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John Berger: uno scrittore al suo specchio

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disegno di John Berger

di Martina Panzavolta

Aveva quasi novant’anni, eppure il suo bisogno più impellente era quello di scrivere. È questa l’ultima
immagine che ha voluto lasciare ai posteri. Nella sua vita, John Berger ha fatto tante cose – è stato un critico d’arte, un disegnatore, uno sceneggiatore cinematografico e altro ancora – ma, in fondo, si sentiva uno scrittore. Del resto, non è un caso che la sua raccolta postuma, Confabulazioni (Neri Pozza, 2017), sia un’ultima e più intima riflessione interamente dedicata alla scrittura.

Nato a Londra il 5 novembre 1926, John Peter Berger è morto il 2 gennaio 2017. La sua curiosità nel leggere il mondo è stata la cifra della sua poliedricità. Come pensatore, egli era interessato alla visione in profondità.
Il suo programma televisivo Ways of Seeing, andato in onda sulla BBC nel 1972, rappresenta ancora oggi un punto di riferimento per tutti coloro che cercano, attraverso l’arte, nuove prospettive sul mondo.

Di certo, in meno di dieci anni dalla sua morte, molti paradigmi umani sono cambiati, così come la
concezione dell’arte. Senza dubbio, la nostra intelligenza artificiale sarebbe per Berger una “way of seeing” ancora da studiare. A noi basta digitare qualche parola online per avere pronto, in pochi secondi, ogni genere di testo – dalla ricetta di una torta, alla email di lavoro, all’articolo di giornale. Chissà cosa potrebbe dirne Berger: forse che la sua amata scrittura sia destinata a scomparire?

Invero, egli non ha lasciato i posteri senza risposta. Autoritratto (2014), il primo saggio a figurare in
Confabulazioni, è precisamente il suo testamento da scrittore. Qui Berger ha indicato in modo provvidenziale come guardare alla parola se non avessimo più creduto nel suo potere.

L’intento generale dell’autore “autoritratto” è quello di risalire al germe della sua vocazione, dissotterrando il motivo per cui, da tutta una vita, scrive. Berger ha quindi bisogno di guardarsi di riflesso, ma sceglie uno specchio decisamente inedito e originale. Di fatto, non si osserva nella torsione narcisistica del sé, ma si studia da un modo di vedere “altro”, quello del traduttore. La scelta è di certo interessante e affatto banale – soprattutto, perché si può dire che Berger abbia fatto tante cose, fuorché traduzioni. Nondimeno, l’accostamento fra scrittura e traduzione sembra valido soprattutto oggi, nel mondo dell’AI: forse che anche la traduzione sia destinata a scomparire?

È chiaro che scrittura e traduzione sono due lati del medesimo edificio: chi scrive desidera che i propri testi siano letti, e per tale ragione è ovvio che ne desidera anche una traduzione – che implica un pubblico più numeroso. Eppure, a ben rifletterci, una traduzione è qualcosa di pericoloso: dopo aver tanto meditato su quell’unica parola giusta che possa dire ciò che si vuol dire, dopo aver scritto e riscritto per mesi o anni le stesse frasi, come si può accettare di leggersi in una lingua diversa che usa, per forza di cose, diverse espressioni?

Anche quando una traduzione è il più fedele possibile all’originale, il testo non è lo stesso. Non c’è da molto da spiegare, è un luogo comune. Si pensi alla parola per eccellenza, ovvero il logos degli antichi greci. Nel Faust goethiano l’omonimo protagonista si struggeva per tradurre il versetto giovanneo In principium erat Verbum – Ἐη ἀρχῇ ἦν ὁ λóγος, perché logos è l’intraducibile parola, pensiero, forza, atto. Come può una sola di queste espressioni rimandare a tutte le altre? Se, come è ovvio, non può, quale è in traduzione il termine più giusto fra tutti?

Di certo, il medesimo problema affligge tutte le traduttrici e tutti i traduttori. Diversamente da un’intelligenza artificiale, queste e questi non lavorano con un algoritmo e si trovano continuamente di fronte a questo genere di scelta. Similmente a scrittrici e scrittori, anche loro trascorrono ore e giorni sull’unica parola, sull’unica frase, a scrivere e riscrivere.

D’altronde, sono i momenti di ricerca e di scelta a riunire scrittura e traduzione nella costante tensione verso la lingua in quanto tale. «Se si guarda alla faccenda in modo convenzionale – scrive Berger – [le traduttrici] e i traduttori non devono far altro che studiare certe parole scritte su una pagina, per poi renderle in una lingua diversa su un’altra pagina. Il procedimento implica dunque una cosiddetta traduzione parola per parola, una successiva rielaborazione che rispetti e incorpori la traduzione e le regole della seconda lingua […]. Molte delle traduzioni seguono questo metodo e i risultati sono validi, ma di seconda qualità. Perché? Perché la vera traduzione non è una relazione binaria fra due lingue, ma una storia a tre. Il terzo punto del triangolo è ciò che sta dietro le parole del testo originale prima che venisse scritto. La vera traduzione esige che si ritorni al pre-verbale» (p. 7).

Quando il tradurre è sentito come un compito, le parole del testo originale vengono lette e rilette non tanto per ragioni stilistiche quanto per toccare l’esperienza da cui sono scaturite. In seguito, se la si trova, la si raccoglie nel suo essere tremante e quasi muto e si tenta di collocarla dietro la lingua in cui deve essere tradotta. A quel punto, il lavoro principale di traduttrici e traduttori «è convincere la lingua ospitante ad accettare e accogliere la “cosa” che aspetta di essere articolata». Precisamente per questa postura, la traduzione mostra alla scrittura un qualcosa che appartiene a entrambe, ovvero la dimensione della lingua parlata. Quest’ultima è un vero e proprio corpo, una creatura vivente o, meglio, più corpi e più creature viventi: sono tante, del resto, le lingue che si generano nel medesimo «inarticolato oltre l’articolato» (p. 8).

Del resto, come spiega Berger, “lingua materna” in russo si dice rodnoi-jazyk, che significa la lingua “più cara” o “più vicina”. L’autore afferma che la si potrebbe chiamare la “lingua amata”. La lingua materna è la prima lingua di ciascuno e, per Berger, «è senz’altro femminile», e il suo centro è «un utero fonetico» capace di generare imparentato con tutte le altre lingue materne capaci di generare – fra queste anche i linguaggi non verbali come la lingua dei segni, la pittura, e così via (pp. 8-9). È precisamene per questa fitta rete di sorelle che ogni testo sente di trovare «il proprio posto, indescrivibile ma sicuro», in ogni altra lingua (p. 9).

La traduzione mostra al Berger scrittore che esiste una creatura lingua, assicurandogli di riflesso che ciò che ha sempre tentato di fermare sulla pagina è una sensazione viva, che ha valore. Un’esperienza preverbale che un’intelligenza artificiale non potrà mai cogliere. Lo stesso autore autoritratto può infatti fermarsi a guardare, a quasi novant’anni, la sua relazione d’amore quella creatura-lingua che si muove sotto l’allitterazione e il ritmo delle parole; la osserva e la ascolta confabulare. Talvolta, gli sembra che contesti certe parole scelte e che metta in discussione il ruolo che l’autore ha loro assegnato. «Perciò modifico le battute – scrive Berger – cambio una parola o due, […] finché non c’è un lieve mormorio di provvisorio assenso. Allora procedo al paragrafo successivo». Nel suo ultimo e più maturo ritratto, Berger si dipinge quindi nella sottomissione alla lingua amata, a tal punto che ammette di essere, di mestiere, più che uno scrittore «un figlio di puttana – e potete immaginare chi è la puttana, no?» (p. 10)




Da “Fame di mia madre”

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di Yara Nakahanda Monteiro

traduzione di Nicola Biasio

15.

Il generale facilita tempestivamente il mio accesso all’associazione delle donne. Mi dice che non può accelerare quello all’archivio del partito. Troppo complessa la burocrazia, vincolata a un elevato numero di autorizzazioni necessarie. Ritiene più semplice chiedere che le ricerche vengano fatte da qualcuno interno alla sede. Sonda la strategia migliore e mi chiede di portare pazienza.

Malembe. Malembe, che qui in questa terra non c’è nulla di urgente che non possa aspettare una quindicina di giorni. Giovanotta, dovrà avere pazienza. Non vale la pena innervosirsi. Tutto si risolve.

A luglio suddivido il mio tempo tra l’associazione delle donne, lo studio del generale e i recital di poesia. Il generale, entusiasta del primo spettacolo, inizia a metterlo in scena ogni volta che è ospite d’onore. Per di più, vedendolo talmente preso, i leccapiedi di turno iniziano a elemosinare i suoi talenti – e i miei di rifles­so – per ogni tipo di evento. Sono giorni estenuanti, in cui non faccio altro che chiedere un miracolo.

“Non tutti i mali vengono per nuocere” e, infatti, il generale perde la voce, vedendosi così costretto a sospendere i recital per un periodo imprecisato; ma qui si aggiunge un altro proverbio: “il male non dura, e il bene non regna”.

Afono, comincia a dedicarsi alla scrittura. Passo quindi a rivedere i manoscritti delle sue poesie.

La simpatia e l’educazione del generale sono contagiose, però c’è qualcosa in lui che mi turba più del suo profumo. A volte, si ferma a fissarmi con gli occhi sbarrati. Mi osserva come se mi stesse esaminando o se vedesse in me un’altra persona. Mi turba inoltre che abbia sempre così tanta paura di essere ucciso. Ha una lista di regole per mangiare e bere in luoghi pubblici. Mi chiedo cos’abbia fatto di così terribile durante la guerra e in quali affari sia ora immischiato. Zé Maria dice che mi devo rilassare. Non sono altro che chiacchiere di città e paranoie del generale che si alimentano a vicenda.

All’organizzazione delle donne, mi lasciano consultare fascicoli ai quali non dovrei nemmeno avere accesso. Non vengo direttamente interpellata dai funzionari, ma le occhiate di traverso non nascondono la loro indignazione.

Consulto scatole su scatole di documenti in una stanza umida e senza ventilazione. Non entra aria fresca. Continuo a sudare. A tratti vorrei mollare, ma resisto. Resisto come le donne combattenti nelle fotografie di identificazione dei fascicoli individuali. Le facce sono austere. Nere, mestiças e bianche.

In alcune, gli occhi sembrano svuotati. Altri occhi invece incubano l’espressione del dovere da compiere. La compostezza della postura mostra l’orgoglio della responsabilità. Hanno sempre le labbra serrate. Così serrate da sembrare cucite con corde di sisal. Le compagne non soffocano, ma nemmeno comunicano le loro lamentele di donne. All’interno di alcune pratiche, dei certificati di nascita di bambini. Le immagino con al collo armi e figli, come ha fatto la mamma.

Sulla copertina di alcuni fascicoli appare la parola “deceduta”. Il pugno che l’ha tracciata sembra una ferita da cui il sangue sgorga. Il tempo trasforma tutto in cicatrice. Il miasma pare essersi insinuato nelle viscere dei fogli insieme alla polvere. Mi domando se abbiano avuto diritto a una cerimonia, o cosa sia stato detto nel loro elogio funebre. Divago. Cerco di allontanare la paura di trovare il fascicolo di mia madre con sopra la stessa scritta.

La vicinanza quotidiana con Zé Maria ci fa diventare amici. Ben presto, su insistenza di Romena, inizia a frequentare casa sua. Lei è convinta di riuscire ad avvicinarsi al generale accogliendo l’assistente come nuovo “nipote”. Salire per una Cuca e finire per fermarsi a cena inizia a essere la sua regolare routine.

Provare a cavare un ragno dal buco diventa una missione impossibile per Romena. Zé Maria non parla mai di lavoro. Se gli chiede direttamente del generale, le risposte sono sempre vaghe. Non si sbilancia mai troppo.

Ogni volta che ne ha l’occasione o vuole farsi notare, Romena ama raccontare che l’assistente del generale è di casa da lei. Quando parla di alcune persone, le piace mostrare di avere con loro un certo grado di intimità. Il nome del generale, da Zacarias Vindu, diventa Zacas. Si perde anche quello di Zé Maria, che viene chiamato «il mio nipotino portoghese assistente di Zacas».

Romena non lo fa apposta. Tutti quelli che frequenta si comportano allo stesso modo. Amano esibire una certa prossimità – falsa o reale che sia – con persone importanti del governo, specialmente col presidente del partito e la sua famiglia.

Giugno, luglio e agosto sono mesi di fiere, processioni e feste in Portogallo. A Luanda – che, dice Zé Maria, non rappresenta tutto il paese – invece non è così. In questo periodo dell’anno non c’è molto da fare. Gli stranieri che lavorano in città tornano ai loro paesi per le ferie. Di conseguenza, le feste del personale delle ONG e delle compagnie petrolifere diminuiscono drasticamente. Dall’esperienza di Zé Maria, le opzioni che restano durante la stagione del cacimbo sono i funerali, i pranzi del sabato a casa di una qualche zia e una festa in cortile «qua e là».

Dice che non si sta lamentando. Sta constatando. Pensa che sia addirittura meglio così per lui. Meno concorrenza maschile in città. Si vanta allegramente di conoscere tutte le belle donne di Luanda, e quelle che non lo sono conoscono lui. Lo vedo sempre distribuire baci e ricariche telefoniche. Non parla di fidanzate e, a quanto pare, non ha una relazione, anche se non è possibile verificarlo con certezza.

All’associazione, la monotonia viene occasionalmente spezzata dalla comparsa di una spagnola. Da quello che riesco a capire, è da un po’ di tempo che cerca di ottenere una riunione con la responsabile dell’organizzazione. La stanno tenendo in sospeso. La spagnola non riesce a oltrepassare l’accoglienza.

Le scuse sono sempre le stesse: «le chiediamo di attendere, la direttrice è in riunione», «è dovuta uscire e oggi non rientra», «venga domani a ricevimento» e «la direttrice oggi non è venuta».

So che la spagnola è allo sportello quando il suo accento stride dalla frustrazione. Quando succede, vado a sbirciare.

In una di quelle occasioni, l’addetta allo sportello rimane in silenzio, con lo sguardo leggermente alzato e la fronte corrugata, mentre la spagnola parla, gesticolando, in un tono eccessivamente alto e senza peli sulla lingua. È spettinata come se avesse combattuto in un corpo a corpo. Sotto il suo vestito a fiori, le tette, libere, si agitano senza sosta. Mi sento una caravella incagliata nel suo petto color mandorla caramellata. Resto ferma lì, mentre quelle sballonzolano a causa della danza delle braccia e delle spalle che accompagna il ritmo del suo ampio discorso.

I movimenti sconnessi e sgraziati sono, in Georgina, una danza erotica che istiga alla lussuria. Voglio toccare quelle tette. Far scorrere la loro carne tra le mie dita. Le tette di Georgina non sfuggono a nessuno: lo dico e lo confermo.

La spagnola è una di quelle donne che possono aspettare in eterno fino a ottenere quello che vogliono. Torna il giorno dopo con una nuova strategia. Quando arrivo all’organizzazione, lei è già lì. La trovo seduta su una sedia a scrivere. Lascia intendere che non se ne andrà senza aver parlato con la direttrice. Lo capisce anche l’addetta allo sportello. È venerdì ed è stanca. Vuole tornare a casa presto e preferisce non complicare la situazione. Io entro senza salutare.

Quando sto per andarmene, la spagnola non è più lì. Immagino che ci abbia rinunciato. La ritrovo vicino all’ingresso. Sembra in attesa di qualcuno. Mentre aspetto che Zé Maria mi dia uno strappo, decido di attaccare bottone. Le chiedo se alla fine è riuscita a parlare con la direttrice. Sollevata, dice di sì. Mi racconta che si trova in Angola per fare uno studio sociologico sulle donne angolane delle zone rurali. Viaggerà per lavoro, ma ritorna a fine agosto. Mi chiede se posso darle un passaggio fino all’Hotel Trópico.

È difficile convincere Zé Maria a portare Georgina all’hotel. Continuando a passarsi la mano sulla frangia che gli copre gli occhi, Zé Maria insiste che, prima, dobbiamo andarci a bere una caipirinha sull’isola.

Georgina rifiuta. Non ha tempo.

Ci scambiamo i numeri di telefono e promettiamo di restare in contatto. Georgina non è ancora entrata in hotel che Zé Maria già schiamazza senza vergogna né filtri: – Cazzo, che gran bel paio di tette! – Prima che io abbia il tempo di aprire bocca, mi dice: – Scusa. Credo di aver perso il controllo.

– Non ti scuso.

– Hai preso il suo numero?

– Non ti scuso, – ripeto, fingendo di essere arrabbiata.

– Su… passamelo.

– Mi dai una ricarica? – lo provoco per gioco.

Zé Maria apre il cruscotto dell’auto e tira fuori un mazzo di ricariche telefoniche.

– Prendi. Te le puoi tenere tutte.

Ridiamo piegati in due e fino alle lacrime.

Yara Nakahanda Monteiro è nata nel 1979 in Angola, nella provincia di Huambo. Si definisce “pro-pronipote della schiavitù, pronipote delle relazioni interrazziali, nipote dell’indipendenza e figlia della diaspora”. A due anni si scontra col dolore dell’esilio forzato in Portogallo a causa della guerra civile. La sua scrittura si focalizza sulle esperienze di migrazione, sulle vite afrodiasporiche e sul passato coloniale portoghese. È autrice di Memorie Apparizioni Aritmie (Capovolte, 2024), raccolta poetica in cui i fantasmi che infestano il presente assumono voce di donna per riflettere sui lasciti dell’impero coloniale e le sue conseguenze.
Fame di mia madre (Capovolte, 2025) è il suo romanzo d’esordio. Tradotto in diverse lingue e incluso nella longlist del Dublin Literary Award 2023, racconta la storia di Vitória che, a poche settimane dal matrimonio, parte dal Portogallo per tornare in Angola, patria della madre guerrigliera scomparsa quando la figlia aveva solo due anni.

Costellazione OR

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di Lidia Riviello

attorno a Come l’amore di un timpano e di una pupilla,

edizioni Argolibri 2025

 

Incredibile ma vero, come è vero l’incredibile: sono qui accanto alla trapunta — non piumone — la trapunta linguistica , quella del calore nato dal proprio strato di avanzamento organico,  perché la: la trapunta “trasforma” il calore del corpo in un microclima caldo vicino alla pelle,  questa pelle , quella di Rossella Or che è pelle di visone , animale agile e solitario e visione ( prima)  pelle di  mano libera tanto libera che si muove, si snoda fino a far nascere nodi gordiani di interazioni linguistiche ed espressive inaudite, mai sentite prima.

Stà mano può esse fero o  può esse piuma, e forse entrambe son , così è se vi appare, ma questo corpus, libro e persona insieme, sono una trapunta,  un tessuto-testo siderale. Questa artista è dislocante, incommensurabile, ubiqua, e chi ha occhi per intendere, o chi rinuncia a leggere per comprendere, può avventurarsi in questo capolavoro come in un arcipelago lontano, con quell’idea di capolavoro come lo intendeva Oscar Wilde, pezzo staccato dal tutto.

Eccoci accanto, comunque, alla costellazione OR, visibile a occhio nudo…semivestito.

Leggo il suono testuale di Rossella e penso al verso di Dylan Thomas tratto da ‘ Twenty-Five Poems, …    ‘ la palla che lanciai quel giorno nel parco non è ancora caduta al suolo’ lo scozzese scocciato, di scotch e questo libro, lanciato quel giorno nel parco, non tocca ancora il suolo, perché qui non ci sono suoli.  O come direbbe Totò, in Totò cerca pace, ‘non ci siamo potuti assediare perché non abbiamo trovato sedie’. E quindi? Sembra il gioco delle sedie vuote, ricordate? Occupare le sedie, come occupare i posti vuoti dei linguaggi con la propria tenera fracassata armatura di codici ed enigmi.

