieri. Quando l’uomo se ne fu an- dato Glass gli chiese:

«Lo sai chi era?».
«No» rispose Best, perplesso. «Rudolf Nureyev».

Eppure George Best è stato innanzitutto un grande calciatore, e Duncan Hamilton ce lo fa vedere attraverso descrizioni di vera e pura letteratura come quando racconta il fotogramma che ritrae il campione in mezzo al campo:

george-best-jaguar“La fortuna di Best erano i lineamenti, almeno quanto i piedi. L’obiettivo adorava il suo volto. Ironia della sorte, in una delle foto più intense che gli siano mai state scattate quel volto non si vede. Best è mezzo girato, col numero sette bianco ben in vista sulla schiena. La maglia gli cade larga sui pantaloncini. Ha i calzettoni abbassati. Il braccio destro è alzato in segno di vittoria e per celebrare il proprio successo. Guardare quella foto permette di vedere quello che Best vide quella sera, mezzo secondo dopo aver segnato il gol a Wembley. La curva alla fine del tunnel, la massa informe del pubblico sugli spalti, i numeri bianchi e sfocati del tabellone, in procinto di scattare, le ombre tozze proiettate dai riflettori, le strisce di prato del campo, ognuna che si stringe verso il proprio punto di fuga. Quella foto ritrae il momento più alto nella carriera di Best, anche se allora nessuno avrebbe potuto prevederlo. Adesso, sapendo cosa ne è stato di lui, all’immagine è sotteso il dolore di qualcosa di perduto, e finito da tempo. Best non proverà mai più una gioia simile. Per lui non ci saranno né il secondo né il terzo atto. Nient’altro, nella sua vita, supererà quel momento. Busby non vincerà mai un altro trofeo. Best non vincerà mai un’altra medaglia.”

Gli anni sessanta e settanta  sono un gorgo che separa il vecchio dal nuovo. Bastava confrontare lo stile di vita dei calciatori della generazione immediatamente precedente con quella di George Best o degli olandesi capitanati da Cruyff per coglierne il distacco. Per capire la portata e l’energia di quei movimenti c’è un passaggio nel libro in cui si fa riferimento ai troubles dell’Irlanda del Nord che proprio in quegli anni scavarono un solco tra protestanti e cattolici. George Best era irlandese e protestante, ragione per cui a causa della sua notorietà fu costretto a giocare sotto protezione per via di minacce alla sua vita da parte degli attivisti dell’Ira. Così Duncan Hamilton ci racconta uno strano aneddoto che a mio avviso mostra come in quegli anni accadessero cose in grado di contraddire ogni posizione di campo soprattutto se dettata dalla sola ideologia.

Come scrive Teddy Jamieson in Whose Side Are You On?, uno studio sullo sport e i Troubles: «In Irlanda del Nord potevi essere arancione o verde, ma potevi comunque essere rosso». Paddy Crerand una volta vide il filmato di una sassaiola tra bambini da una parte all’altra di un muro che separava i quartieri cattolici da quelli protestanti. Da entrambi i lati c’era il lampo rosso inconfondibile di una maglia dello United con lo stemma della squadra.

Forse l’immagine finale Schermata 2015-12-23 alle 18.24.32per tutta questa storia andrebbe una volta di più cercata tra le strade dell’immaginazione del fuoriclasse, figlio della working class di Belfast, più che tra le registrazioni in studio delle ultime interviste a un uomo a cui nessun trapianto chirurgico era riuscito a sedare il demone che lo aveva consumato. Vi si rappresenta l’ «otw». Era l’acronimo di Over the wall, al di là del muro, e alludeva a ciò che per lui era «La grande fuga». La sequenza è nel film che abbiamo citato, Charlie Bubbles (L’errore di vivere).

 Bubbles si sveglia, infelice e giù di corda, vuole allontanarsi da tutto e tutti. Tira le tende della camera da letto del remoto cottage dove abita, e vede una mongolfiera senza equipaggio ormeggiata in un campo vicino. La superficie striata della mongolfiera è di un arancio luminoso, simile a una zucca, sembra quasi che quella mattina stiano sorgendo due soli. Senza dire una parola, Bubbles esce di casa e punta con decisione verso la mongolfiera, con un’idea precisa in testa. Monta nella cesta di vimini e comin- cia a sciogliere gli ormeggi e a gettare fuori i sacchi di sabbia che la tengono a terra. La mongolfiera si alza lentamente verso l’azzurro intenso del cielo, e sale verso le nuvole sfilacciate finché non sembra più grande di un puntino. «Pensavo sempre di fuggire così,» disse Best «e andare dove nessuno sarebbe riuscito a trovarmi».

https://www.youtube.com/watch?v=LtPOBK74KCU

Le parole e il cielo. Un ricordo di Julio Monteiro Martins a un anno dalla scomparsa

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di Mia Lecomte

Roma, 20 ottobre 2001

Caro Julio,
ho finito i tuoi racconti, e mi dispiace. Perché? È chiaro che condividiamo la stessa angolazione visuale sulla/e realtà. Ed è anche un po’ strano, viste le molte differenze che ci separano, e non solo geografiche … O forse non lo è. Ma non è soltanto questo che mi è piaciuto nei tuoi libri – sarebbe davvero triste amare solo ciò che ci ricorda noi stessi – ma soprattutto l’incontenibile carnalità che domina l’andamento di tutti i racconti, anche dove si parla di tutt’altro. In principio mi sono sentita un po’ “schiacciata”, seduta sulla mia inadeguata sedia di lettura, ma poi mi sono accorta che in realtà non incombeva nessun peso, potevo muovermi, respirare liberamente, che la massa era in realtà leggera come un minerale poroso. Lo humor, l’allegria – anche se venata, quest’ultima, da una malinconia sempre in agguato – reinventavano l’impasto, lo lanciavano per aria in uno slancio “ascetico” per poi farlo ricadere a terra con tutto l’amore del peccato. E così, rassicurata e felice, mi sono riassestata nella mia forma di lettrice per godermi lo spettacolo inesauribile di una moltitudine di mondi…

Lucca, 20 ottobre 2001

Cara Mia,
sono felice che tu abbia vissuto quelle sensazioni leggendo i miei racconti. Fortunata è la narrativa che riesce a lasciare un segno in soggettività complesse come la tua. Hai ragione quanto all’assenza di peso. Si può muovere, respirare, e tant’altro. Si può tutto. È un’overdose perfettamente sopportabile e godibile. Lo “spettacolo inesauribile di una moltitudine di mondi”, a cui ti riferisci, è la vita stessa, che vale la pena soprattutto quando uno riesce a estrarre intensità e passione dai momenti presenti, dalla successione della “durée”. La mia nozione di vera felicità è questa. Una felicità che vizia, che quasi fa impazzire chi ne gode. Il resto, l’idea piccolo borghese di “felicità”, quella solo concettuale, non è altro, secondo me, che una sorta di vernice kitsch . Hai ragione. La carnalità è un elemento importante nella mia letteratura, infatti. In parte perché sono così, come diceva un’amica regista teatrale, “molto voluttuoso”. In parte perché è così la mia cultura: gli antichi naviganti dicevano che “non esiste peccato al di sotto la linea dell’equatore”. Infatti, per i brasiliani, e soprattutto per i “cariocas” come me, il “peccato” è qualcosa da cercare, e non da sfuggire. Il “peccato” esiste per definire delle cose così buone e piacevoli che le si deve eliminare, o almeno arginare, altrimenti rischiano di occupare lo spazio di tutto il resto nella vita (ed è ottimo quando ci riescono)…

(…)

Parigi, 24 dicembre 2015

Caro Julio,

sono passati quasi quindici anni da quando ci scambiavamo questi primissimi nostri messaggi. Ed è passato un anno esatto dalla tua morte ingiusta – dopo una breve e inesorabile malattia – all’ospedale di Pisa. E proprio oggi ho deciso di ricordarti così: con i messaggi che hanno quotidianamente scandito nel tempo la nostra amicizia; e con un tuo racconto inedito[1], uno dei tanti che mi hai lasciato in eredità, chiedendomi di prendermi cura di loro “perché i nostri libri sono i nostri figli” (sto facendo quello che posso, Julio – e con me Rosanna e Andrea[2] – , ma viviamo in tempi oscuri, in cui la verità della letteratura, la sua luce chiarificatrice, non può essere contemplata).