Questo non è un libro in sé, ma un libro in sé per tre, per quattro: un meccanismo geniale con il quale un libro può ancora essere pensato, domandato, incaricato di diventare o di smettere finalmente di doverlo diventare. Chissà.

Comunque è uno stato di grazia e croce e delizia poter stare ai limiti, nei dorsali di questa creatura.  C’era una volta… «Un re!» diranno subito i miei piccoli lettori. No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno.

Ecco, il legno è il materiale iniziatico con cui mi sono addentrata o exitata , nell’esito sempre di uscire ed entrare,  da…?  in/ da questo libro: le grandi intuizioni, le saldature dell’impermanenza e le fragili evocazioni della permanenza, sillabate, strozzate, gutturate, mugugnate, completamente spalancate sull’abisso del nodo e del dono  in gola, sciolto dal ritmo infinito dei mantra degli atti unici.

Qui si gioca la rappresentazione ai limiti nel limite del limite dell’oggetto-soggetto umano, troppo post, troppo umano, un codice che si aggiunge a pupilla e timpano.

Penso a Pinocchio che torna legno, buffo, fragile e resistente, e a quella consapevolezza che la completezza sta nel legno, la vera sua carne, sottratta per scolpire l’umano robot.

Il legno è resistenza, è vivo fin dall’origine, ha elasticità, capacità di isolamento, calore e naturalezza. È uno dei materiali più antichi utilizzati dall’uomo per costruire, scaldarsi, proteggersi, creare arte e oggetti sacri.

Poi penso a un mito nordico: l’albero cosmico Yggdrasil, un frassino gigantesco che sostiene i Nove Mondi, le cui radici affondano nel regno dei morti mentre i rami toccano il cielo degli dèi.

Questo mi ha colpito e mi fa pensare alle pagine di questo organismo come al recente scoperto Sukunaarchaeum mirabile, che ridefinisce i limiti della vita cellulare. Con un genoma così piccolo, molto vicino a quello dei virus, S. mirabile mette in discussione le distinzioni classiche tra organismo cellulare e virus ed è un esempio estremo di vita minimalista: non ha un suo metabolismo completo e dipende quasi totalmente dall’ospite. Così tanto prossimo e seducente il riflesso  dell’ospite’dentro le pagine di ‘Come l’amore di un timpano e di una pupilla’.

Questo fa riflettere su cosa significhi essere un “organismo vivente indipendente”. Questo libro è  un organismo vivente indipendente, se dipende è per noia o per allegria, per ozio di forma e tornando a legno  nel senso che gli dà Kant: nato dal legno storto dell’umanità,  ma sempre legno.

E ancora  penso al Barone Rampante che rifiuta il piatto di lumache e sale sull’albero da cui non scenderà più e ancora a Pinocchio quando punta lingua  e piedi: ‘no no no, questo paese non fa per me. Questo sembra ripetere  anche Rossella: questa poesia non fa per me nella sciamanica gestualità delle parole perfette, una parola  di meno e  tutte  le altre se ne vanno come i topi e i bambini di Hamelin.  Ma quale poesia fa per noi oggi ? Quella che  ci fa altro da noi?  Questa. Il critico teatrale Nico Garrone  indicò Rossella come «un immaginario incontro nell’aldilà tra i fantasmi di Eleonora Duse e Antonin Artaud». Al di qua l’incontro diventa immaginario compiuto. Il legno e  poi  il timpano, la membrana elastica che separa l’orecchio esterno da quello medio, trasformando le onde sonore in vibrazioni meccaniche. Il suo colore naturale è grigio-perlaceo, e la pupilla, che non è una struttura solida, ma un foro nero che assorbe la luce. Pupilla, diminutivo di pupa, cioè bambolina, in riferimento al piccolo riflesso di sé che si vede negli occhi altrui. L’amore, qui, non fa una piega; ne fa infinite e non le spiega.

La caduta in scena di questo libro rappresenta la caduta delle rappresentazioni tradizionali di poesia, teatro, musica, arte, danza, mimica, improvvisazione e gesto, e al contempo ne è la ricostruzione struggente.

Liquefare con il calore, raffreddare con la vertigine della parodia della ricostruzione: così sembra che l’asticella della lingua si spinga tra parodia di una ricostruzione impossibile e la possibilità di farlo come se fosse niente, semplicemente ricordo.Movimenti sottili e un sinistro in pieno al centro fanno riflettere sul nostro sfinimento artistico, la più grande provocazione intesa come richiamo a voce.

Penso al Boléro di Ravel,  che non è un’opera lirica ma un balletto, un brano orchestrale  che adesso a ‘risentirlo’ sembra  scritto per anticipare questo libro tra ossessione e desiderio di non essere né l’uno né l’altro.

Il tema si ripete sempre uguale, senza cambiare tonalità, armonie o struttura. Questa ripetizione ipnotica è  come crescendo esotico, dove il crescendo erotico diventa inedito ricordo, non ossessione mentale ma passione del pensiero che ritorna e aumenta d’intensità. Un lunghissimo crescendo che tende alla perdita di controllo, come disse Ravel del suo Boléro, appunto.

Liberazione, climax, rottura dell’equilibrio si trovano nelle pagine di Rossella.

Se nel  Boléro  la scena iniziale e il movimento erano altamente simbolici, con la danzatrice sul tavolo che attira l’attenzione, qui la ritualità dello sguardo  è oltre il ponte della pupilla, oltre l’acustica dell’origine dei suoni oltre l’, ipnosi, ripetizione rituale, una perdita progressiva e repentina ripresa di identità plurime.

La ripetizione non aiuta  qui,  in questi testi sembra ci si ripeta ma nessun sintagma è uguale all’ altro altera la percezione del tempo, dissolve l’identità dell’ascoltatore e introduce una forma di trance leggerissima e collettiva. è un battito rituale: regolare, impersonale, inevitabile.

Il tema tipo:  l’onere di restare onirici rimane identico, ma ogni ciclo aggiunge uno strumento lingusitico, un battito, , fino a creare una massa sonora,  impersonale,  post archetipica. L’io non è Dio -niso, ma l’ingranaggio  del rapporto fra non io e non tu.

Penso anche alla maschera di Buster Keaton  leggendo Rossella Or. Condividono una somiglianza: un Sisifo comico che usa registri diversi, spostando il peso della lingua fino a renderla quasi impalpabile.

Il corpo di questo libro è una macchina poetica, una gag liricamente sovversiva, piena di inganni, godimento della versificazione e della prosa, della scena e del gesto.

Meccanismi perfetti, coreografie linguistiche e fisiche studiate come esperimenti matematici, biologici, fisici, spirituali e politici. Rossella utilizza oggetti, edifici e macchine come partner di scena: scale, porte, pioggia, gravità, spiagge, teatri, metropoli, case, interni ed esterni, sempre adattandosi, controllando il crollo e preservando il sogno.

Come Keaton, Rossella realizza tutte le acrobazie sintattiche da sola, rischiando la vita della prima parola, sperimenta illusioni ottiche, effetti speciali, sovrimpressioni di linguaggi eterogenei e frizione fortissima.

Lavora sulla profondità dello spazio scenico, salta dentro il testo, cambia scena, tutto sincronizzato perfettamente con il movimento del corpo.

Questo libro è un congegno, un monstrum smisurato che stride se lo chiami poesia, ma che si apre come il gelsomino notturno e reclama la sovrapoesia, la strapoetizzazione. Il meccanismo richiama Baudelaire, Švankmajer, il teatro, il cinema, l’esperienza ai tropici di Levi-Strauss: organismo totale, poesia totale. Qui siamo nella poesia autostop.

Il colpo della scena, la colpa della scena, essere e non essere insieme: frequenza dell’ossimoro non solo nella sua accezione, ma nell’eccezione di lingue mutiformi e stratificate che ossidano, assetano la mancanza, producendo torsioni linguistiche.

La lingua viene vista, chiusa negli occhi, pensata, agita, parlata, ammutinata, mossa in scena, interrotta e ripresa: comicità, autorironia sacra, assurda felicità di non essersi fermati. Qui c’è una ricerca di poesia che stravolge e ripara.

Cos’è un capolavoro? Può essere artistico, come la Cappella Sistina; figurato, come un software ingegneristico perfetto; o ironico/paradossale, per qualcosa di disastroso o assurdo: “Hai rotto tutto? Un vero capolavoro!”.

Questo libro è un capolavoro ironico-paradossale, un lavoro sul bizzarro, ricerca della meccanica morfologica di ogni fiaba nata nell’orto, dove Maramamo non muore quando il ritornello lo costringe, ma quando incontra il suo coro, e quindi la morte diventa spettacolo di danza.

È il controarchetipo di tutti i libri: l’onirico qui non è astratto, ma comicità, strappo, muscolatura. Fa homo sacer, l’uomo vivo ma morto civilmente, una vita fuori dalla legge. Agamben definisce l’homo sacer come l’uomo che lo Stato abbandona, non lascia andare, che non appartiene più né agli dèi né agli uomini, ma resta come pura vita su cui il potere esercita il suo dominio.

L’iper-cultura di Rossella è laterale, periferica, sul bordo: il bordo è nei suoi linguaggi, ma siamo noi la lingua nel ritorno al presente.  La poesia diventa performativa, come in un testo  di Suheir Hammad, che in Gaza Suite scrive:

non so nulla sotto il sole dall’altra parte del muro… alcuni devono morire in una coperta sintetica… sono arrivata all’Apocalisse quotidiana… una scala abbandonata a se stessa… linea piatta, urla live streaming.”

Ecco, che l’apocalisse di Rossella Or è una condizione della lingua tra pause e ininterrotti,  linguaggi plurimi, crolli e apici del bizzarro, tra sogno del corpo e bis -sogno della parola, tra comicità e gravità,  ma sempre còlta in flagrante.

Il principe

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General Research Division, The New York Public Library (1910)

di Silvano Panella

Ero stato chiamato alla reggia per ricevere una proposta di lavoro. Il precettore del principe, un anziano accademico spagnolo, mi venne incontro nella grande sala adorna di muqarnas1.

«Dios os dé buenos días»2, egli mi disse, per saluto.

Mi spiegò che aveva consigliato al maragià di assumermi come insegnante aggiunto per suo figlio, il principe. Cosa potevo insegnare al principe? Avrei potuto restituirgli quello che gli altri insegnanti, di acclarata fama, avevano perduto tra una lezione e l’altra? Lo chiesi al precettore. L’uomo sorrise, lievemente tossì, mi fece segno, mi accompagnò nella residenza del principe mormorando in spagnolo nella penombra, al riparo dalla mia curiosità – avrei tentato di leggere le sue vecchie, sottili labbra seminascoste dai baffi.

Entrammo nella residenza del principe, ricca di statue danzanti, tappeti e lucerne – fiammelle ardevano in segreto restituendosi sotto forma di ombre sulle pareti. Il principe sedeva sul suo piccolo trono dorato. Vestito in vermiglio, grondante di perle, era composto e taciturno, imperturbabile, eppure gli occhi tradivano la sua vivacità giovanile. Il precettore si inchinò e io lo imitai. Mi presentò come “hombre aventurero muy ingenioso”3 e questo mi fece intuire due cose: che il ragazzo parlasse lo spagnolo e che io ero stato chiamato per infondergli una maggiore dimestichezza nel vivere al di fuori della reggia non come un povero suddito ma come uno scopritore di impenetrabili dettagli.

«Ci vuole tempo. Tempo e pratica. E non tutti vi sono portati», dissi.

Il precettore mormorò il suo disappunto. Il principe non sorrise né si arrabbiò ma si sporse in avanti. Quello sporsi in avanti zittì il precettore e introdusse le prime parole del ragazzo, pronunciate con voce tinnula ma florida.

«A quanto pare sarebbe opportuno per me iniziare a conoscere le cose che dimorano sulla terra bruna. Finora ho conosciuto soltanto il palazzo e il suo giardino. E ho appreso dai libri nozioni raramente utili, talora dilettevoli. Credete sia giusto mettere in pratica le nozioni dei libri o sarebbe uno sgarbo portato ai libri, alla terra bruna?»

Il principe si era rivolto a me, attendeva la mia risposta, ma il precettore mi aveva anticipato citando frammenti di sapere. Quella memoria, quella intelligenza si erano addensate troppo, impastate di passaggi e di cavilli, e il loro proprietario non riusciva a dare risposte concise. Abituato a eludere gli agguati degli animali, le astuzie degli uomini, dissi:

«Certo, metteremo sotto verifica i libri e la terra bruna, ma saremo noi a rischiare. Quindi nessuno sgarbo.»

Il principe annuì una sola volta, convinto. Il precettore si destò, punto da quella che riteneva un’offesa, e disse:

«Dovrei essere presente quando vi troverete insieme. Ne trarrei un manuale e anche una serie di storie.»

«Accordato», il principe disse.

Il precettore fu di nuovo felice e iniziò a discorrere di geometria assieme al principe. La cosa mi incantò perché non disegnarono alcuna figura. Parlavano di formule e problemi. E di lati, di angoli. Parlavano senza tirare alcun segno su alcuna superficie. Alfine, chissà perché, discussero di un chiliagono. Quella figura dai mille angoli, dai mille lati a cosa serviva? Magari al buon governo? Ne dubitavo. Dovevo trarre via il principe da questo gioco al massacro di cervelli. Eppure, era a suo agio. A suo agio sul piccolo trono dorato, perle che ballonzolavano sul turbante e sul vestito vermiglio, la noia celata nel distacco emotivo. Ma era spontaneo, mai affettato. Era se stesso ma non si lasciava andare. Come è possibile che si riesca a essere così perfetti quando si è ancora immaturi? Avrebbe potuto essere femmina, ciò non avrebbe cambiato minimamente né il suo aspetto né la sua personalità. Per quanto tempo ancora? Poco, troppo poco. Il precettore, l’anziano accademico di fama, era appagato a disquisire di chiliagoni con un giovane che rispondeva sempre bene e aggiungeva persino spunti inediti alla discussione. Quest’uomo avrebbe potuto continuare la carriera di filosofo e matematico con esiti altissimi. Ma solo ora si sentiva compiuto, ora che si avvicinava alla morte, compiuto perché stava forgiando un essere vivente, stava trasferendo le sue conoscenze in un ragazzo che da grande sarebbe divenuto un monarca illuminato.

Quel viso di politezza, una scultura levigata più e più volte. Parlava da labbra più vermiglie del suo abito screziato. L’abito screziato mi rimandava chissà perché alla sua sprezzatura di principe gradevolmente distaccato. Che ci fosse davvero un nesso? Avrei voluto chiedere all’accademico ma mi fermai in tempo, sarei stato giudicato troppo indiscreto. Mi limitai a dire al principe qualcosa che potesse essere parimenti problematico:

«Il coraggio. Credo sia questo che vogliono svelare in voi. Il coraggio.»

Il precettore ritrovò il turbamento e sul suo viso io ritrovai le pennellate di El Greco. Il principe si alzò dal trono e, anziché i suoi passi, udii due spade estratte nell’anticamera, udii tintinnii, le buccole delle ancelle nascoste al di là dello jali4. Il principe mi scrutò da vicino. Era pronto a scoprire ogni cosa, ogni aspetto del mondo. Dovevo essere in gran forma perché gli comunicai fiducia. Infatti egli disse:

«Sono pronto. Quando andiamo a cercare le cose che si muovono sulla terra bruna?»

E io gli dissi:

«Domani.»

Il principe annuì e tornò sul trono, gli scappò un sorrisetto. Il precettore mi tirò via. Dovette usare tutta la forza fisica che aveva perduto in anni di inattività, il che era un paradosso per chiunque, non per lui. Bene, ero pronto per l’incarico.


Note

  1. “Muqarnas” (arabo): motivi ornamentali ad alveoli geometrici; la loro reiterazione induce alla contemplazione dell’infinito. ↩︎
  2. “Dios os dé buenos días” (spagnolo): “Che Dio vi doni liete giornate”. ↩︎
  3. “Hombre aventurero muy ingenioso” (spagnolo): “avventuriero di grande intraprendenza”. ↩︎
  4. “Jali” (hindi): grata di metallo o legno oppure parete perforata. ↩︎

Il romanzo, la morte. Su un falso diario di Rino Genovese

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di Tommaso Ottonieri

apparso su “il verri” n.89 (ottobre 2025)

L’avventura, contorta, frantumata, rimontata a pezzi, gelidamente grottesca, di un tarchiato e semisfatto anestesista fascio-seduttore, turista sessuale sordido e vuoto di qualsiasi straccio di dis-eroicità tenebrosa: un “puttaniere nero”, al modo salgariano (suo abbassamento parodico), dal trasparente nome di Venturieri: che, dal fondo del suo adipe e dei suoi capelli tinti, abbia a cuore la facile conquista (ovvero, ottenimento) di disponibili corpi femminili, in specifiche realtà tendenzialmente sottosviluppate (Africa, Dakar, e poi Brasile, Rio, in sostanza), con interferenze, anche in flashback, sulla sua dimora napoletana.

E che intanto, per una sorta di paradossale forma di attrazione, accanto alla sua empirica prassi di sperimentatore sul campo (femminile, comunque), sviluppa una sua convinzione della superiorità della razza nera (forma di razzismo, ancora, benché rovesciato), conducendo ricerche circa la relativa risposta all’anestesia.

La corrispondenza agonistica con un intellettuale, avversario politico di gioventù, discretamente attratto dall’idea del suicidio; il rapporto di difficile (e agonistica, ancora) complicità erotica con una moglie, Susanna, fascista anch’essa, approdata al piacere omoerotico, consumato, ancora, con giovani del Terzo Mondo e in particolare con tale, bellissima, Soukeina, “importata” dal marito.

Tutto questo, liberamente sezionato e scomposto (secondo una regola triadica, nella Parte prima del libro), in una narrazione che plasticamente confonde i piani del discorso: retrocedendo il narrato allo spazio quasi di un diario in terza persona, e poi il diario (in prima persona) allo spazio del saggio; e che da ciascuna delle sue forme riceve una sua dizione aperta, interlocutoria, e al fondo (mai rassegnata all’) indecidibile.

Rino Genovese (che nella Parte seconda del libro si dichiarerà persino in autofiction) è noto come autore di opere di saggistica filosofica (da La tribù occidentale a Socialismo utopico, socialismo possibile, e assai oltre) nonché di attivista “teorico” a vari livelli (da lui creati, più di recente, la Fondazione per la critica sociale, il sito Terzogiornale…), ma autore poi di diari (falsi diari) e di romanzi “antierotici” in forma epistolare; adesso, il suo capitolo metaromanzesco, vede finalmente la luce a dieci anni dalla sua stesura, si rivela in un contesto storico in grado di illuminarlo appieno donandogli risonanze cupe e sconosciute. Specie, diciamo, per l’avverarsi di un fascismo genericamente “antropologico”, un sottofondo (quasi basso continuo) tipico della storia italiana – di un dispotismo superficiale e violento, che assume i volti patriarcali del sessismo, del razzismo, del colonialismo, e che perdura rivelandosi (mai sopito) nel post-fascismo al governo oggi – pronto, tuttavia, a rivendicare apertamente la sua costanza, la presunta forza delle sue radici («Venturieri era l’estremo prodotto di una storia che si è messa a girare su se stessa facendo cortocircuito tra il presente e il passato»). L’incrocio di razzismo e sessismo rivela dunque (anzi, conferma) la consistenza di quel fascismo, la sua inconscia valenza antropologica, capace di restare strisciantemente attiva per decenni, in zone spesso celate, riaffiorando per complotti rimasti oscuri quanto devastanti per emergere nell’attuale crisi del pensiero critico; ma insieme, per esso si rivela una intrinseca, patetica fragilità: il declino del maschile, nel rapporto tra i sessi, è parte del rabbioso decadere d’un Occidente patriarcale, che, per allegoria, trova qui rispondenza in una vasta e indifferenziata vocazione al suicidio (di cui quella enunciata dal narratore, senza darvi seguito, è solamente la più consapevole ed esplicita).