E il tuo Cielo mi è sembrato quanto mai appropriato.

Perché mi ha riportato alle prime battute della nostra amicizia, quando ho imparato a conoscere la tua leggerezza sensual-metafisica – tanto più brasilianamente coraggiosa dei miei nord – nelle sue molte declinazioni letterarie.

E perché ora ti vedo sempre lì, tra gli stormi-mongolfiera di uccelli e le nuvole cangianti, a sorvolare una terra ridotta a “un’illusione inoffensiva”. Una terra su cui la tua letteratura, le parole che ci hai lasciato, ci invitano a riversare tutta l’estasi del volo, per avvertirla, finalmente, di una nuova consistenza, meno aspra e rigida, “insicura se essere mare”…

CIELO

di Julio Monteiro Martins

“L’Europa offre delle forme precise sotto una luce diffusa. In Brasile, il ruolo per noi tradizionale del cielo e della terra, si inverte. Al di sopra della distesa lattiginosa del mato, le nuvole compongono le più stravaganti costruzioni. Il cielo è la regione delle forme e dei volumi; la terra conserva la mollezza della prima età.”

(Claude Lévi- Strauss, Tristi tropici)

 

Esposto al freddo disarmato dei miei tredici anni, anche se nascosto sotto la coperta di lana, con in mano una torcia elettrica e un libro di Schopenhauer, mentre ascoltavo il respiro profondo di mia nonna immersa nel suo sonno chimico, leggevo intimorito: «La vita umana è come un pendolo che oscilla incessantemente fra noia e dolore, con intervalli fugaci, e per di più illusori, di piacere e gioia… Il godimento è solo un punto di trapasso impercettibile nel lento oscillare del pendolo».

Nella stanza contigua mio nonno Celso, insonne, attraversava la notte, lottando e venendo a patti con la nevralgia del trigemino, un dolore selvaggio e mostruoso che gli bisbigliava inviti al suicidio. Ogni suo urlo rauco e tremante era per me un nuovo punto di esclamazione alle certezze del filosofo tedesco.

La mattina presto, ottuso e indolenzito, indossavo la divisa beige del Dom Bosco, il giaccone blu, e andavo a dormicchiare sul banco della scuola, col quaderno aperto davanti alle palpebre chiuse, finché un professore più severo, il colonello Malebranche dietro i suoi enormi occhiali neri squadrati – non siamo mai riusciti a vedere il suo sguardo crudo – o il Boca Murcha, di francese, il cui passé composé si rovesciava gelatinoso dalla lingua al mento, non mi beccasse e chiamasse per nome e cognome, unico modo di ripescarmi da quell’altra dimensione.

E così trascorrevo i giorni e le notti di un’adolescenza che sembrava piuttosto una pantomima della vecchiaia. Giorni lontani dall’amore materno e ancora senza amori coetanei, e quindi giorni secchi e freddi, di un’attesa ossuta e senza direzione, timoroso che il grigiore del presente si addensasse nel buco nero del futuro.

Questo quando ero inchiodato a terra, mai quando attraversavo i cieli brasiliani insieme a mio zio Ney, nel suo piccolo Beechcraft J35 Bonanza, che quando decollava e mi staccava dal mondo cancellava Schopenhauer e ogni dolore o noia, cambiava lo spazio, rovesciava il mondo e fermava il tempo. Slancio ed estasi in contemporanea, quei voli preparavano l’anima all’affrancarsi del corpo, la completa liberazione dalla paura del non essere, da qualsiasi possibile paura.