La memoria forse involontaria della dialettica negativa, paranoide, espressa in Tempo di uccidere (il che riporta, decenni addietro, a una stagione a ogni titolo fascista), qui riversata all’incontrario, deprivata del coefficiente di colpa storica che alimenta il romanzo flaianeo, si sviluppa sul corso discontinuo d’una dissociata, ma ritmica, forma di sciarada, fino al suo primo scioglimento. Il puttaniere finirà di morte cruenta, in Brasile, a opera di qualcuno più alto di lui, probabilmente l’irresistibile virago che lo ossessiona e possiede; e tutto in realtà permane infine in una condizione di stallo, per una difficoltà – o interdizione – a illuminare ogni zona d’ombra, a comprendere ciascuna delle sacche di storia sconosciuta: “Tereza”, la fatale (mai rivelata, però) giustiziera, misteriosamente porta un nome che non è il suo, e una prima volta emerge dalla trance di un rito Candomblé, quando a Venturieri appare come un doppio della Soukeina senegalese.

Eppure, è proprio giunti a questo punto, che si apre l’interrogativo più vertiginoso, a donare titolo e tema alla ricerca stessa. Chi è che ha scritto, veramente, questo libro? O, più alla radice, chi è che scrive, ogni volta, e diversamente, un romanzo? Sarà, in questo caso, il conoscente, l’osservatore, impropriamente chiamato dalla moglie di Venturieri a comprendere e orientare l’intrico? O sarà piuttosto quel funzionario di polizia locale – il delegato José de Oliveira, – fatalmente sedotto dal corpo magico-scultoreo della medesima virago, il quale aggiusta le prove per scagionarla e insieme per rendere più avventurosa la storia che intanto, ha deciso di scrivere, grottescamente trasformandosi nel suo scrittore (e perdendosi, per questo)?

La domanda insomma traspone la questione stessa in chiave metaromanzesca; non si tratta di un romanzo già scritto, stancamente chiuso, solo da sciogliere nei suoi nodi secondo una collaudata e inferenziale strategia di lettura: ma invece, di un romanzo da scrivere o in ogni caso ricomporre dal suo stesso grado di indecifrabilità, sulla base di sparsi disorientanti dati; che non appartengono a un plot comunque già-scritto, ma sono quelli, piuttosto, suggeriti dalla mobilità incertamente conoscitiva di un processo d’investigazione che trae la sua forza dall’interrogare, priva di chiavi rivelatorie e dunque di esiti incontrovertibili, del saggio: o meglio, del romanzo-saggio; una chiave che, anzi, solo «nella indecisione tra il saggio e il romanzo», può essere forse posseduta. Sarà, dunque, «il romanzo di uno che non crede nel romanzo».

Nella Parte seconda e ultima del libro, l’invenzione della trama diventa artificiosa, cadaverica, gelidamente grottesca (eppure traversata da uno strano pathos testimoniale-speculativo): sì che la dimensione diaristica assume un ruolo più letterale ed esplicito, riassegnandosi al narratore, il quale, nella prima sezione, appare solo occasionalmente dichiarantesi. Eppure, fino in quella Parte prima, ovunque vige un andamento diaristico e come astratto nel suo andare spezzettato; incerto ovunque vi sia il soggetto, perifericamente osservatore, della ri-de-costruzione: e significativo che l’occasione da cui scocca l’idea del romanzo è (stante alle confessioni dell’autore) la scoperta di un manoscritto diaristico d’un conoscente, frequentatore sedicente di prostitute nere.

Ma soprattutto, una volta preso corpo, riattribuitosi un ruolo investigante e protagonista nelle peregrinazioni brasiliane della Parte seconda, il narratore fa evolvere il suo “antifascismo” in una forma sospesa di autoanalisi; deponendo, in definitiva, lo stesso modo metaromanzesco, e convertendo il suo scrivere in una sottesa interrogazione sul declino del soggetto occidentale, immerso nel folto di divagazioni e apparizioni di cui non giunge a ricostruire la trama. Fino al conclusivo quesito, che corrisponde a una mutazione del focus del romanzo, una rotazione vertiginosa delle sue ragioni: «Di che cosa tratterà il mio libro? Di un fascista neanche tanto ex tramutatosi in un turista sessuale, e poi in una specie di suicida per interposta persona? O di un poliziotto che, volendo essere uno scrittore, si smarrisce dietro a una probabile assassina?»

Il racconto, già inizialmente procedente a spirale, è solcato dunque, tutto, da questa profonda cesura tra due Parti; la quale di colpo lo svela quale struttura metaromanzesca ma ancor più a fondo decostruita: a dominare, è una sorta di triturazione, di fatto, doppiamente diaristica (diario in prima persona, nella Parte seconda) del presunto e già disperso plot. Alla raggelante, discontinua ma intimamente ritmata, ricostruzione delle vicende del “puttaniere” (nella Parte prima), fa riscontro il diario, in parte effettivo, dell’entità qui narrante (è la Parte seconda, tutta ambientata a Rio); messa a fuoco della problematicità  sempre insormontabile dell’attuale scrittura romanzesca (quando venga presa col necessario rigore). Di colpo, il romanzo investiga il suo stesso percorso, non meno che la sostanza stessa, profondamente negativa, delle persone in gioco (la quale si presenta sempre di più in chiave notturna, o fantasmatica, o sordido-labirintica); tutt’al più, spingendo l’atto di lettura su di una sorta di impossibile (grottesca, impalpabilmente) interpretazione del labirinto qui aperto, e quindi dello scacco (quello dell’investigazione, del delegato José de Oliveira e allo stesso modo dell’io narrante; e infine, della conversione narrativa dell’insieme).

Così, la svilita identità autoriale, emersa solo occasionalmente nella Parte prima, si rivela appieno e snuda nella Seconda, in una sorta di gioco (dicevo prima) autofictionel in cui lo scrivente, autodichiaratosi come “Rino Genovese” in sé, si afferma, tra investigazione e autoanalisi, nello spazio del diario, e riassume in sé la posizione di protagonista o quanto meno attore dell’impossibile, sempre più improbabile, quest; e afferma insieme la consapevolezza dello scacco, dell’impossibilità (in una realtà a tal punto invischiante e nebulosa) di produrre altro che romanzo (la sua stessa protagonista, Tereza, vi resta un’entità mitica, fantasmatica, apparizione densa e senza spessore)… coscienza, dunque, dell’inevitabilità di raccogliere l’eredità del delegato, resosi da investigatore al reinventore (il romanziere) della vicenda. Quella che per lui, “Rino”, ha assunto, nel frattempo, discrete marche stregonesche: come per una lucidissima, straniata forma di sconcerto.

E infine (cioè più a monte), il “narratore” dovrà radunare gli sparsi fogli (in realtà, triadicamente ritmati) di un preparatorio montaggio, quello della Parte prima (per quanto filtrati dalla voce, a un primo tratto impassibile, del conoscente “Rino”), che esula persino da determinanti temporali – montaggio, ovvero, privo di una obbligata sequenzialità cronologica (e randomicamente anzi ridisposto). Per una prismatica e non facilmente attribuibile partitura delle voci: in cui gli eventi, le avventure del Venturieri, si presentano e si dissolvono in serie di dissolvenze, acquisendo una loro (bieca quanto “secolare”) forma di oggettività, tutta venuta in luce e pure subito evaporante.

(Dura spettralità di quel “basso continuo”, di quel “fascismo antropologico”; capace di replicarsi e replicare la stessa interminabilità di morte a cui assoggetta, a cui si assoggetta).

In questo: la voce del narratore-conoscente-diarista (“Rino”) si distacca dall’inane compito di donare compiutezza “romanzesca” all’insieme: mentre, dal fondo della sua reclusione, la voce invece del delegato (de Oliveira) si conduce fino al limite di un sacrificio, quello che chiude la vicenda, lasciandola definitivamente aperta; rendendola, insomma, la piena occasione di un “romanzo”.

Così, il paradosso che si esprime fin dal titolo, è tutto in definitiva nel gioco, che vi è espresso, del tempo verbale. Chi scriverà, certo; ma: questo romanzo. Quello che è da scrivere, è un romanzo che già c’è. L’agnizione, da parte del narratore, di poterne essere l’autore (dopo il delegato, e dopo lo stesso puttaniere), segna la caduta infine della forma diario così come del “saggio” in quanto forma classica (forme che presentano entrambe un modello di conoscenza puntuale ma intermittente, per approssimazioni e illuminazioni, un modo insomma potenzialmente infinito); a favore d’un narrare organico, romanzesco, subito avvenire. Il cui avvento è già tuttavia la marca gloriosa e cadaverica d’una fine; o quanto meno, ormai, d’un impossibile inizio. Lui ha la sua morte, io il mio libro. Oppure: io ho il suo libro, lui la mia morte.

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Rino Genovese, Chi scriverà questo romanzo? Il puttaniere nero, Castelvecchi, Roma, 2025

Lingue matrigne

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di Gabriele Di Luca

I due passi che seguono sono tratti dal capitolo “Lingua madre e lingua matrigna: uno scenario complessivo” del saggio “Lingue Matrigne” (Edizioni Alphabeta Verlag, 2025) del giornalista e traduttore Gabriele Di Luca

Per stabilire una distanza non diminuendo, bensì aumentando la contiguità, occorre esercitare la facoltà della “cattiva” indifferenza. Io posso mostrare indifferenza allor-ché una cosa non mi interessa (anche se magari dovrebbe), e allora le volgo le spalle, faccio finta di non vederla, passo oltre e per me la faccenda è chiusa. In Adige/Südtirol, anche se viviamo tutti a stretto contatto (come se fossimo insomma miteinander, insieme gli uni con gli altri, stando “sotto lo stesso tetto”), i rapporti sono perlopiù intonati a una coesistenza fatta soprattutto di reciproca indifferenza: ogni giorno celebriamo un mesto Nebeneinander (gli uni di fianco agli altri) che tende pericolosamente all’Ohneeinander (gli uni senza gli altri). Quella che qui manca, allora, è l’indifferenza dalla faccia “buona”. Io potrei, per esempio, scrivere questo testo “indifferentemente” in tedesco o in italiano, se solo avessi la voglia e soprattutto la capacità di farlo. Ma poche sono le persone in grado di destreggiarsi con pari abilità in più lingue, e ancor meno quelle che – a partire da questa abilità – riescono a contagiare gli altri; i più credono di difendere la propria identità e specificità culturale mostrandosi indifferenti alla lingua e alla cultura dell’altro. Nel saggio Per imparare la lingua del vicino, Aldo Mazza ha il merito di enunciare l’aporia della vicinanza foriera di distanza in modo diretto e persuasivo:
Niente sembra più difficile, e non solo in Sudtirolo, che imparare la lingua del vicino. Paradossalmente sarebbe più facile apprendere una lingua lontana, o per lo meno parlata da persone che non ti vivono accanto, che imparare una lingua parlata da quelli che con-vivono-con-te, una lingua che attraversa la tua quotidianità a vari livelli.
Una volta intuita la logica paradossale secondo la quale la “vicinanza” è un fattore che può rivelarsi più problematico della “lontananza”, occorre esaminare nel dettaglio i motivi di tale difficoltà, verificando anche se si tratti di un fenomeno perfettamente simmetrico oppure se, all’interno di una generica simmetria, esistano sfumature che la mobilizzano e la alterano. Per questo motivo, quando ho cominciato a pensare di scrivere quello che state leggendo, mi è venuta in mente l’immagine della “lingua matrigna”, che include (corrompendola) quella della “lingua madre” o “madrelingua”. Un breve excursus renderà, spero, più chiare le cose.
La figura della “matrigna” ci fa pensare alle fiabe. Tutti ricordano sicuramente Biancaneve (Schneewittchen) e Cenerentola (Aschenputtel). Non c’è bisogno di riassumerne la trama. L’aspetto importante è che le due protagoniste sono entrambe orfane di madre. Perdere la madre significa con-vivere con un lutto molto pesante, in particolare perché l’assenza della genitrice espone a un rischio letale alcune fondamentali garanzie originarie, a cominciare dalla protezione conferita dal contesto familiare, che può essere la premessa di una piena realizzazione nella vita. «Without the protection and infancy’s guard / It all falls apart at first touch» cantava il poeta. E infatti i due padri, uscite di scena le mogli (mogli e madri), si risposano subito ed è qui che accade il disastro, personificato dalle rispettive matrigne. Si tratta di uno degli archetipi più potenti presenti all’interno delle fiabe. Volessimo segnalare un risvolto psicoanalitico, la matrigna rivela l’ombra, la parte di noi che rifiutiamo o nascondiamo, ma che pure dev’essere integrata per raggiungere la maturità. Nella psicologia di Jung, per esempio, l’ombra è un aspetto inconscio della personalità che l’ego cosciente non riconosce in se stesso, forse addirittura la totalità dell’inconscio che, come un profondo mare oscuro, circonda e assedia l’isolotto dell’Io. Chiaro dunque che, una volta spezzato il legame con l’origine, con la madre, sia proprio il profilo della matrigna a venirci incontro sulle onde di quel mare oscuro che rischia di sommergerci. La matrigna è il simbolo della crudeltà e dell’ostilità che il protagonista della fiaba (l’orfano o l’orfana di turno) deve affrontare, ma anche di una parte resistente della conformazione psichica rimasta impigliata nel passato e che, per essere superata, deve essere compresa e trasformata.

Torniamo allora in Sudtirolo. Finora abbiamo parlato in generale dell’italiano e del tedesco – intendo qui ovviamente in primo luogo le lingue, e solo in senso subordinato i gruppi umani identificabili con tali denominazioni – come se si trattasse di codici monolitici, stabili e non caratterizzati da sfumature interne. Nel gergo giornalistico, addirittura, è in uso una tendenza piuttosto comica, se non altro per gli esiti, a variarne il riferimento mediante la figura retorica dell’antonomasia in forma di perifrasi. Troviamo quindi “la lingua di Goethe” e “la lingua di Dante”. Un po’ come se al bar o in ufficio tutti dicessero cose del tipo «Doch sage wem sind wir verpflichtet, dass die Natur, auf uns gerichtet, das Seltenste zusammerafft?» o «dispregiar se medesimo è per sé biasimevole, però che a l’amico dee l’uomo lo suo difetto contare strettamente, e nullo è più amico che l’uomo a sé». Provate a immaginarvi la situazione senza ridere, se ci riuscite. È evidente che si tratta di ulteriori mitologie da ridimensionare, se non proprio da picconare. Allo stesso modo ho citato in precedenza il dialetto sudtirolese (e persino il ladino) senza occuparmi delle relative varianti. Se vogliamo però approcciare più da vicino il rapporto conflittuale tra i diversi codici, e con ciò comprendere la dinamica tra “lingua madre” e “lingua matrigna” che lo caratterizza, occorre adesso essere più precisi. E la precisione ha i suoi costi, le sue perdite, giacché focalizzerò l’attenzione esclusivamente sui repertori linguistici delle due comunità più interessa-te dalla dinamica conflittuale, vale a dire quella dei germanofoni sudtirolesi e degli italofoni altoatesini che dir si voglia. Per farlo mi appoggio a un breve saggio, intitolato La situazione sociolinguistica dell’Alto Adige/Südtirol, del glottologo Alberto Mioni, che al nostro caso ha dedicato vari altri contributi, tra i quali uno assai illuminante – ricordo di averlo letto appena trasferitomi in provincia di Bolzano – perché impostato sulla differenza sussistente tra forme di bilinguismo o plurilinguismo “addittive” e “sottrattive”. Ecco il quadro linguistico con il quale dobbiamo confrontarci, secondo la ricostruzione di Mioni:
I germanofoni hanno generalmente tre diversi livelli di lingua, includendo la madrelingua e lo standard cui essa fa riferimento […]. Lingua alta è lo Hochdeutsch, che però è considerato lingua naturale solo nella comunicazione scritta, mentre in quella orale è usato di solito solo in occasioni formali o nei contatti con germanofoni venuti da fuori regione (es. turisti).
Bisogna soffermarsi su questa distinzione e pensarla a fondo. La madrelingua dei sudtirolesi non è la “lingua alta”, che infatti viene usata solo nella comunicazione scritta oppure, oralmente, nei contesti formali e nei casi in cui gli interlocutori provengano da quei Paesi germanofoni col-locati fuori dalla provincia di Bolzano. Se quindi questa lingua alta non è la madrelingua (e tantomeno la lingua madre, secondo la distinzione che abbiamo già evidenziato), dobbiamo forse dedurre che essa possa essere vista come una “lingua matrigna”, cioè un codice che non permette la definizione della propria identità e quindi, addirittura, come una specie di minaccia, al pari del citato caso ticinese, in cui gli svizzeri italiani prendevano le distanze dall’italiano standard?
Anche se si potrebbero trovare punti a sostegno di questa tesi, ciò non costituirebbe una reale approssimazione al vero. Pur non fornendo un modello identitario praticabile senza residui, lo Hochdeutsch o Schriftdeutsch è una lingua della quale la maggioranza dei germanofoni locali potrebbe in effetti servirsi senza grandi problemi o esitazioni in un ventaglio di situazioni più frequenti di quelle segnalate da Mioni. Una cosa però è certa: tra esse non rientrano né quelle in cui i sudtirolesi comunicano fra loro (perché allora la lingua comune diventa o una variante dialettale o una forma attenuata di dialetto definibile Umgangssprache, “lingua d’uso” con marcate componenti gergali), né – ed è a mio avviso una delle chiavi per comprendere alla radice le difficoltà intrinseche al quadro di convivenza locale – quelle che pongono di fronte un germanofono sudtirolese e un altoatesino italofono, perché in questo caso è più probabile che la lingua matrigna in un certo senso “ufficiale” o comunque più prevedibile (cioè l’italiano) ceda lo stigma della “matrignità” proprio al tedesco standard, che infatti viene perlopiù evitato e sostituito con l’italiano in quanto “lingua ponte” o della cosiddetta comunicazione “interetnica”. La ragione può apparire semplice, ma forse non è così agevole da afferrare come sembra.
E gli italiani, cioè gli altoatesini, come sono messi? Scrive Mioni:
Gli italofoni hanno […] come livello alto l’italiano standard (cui si aggiungerà lo Hochdeutsch per quelli che abbiano avuto una scolarizzazione linguisticamente efficace), come lingua media la varietà di italiano regionale bolzanino che si sta lentamente formando, mentre come lingua bassa almeno i più vecchi preservano ancora il dialetto (con prevalenza dei dialetti veneto-trentini, che, insieme, formano il gruppo più rilevante e più stabile). Le giovani generazioni di solito non acquisiscono dalle loro famiglie una competenza attiva dei dialetti, che non sono frequentemente utilizzabili nel complesso contesto urbano. Hanno invece un italiano abbastanza uniforme, scarsamente influenzato dalla regione di provenienza delle loro famiglie. Ciò che in generale manca agli italiani è la conoscenza delle varietà medie e basse del tedesco.