Zio Ney, antico pilota della Panair do Brasil, era stato costretto ad andare in pensione molti anni prima del previsto, a causa del fallimento e dell’estinzione della compagnia aerea per la quale lavorava. Aveva avuto una buona liquidazione e così aveva deciso di mettersi in proprio, comprando il Bonanza che imparò a conoscere in ogni suo rumore, umore e tremolio, terzo aereo della sua vita dopo l’apprendistato in un biplano Curtiss Fledgling, il “Frankenstein” del Correio Aéreo Nacional, con il quale aveva fatto qualche migliaia di miglia di volo prima di essere ammesso nella Panair e pilotare un grosso Model 10 Electra. Con il Bonanza tornava alle origini, lasciava il completo e la cravatta per rivestire la vecchia tuta e il piccolo aereo, che affittava ai fazendeiros in visita nella capitale, ai politici locali in pellegrinaggio dai generali o che gli serviva per portare dalle fazendas all’ospedale cittadino qualche impallinato o malato grave benestante. A volte gli chiedevano di portare medicine, whisky e qualche bella ragazza a ore in un villaggio sperduto dove il denaro riusciva ad arrivare per strane vie ma poi ristagnava lì senza sapere bene dove andasse o a cosa servisse.

Viaggiava a bordo del suo Bonanza non più di una o due volte la settimana. Gli altri giorni li passava a fumare la pipa e a guardare le nuvole dalla veranda di casa sua, nei pressi del Campo de Aviação, o a fare la manutenzione dell’aereo. Nelle giornate perfette però veniva col suo furgoncino a prendermi a casa la mattina presto prima che andassi a scuola, o le domeniche un po’ più tardi, sotto lo sguardo apprensivo di mia nonna che in fondo non aveva mai creduto che qualcosa più pesante dell’aria potesse volare, ma non se la sentiva di sottrarmi a quell’assaggio di felicità tra le montagne e le nuvole.

Un minuto dopo il decollo l’universo si era già trasformato. Il sole era dentro i fiumi, e gli aquiloni visti dall’alto erano piccole pennellate di colore sul verde chiaro dei campi o quello più cupo delle foreste.

Le gigantesche palle colorate accanto a noi non erano mongolfiere, ma stormi di uccelli che si spostavano in cielo cambiando spesso direzione: le palle verdi dei pappagalli, quelle rosse e azzurre delle arara, le arancioni dei sabiá o le nere degli anu. Un cielo più affollato della terra stessa, quasi deserta, solo qualche raro bue bianco a pascolare e qualche sporadico camioncino ballonzolante sulle strade sterrate.

Guardando in alto lo spettacolo era immenso. Montagne capovolte di nuvole tondeggianti bianchissime nei bordi e dalla polpa grigia. Intorno agli squarci da dove penetravano i raggi del sole risplendeva una cornice dorata, di un giallo intenso, con sfumature di rosa e di porpora. Più in alto, nuvole lontane, sfilacciate, separavano il mondo dal cosmo, una sorta di grata di vapore che serviva da confine ai nostri voli. In fondo alla pianura l’orizzonte era leggermente curvo, facendo intuire la sfera gigantesca. Lì, terra e cielo sfumavano l’una nell’altro, dietro un lenzuolo di nebbia violacea coronata dai riflessi d’oro.

Zio Ney, un uomo mite e di poche parole, ogni tanto girava la testa per guardarmi e mi sorrideva, complice del mio stupore e soddisfatto della mia meraviglia. Penso che sapesse cosa quei voli significassero per me, il grado di sollievo che mi procuravano dopo le lunghe immersioni nel dolore altrui, attraversando l’adolescenza in apnea senza scorgere l’altra sponda. Volare vicino alle nuvole, tra gli stormi colorati, era anche un messaggio potente: basta alzarsi dal suolo e tutto quello che c’era prima, e ci assediava, scompare come per miracolo, la realtà più opaca si diluisce in un’illusione inoffensiva, e ogni mole incombente è in verità una miniatura, ogni fabbricato un giocattolo.