NdR Il testo originale ha delle note anche di notevole lunghezza, che per brevità non sono state qui riportate

➨ AzioneAtzeni – Discanto Dodicesimo: Carlo Lucarelli

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    Discanto Dodicesimo*   Lucarelli, scrittore parmigiano, non è osannato dalla critica italica. Buon segno; gli osannati hanno belle pagine (non sempre, però) con dentro l’insulso e il vuoto, la lontananza dalla vita, la metafora in sostituzione della trama, l’incapacità o la paura di raccontare veramente se stessi e gli altri (non sempre, però). dalla recensione ‘Le nostre storie, i nostri terrori’ di Sergio Atzeni, in Scritti giornalistici (1966-1995)    

Sergio e io

di

Carlo Lucarelli*

“Sono sardo, sono italiano, sono anche europeo”. Nella bandella di copertina di Bellas mariposas leggo questa frase di Sergio Atzeni e non mi stupisco affatto nel trovarla identica a quella che a volte uso anch’io per definirmi: “sono emiliano, sono italiano, sono anche europeo”. È un modo per dire che sono uguale a tanti e lo sono proprio perché sono anche diverso, perché una mia voce nel coro che si fonde con le altre. Credo sia un po’ questo il senso di tante cose di Sergio Atzeni, la ricerca di una voce, di una parola, di uno stile che fosse sardo ma italiano, diverso ma uguale. Di uno così parliamo noi, dove il noi si allarga e da un’identità precisa diventa un NOI più grande in cui ci sono anch’io, europeo, italiano ed emiliano. È un punto di vista tutto originale e suo, con quei frammenti di storie in cui scavare e scavare, scolpendo le parole fino in fondo. La strada battuta da Sergio Atzeni non era una strada facile, era una strada che non passava attraverso la confusione, ma attraverso il rigore e la precisione. La strada di Gadda e di Camilleri, che Sergio batteva da un punto di vista tutto originale e suo e che il destino ha voluto desse germogli e non ancora frutti. Uguali ma diversi. Il primo libro di Sergio che lessi era l’Apologo del giudice bandito e mi riempì di entusiasmo. Di quell’entusiasmo bruciante che ti fa venire voglia di incontrare l’autore anche soltanto per digli ‘bravo’. In quel momento avrei voluto scrivere a Sergio, mandargli una lettera attraverso Sellerio, ma poi ho pensato che Bologna-Cagliari via Palermo fosse una distanza infinita e non l’ho fatto. Così lontani, così diversi. Poi succede che vengo invitato all’inaugurazione di una libreria Sellerio in centro Italia, assieme ad altri autori che come me scrivono per quella casa editrice. Appoggiato a uno scaffale di quella libreria nuova di zecca c’è un ragazzo e ha letto i miei libri. Mi dice che gli sono piaciuti e vengo a sapere che è sardo. Gli dico che c’è un autore Sellerio di Cagliari che mi piace molto, chissà se lo conosce. Si chiama Sergio Atzeni. Lui sorride e dice: “sono io Sergio Atzeni”. Passato il primo momento di sorpresa gli racconto che avrei voluto farmi sentire, chiamarlo o scrivergli ma che la distanza… “Quale distanza?” dice lui. “In questo momento non sto a Cagliari. Vivo a Castelfranco Emilia”. A pochi chilometri da casa mia. Così lontani, così vicini… così diversi. C’è un’altra cosa nei racconti e nei romanzi di Sergio Atzeni, che da Il demonio è cane bianco a Bellas mariposas, dalle prime parole scritte alle ultime, raccolte in questo unico libro di Sellerio, continua a risuonare decisamente. La fede nella parola narrativa, nella vitalità del raccontare storie che attraverso quel rigore e quella precisione, quella ricerca di un’identità feconda, diventano universali anche se parlano di altre persone, di altre leggende, di altri diavoli. È quella capacità che hanno gli scrittori come Sergio di scrivere parole che si staccano da una terra e da un cuore e restano sospese a mezz’aria. Forse è la scrittura stessa che è così, quando è sincera. Mi ricordo che quando seppi dell’onda che si era portata via quello che sarebbe diventato uno degli scrittori più significativi della nostra generazione, il primo istinto fu quello di aprire il diario che allora tenevo, mettere la data e scrivere: “È morto Sergio Atzeni”. *Ringraziamo Carlo Lucarelli per averci concesso di ripubblicare questo ricordo, pubblicato nel 1997 dalla rivista cagliaritana La Grotta della vipera  

* Azione Atzeni- mode d’emploi

di

Gigliola Sulis e Francesco Forlani

‘E scoprirai quello che resta di un uomo, dopo la sua morte, nella memoria e nelle parole altrui’. Sergio Atzeni, Il figlio di Bakunìn Il 6 settembre del 1995, inghiottito dal mare come l’amato Fleba il Fenicio, Sergio Atzeni perdeva la vita nelle acque dell’isola di Carloforte. Sardo, appena quarantenne, era stato militante comunista, anarchico leader studentesco, impiegato insoddisfatto, sindacalista, pubblicista. Dopo la fuga dall’isola, tra l’Emilia e Torino, divenne correttore di bozze, lettore di manoscritti per case editrici, sontuoso traduttore – un testo su tutti: Texaco di Patrick Chamoiseau. Per tutta la vita fu intellettuale rigoroso, poeta e scrittore immaginifico, autore di romanzi-mondo come Apologo del giudice bandito, Il figlio di Bakunìn, Il quinto passo è l’addio, Passavamo sulla terra leggeri, e di una cascata di racconti tra cui Il demonio è cane bianco, I sogni della città bianca, e Bellas mariposas. Come nel Figlio di Bakunìn, pensando oggi a Sergio, ci chiediamo: che cosa resta di uno scrittore, dopo la sua morte, nella memoria e nelle parole altrui? Per rispondere a questa domanda, abbiamo invitato degli autori legati all’opera di Atzeni a dare nuova vita ai personaggi o ai luoghi o alle atmosfere della sua opera. Interpretando, riscrivendo, stravolgendo creativamente, in totale libertà. Un coro di voci diverse per una raccolta di racconti brevi, una rifrazione e moltiplicazione di frammenti post-atzeniani. Assolutamente vietata l’agiografia, e ‘massima penalità per chi si prende troppo sul serio’, come scriveva Sergio in uno dei suoi ultimi articoli per “L’ Unione Sarda”. Nasce così il gioco del discanto*, da intendere sia come far decantare delle buone pagine in nuove storie sia come costruzione di voci in forma di polifonia medievale. * Francesco Forlani ‘Nella Sardegna magica in cerca di Sergio Atzeni, “Reportage”, n.10, 2012, ripreso nel 2017 da Minima Moralia Gigliola Sulis, Chi era Sergio Atzeni?’, “Le parole e le cose”, 22 novembre 2012  

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Spritz et circenses

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Di Paola Ivaldi

 

Oh, se solo imparassimo dalle foglie:
aggraziati morire, e appartati,
in un tripudio di colori.
L’agonia del fogliame termina a terra
senza clamore né dolore
essenziale poesia
a insinuarsi tra alberi denudati
nella lieve polifonia che alita il bosco.
Il sussurrar delle foglie è il mistero dell’autunno,
che torna e ritorna a sorprendere i privilegiati,
quelli di noi ancora alla vita peduncolati.

 

 

 

 

Dannati noi siamo abitanti di città
della notte abbiamo perduto le stelle
i cieli vuoti come fondali minimali
di miseri allestimenti teatrali.
Per sempre smarrite sorelle,
forse loro stanno a guardare
gran spettacolo, ora, essendo noi,
noi essendo, ora, quelli che cadono.

 

 

 

 

Ancora no, il disturbo non lo levo,
per adesso resto qui, annichilita,
dalla vista e dall’ascolto,
lo sproloquio compulsivo
quasi quasi logorroico
quei vocali surreali
che si odon per la via
il ciarlare nei dehors
instancabili ganasce
la pretesa del tagliere
e intanto giù a chiosare
fino al battibeccare
passare in rassegna
le offerte da sogno
la promo, lo sconto
per poi dileggiare
cognati cornuti
colleghi beoti.
Questo circo
odora di sterco:
il naso io mi turo,
poi taccio, m’astengo,
di tutto fo digiuno,
non ho intenti né argomenti,
ma nel lungo e sinuoso fiume
color vermiglio, che scorre chiassoso
da un bar a un altro bar,
mi si conceda un tuffo clamoroso,
che io no, non posso bere,
mi viene l’emicrania,
lasciatemi nuotare,
in tutto quello Spritz,
fino allo sfinimento,
guardatemi annegare,
voi avari di sgomento.

 

 

 

 

Io credevo che
il bianco ciclamino
un calice di vino
quella bella gonna a fiori
più dei vecchi pantaloni
la crema da giorno, la crema da notte
la frangetta
la scarpetta
il magnesio supremo
nel suo bel barattolone
il costume da bagno, nero e intero
io credevo, ma davvero ci credevo,
che mi dessero un poco di felicità
trallallero trallallà
poi son giunti gli anni Venti
frantumate le illusioni
mecojoni mecojoni.

 

 

 

 

Ovunque io vada
mi sento pellegrina.
Non c’è luogo
qui in città
che non parli
che non dica
quanto antica
sia la vita.

 

 

_____________________

Questi testi di Paola Ivaldi sono tratti da Spritz et Circenses (Transeuropa 2025)

 

 

 

Montale, Bassani e una «scienza delle intonazioni basse»

0

di Alberto Bertoni

Ospito qui, in occasione di Bookcity Milano e dell’uscita nel nuovo numero di Laboratori Critici (Samuele editore), l’editoriale di Alberto Bertoni.

***

La lettera inedita di Eugenio Montale a Giorgio Bassani ha un prima e un dopo. Il prima coinvolge le righe dedicate dal futuro premio Nobel alla prima edizione del primo libro di versi dell’autore ferrarese (Storie dei poveri amanti, Roma 1945: la seconda, “ampliata” di cinque poesie, sarebbe uscita l’anno dopo nella medesima sede) sul “Mondo” dell’1 dicembre 1945. Montale vi si riferisce nella lettera del ’49, mostrando di non averne conservato copia. Vi aveva associato i versi d’esordio di Bassani al “diario di poesia” Parole dell’ormai defunta Antonia Pozzi, pubblicato da Mondadori due anni prima.

In realtà, la recensione era tutt’altro che casuale, dal momento che Montale vi esprime un’impressione che è invece una verità critica molto impegnativa e presàga di futuro. Infatti, non c’è dubbio che nelle Storie dei poveri amanti a colpire è d’acchito la grande libertà metrica dei testi che lo plasmano. Composizioni in quartine di regolari settenari, contraddistinte da un’equiparazione sistematica – e già in sé piuttosto originale – di rime e assonanze, si alternano a un campione davvero ex lege quale Immagine, nel cui contesto le prevedibili quartine alternano tri- e quadrisillabi: «Ti consuma / d’amore / quest’aria / vivo cuore…»[1]. Certo, si potrà affermare che ci si trova di fronte a una ripresa esplicita dell’Ungaretti del Porto sepolto, poiché – se saldiamo in orizzontale la quartina in questione – otteniamo un regolare alessandrino, ma resta viva l’impressione di una prosodia sperimentale piuttosto avanzata, in tempi di un ermetismo votato al dominio endecasillabico. Basta pensare, in questa chiave, a un ibrido ancor più azzardato qual è la sequenza di Non piangere, compagno, la quale alterna settenari e ottonari, vale a dire due tipologie di verso prosodicamente “ostili”: «Non piangere, compagno, / se m’hai trovato qui steso. / Vedi, non ho più peso / in me di sangue. Mi lagno…»[2].

Non sarebbe difficile attribuire una simile instabilità metrica al processo di apprendistato di un esordiente compreso fra i ventitré e i trent’anni, non intervenisse un altro fattore di evidente sottrazione all’archetipo dell’endecasillabo (si pensi all’andare e venire, fra regola e sua violazione, dei Girasoli), riconoscibile nella maggioranza quantitativa di testi in versi lunghi, estranei alle metriche di derivazione romanza, spesso suddivisi pure loro in quartine. Non deve perciò stupire che nella sua proto-recensione sul “Mondo”, Montale insista proprio sull’aspetto metrico, dopo aver certificato che nel Bassani meno che trentenne si avverte «un temperamento di scrittore aperto a molte vie, [mentre] il prosatore si avverte anche nel tessuto del verso che rifugge da ogni astrazione sonora e si vale di un linguaggio ch’è realistico ma non contraddice mai alle possibilità tonali della lirica». E subito conclude che «Giorgio Bassani si rivela in perfetto possesso di un istrumento ch’egli non ha inventato, ma che si dimostra congeniale alle sue possibilità; ha sapienza di cesure, di false rime e di assonanze; sa sempre come sollevare dal livello della piatta prosa la cadenza più stanza e pericolante”, dal momento che possiede una calibrata «scienza delle intonazioni basse, quando gli avviene di servirsene per darci motivi e quadri della sua campagna ferrarese…».[3]

Il dopo è relativo invece all’effettivo debutto di Bassani nella collana mondadoriana dello “Specchio”, che sarebbe giunto a compimento due anni dopo la lettera di Montale pubblicata qui, vale a dire nel dicembre 1951. Intitolato Un’altra libertà, suddiviso in due sole sezioni (Te lucis ante, dedicata a Dinda e Niccolò Gallo; e In profondo, dedicata invece a Marguerite Caetani) e composto di poesie scritte fra il ’46 e il ’51, il volume passa oltre le Storie dei poveri amanti ma non si avvale di alcun intervento critico di Eugenio Montale (Mondadori forse non aveva accettato la richiesta di diecimila lire per la prefazione, annunciata da Montale nella lettera?), introduzione o bandella che sia. Ciò non inficia però l’interesse autentico di Montale per il profilo inventivo di colui che qualche decennio dopo avrebbe firmato quel capolavoro che è Il romanzo di Ferrara.

[1] Giorgio Bassani, Poesie complete, a cura di A. Dolfi, premessa di P. Bassani, Feltrinelli, Milano 2021, p. 71.

[2] Ibid., p. 86.

[3] Eugenio Montale, Il secondo mestiere, Meridiani Mondadori, t. I, Milano 1996, pp. 634-39. Qui p. 638.

L’Europa davanti alla sua frattura

1

di Martina Mattia

Nell’Europa che implode nel culto del tempo misurabile, esiste un luogo in cui l’orologio si arresta: il Sud Italia, e in particolare la Basilicata, la più remota, la più spopolata, la più dimenticata delle regioni meridionali. Qui l’atemporalità raggiunge la sua forma estrema.
Tra le notizie recenti, ricorre quella del continuo spopolamento dei borghi lucani. Ma i villaggi abbandonati non andrebbero letti come rovine: sono soglie, luoghi in cui il tempo non progredisce, si frattura. Non a caso Carlo Levi descrive la Basilicata come un altro mondo, “serrato nel dolore e negli usi, negato alla Storia e allo Stato”.

Mentre il Nord corre verso il futuro, come progresso cieco, il Sud custodisce una forma altra di coscienza: un deposito invisibile, una riserva metafisica. La Basilicata non è soltanto il margine dimenticato della modernità, ma la sua ferita più eloquente.
In questo senso, Cristo si è fermato a Eboli non è soltanto il racconto di un Sud abbandonato: è la diagnosi di una frattura epistemica. Levi vi riconosce un mondo sospeso fuori dal tempo storico, in cui i contadini vivono nell’alienazione non solo dallo Stato, ma dalla Storia stessa. Sono i vinti: per loro le guerre, i governi e le disfatte nazionali sono calamità naturali, inevitabili come la malaria o la siccità, appartengono a un unico orizzonte di sventura naturale, inevitabile.
Durante il fascismo, racconta Levi, “le fanfare ottimistiche della radio” provenivano da un’altra Italia, “che aveva dimenticato la morte, al punto da evocarla per scherzo, con la leggerezza di chi non ci crede”. In Lucania, invece, il dolore non è colpa né peccato, ma una condizione terrestre, inscritta nelle cose. Qui “Cristo non è disceso”, scrive Levi: “Cristo è sceso nell’inferno sotterraneo del moralismo ebraico per romperne le porte nel tempo e sigillarle nell’eternità. Ma in questa terra oscura, senza peccato e senza redenzione, Cristo si è fermato a Eboli”.

Non è giunta la Storia, e dunque non è giunta la redenzione. Il messianesimo, qui, non è potuto arrivare: come può il futuro messianico irrompere in un luogo che vive fuori dal tempo stesso? Non c’è Storia, non c’è passato, e quindi nemmeno futuro. Eppure, proprio questa sospensione risuona sorprendentemente con le riflessioni di Walter Benjamin.

Nelle Tesi sul concetto di storia, Benjamin smonta la fede moderna nel progresso e descrive la crisi del tempo lineare attraverso il concetto di Jetztzeit: una scintilla del passato che irrompe nella catena della storia, spezzandone la continuità e rivelando, per un istante, un senso nascosto e salvifico. Anche Levi, osservando i contadini lucani, riconosce un tempo sottratto alla marcia trionfale della modernità. Ma ciò che in lui resta esclusione – una terra senza redenzione – in Benjamin diventa promessa, apertura, possibilità di riscatto.

Levi osserva che per i contadini il futuro stesso è un’utopia: “le eterne nebbie del crai”, dice, riferendosi al modo in cui i lucani parlano del domani – crai, domani, che è domani e sempre. Benjamin direbbe che qui agisce la storiografia dei vincitori: la Storia scritta dal potere che domina persino l’immaginazione dei vinti. “La tradizione degli oppressi ci insegna”, scrive Benjamin (Tesi VIII), “che lo stato di emergenza in cui viviamo è la regola.”

Il progresso moderno – la narrazione dei vincitori – accumula solo rovine. È la visione dell’Angelus Novus: dove noi vediamo una catena di eventi, l’angelo della Storia vede “una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine”.

L’unica via d’uscita è, per Benjamin, una nuova concezione della storia: non più una cronologia che avanza, ma una costellazione in cui il passato si accende nel presente. Il messianesimo, per lui, non è un evento futuro, ma una possibilità sempre imminente. “Ogni secondo”, scrive, “è la piccola porta attraverso la quale può entrare il Messia.”

Benjamin rielabora in chiave filosofica e politica il messianismo ebraico: l’attesa di redenzione non è un evento futuro garantito, ma una possibilità sempre presente, che può irrompere in ogni istante. Non si tratta di attendere passivamente, ma di agire nel presente, cogliendo le scintille di redenzione e liberando i vinti dal silenzio imposto dai vincitori.

Il Jetztzeit – letteralmente “adesso-tempo” – è quell’istante denso e qualitativo che interrompe la linearità, un lampo in cui passato e presente si connettono. Non è semplice memoria, ma un atto politico e messianico: riscattare il passato dei vinti, sottraendolo all’oblio. “Articolare storicamente il passato”, afferma Benjamin, “non significa conoscerlo ‘come è stato’, ma impadronirsi di un ricordo così come balena nell’istante del pericolo.”

In questa luce, la Basilicata appare il terreno più fertile perché avvenga il Jetztzeit: un luogo in cui il passato non è trascorso, ma ancora presente nella sofferenza, nei gesti, nelle tradizioni. Levi lo intuisce quando scrive: “La loro vita, nelle identiche forme di oggi, si svolgeva uguale nei tempi più remoti, e tutta la storia era passata su di loro senza toccarli. […] Si dovrebbe scrivere una storia di questa Italia, se è possibile scrivere una storia di ciò che non si svolge nel tempo: la sola storia di quello che è eterno e immutabile, una mitologia.” Ecco, in queste righe, il tempo pieno di Benjamin: un tempo denso, saturo di passato.

Sebbene Levi colga con precisione la realtà epistemica della Basilicata, la definisce come la terra dove non è giunta la redenzione. Ma quale redenzione? Non quella religiosa, bensì quella storica e politica: la modernità, il progresso, lo Stato. Nessuno di questi ha portato ai contadini lucani un riscatto sociale: rimangono ai margini, confinati in un tempo che non scorre ma ristagna. Levi comprende che questa esclusione non è semplice arretratezza, ma un’altra forma di coscienza. Tuttavia la descrive come condizione chiusa, immobile, senza riscatto: un eterno presente senza possibilità di trasformazione. Quando scrive che “Cristo si è fermato a Eboli”, intende dire che qui non è giunta la storia moderna, non è arrivata la redenzione storica.

Il resto d’Italia, e più in generale l’Europa, ha conosciuto la propria “redenzione storica”: progresso economico, riconoscimento politico, cittadinanza moderna. La Lucania no. Qui la frattura non è apertura, ma condanna.

Ed è qui che si apre lo scarto decisivo con Benjamin. Per lui la redenzione non coincide con la modernizzazione o la conquista di diritti, ma con un atto di giustizia verso il passato: un’irruzione del tempo perduto nel presente, capace di spezzare la catena della storia dei vincitori. La redenzione, per Benjamin, non significa che “arriverà lo sviluppo”, bensì che i frammenti del passato – le sofferenze, i silenzi, le vite dimenticate – possano risplendere nel presente come Jetztzeit, un “tempo-ora” in cui la memoria dei vinti torna a interrogare il presente. In questa prospettiva, la redenzione è sempre possibile, anche per chi è stato escluso o cancellato.

Per Levi, invece, la redenzione – intesa come progresso storico-politico – è già avvenuta altrove, ma è stata negata al Sud. La Basilicata ne è rimasta fuori: ciò che altrove è divenuto “futuro”, qui è sospeso. Il suo desiderio è che anche il Mezzogiorno possa un giorno entrare nella Storia. Benjamin, al contrario, non vuole includere i vinti nel progresso, ma liberare la loro memoria dalla narrazione trionfale del progresso stesso. Riscattare i vinti non significa concedere loro sviluppo, ma impedire che la loro sofferenza venga giustificata in nome del cammino storico. Ogni lotta sconfitta, ogni vita dimenticata, ogni dolore cancellato possiede ancora un diritto al riscatto: un bagliore che può accendersi nel presente, trasformandolo in consapevolezza politica e morale. “Anche i morti”, scrive Benjamin (Tesi VI), “non saranno al sicuro dal nemico se egli vince.”

Redimere significa restituire voce ai morti e agli sconfitti, non assorbirli nel mito del progresso. Non è il futuro che salva il passato, ma il presente che, aprendosi come spazio messianico, lo riscatta. Le diverse conclusioni di Levi e Benjamin dipendono dalla loro prospettiva: Levi guarda da un orizzonte storicistico, Benjamin da una storiografia materialista. Entrambi riconoscono la frattura del tempo lineare, ma mentre per Levi è condanna, per Benjamin è promessa.

La Basilicata – e con essa il Sud intero – diventa così la denuncia vivente del fallimento della modernità europea. È ciò con cui l’Italia e l’Europa non si sono ancora realmente confrontate. Solo attraversando questa frattura, solo guardando nel vuoto che il Sud rappresenta, il passato potrà irrompere nel presente, aprendo la possibilità di una vera redenzione.

In Cristo si è fermato a Eboli, il messianismo appare in forma negativa: Cristo non scende, la redenzione non arriva. Ma proprio questa assenza fa della Basilicata un luogo “messianico al contrario”: uno spazio che rivela la crepa del tempo storico e mette a nudo l’illusione del progresso e della salvezza universale.

Per Levi, i contadini lucani “saranno redenti” quando giungeranno lo Stato, la giustizia, lo sviluppo. Per Benjamin, i vinti “saranno redenti” solo quando la loro memoria spezzerà il tempo lineare e si trasformerà in forza messianica, in un tempo-ora che ci obbliga a ripensare la storia e l’azione politica nel presente.

Il dialogo tra Levi e Benjamin disegna così un paradosso fecondo: la Basilicata, apparentemente fuori dalla storia, non rappresenta arretratezza ma un deposito di senso, una riserva metafisica da cui l’Europa, nel suo esaurimento, può ancora imparare. I villaggi spopolati, le rovine, le vite dimenticate non sono soltanto segni di perdita, ma soglie: luoghi in cui il passato si affaccia e il futuro resta sospeso, in attesa di un altro inizio.

In questo incontro ideale tra Levi e Benjamin, il Sud diventa la coscienza non redenta dell’Europa: lo spazio che, proprio perché escluso, custodisce la possibilità di pensare di nuovo la storia.

Technical Ecstasy

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di Emanuele Canzaniello

 

Il romanzo di cui vengono anticipati qui due capitoli, da due momenti distanti del libro, orbita intorno al fantasma abbacinante e inabitabile dell’orgasmo. Una pillola neuro-ormonale è diffusa nel mondo e ha alterato per sempre l’orgasmo umano, la sua intensità e i modi con cui ne facciamo esperienza. Trasformando per sempre le forme della civiltà, stabilendo un prima e un dopo del tutto nuovi, e sancendo la scomparsa del contatto tra i corpi e delle relazioni come le abbiamo conosciute. Quattro persone vivono la loro prima e ultima stagione di socialità in un’esperienza di autotortura e isolamento che ricorda e nega allo stesso tempo le 120 giornate di Sodoma. Uno di loro racconterà, in un libro che si segue e scorre dentro il libro, per simmetria e rovesciamento, la vita smisurata dell’uomo Sade.

 

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Autotortura I

 

Un fenomeno che si è sviluppato fin dai primi anni della diffusione della pillola ha rappresentato il suo esatto contrario, così contrario da rivelarsi come il suo doppio simmetrico. Un fenomeno di inversione e duplicazione che accompagna sempre le grandi e profonde trasformazioni dell’erotismo di un’epoca del mondo. La grande frattura che ha fatto scivolare l’antichità sotto falde irraggiungibili, sommergendola per sempre, è stata anche l’occasione vastissima per cancellare e sfigurare quello che era stato. I volti delle statue degli dèi bruciati dal segno della croce, nella furia di cancellarne anche la sessualità, ultima tra le trasformazioni possibili di un mondo; ma fu anche l’occasione per sperimentare e inaugurare nuove forme di desiderio e di erotismo, che prima non erano state neanche immaginabili.

Se il desiderio com’era stato visto e vissuto nell’antichità doveva sparire nell’era cristiana, ed essere cancellato lungo due secoli, se il desiderio in sé doveva perire al mondo, e questo avvenne, è pur vero che queste fameliche proibizioni della sessualità generarono poi involontariamente insospettabili nuove vie del desiderio. Lo splendore del primo monachesimo cristiano del V secolo d.C. coincise infatti con la grande stagione dell’ascetismo occidentale, con le sue forme più estreme. Queste forme estreme, scavando al fondo di ogni privazione possibile, arrivarono a scoprire l’acqua nuova di nuovi desideri, toccando profondità nuove alle quali non si era mai arrivati.

Le monache perdute e fattesi seppellire in vesti rigide e catene intorno al collo e ai polsi, che avevano vissuto così, murate vive, in case inaccessibili dove si arrivava per vederle e riceverne una benedizione solo da strette finestre, quelle donne desideravano spegnere la carne e il corpo solo per accenderlo nell’amore per il proprio Signore e Salvatore. Quella forma di ascesi non era lontana dalle forme del desiderio sessuale più puro; così come quelle forme di ascesi non sono lontane dai fenomeni della nostra epoca, sia di reclusione e auto-isolamento, sia nella pratica di una forma del desiderio che è pura e richiede la dedizione della preghiera e della privazione.

Quello che oggi molti hanno capito e praticano è la messa in atto di questo legame molto diretto tra gli opposti dell’ascesi e del piacere che non può essere contenuto. La pratica è questa: dopo aver sperimentato la pillola, anche nelle sue forme più estreme, arrivando alla dipendenza più violenta, che toglie il desiderio anche di nutrirsi e di dormire, una volta vissuta questa dipendenza da orgasmo continuo decidono di smettere, di passare senza protezioni alla fase atroce dell’astinenza disregolata e incontrollabile senz’assistenza medica e farmacologica. E dentro quest’astinenza iniziano a sperimentare nuove forme di piacere famelico, potente quasi come quello chimico dell’orgasmo indotto.

In questo, e non soltanto in questo, i nostri adepti del nuovo culto assomigliano ai primi asceti cristiani del deserto siriano, agli anacoreti e agli stiliti, capaci di affondare nella sensualità anche attraverso il rifiuto più sfrenato del corpo. I nostri attuali stiliti, dopo aver esplorato a fondo i nuovi sensi che la pillola può fornire, dopo aver goduto della dipendenza più brutale a cui potersi sottomettere senza più volontà, decidono, con forze che hanno del mistero religioso, di uscire da quella dipendenza, improvvisamente, come in una nuova iniziazione, e allora godono del piacere nuovo di una torturante privazione, di un’abietta privazione che li consuma quanto prima erano consumati dall’orgasmo. I nuovi piaceri sono quelli della privazione, potenziati dal lascito chimico-neuronale e ormonale della pillola. Dolori, tremori, nausee, alterazioni elettriche cerebrali, allucinazioni più tremende di quelle indotte dalla pillola, spesso totalmente prive di contenuto erotico ma di pura nausea del corpo. Superata questa fase del disgusto corporale si raggiunge una nuova intensità sessuale fatta di privazione e isolamento, esattamente identica alla privazione e all’isolamento che già la pillola imponeva in altro modo.

Gli stiliti antichi vivevano sulle alte colonne dell’architettura antica, e già questa è una proposizione che gli occhi e la mente degli uomini di questa epoca non riescono a vedere, né ancora meno a comprendere. Sulle alte colonne, in cima, sull’apertura rovesciata dei capitelli, non c’è spazio per nulla, non solo per la vita ma per qualunque movimento degli arti. Questi uomini vivevano decenni senza scendere mai. E anche questa proposizione contiene qualcosa di così vicino all’impossibile da essere assimilato all’impossibile dell’idea di Dio.

Su quelle colonne deiezioni ed escrementi vivevano con loro, la loro stessa vita corporale ne era assimilata, gli odori restavano lì. Si nutrivano del cibo che proveniva da terra e che la gente lasciava loro. Il cielo riversava su di loro il calore e il gelo, i venti e le piogge, e il loro corpo dilavava con questi corroso. Il corpo stesso diveniva inospitale quanto la sede che occupava. Il più celebre degli stiliti, ricambiati tutti dal segreto invincibile della vanità, fu Simeone Stilita, che visse isolato lì in alto per trentasei anni. Dieci anni in più di Sade che visse nelle sue celle. Lo stilita ne visse trentasei su uno spazio non più grande della seduta di un uomo accovacciato, ma per scelta.

Entrambe queste forme di privazione hanno generato nuove epoche della sensualità del mondo, dopo gli stiliti e dopo Sade. Gli stiliti avevano rinunciato anche al piacere di distendere le membra, per trentasei impossibili anni. Nuove forme di gioia sorgono da privazioni così insondabili che vengono create dal corpo e per il corpo.

Gli uomini e le donne che si spingono fino a questi territori, i nostri territori nuovi aperti dalla pillola, tornano poi a pratiche scomparse; sono frequenti le testimonianze dell’uso di catene e collari per bloccarsi e non cedere a nulla, né alla masturbazione né al nuovo uso della pillola. Il loro isolamento è grande quanto doveva esserlo per l’anacoreta che visse nel rifugio ancorato alla parete di roccia su cui sorgeva la Chiesa di Todos los Santos a Norfolk, in Inghilterra. O alla casa senza tetto, esposta ai venti, di cui parla Teodoreto di Ciro nella sua Storia religiosa del V secolo, in cui vissero due sorelle siriane, Marana e Cira, avvolte nella pratica dell’incatenamento, prive di cibo se non quello che arrivava loro da qualche finestra, avendo sigillato la porta con fango e pietre. Alcune sante italiane bevevano il pus dalle piaghe dei lebbrosi; abbiamo notizia di altre, come Giovanna Maria de Maillé, che si conficcò una spina nella testa in ricordo della corona di spine di Cristo.

Molti degli anacoreti di cui abbiamo notizia sceglievano di vivere murati e murate vive in spazi ricavati nelle pareti delle chiese, non più grandi del loro corpo, una fila di mattoni disposti intorno al loro corpo, con uno spiraglio da cui vedere gli altari e l’eucarestia e ricevere cibo e acqua. Molti morirono nel fuoco durante gli assedi delle città.

Abbiamo testimonianze e notizie che ci dicono che molte, se non tutte queste pratiche di un’altra era, stanno tornando e conoscono nuova vita. Anche la pratica di distendersi e lasciarsi cadere sui vetri, flagellarsi o vivere coperti da pesanti catene. Ma lo scopo, oggi, non è quello di avvicinarci a Dio, alla corona della sua vittoria, per ricongiungerci con lui, l’amato, il Cristo. No, lo scopo oggi resta quello del piacere, quello di ritrovarne forme nuove, rese possibili al corpo solo dopo aver attraversato i deserti dell’amore aperti dal dispositivo.

Sappiamo di persone sepolte come anacoreti sotto pesanti catene ovunque, da Singapore a Seattle, nelle periferie e nelle città, nelle case isolate nei boschi e nei grattacieli. Li trovano e li riconoscono così, dai corpi consumati dei digiunatori e dell’inedia forzata, legati ai letti, ai tavoli, con pesanti catene, in macerie escrementizie che credevamo scomparse. Non sono folli, non sono lebbrosi, la loro lebbra è un condizionamento chimico-elettrico che non appartiene ad altre epoche. Lo stupore ulteriore, davanti a tutte le epoche dietro di noi, è legato anche allo stupore di capire che è nel profondo piacere che questi uomini e queste donne hanno inseguito la morte, e quella morte l’hanno accettata, voluta, solo come un incidente sulla strada della conquista di piaceri nuovi. Quello che si scatena nel corpo, dopo aver conosciuto l’orgasmo, e dopo essersene privati, porta ad accettare le conseguenze più estreme e incomprensibili della privazione, tanto quanto potevano le antiche ragioni sacre che conducevano all’ascesi e all’autotortura.

In alcuni casi, come nell’antichità della prima ascesi cristiana, gli uomini si evirano, si dissanguano strappandosi il sesso nei modi più inarginabili, colti da incontrollabili stimoli in cui il piacere e il dolore sono chimicamente e neurologicamente alterati, irriconoscibili. E così le donne, estreme quanto gli uomini e quanto lo erano nell’ascesi monastica dei primi secoli. Lo splendore che si manifesta in questi casi è quello che ci permette affacciarci su un’intelligenza che può ricordare il divino nel cosmo, e che consente di pensare che tutto il reale sia l’impossibile, di accostare l’evirazione violenta per mortificare la carne e avvicinarsi a Dio a un’evirazione ugualmente violenta ma che è il frutto della sfrenata glorificazione non di Dio ma della carne e del più cieco piacere, furiosamente ostile ad ogni reale.

Così ostile ad ogni reale da superare, e ne abbiamo dovunque le prove ormai, anche i sintomi elementari dell’autoconservazione di specie. Allo stesso modo le donne si strappano le labbra vaginali, il clitoride, mortificano e lacerano i loro genitali, e non solo, in modi che non sono stati osservati dalla criminologia e dall’anatomopatologia. In molti casi le catene servono anche a questo, ad evitare o a prevenire esiti del genere; ma chi è arrivato a quello stadio, a desiderare le catene, non pensa più secondo la logica della sopravvivenza.

Sono alterate forme del piacere anche queste, le vagine svuotate con colpi da taglio o lacerate a mani nude, ridotte in quello stato per i postumi dell’astinenza e per gli eccessi di disregolazione neurologica che la pillola indurrebbe; ma su questo il dibattito è naturalmente aperto e pieno di controversie.

Si desidera tornare al parossismo dell’orgasmo che il corpo ha conosciuto, ma si vuole godere dei lampi intermittenti del suo potere che lentamente si allontana dall’organismo e dal nostro cervello, e mentre si allontana scatena e libera tempeste nuove, mai sperimentate, come mai sperimentato era il potere aperto prima e su cui c’eravamo affacciati senza timore. In questa notte del corpo i lampi sono ben visibili in lontananza nel cielo, sono bagliori inauditi ma antichi, in forme forse nuove ma sicuramente con motivazioni quelle sì nuove. Nella disregolazione elettrica di questa tempesta che si allontana rientra anche la componente dell’alterazione dello stimolo della fame, del sonno, e il soggetto piomba in un’ascesi che è sicuramente volontaria ma anche favorita da questi scompensi.

Il soggetto non mangia non solo perché i recettori degli stimoli sono compromessi, ma anche perché scariche e bagliori di piaceri nuovi si alleano e si attivano per attrarlo in questa rinuncia. La persona vi entra perché sa ed è sedotta dai piaceri che il corpo le prepara in questa discesa verso l’assenza di tutto. Morti in catene dentro le proprie abitazioni, immersi nelle proprie feci, nella propria acqua, quasi già decomposti, ma con gli occhi dell’orgasmo. Sono visioni che appartengono solo a questa precisa era del mondo, o forse possono davvero essere accostabili solamente ai volti imperscrutabili dei santi, morti in un’altra estasi ma con un inganno simile sul volto, sulle labbra e negli occhi lo stesso grido, che è del duplice orgasmo, del piacere ma anche della morte. I santi stessi s’ingannavano ma probabilmente erano i primi a sperimentare alterazioni percettive e disregolazioni indotte; la motivazione teologica in loro sostituiva il congegno tecnico che opera in noi. E in fondo è solo una sostituzione apparente, perché il congegno della tecnica è per noi motivo teologico e sembianza di Dio.

*

57desiderio, erotismo,

Riesumazione

 

Stanotte ho visto la tomba di Maria Antonietta. Prima era una forma nera, un solido, poi è apparsa come una ghigliottina stilizzata e bassa.  Un grumo, la linea di una lama in un cubo nero. Qualcosa era dentro, denti, forse capelli, una testa. Poi, accanto, un solido scuro e più lungo, qualcosa come un cassonetto impenetrabile, era forse la tomba. Lungo la strada.

Questa strada era a scorrimento veloce, e conduceva a una vasta piazza antistante. Non so e non vorrei sapere altro.

Ero disteso, solo, e la vedevo. La vedevo tornare mentre la dissotterravano, altri la dissotterravano. Sentivo la presenza di Sade sulla scena, tra gli uomini che la cercavano. Cercavano di vederla, di riconoscerla tra i resti dissepolti. Lei tornava, stava tornando da molto, troppo lontano per vederci, per riconoscerci. Ancora molta terra la ricopriva. Iniziavamo a vedere la pelle bianca, e quanta parte della pelle fosse irriconoscibile come tale. Mista di terreno e sangue denso, scuro, impenetrabile. Mista a qualcos’altro che apparteneva allo stesso ordine di materiali della forma nera, squadrata e liscia da ogni lato che avevo visto prima, come una ghigliottina divenuta pareti.

Era la prima volta che vedevo Sade in un’azione percettiva in cui stavo entrando. Lo vedevo tra la folla che iniziava a piangere la regina di cui venivano dissepolti i resti, mentre si aprivano sempre di più gli spazi di una grande fossa comune da cui stava emergendo il corpo. Non era più lei, non poteva essere riconosciuta. Ma il pianto non era trattenuto da nessuno e non era che per lei. Appariva come una forma inanimata e allo stesso tempo come un nudo appena risparmiato o del tutto intatto in alcune parti.

In una luce sontuosa risplendeva ancora il fondoschiena e uno dei seni. Sembra annerita da una scarica di un fulmine, non solo dalla furia degli uomini e della terra.

Immagino che Sade vi stia vedendo la sua sovrana, e la corte e gli uomini che lo hanno reso prigioniero per una vita. In quel corpo riesumato, racchiusi nei suoi grumi di sangue rappreso, nei suoi lividi, sono custoditi ricordi vivi di Sade, ma non solo, di molti degli uomini che la stanno vegliando ora che riemerge, e la stanno riportando dove merita. Molto altro resta custodito lì, in quel corpo, mentre per l’ultima volta viene disseppellito e spogliato, spogliato nel riesumarla della promessa di resurrezione che poteva contenere. Quel corpo non risorge, anche se il corpo è quello di una regina che può aver vinto la morte.

Non risponde, non si rianima. E come potrebbe, ridotto così, a una massa inanimata. Informe ancor di più se confrontata alla vista con la durezza levigata del cubo nero da cui sembra uscire. Alla regina quegli uomini chiedono o sembrano chiedere un perdono incommensurabile. Per la sua morte, per la morte di molte cose che quel corpo incarna. Silenzioso. Muto. Che non risponde più. E più viene esposto, issato, sostenuto, e più resta muto. Resta un mistero. Non ero mai stato in un’esperienza così prima. Non percepivo ancora nessun segno dell’eccitazione erotica.