Quando atterravamo nuovamente sul Campo de Aviação tornavamo a un mondo addomesticato, che per un po’ non ruggiva, miagolava. Camminavo accanto a mio zio e la terra oscillava leggermente sotto i nostri piedi, insicura se essere mare, forse umiliata da quel cielo immenso che non aveva limiti.

Più tardi, naturalmente, anche l’adolescenza passò, e i voli cessarono. Altre terre arrivarono, altre città, e la solitudine di quegli anni è rimase rinchiusa nella memoria, preservata ma innocua, segno di dolore ma non più dolore.

Di zio Ney ho avuto poche notizie negli anni, e del nostro Bonanza nessuna. Una cugina mi scrisse un giorno raccontandomi che era morto a casa, per un attacco di cuore. Per qualche tempo sono rimasto affranto, e in silenzio mi chiedevo se non avesse portato con sé tutto quel cielo, se non avesse chiuso quella porta alle mie spalle.

Poi, guarito dal dolore e dalla noia grazie ai capitoli più interessanti della mia storia, mi sono domandato se zio Ney fosse esistito davvero, se il Bonanza rosso e bianco fosse davvero suo, se avevamo davvero volato insieme un giorno. E allora mi sono ricordato che dietro la casa dei miei nonni c’era una collina, sulla quale nelle giornate di sole salivo fino alla cima per guardare la valle, la casa, l’insulso scenario di quella mia vita, ma soprattutto per guardare il cielo, le nuvole con le loro lunghe frange dorate, gli stormi di uccelli, e ogni tanto, qualche piccolo aereo che, decollando dal campo di volo vicino passava sopra la mia testa, mi pescava lì, solitario, e mi portava via con sé.

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Julio Monteiro Martins è nato a Niteroi, nello stato di Rio de Janeiro, nel 1955, ed è morto a Pisa nel 2014. Ha insegnato scrittura creativa negli Stati Uniti, in Brasile e in Portogallo prima di giungere in Italia, nel 1996, come docente di Lingua Portoghese e Traduzione Letteraria presso l’Università di Pisa. Ha abitato a Lucca, dove ha diretto il Laboratorio di Narrativa del Master di Scrittura Creativa presso la scuola Sagarana, da lui fondata, con l’omonima rivista, nel 1999. Fellow in Writing presso l’Università di Iowa, negli Stati Uniti, autore molto noto in patria, all’attività letteraria ha affiancato l’impegno politico e sociale: dopo la laurea in Giurisprudenza, nel 1991, è stato avvocato dei diritti umani per il Centro Brasileiro de Defesa dos Direitos da Criança e do Adolescente, per il quale si è occupato dell’incolumità dei meninos de rua. In Brasile, a partire dal 1977, ha pubblicato raccolte di racconti, romanzi e saggi: Torpalium (Ática, 1977), Sabe quem dançou? (Codecrì, 1978), Artérias e Becos (Summus, 1978), Bárbara (Codecrì, 1979), A oeste de nada (Civilização Brasileira, 1981), As forças desarmadas (Anima, 1983), O livro das Diretas (Anima, 1984), Muamba (Anima, 1985) e O espaço imaginário (Anima, 1987). In Italia ha pubblicato: Il percorso dell’idea, petits poèmes en prose (Bandecchi e Vivaldi, 1998), Racconti italiani (Besa, 2000), La passione del vuoto (Besa, 2003), Madrelingua (Besa, 2005), L’amore scritto (Besa, 2007), La grazia di casa mia (Rediviva, 2013), La macchina sognante (postumo. Besa, 2015). Nel 2002 ha partecipato – assieme ad Antonio Tabucchi, Bernardo Bertolucci, Dario Fo, Erri De Luca e Gianno Vattimo – all’opera collettiva Non siamo in vendita – voci contro il regime (a cura di Beppe Sebaste e Stafania Scateni, Arcana Libri/L’Unità).

[1] Il racconto è parte, con gli altri, dell’opera inedita Tetralogia della brevità (2007-2014).

[2] Rosanna Morace e Andrea Sirotti