Poi, sui resti sanguinosi della regina, avverto i desideri della folla, di Sade stesso che continua a guardarla. Le tolgono i vestiti che ancora si distinguono dalla pelle decomposta, qualcuno inizia a masturbare Sade. Qualcosa di insostenibile stavolta ci opprime. Nella folla un urlo parla di un fulmine che sarebbe entrato in quel corpo quando era ancora vivo e ne sarebbe uscito dalla bocca. La bocca, come la vagina, non sono più tali, non sono più. Ma soprattutto, quel corpo ha una ferita profonda sul collo. Una ferita che non può essere vista. Strofinarsi sulla ferita del collo reciso, denso di nodi di liquidi rappresi e in decomposizione. Voltano il cadavere, qualcuno loda lo stato di prodigiosa conservazione, lo definiscono sublime, una prova dell’intelligenza divina e del potere che da Dio discendeva su di lei. Nella folla la massa inanimata di quel corpo rifulge intatta nelle sembianze di due natiche bianchissime e immarcescibili.

Sade grida, e la sua voce si rompe nello stridore più lacerante che io abbia mai sentito bloccarsi in una gola. Vediamo se Dio adesso la fa risorgere, diceva un altro, chino sul nero angolo della tomba lucida. Nessun martirio è sufficiente per l’uomo, nulla punisce la sua miseria, nulla merita di ascoltare il grido di perdono che tutte le cose chiedono, che nessuna chiede, senza nemmeno poter concepire cosa sia chiedere quel perdono.

Nessuno può menzionare quello che non c’è di quel corpo, che assiste a quello che accade alle sue spalle dalla sua testa, staccata dal corpo, ancora con gli occhi coperti di terreno e chiusi, osserva appoggiata al nero abominio geometrico della sua tomba sigillo. La capigliatura è folta e bionda, sfiorita come rovi, umida di terreni e vermi. Conserva ancora parti del collo, lungo, elegante, grondante. Qualcuno prova a profanarne la bocca, ad aprirne i denti. Alcune donne si spogliano delle vesti povere, settecentesche, e sotto appaiono lordate di sangue, sangue di animale. Nessuna ferita appare. Gli uomini lo fanno, unguentati dal sangue abbondante che le scorre dovunque. Quelle donne vogliono gettarsi sul corpo di Maria-Antonietta, vogliono lordarne il seno strofinando il loro seno su quello della regina, coprirlo di sangue, umettarlo. Altri ne percorrono le piste di sangue sulla bianca rosa decomposta ma intatta della regina, aspettano di unirsi ai fiumi di sangue delle loro donne, che non smettono di essere penetrate a turno, confusamente. Le loro urla sono e non sono, impossibili da ascoltare.

Bisogna ammettere che Dio è davvero un pittore magnifico per aver conservato questo dipinto della natura, ridotto a un foglio bidimensionale, un cartone con delle forme ancora disegnate, annerito dall’uso ma ancora voglioso: bisogna dire che Dio ha davvero previsto tutto nella sua grandezza, per la gloria del suo trono e di quello di Francia. Che misericordia la sua nell’offrire di nuovo la sua regina al suo popolo, in martirio, ritardandone la decomposizione, in modo da poter celebrare ogni secolo, se non ogni decennio, la sua morte e resurrezione con una festa del genere. Questo sento urlare nella folla. Non vedo più il marchese, sento in qualche punto della scena un’estrema angoscia.

La regina è ormai a terra, scivolata giù come un abito, leggera, sottile come stoffa, senza forme, forse consumate dall’uso e destinate a ricrescere ad ogni apparizione riesumata. Si confonde con il terreno se non per la bianchezza della stoffa, per quel tessuto di pelle che le rimane e che alcuni hanno confuso per un corpo. Questi scenari non sono scelti nel momento in cui ci cibiamo della nostra celeste pralina, della nostra pillola. Noi siamo i dispensatori e i prigionieri delle immagini che vengono da noi e che sono anche contro di noi, e sono noi a dispetto di noi. Mai avrei voluto vedere né immaginare tutto questo.

Vedevo uomini che erano forme della fame, ridotti a scheletri, che avevano la forza irreale di sollevare la regina, piegarla, tenendole le braccia all’indietro, legata, mentre esalavano su di lei. Erano folla, erano uomini laidi, obesi oltre ogni ipotesi medica, idropisie versate sul dorso o sui seni della regina come acqua che si scioglie in quell’ultimo sussulto. Erano melma e terra che la ricoprivano e la sotterravano ancora e ancora, sotto peggiori metri e metri di corpi e pile di corpi che la ricoprivano. Poi venne il pianto di Sade.

Prolungato, eppure muto, impossibile da dimenticare anche da sveglio, anche lontano da ogni postumo riflesso neuro-attivo. Lo sentii sottrarsi con furia ad ogni gesto che lo coinvolgesse a danno della sua regina. Avvertii la presenza di un potente impulso che rigettasse tutti via da lei, spazzati via. Come Chateaubriand anche lui vide e riconobbe per la prima volta la regina dalla mascella superstite nel volto che non fu più. Quella mascella appena dissepolta e intatta, ossea, isolata e sola nella rovina del volto come una colonna nelle rovine di un tempio, abbagliava ancora come il ricordo dell’antico sorriso, di quel sorriso che Chateaubriand vide di lei la prima volta che fu presentato a corte e che vide risorgere con lei dalla fossa comune della Madeleine. Sade forse non vide mai quel sorriso quando era vivo ma lo sentii nelle ossa, nel volto reciso che non fu trovato e nessuno vide più.

Davanti a quel sorriso io lo vidi piangere, forse avendo nella mente le stesse parole di una sua lettera sul destino della monarchia e della Rivoluzione: ditemi voi chi sono, perché per parte mia non lo so.

E la regina si mostrò ben presto attorniata da un radioso corteo, ci rivolse una nobile riverenza, sembrava davvero incantata di vita.

Thrilla in Manila

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di Gianluca Veltri

Il 1° ottobre del 1975 si tenne a Manila, tra Joe Frazier e Muhammed Alì, l’incontro di box più drammatico che si ricordi. Come rilevanza che la distanza storica assegna a ciò che è accaduto, il “Thrilla in Manila” gareggia con “The Rumble in The Jungle”, il leggendario incontro che appena un anno prima – il 30 ottobre 1974 – aveva visto Alì sfidare il campione dei pesi massimi George Foreman, a Kinshasa, in Congo (all’epoca lo Zaire di Mobutu). Quella “rissa nella giungla” era stata uno straordinario evento mediatico, il più visto in TV nella storia della televisione fino ad allora: un quarto della popolazione mondiale vi assistette, anche grazie alla collocazione oraria decisa dagli organizzatori, che lo fissarono alle 4 del mattino di Kinshasa per permettere una visione più comoda per il pubblico americano.

Ma torniamo a Manila, un anno più tardi.

Cassius Clay/Mohammed Alì contro Joseph Frazier-Smokin’ Joe.

Terzo e decisivo appuntamento tra i due rivali acerrimi. La difesa del titolo da parte di Alì, con i ruoli che si erano invertiti. Il bilancio finora è in parità: 1-1, ma tra questi due pesi massimi la distanza che li divide non è fatta soltanto di numeri. C’è molto, molto di più.

È singolare come Alì e Frazier riproducessero sul ring le proprie modalità, i propri caratteri. Alì è ciarliero, ti avvelena di parole, è un rapper che ti gira intorno e ti ubriaca col suo formidabile jab, spavaldo e affascinante, danza nel quadrato, saltella, incassa ma non sembra, velocità e scaltrezza, è una continuazione di finte e movenze, ti colpisce a sorpresa, schiva e ti sfinisce. Frazier-Smokin’ Joe è solido e diretto, dice le cose come stanno, o come a lui sembrano vere, nel bene e nel male, sul ring è irruento e potente. È elementare, è un uomo di poca cultura e non molto carisma. Sul ring è un pesante e pauroso animale – un gorilla, lo definisce Alì: quando il suo gancio sinistro ti colpisce è come se ti investisse un autobus. Il suo nemico acerrimo sarà costretto ad ammettere: “quando ti centra, ti distrugge”.

La coerenza dei comportamenti – il ring come continuazione della vita con altri mezzi – va in parallelo con l’apparente strabismo delle loro rivendicazioni, se messe in relazione alle rispettive provenienze: Alì nacque nel Kentucky, a Louisville, in una casa che si può definire relativamente borghese; Frazier veniva da una fattoria della Carolina del Sud, ultimo di dodici figli in una famiglia di lavoratori della terra e allevatori di maiali. Provenienze differenti, in buona misura ribaltate dalle appartenenze adulte: Alì ribelle, fiero portabandiera dei diritti civili e delle lotte anti-apartheid; Frazier inglobato nel sistema, il “nero bravo”. L’uno vive di provocazione affabulatoria, è sfrontatezza e megalomania; l’altro è un uomo che ha a cuore l’essere ricordato come un personaggio serio, uno che non ha mai perso la misura. Proprio quella compostezza che Alì detestava. Non è spiegabile in maniera semplice come i due siano passati, come in uno switch meccanico, dalla possibile amicizia, e da una parvenza di complicità, all’odio totale. Alì, squalificato per essersi rifiutato di arruolarsi per il Vietnam, non perdonava a Joe di essere diventato campione mondiale in sua assenza. Né valse il fatto che il suo rivale si fosse speso per sostenerlo in quel periodo di squalifica. Di certo i due dovevano rispettarsi e temersi – come dare loro torto – ma non smetteranno mai di dirsene di tutti i colori, oltre che darsele fin quasi ad ammazzarsi, in quella che è stata definita, quasi fosse un’opera letteraria o teatrale o musicale, la “Trilogia Alì-Frazier”, l’insieme dei tre match che li hanno visti contrapposti.

Dopo essere uscito vittorioso nella prima sfida, ribattezzata senza tema di enfasi “The Fight of the Century” – il combattimento del secolo –, Joe, che ha dovuto sopportare le intemperanze verbali di Alì, sfoga tutta la fierezza del campione finalmente legittimato: “Io so parlare con i fatti, lui con i fatti e con le parole, troppe parole, come nei primi round del match. Ma poi ha dovuto chiudere la bocca, o meglio ha dovuto usarla soltanto per respirare, per sopravvivere alle mie mazzate“.

Dopo quella prima vittoria, Frazier, uscito martoriato a sua volta, ebbe bisogno di diverse settimane per riprendersi, e Alì, pur sconfitto, gli ricordò che non gli conveniva essere troppo orgoglioso della sua vittoria: “quel giorno io ti ho mandato all’ospedale”.

I tre incontri si tennero nel 1971 (New York), 1974 (New York) e 1975 (Manila). Quest’ultimo è quello conclusivo, la resa dei conti dopo una vittoria a testa – il secondo se l’era aggiudicato Alì –, il “Thrilla in Manila”, titolo estratto da una filastrocca in rima sciorinata da Alì come sfida e provocazione nei confronti del suo nemico:

It will be a killa and a thrilla and a chilla,

when I get that gorilla in Manila”,

“sarà un omicidio, un’emozione e un brivido,

quando a Manila batterò il Gorilla”.

Alì stava intossicando di slogan e canzonature il suo avversario, rinchiudendolo in un angolo scuro, isolandolo, intristendolo.

I due non aspiravano soltanto a vincere il match e a battere l’avversario, volevano uccidersi sul ring: non sarà l’incontro più spettacolare, ma un mini-campionato, e un campionario, di crudeltà e spietatezza. Per questo, per la ferocia con cui si diedero battaglia nelle drammatiche quattordici riprese, il match nelle Filippine fu definito, con una formula giornalistica “l’incontro più brutale nella storia della boxe”. Fu calcolato che Frazier inflisse ad Alì ben 440 colpi, tanto da far dire a Smokin’ Joe, anni dopo, che era a causa dei suoi pugni a Manila – che a suo dire avrebbero potuto demolire una città – se il suo avversario aveva contratto il morbo di Parkinson, la malattia di cui Alì si ammalò una decina di anni dopo, e di cui sarebbe morto.

Ci rendiamo conto? C’è stato un uomo al mondo che ha potuto sostenere di aver picchiato così forte Cassius Clay da avergli provocato il Morbo di Parkinson a forza di pugni.

Ma torniamo a Manila, sul ring.

Alì era un incassatore formidabile, e lo dimostrerà l’esito del massacro di quel 1° ottobre 1975. Scivolava come se pattinasse, si allacciava al suo nemico, gli tirava pugni sulla testa e lo abbrancava, si faceva mettere alle corde, le prendeva (440 volte) e intanto però colpiva, eccome.

Alla fine della quattordicesima ripresa, quindi nella breve pausa alla vigilia di quella che sarebbe stata l’ultima ripresa, si verifica la svolta: il match adesso si gioca e si decide nei rispettivi angoli. L’allenatore di Alì, Angelo Dundee, vede che il suo pugile sta per crollare, è esausto e sull’orlo del collasso, ma lo incita energicamente ad alzarsi perché ha capito che l’avversario sta peggio di lui, non ne ha proprio più. I due sono ormai allo stremo, ma Dundee ci ha visto giusto. In quei secondi concitati, infatti, nell’angolo opposto, Eddie Futch, il coach di Frazier, sta constatando che Smokin’ Joe ha gli occhi talmente gonfi e tumefatti da non vederci praticamente più: un’eventuale quindicesima ripresa lo avrebbe ucciso.

Nella bolgia di Manila, Eddie Futch annuncia il ritiro di Frazier.

Alì avrà la sincerità di confessare che la resa dell’avversario aveva preceduto di un attimo il suo stesso ritiro. Si erano spinti oltre ogni limite.

Quando Alì si ammalò, fu chiesto a Frazier se provasse dispiacere. “Non mi sento male. Clay mi ha sempre preso in giro, come se fossi un cretino, picchiandomi sulla testa. Ora parliamo di chi ha realmente vinto quei tre match”.

All’annuncio della vittoria per il ritiro dell’odiato rivale, Mohammed Alì ebbe appena la forza di alzare le braccia, un mero sussulto di nervi e incredulità, per poi crollare a terra. Dichiarerà – lui, re degli sbruffoni – che quell’incontro fu la cosa più vicina a morire che avesse mai conosciuto.

Overbooking: Mota e Antonio Moresco

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La grandine e i gigli

Note tra “La luce inversa” di Mota e “La lucina” di Antonio Moresco

di

Miriam Corongiu

 

C’era una volta, la Luce. Impossibile non rimanerne folgorati.
Anche quando inversa, fantascientifica, anche quando piccola. Lontana, fioca.
Una Luce che dall’alto di veri e propri fari letterari, eretti per rischiarare le maree nere dell’infanzia violata o le colpe ipogee dei corpi abusati, si fa meravigliosa e terribile come l’Angelo di Duino. “Perché il bello – ci rivela Rilke – è solo l’inizio del tremendo”. E gli esseri umani sono soltanto soglie di sangue tra realtà e immaginazione.
C’è una solida tettonica a placche che muove insieme, attraverso subduzioni o reciproci sfioramenti sotterranei, l’incredibile esordio di Mota e l’ormai classico moreschiano.
Due opere molto diverse, certo, ma entrambi dantesche, catabatiche.
Opere ctonie che fioriscono dal trauma.
Opere che ricostruiscono la nostra capacità di apprendere la violenza, di sentirla e di sublimarla nella compassione o nell’agnizione, una capacità del tutto atrofizzata dal dato cronachistico, dall’inutile lucore del drama contemporaneo. Dalle statistiche, dal racconto sfilacciato, mai troppo esplicito, degli esperti.

Da Mota e Moresco, invece – io l’ho vissuto – non c’è nessuna possibilità di nascondersi. La violenza è lì, viva, eterna, incorruttibile stella nera. Trama e ordito di due testi straordinariamente potenti, ci costringe alla resa dei conti.
Se la favola antica e moderna de “La lucina” arriva al nostro inconscio quasi esotericamente, sottilmente, rispolverando il fine ultimo della favola stessa, ne “La luce inversa” è l’ipotesi di un futuro salvifico, concretizzato dall’invenzione tecnologica, a polverizzare tutte le nostre fortezze interiori. La verità di ciò che accade mentre accade si manifesta per lampi nel nostro cielo, nel cielo dei ragazzini brutalizzati, destinati a rimanere tali – piccoli e marcescenti – per sempre.
Il punto è: cosa siamo noi adulti se non ragazzini solo un po’ meno smarriti? Sostiamo sgangherati in questi due romanzi, dentro pagine e pagine di letteratura altissima, e lì ci scopriamo in affanno mentre risaliamo a fatica la corrente della nostra stessa infanzia, ognuno con il suo carico di offese, di cieca e ingenua fiducia nei padri, di proiezioni violente nelle nostre emozioni.
Torniamo, in queste letture, a non poterle governare, le emozioni, a non poterle sopportare, che siano rivestite della levità moreschiana o della ruggente complessità di Mota.

Torniamo, per evocare Moresco, a essere gigli. Gigli spezzati dalla grandine all’alba della loro stessa fioritura, calici bianchi tracimanti sangue, appena inventati dalla vita, dalla letteratura, e già recisi come Eurialo, papavero virgiliano, immagine di fanciullezza negata.
Oppure, in preda al panico, corriamo a invertire il movimento, a farci grandine battente tra le parole di Mota. Fuori dalle norme, oltre i compromessi: basta con l’adesione umana, con questa burocrazia dei corpi fragili. Io volevo essere una bestia.
La religione dell’eccesso in Mota sta così alla dimensione del sottobosco in Moresco, ed entrambe si consacrano alla solitudine perfetta di una vita condotta sui monti (vale per Mota), o della letteratura come voce di un narratore unico (Moresco). Realtà, immaginazione: una sola soglia di carne. Citandoli e mescolandone le carte: lunghi inverni muti, i loro, dove la neve emette un rumore di catastrofe soffice.
Silenzio. Ritiro.

Il desiderio di isolamento serve, così, a non sostare davanti all’Esistere. Perché là fuori la vita ci chiama a vivere, ad ammettere la nostra presenza di sangue, a sentire la forza gravitazionale della sofferenza, perfino ad alleggerirci attraverso la gioia o a riconoscere i nostri corpi nella passionalità di un solo, breve momento.
Ma noi bambini e bambine violate non possiamo guardare altro che il bianco. I colori ci accecano. Che non c’è davvero differenza, nel groviglio oscuro dei boschi e del trauma, tra ciò che è vivo e ciò che non lo è.
In questo non-essere-mai-più può intervenire, allora, solo la letteratura: un disperato fantasticare.
Chiaro, le differenze sono accese. Illuminano.

Antonio Moresco sembra disseminare nel paesaggio, nel carosello delle stagioni e in ogni forma di vita animale il senso ultimo di ciò che è umano: un tasso non riesce ad attraversare la strada/possibile che non esca un suono dal cane con le zampe rotte?/le rondini curano la loro follia con la follia del volo. Vivere è un gesto assurdo che si persegue fino a morir(n)e. Una pletora di sensazioni, di domande – le dolci cantilene interrogative di Moresco – mediate dal sogno e da indistinti confini ovidiani tra il dentro e il fuori della presenza narrativa.
Nell’affrontare il tema del ricordo, Mota, al contrario, predilige ciò che è tattile, corporeo, concreto fino alla deiezione, abietto, per poi risalire la china lirica attraverso un senso vivissimo della metafora: le ciabatte, allora, fanno rumore come uno spettacolo di delfini o Martin e Siddiq pesano quanto due bambini ancora da attendere […] due deboli lampadine amniotiche.
Le due opere dialogano, però, indubbiamente. Specie sul finire della narrazione, in un crossover che è richiesta di contatto puro con le lettrici, i lettori.
I testi vanno simultaneamente oltre la dissoluzione della famiglia tradizionale, dell’infanzia o del ricordo di quella infanzia a cui dovrebbe essere consentito l’accesso nella sacralità e mai nella profanazione (nella casa con la lucina, l’uomo Moresco entra solo su invito); si portano molto oltre la cifra dell’odio cieco o della malinconia. E scorgiamo, al diradarsi delle nebbie emotive, le nostre/le loro, una piccola folla di manine tese.
Una resa assoluta alla luce. Alla luce della verità su noi stessi e sul mondo.
Occhi aperti, ora, che forse lo erano già.
Nella sperimentazione della Luce Inversa appare una casa.
Nella casa sulla montagna appare una Lucina.
Una casa – scrive Mota, suggerisce Moresco – che è anche la nostra.
Con un’idea di condivisione del vivere e del morire, di riconoscimento dell’Altro che abita in noi, termina così l’espiazione di colpe mai commesse, di colpe create ad arte da violatori e violenze. Termina l’esperienza della scissione: l’adulto si riconcilia con il bambino, il corpo perde tensione, il confine il filo spinato. Si annulla la soglia tra realtà e fantasia. Tra Morte e Non-Morte.
È solo dopo aver innescato la vertigine che ci porta sull’orlo dell’abisso (Danilo Kis) che le penne magistrali di Mota, di Moresco, ci trattengono:

Vieni!
Gli do la manina.

E adesso che siamo a casa, vi prego.
Non lasciateci fuori.

Non è mai tardi, ci dicono, per smettere di non-vivere.
Per afferrare la mano che arriva.
Per entrare in casa.
E accendere una lucina.

L’incidente

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Immagine di luis arturo aguilar medina da Pixabay

di Simone Redaelli

“E non ami un’altra?”
La mia cagnolina non è un’altra. È una cosa.
Io amo un’altra cosa. Amo la mia cagnetta e amo Miranda.
Se Miranda non fosse allergica non ci sarebbero problemi.
PETER CAMERON, Il cane segreto

Quel giorno avevo chiesto al mio capo un aumento. Ricordo precisamente l’espressione vinta sul suo volto, la cupa rassegnazione di un uomo di potere con le mani legate. L’azienda andava bene, da sempre. Ma da sempre, era a corto di personale. Io ne ero perfettamente consapevole e quella volta avevo sfruttato il momento. Il mio capo non poteva permettersi di perdermi. Non aveva mai voluto espandersi, aumentare il numero di dipendenti, strutturarsi meglio. Aveva preferito lavorare di più e far lavorare di più chi lavorava per lui. Allora io avevo trovato il coraggio.

Quel giorno uscii dall’ufficio e camminai lungo il solito marciapiede di viale Cassala. Proprio mentre ripensavo al mio successo, proprio mentre sorridevo di gusto per aver saputo sfruttare il momento, un tizio in moto sfrecciò a un passo da me. Fu un attimo: il mio sguardo incrociò il suo, poi lui perse l’equilibrio, invase la corsia opposta e fece un frontale con un’altra moto. Mi gettai subito in strada. Come molti altri passanti, con le mani chiedevo alle macchine di fermarsi, ma non mi avvicinai troppo ai due motociclisti. Erano entrambi a terra, i corpi immobili. Chiesi a qualcuno di chiamare un’ambulanza e un istante dopo vidi una donna che parlava al cellulare. Intuii che si trattava dei soccorsi. C’era davvero tanta gente, per strada, insieme a me. Dopo poco pensai che era assurdo perché eravamo in troppi, lì fermi, a guardare e ad aspettare. Solo quando vidi sopraggiungere una volante della polizia, decisi di andarmene.

Tre ore dopo ero a casa con mia moglie davanti al televisore.

“Ti darà quell’aumento quindi” disse lei.

Davanti a noi correvano mute le immagini del telegiornale. “È strano” dissi invece io.

“Strano?”

“Alza il volume.” Un inviato era sul luogo di un incidente stradale. Riconobbi le due moto a terra, le sagome disegnate dai tratteggi di gesso bianco. “È successo prima. Io ero presente.”

“Cosa c’è di strano in un incidente stradale? Ne succedono a decine a Milano, tutti i giorni.”

“Me lo merito questo aumento?”

“Se lo hai chiesto è perché te lo meriti.”

Non riuscivo a dormire. Mi alzai dal letto senza svegliare mia moglie e sedetti alla scrivania. Poi accesi il computer e la luce fioca della lampada.

“Incidente moto Milano viale Cassala” digitai su Google. Lessi il primo articolo. Ripeteva quello che già avevo sentito dire al giornalista.

Ne aprii un altro sul Corriere Milano: “Ricoverati al Policlinico d’urgenza, i due uomini in fin di vita”.

Nella penombra della camera da letto, i miei occhi mettevano a fuoco le parole per poi perdersi nel riflesso del mio viso sullo schermo. Prima le parole, poi il mio viso. Poi ancora le parole. Poi ancora il mio viso.

A un certo punto mi ridestai, spensi il computer e la lampada e tornai a letto.

La mattina seguente, invece di andare al lavoro, presi un permesso e andai al Policlinico.

“Come prego?” mi chiese la ragazza che lavorava all’accoglienza dell’ospedale.

“Ero sul luogo dell’incidente.”

“È un familiare?”

“No, ma ho visto quello che è successo.”

“Lei non è un familiare e le due persone ricoverate sono in prognosi riservata. È un giornalista per caso?”

Uscii dal Policlinico e mi misi a camminare verso il luogo dell’incidente. A un certo punto, mi squillò il cellulare.

“Mi stai lasciando?” Era la voce del mio capo.

“Ero all’ospedale.”

“Ieri mi chiedi un aumento, stamattina non ti presenti in ufficio. Ti hanno fatto un’offerta da un’altra parte, non è così?”

“Due persone hanno avuto un incidente.”

“Chi ti ha fatto l’offerta?”

Nessuno mi aveva fatto un’offerta. C’erano due uomini in fin di vita, questo era il problema. Se i due uomini non fossero in fin di vita, io sarei sul luogo di lavoro, pensai. E chiusi la chiamata.

Nel frattempo, ero arrivato sul luogo dell’incidente: riconobbi la stessa volante della polizia che il giorno prima si era materializzata poco dopo lo scontro. Le lampeggianti accese, un poliziotto dentro la vettura e uno poggiato sulla carrozzeria.

“Agente?”

“C’è stato un incidente. Due moto, un frontale. Una delle due ha invaso la corsia opposta.”

“Lo so, ero presente.”

“Ne succedono a decine a Milano, tutti i giorni.”

“Agente?”

“Mi dica.”

“Cosa succederà qui?”

“Nulla. Se ripassa stasera, sarà come non fosse successo niente.”

In ufficio non trovai il mio capo e mi concentrai sul lavoro. Nel frattempo, a intervalli di 5 minuti, ricaricavo la pagina di cronica del Corriere Milano quasi in automatico.

A un certo punto, mi squillò il cellulare per la seconda volta quel giorno.

“Pronto.”

“Sì salve, mi dispiace se prima l’ho scambiata per un giornalista.”

Avevo lasciato il mio numero alla ragazza che lavorava all’accoglienza del Policlinico. “Aveva detto che non poteva richiamarmi.”

“Beh, guardi, lei è l’unico che s’è fatto vivo… Nessun parente. Insomma, ho pensato che se qualcuno si interessa di qualcun altro, alla fine, è giusto fargli sapere qualcosa, no?”

“È molto gentile, ma ero solo presente sul luogo dell’incidente.”

“È la prima volta che le capita?”

Sentii un vociare di sottofondo.

“Mi scusi, devo tornare al lavoro. Volevo solo dirle che è normale. Insomma, ci sente così. Ogni volta.”

Sentii distintamente qualcuno richiamare la ragazza.

“Mi scusi, devo proprio andare.”

Ripresi a lavorare e a ricaricare la pagina del Corriere.

Erano le 17:59 quando nella home comparve un aggiornamento sull’incidente di viale Cassala: “In seguito allo scontro frontale, i due motociclisti sono deceduti…”

“Quanto ti hanno offerto?” La voce giunse alle mie spalle, era quella del mio capo. “Ti offro di piú! Dimmi solo quanto ti hanno offerto. Dimmi una cifra!”

I miei occhi mettevano a fuoco, in alternanza, le parole dell’articolo proiettato a schermo e il riflesso del mio capo nel monitor.

“Non voglio più un aumento.”

“Dimmi quanto ti hanno offerto.”

“Sono rammaricato, davvero, ma non lo voglio più l’aumento. Va bene così.”

“Non lo vuoi più?” Era fuori di sé, alle mie spalle. “Non lo vuoi più?”

Il mio capo sputava parole e saliva sullo schermo. E io iniziai a piangere.

“Piangi?” Nel riflesso dello schermo lo vidi piegarsi in avanti, portare la sua bocca a un palmo dal mio orecchio. Poi sussurrò: “Tu stai lasciando me, e tu piangi?”

➨ AzioneAtzeni – Discanto Undicesimo: Gianni Usai (lettura di Giovanni Carroni)

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lettura di Giovanni Carroni

 

Discanto Undicesimo*

Catturato dal nero attorno, dal profumo dell’acqua e dal silenzio, Ruggero Gunale si perde, la memoria lo acceca come sogno a occhi aperti. A bocca chiusa intaglia il tessuto unto e grosso del ricordo.

da Il quinto passo è l’addio di Sergio Atzeni

 

Come nasce un romanzo
di
Gianni Usai

Che ci vuole a raccontare il mondo? Un’anima un pensiero, un pensiero una faccia, una faccia una foto.
La fa semplice Corrado, che è solo un’idea incompiuta, una possibilità in divenire, e ancora una faccia non ce l’ha ma parla già tanto. Per lui è questione di luce e del momento giusto, deve solo portarsi appresso la sua Leica e il cinquanta millimetri. Invece l’uomo, l’uomo il cui nome qui non ha alcuna rilevanza, sa che il travaglio è tutto da questa parte dell’obiettivo – o della pagina, nel suo caso. Perché la differenza la fanno gli accidenti che ti hanno portato a quella luce e a quel momento. La vita balla la rumba sotto i tuoi piedi, mentre tu, un passo giusto e due passi in fallo, provi a capirci qualcosa e tutto ciò che non sei riuscito a capire lo affidi a una storia. Ché se non ne sei venuto a capo tu, magari qualcun altro… Dev’essere per forza qualcun altro. Quelli che la storia la sanno raccontare sono sempre inadeguati, persino quando sono immaginari come Corrado. Il più inadeguato di tutti, un relitto, anche se porterà in giro la sua faccia di cazzo come un trofeo, quando ne avrà una o tutte quelle che vorranno dargli, e pare che nessuno lo possa fregare. Ma Corrado e il nostro uomo ci sono nati, fregati, sconfitti, e hanno dovuto imparare presto a fingere di saperci convivere con la fregatura e con la sconfitta. Pure questa è un’arte, che tu sia uno scrittore o uno dei suoi personaggi che scalpita per essere raccontato e letto, per esistere nel tempo effimero ed eterno in cui due occhi si posano sulla parola e le danno voce e consistenza. Il banconiere del Caffè delle fate ogni tanto gli rivolge uno sguardo che l’uomo non riesce a decifrare. Lo si direbbe uno sguardo neutro, privo di qualunque sentimento, eppure mosso da una peculiare forma di curiosità, la stessa che un chirurgo rivolgerebbe all’area in cui sta per praticare l’incisione, come se ciò che davvero gli interessa fosse al di là di quell’ostacolo che tuttavia non può essere ignorato. Poi gli occhi del ragazzo, avrà vent’anni, si perdono nella penombra del bastione terrazzato, oltre i tavolini quasi deserti e più in là, nella notte ambrata della città, reale fin dove osa l’immaginazione. La città indolente e restia a prendere sonno. Sarà l’aria tiepida di settembre, sarà che Villa Nova asseconda i pruriti con le tende tirate per non dare nell’occhio.
«Lo vede quel tizio?»
L’uomo si volta a seguire il cenno del ragazzo, un movimento della testa che proietta una parabola invisibile dal suo mento imberbe agli occhi del cliente seduto nel primo tavolo a destra, a cavallo del confine in cui le luci del caffè scemano nell’oscurità imperfetta. E quel confine, o forse la notte stessa, pare un’emanazione della sua inquietudine.
«Dicono che si chiami Ruggero, ma non ho mai sentito nessuno pronunciare il suo nome. Sono trent’anni che ogni sera viene qui, mi chiede se ho visto una certa Monica e si siede a quel tavolo ad aspettarla. Non parla con nessuno, beve vino rosso fino alla chiusura, paga e mi lascia una mancia troppo generosa per uno che ha l’aria di essere arrivato al fondo. Monica non è venuta, dice, domani partirò e non farò più ritorno.»
«E perché lo stai raccontando a me?»
«Non le sembra strano?»
«Cosa?»
«Non lo so, però c’è qualcosa di strano. Magari lei che beve Calvados in un bar all’aperto di Villa Nova. Il fatto che la sua faccia mi sia familiare, in un modo incomprensibile, come se questa familiarità fosse l’effetto di un evento accaduto in un tempo che deve ancora arrivare. Era già stato qui?»
«Una notte di tanti anni fa, credo, la notte in cui ho incontrato un caro amico. Forse non proprio un amico, ma non saprei in quale altro modo chiamarlo. Come lo chiami qualcuno che conosci quanto te stesso e del quale non sai ancora niente? Lavorava al tuo posto e aveva la tua età.»
«Mi somigliava?»
«Ancora non l’ho deciso. Ma potresti essere tu, se domani uno scherzo del destino cambiasse il corso della tua vita e facesse di te un famoso fotografo.»
«Non so niente di fotografia.»
«Allora potresti davvero essere tu.»
L’uomo guarda il cliente in disparte, jeans e camicia appesi al corpo magro, macilento, il volto sfatto, i capelli incolti e abbandonati a un canto d’amore e disperazione, gli occhi fissi nel buio iniziato molte solitudini fa, ben prima che la notte arrivasse. Una sagoma sinuosa ne incrocia la traiettoria ancheggiando al ritmo di tacchi maliziosi, e lo sguardo del tizio si accende di un bagliore ultraterreno e allo stesso tempo carnale. Monica! Dura poco, niente. La suggestione si fa donna per il tempo di attraversare uno spicchio di luce, poi torna attesa delusa, sollievo o tormento destinati ad altri. Il tizio vuota la bottiglia nel bicchiere e manda giù il primo degli ultimi sorsi che lo porteranno all’addio. La sua storia è stata già raccontata, pensa l’uomo.
Il barista passa in rassegna i tavoli vuoti, tutti meno uno, e versa un altro Calvados.
«L’ultimo giro lo offre la casa, e Monica non si è vista nemmeno stasera.»
Non avrà vent’anni. All’uomo riporta alla mente fantasie contorte e pervicaci mal di pancia che si fanno parole; sogni e incubi dimenticati o mai ricordati che riaffiorano tra le righe e si propagano in vite aliene, da vivere per interposta persona fintanto che gli si dà forma. Ancora quel tempo sospeso in cui trent’anni sono una notte e una notte dura trent’anni, per sempre.
«Come ti chiami, ragazzo?»
«Mi chiamo Corrado.»
Che ci vuole a scrivere un romanzo? Una faccia un pensiero, un pensiero un’anima, un’anima mille storie.

* Azione Atzeni- mode d’emploi

di

Gigliola Sulis e Francesco Forlani

‘E scoprirai quello che resta di un uomo, dopo la sua morte, nella memoria e nelle parole altrui’. Sergio Atzeni, Il figlio di Bakunìn Il 6 settembre del 1995, inghiottito dal mare come l’amato Fleba il Fenicio, Sergio Atzeni perdeva la vita nelle acque dell’isola di Carloforte. Sardo, appena quarantenne, era stato militante comunista, anarchico leader studentesco, impiegato insoddisfatto, sindacalista, pubblicista. Dopo la fuga dall’isola, tra l’Emilia e Torino, divenne correttore di bozze, lettore di manoscritti per case editrici, sontuoso traduttore – un testo su tutti: Texaco di Patrick Chamoiseau. Per tutta la vita fu intellettuale rigoroso, poeta e scrittore immaginifico, autore di romanzi-mondo come Apologo del giudice bandito, Il figlio di Bakunìn, Il quinto passo è l’addio, Passavamo sulla terra leggeri, e di una cascata di racconti tra cui Il demonio è cane bianco, I sogni della città bianca, e Bellas mariposas. Come nel Figlio di Bakunìn, pensando oggi a Sergio, ci chiediamo: che cosa resta di uno scrittore, dopo la sua morte, nella memoria e nelle parole altrui? Per rispondere a questa domanda, abbiamo invitato degli autori legati all’opera di Atzeni a dare nuova vita ai personaggi o ai luoghi o alle atmosfere della sua opera. Interpretando, riscrivendo, stravolgendo creativamente, in totale libertà. Un coro di voci diverse per una raccolta di racconti brevi, una rifrazione e moltiplicazione di frammenti post-atzeniani. Assolutamente vietata l’agiografia, e ‘massima penalità per chi si prende troppo sul serio’, come scriveva Sergio in uno dei suoi ultimi articoli per “L’ Unione Sarda”. Nasce così il gioco del discanto*, da intendere sia come far decantare delle buone pagine in nuove storie sia come costruzione di voci in forma di polifonia medievale. * Francesco Forlani ‘Nella Sardegna magica in cerca di Sergio Atzeni, “Reportage”, n.10, 2012, ripreso nel 2017 da Minima Moralia Gigliola Sulis, Chi era Sergio Atzeni?’, “Le parole e le cose”, 22 novembre 2012

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L’indifferenza come architettura dell’Occidente

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di Isabella Cafagno

Qualcosa si è incrinato, in modo forse irreversibile, nella traiettoria – fondata sull’idea di un
progresso politico lineare, razionale, tendente per inerzia alla tutela dell’umano – che l’Occidente aveva tracciato per sé.
L’attuale moltiplicazione dei conflitti, così come la restaurazione della forza quale argomento politico, la violazione sistematica del diritto internazionale, il logoramento delle istituzioni democratiche, oltre a costituire un insieme di crisi, evidenziano l’emergere di una mutazione antropologica. Ci troviamo di fronte ad un lento disarmo morale, ad un addomesticamento dell’orrore, ad un’indifferenza che non è più difetto, ma condizione; e questa torsione collettiva dello sguardo ci consente di vedere tutto e, tuttavia, non sentire più nulla.
Gaza è un corpo ormai dilaniato dai bombardamenti israeliani, qualificati come genocidari da organizzazioni internazionali; l’Ucraina è sospesa, con il suo illegittimo occupante, la Russia di Putin, in una guerra d’usura che ne devasta la struttura civile e demografica; gli Stati Uniti, spalleggiando Israele, si fanno promotori di un piano di “pace”, che non fa altro che certificare la continuità del predominio coercitivo, garantendo la quiete del potente e non la libertà del popolo oppresso; e, intanto, la crisi climatica, forse la più profonda ed inesorabile di tutte, ridisegna i confini della vita stessa sul pianeta. Ebbene, la nostra coscienza collettiva, immersa nel flusso delle proprie abitudini, riesce a percepire questi fatti come si percepisce un banale brusio di sottofondo.
Il nucleo centrale della riflessione risiede, infatti, nella constatazione radicale ed inquietante che, se mai l’Occidente abbia saputo vedere, ha progressivamente disimparato a reagire. Il sentore del dolore, della sopraffazione, dell’ingiustizia altrui si è ridotto ad una facoltà intermittente, incapace di tradursi in una risonanza concreta che travalichi la soglia del privato ed invada la sfera del collettivo e del necessario. Il mero atto di osservare, senza che segua un impulso trasformatore, è una forma di anestesia che detta il ritmo delle nostre società e la misura della loro resilienza etica.
Quest’indifferenza diffusa costituisce la premessa e, in un certo senso, il motore silenzioso delle crisi sopra citate. Il male fiorisce quando viene percepito senza che vi sia risposta, cresce nella tolleranza e prospera laddove il senso di responsabilità individuale si dissolve nell’inerzia collettiva, nell’abitudine a considerare l’orrore come problema di altro luogo, di altri corpi, di altre storie, nei contesti che hanno reso l’intollerabile accettabile e compatibile con il nostro benessere.

Tale condizione non è nuova nella storia delle civiltà occidentali e, tuttavia, la sua forma
contemporanea è particolarmente sofisticata e pervasiva. I totalitarismi del Novecento, per
esempio, non nacquero dal furore immediato della storia, ma dal torpore delle coscienze: dal lento scivolamento dell’opinione pubblica nella normalità della sopraffazione, nella rassegnazione a credere che la sospensione dei diritti fosse inevitabile e giustificata, fino all’irreversibilità della catastrofe. Ciò che oggi appare nuovo – la tecnologia, la globalizzazione, la sovrabbondanza informativa – ha affinato questo schema, generando una forma di saturazione percettiva: le persone faticano a cogliere la profondità dei fenomeni perché sommerse da immagini, dati, testimonianze, frammenti capaci di produrre indignazione per qualche minuto e cancellati dalla notizia successiva. Così, l’iperconnessione e l’iperesposizione agli eventi del mondo, anziché promuovere la partecipazione, divengono causa di una stanchezza morale e di una sensazione di
anestesia che hanno l’odore della decadenza.
Le conseguenze politiche e sociali di tutto ciò appaiono devastanti. La democrazia, che si nutre di impulsi, responsabilità condivisa ed attenzione diffusa, si svuota dall’interno; le istituzioni internazionali si inceppano, non tanto per carenza di strumenti, quanto per la scomparsa dell’opinione pubblica come agente reale di controllo; e, così, la violazione del diritto internazionale si trasforma in materia di analisi tecnica, limitata a contesti specialistici.
Eppure, mentre noi fluttuiamo in questa sonnolenza occidentale, nei territori del Sud globale, dove la precarietà non è accidente ma destino quotidiano, la percezione della realtà conserva una nitidezza forzata dalla necessità. Lì, la sofferenza produce solidarietà, responsabilità, lucidità; nel Nord ricco, invece, la sicurezza apparente e l’illusione di stabilità permanente hanno generato un habitat morale impermeabile, in cui la distanza dal reale diviene privilegio, ma opera, al contempo, come lenta corrosione delle capacità di giudizio e di reazione.
La metafora della “rana bollita” è qui non solo esemplare, ma quasi ossessiva: immersi in un’acqua che si riscalda impercettibilmente, incapaci di accorgerci del cambiamento fino a quando esso non diviene irreversibile, osserviamo l’erosione dei valori fondamentali con curiosità distaccata, senza cogliere la progressione dei mutamenti che, sommati, risultano fatali.
Non è affatto certo che da questa condizione si possa uscire; è più plausibile, piuttosto, che essa rappresenti la configurazione ormai strutturale delle democrazie tardo-occidentali, quali organismi politici immunizzati dall’esperienza del reale, in cui la distanza dal dolore costituisce il prezzo della stabilità. In tale prospettiva, dunque, l’indifferenza si presta a strumento di autoconservazione, ad una forma sofisticata di adattamento del sistema al proprio logoramento.
Comprenderlo significa dislocare il baricentro dell’analisi: non interrogarsi sul ritorno della
“sensibilità”, ma su come pensare politicamente entro questa rarefazione, in un’epoca che ha sostituito la percezione con il rumore e la responsabilità con la mera gestione.

La natura ama il vuoto

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Claudio Monteverdi [1567-1643]
Sì dolce è ‘l tormento SV 332
[Philippe Jaroussky- Jordi Savall]

di Giuliano Tosi

Un lampo.

Il riflesso acuminato del sole.

I due emisferi di bronzo scintillano, rotondi e lucenti, nel pomeriggio primaverile. Sono uniti a comporre una sfera metallica di circa sessanta centimetri di diametro e si comprende al primo sguardo che sono stati costruiti per combaciare in modo perfetto.

Le fruste schioccano in continuazione nell’aria polverosa. I muscoli tesi nello spasimo, il reticolo delle vene in rilievo, i nervi sul punto di cedere, le due pariglie da otto cavalli tirano con tutte le loro forze i due emisferi di metallo in direzioni opposte, cercando di separarli. Le corde sono ormai tese al punto che hanno smesso perfino di vibrare, e ora ronzano, come uno sciame di api sfinite in cerca di un luogo in cui posarsi.

A pochi metri di distanza, sotto un albero, con un lungo cappello nero sulla testa, il regista di quello strano spettacolo: uno dei quattro borgomastri della città di Magdeburgo. Impolverato, con gli occhi arrossati dalla mancanza di sonno, guarda attento, con gli occhi a fessura e un lieve sorriso sulle labbra. Si sta godendo lo sforzo vano dei cavalli e l’incredulità degli uomini che ha assoldato per l’esperimento.

Quei contadini assistono stupefatti, le bocche e gli occhi spalancati, senza fiatare. Non comprendono davvero quel che accade sotto i loro occhi, ma sanno riconoscere un prodigio quando lo vedono. Se potessero conoscere il senso di quello spettacolo, forse, la loro meraviglia si muterebbe in terrore. Come può il vuoto che riempie, se così si può dire, quella sfera lucente e la tiene unita vincere la forza di sedici cavalli spinti allo spasimo? Come può il nulla essere più forte dell’essere?

D’improvviso il lungo cappello nero si muove. Si avvicina ai due emisferi scintillanti. Con un gesto teatrale ferma le fruste. Poi, usando ostentatamente solo due dita, svita la valvola che spunta da uno degli emisferi e questi, senza sforzo alcuno, si separano da soli e cadono a terra, lasciando liberi i cavalli. Questa volta gli spettatori non possono trattenere un mormorio di stupore, che l’uomo incassa compiaciuto.

Mentre quegli uomini giocavano con il vuoto in una radura della campagna nei pressi di Magdeburgo, a circa trecento chilometri di distanza, a Münster e a Osnabrück, tre diversi trattati di pace si rendevano necessari per mettere fine alla più devastante guerra dell’età moderna, che meno di vent’anni prima, nell’anno di grazia 1631, aveva saccheggiato e devastato anche la stessa Magdeburgo.

Al centro di quella radura, al centro di quell’uomo, il cuore batte forte.

Il petto si alza e si abbassa sotto l’azione di un respiro emozionato, le mani si muovono irrequiete senza sosta, le gambe si tendono nervose. Non si tratta, però, degli effetti della riuscita dell’esperimento.

L’uomo è destinato a diventare uno dei maggiori fisici della storia. Il suo nome è Otto von Guericke e con quell’esperimento sta per cancellare per sempre la millenaria convinzione aristotelica che la natura abbia orrore del vuoto e che perciò lo riempia costantemente. È riuscito a costruire una pompa da vuoto, e con questa presto stupirà l’Europa con i suoi esperimenti pubblici. In questo pomeriggio di primavera, davanti agli occhi di pochi contadini ignari della Storia, è riuscito per la prima volta a svuotare l’interno dei due emisferi e a dimostrare l’enorme pressione esercitata dall’aria dell’atmosfera.

Otto von Guericke [1602-1686]

In seguito, replicherà quell’esperimento prima a Ratisbona alla presenza del Reichstag e dell’imperatore Ferdinando III, impiegando in quell’occasione ben trenta cavalli, poi di nuovo a Magdeburgo, sua città natale, infine a Berlino, alla presenza di Federico Guglielmo I di Brandeburgo, con ventiquattro cavalli. Ogni volta l’esperimento sarà coronato da un clamoroso successo.

Oggi, però, la gioia di quest’uomo non è solo la gioia di uno scienziato a cui sia riuscito un esperimento importante. È una vittoria molto più essenziale, in cui ne va del senso della sua stessa vita.

Dorothea Lentke non era una donna di cui ci si potesse innamorare a prima vista. Non che non fosse bella: i riccioli neri erano morbidi, gli occhi profondi, le guance rosate, la bocca piccola e ben disegnata, il collo lungo e delicato, la figura esile ed elegante, e così via. Al primo sguardo, però, appariva una bellezza piuttosto ordinaria.

Otto von Guericke non era però un uomo che si fermasse al primo sguardo. Forse per deformazione professionale, osservava il mondo con meticolosa precisione. Ed era così che aveva scoperto su quel volto un breve mistero. Quando Dorothea Lentke sorrideva, i suoi occhi e la sua bocca si comportavano in due modi assai differenti e, in un certo modo, incompatibili. Gli occhi ti scrutavano dritti e implacabili, mentre la bocca si increspava ironica, disegnando un’imprevedibile e asimmetrica fossetta all’angolo sinistro delle labbra.

Per farla breve, il fisico, che era vedovo ormai da anni, se ne innamorò profondamente. Dorothea Lentke lo respinse con una fermezza gentile e per questo ancora più irremovibile, e per Otto von Guericke fu la catastrofe.

Quando la passione afferra un uomo di scienza, è assai difficile che riesca a proseguire nelle proprie ricerche. Essendo per natura esclusive, due passioni non possono convivere; l’unica disperata soluzione potrebbe essere farle coincidere. In una certa maniera, sottile e contorta, von Guericke c’era riuscito e, in quel pomeriggio primaverile, aveva ottenuto il risultato al quale aveva dedicato i suoi giorni e le sue notti per più di quattro anni.

Appena giunto a casa, si sedette alla scrivania e scrisse di getto la lettera d’amore che aveva composto nella sua mente lungo quelle innumerevoli notti insonni.

Cara Dorothea,
questo pomeriggio ho compiuto un esperimento che cambierà la storia della fisica. Ho dimostrato senza ombra di dubbio che non solo la natura non ha orrore del vuoto, ma anzi che la natura ama intensamente questo stesso vuoto, si nutre di esso, e in esso trova il primo motore dei suoi passi e dei suoi giorni.
Che cosa c’entra tutto questo con noi due?
Sono convinto di poter trarre dall’esperimento un corollario per me decisivo: anche l’amore stesso, forza vitale per eccellenza, si fonda sul vuoto. Non trovo altro modo per spiegare l’amore, vano e disperato, che mi lega indissolubilmente alla Sua persona: è il vuoto del Suo cuore che mi attrae irresistibilmente. È per questo che nessuno può separare la metà che io sono dalla metà che Lei è.
La riuscita dell’esperimento non ha diminuito la mia sofferenza, né avevo speranza che lo facesse, ma l’ha resa sensata, ragionevole. Ora, almeno, il vuoto che abita il cuore delle mie ore non è più un vuoto di senso.

Seguiva un saluto piuttosto formale e una firma frettolosa, come se l’imbarazzo per quella lettera assurda e commovente fosse emerso solo all’ultimo.

Non solo Dorothea Lentke non rispose alla lettera, ma per diversi mesi non volle più nemmeno ricevere in casa sua l’autore.

Finché una mattina, esasperato, lo scienziato si recò per l’ultima volta a casa Lentke. Celata sotto il mantello, portava un’ingombrante pistola a ruota. L’uomo era determinato a chiedere a Dorothea per l’ultima volta di sposarlo e, in caso di rifiuto, a farla finita, sparandosi e lasciandosi portare via dalle correnti dell’Elba.

Quel mattino, Dorothea Lentke ascoltò le commosse parole dell’uomo in ginocchio sulla soglia di casa sua. Quando l’uomo tacque e sollevò uno sguardo interrogativo, lei sorrise, la bocca piccola e ben disegnata si increspò leggermente, una minuscola fossetta comparve proprio laggiù a sinistra, e accettò di sposarlo.

Allo scienziato sbalordito spiegò che la tenacia di quell’amore aveva, alla fine, rotto la diga e inondato il suo cuore.

L’uomo era felice, felice come non lo era mai stato.

Lo scienziato, invece, si chiese, in un angolo, a bassa voce, come si conciliava quel fatto inaspettato con la sua teoria.

Otto von Guericke e Dorothea Lentke si sposarono nel 1652. Subito dopo, il fisico cominciò le celebri dimostrazioni pubbliche della potenza del vuoto. Le biografie ci raccontano poco o nulla della vita coniugale dei due. Non c’è dato sapere se quel riempimento improvviso del vuoto di un cuore avesse comportato, secondo la legge definita dallo stesso von Guericke, la fine di quella travolgente attrazione o se, al contrario, un felice matrimonio d’amore avesse alla fine smentito la teoria scientifica.

Non siamo perciò in grado di stabilire se, in ultimo, Otto von Guericke fosse stato sconfitto come scienziato o come uomo.

Nota: Quando si legge un libro di storia, e ancor più di storia della scienza, si ha la netta impressione che ciò che conta davvero venga taciuto. Le ordinate righe vergate dalla ragione relegano nell’ombra quel disordine che chiamiamo vita. Sugli studi del grande fisico tedesco Otto von Guericke (1602-1686) sappiamo molto, mentre del suo amore per Dorothea Lentke, che sposò, già cinquantenne, sette anni dopo la morte della prima moglie, non sappiamo quasi nulla. Come attratti da questo potente vuoto, non abbiamo potuto evitare di immaginare i legami sottili e difficili tra il mondo della vita e quello del pensiero, fino a raggiungere un punto in cui distinguere realtà e immaginazione risultava non solo impossibile, ma insensato.

Una repulsione per l’origine. Storia e critica di un’eredità in Bärfuss

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di Alice Pisu

Con Il cartone di mio padre (trad. Margherita Carbonaro, L’orma), Lukas Bärfuss porta avanti un’indagine sulla demitizzazione dell’esistenza attraverso la solennità della morte iniziata con uno studio storico, filosofico e letterario sul suicidio in Koala (trad. Margherita Carbonaro, L’orma).
Lo scrittore si interroga sulla contaminazione del ricordo in relazione a un trauma che condensa il tempo anteriore in un istante tramutato in un’ossessione ricorrente. A invadere il quotidiano è l’emblema di un lascito ideale, un cartone rimasto chiuso per venticinque anni che Bärfuss decide finalmente di aprire, non sopportando oltre quella presenza muta. “Era l’unica testimonianza di un uomo del quale si diceva fosse stato mio padre”.
Lungi dal porsi come memoir o biografia paterna, l’opera è uno studio sul ruolo dei vincoli famigliari nella definizione e nella crescita dell’individuo, nei condizionamenti e nell’idea di appartenenza. Interrogativi suscitati da una storia privata ripercorsa in parte da Bärfuss, dalla notizia della morte del padre giunta via fax quando si trovava in Camerun, al disinteresse dei parenti nel pensare a un funerale, alla perdita dell’urna sino all’assenza della tomba.
La storia di suo padre è un racconto dal margine, una vita di espedienti sancita nell’ultimo periodo dalle notti all’addiaccio. Si tratta di una condizione ben nota all’autore che a sua volta visse per strada sperimentando per un periodo della sua vita la sensazione di minaccia perenne, di assenza di rete sociale e di impassibilità generale, fino al momento in cui trovò un modo, diventando un libraio, per provare a sfuggire al suo destino.
“Mi reputavo fortunato perché con la letteratura avevo trovato qualcosa che non avrei mai esaurito”.
Nell’aprire il cartone di suo padre trovò pile di solleciti di pagamento e documenti emessi da tribunali distrettuali e fallimentari: tentativi di arrancare tra debiti insolvibili.
“Conoscevo i calcoli approssimativi annotati con disperazione sui bloc-notes, le liste della spesa con a fianco i soldi disponibili per la settimana, così da non farsi traviare dalle offerte e attenersi a una rigorosa dieta di patate, pasta e carne in scatola”.
Nel partire dalla fine, Bärfuss rievoca il ruolo della casa come luogo dove nascondere la propria miseria; il principio dominante della famiglia – “Dove regna la mancanza di tutto, la prima virtù è l’improvvisazione” –; l’assenza di una figura paterna autorevole; la necessità maturata negli anni di allontanarsi dalla madre per sottrarsi al suo influsso; il sentore di disgrazia imminente simboleggiato dalla cassetta delle lettere considerata il cancello per l’inferno viste le numerose ingiunzioni ricevute.
La domanda che aleggia tra le pagine riguarda la natura dell’essere umano, la capacità dell’individuo di vivere nel momento e al contempo di astrarsi anche da sé, dal mondo che abita, dal suo pensiero, e dalla sua lingua: proprio grazie a tale capacità l’essere umano costruisce la propria cultura.
Il grande nodo riguarda la lingua, utilizzata troppo spesso per definire l’origine. Questo aspetto centrale dell’opera è sviluppato sotto angolazioni diverse, nella consapevolezza che non esista alcuna “eredità spirituale che non possa essere rifiutata. Al contrario di quella biologica, ogni origine culturale è una scelta”.
Si rivela necessaria in tale prospettiva una nuova grammatica per descrivere la famiglia e l’origine e in questo senso si può cogliere un’ideale affinità con gli assunti di Judith Butler in merito alla concezione del linguaggio come condizione di possibilità dell’esistere degli individui, gettati nel linguaggio e quindi inesorabilmente superati da esso.
Su una nuova narrazione della famiglia e sul significato dei vincoli verso i genitori, la scrittura della storia personale è vista da Bärfuss come un’opportunità per rintracciare un senso alla casualità della nascita. Il cartone di suo padre diventa così il simbolo di una repulsione per l’origine e per l’ossessione di volersi definire attraverso i propri antenati.
“Raccontare significava innanzitutto sottoporsi a una trasformazione. Avrebbe potuto salvare o distruggere, e non c’era garanzia né per l’una né per l’altra opzione”.
A partire da ingrandimenti su una vicenda privata l’autore si chiede per estensione quale idea della famiglia abbia la società e per farlo sviluppa riflessioni sulla proprietà, sulla correlazione tra bancarotta privata e decesso sociale, riservando una particolare attenzione al diritto ereditario e al nesso tra l’indebitamento privato e il benessere occidentale secondo un’idea di libertà degli esseri umani subordinata a vincoli economici.
Per raccontare la storia della società borghese, della società industriale di massa, sarebbe sufficiente, secondo Bärfuss, partire dai suoi rifiuti. Si tratta di un aspetto esplorato in letteratura con approcci radicalmente diversi tra gli altri da Baudelaire, Benjamin, Dickens, Mayhew, sino ad arrivare oggi, come ricorda Donata Meneghelli nel saggio Il valore degli oggetti (nottetempo), a coniare il neologismo ‘spazzaturocene’ (Baptiste Monsaingeon, Homo detritus. Critica della società dei rifiuti) per definire l’epoca contemporanea a partire dal suo rapporto con gli scarti per l’incremento della loro produzione, i ritmi frenetici di consumo e dismissione delle merci, la crisi ecologica, le scorie industriali nocive e il loro smaltimento improprio, e la centralità assunta dal residuo anche nelle arti.
Per Bärfuss si tratta di un’eredità senza eredi, di un bene senza padrone che opprime la civiltà e necessita di una regolamentazione nuova perché quelle che governano la proprietà, l’eredità e la famiglia si rivelano incapaci di cogliere la realtà attuale e affossano la cultura contemporanea. Al centro della riflessione risuona una responsabilità riconosciuta nel problema del possesso e del controllo.
L’autore dedica un’ampia critica a L’origine della specie di Charles Darwin ritenendo che il teologo abbia trasferito il dominio cristiano nel dominio dell’evoluzione.
“Il darwinismo sociale è incompatibile con i presupposti di una società democratica fondata su uno stato di diritto, che crede all’inalienabilità dei diritti umani. […] L’origine della specie è un racconto scritto in un’epoca, l’Ottocento, ossessionata da una particolare narrazione delle origini. Questa segue una parabola di ascesa, lotta e infine declino, e descrive la vita stessa come una battaglia, un conflitto di forze, istinti, pulsioni”.
Ritenendola fuorviante e patriarcale, Bärfuss denuncia la definizione espressa da Claude Lévi-Strauss nell’introduzione a Storia della famiglia. L’antropologo sociale parla della doppia natura della famiglia come fondata non solo su necessità biologiche ma soggetta a costrizioni sociali nella convinzione che nessuna società potrebbe esistere se le donne non partorissero una prole e non godessero di una protezione maschile durante la gravidanza e la crescita dei figli.
“Gli esseri viventi hanno bisogno di cura, di coesione, di affidabilità, di fedeltà, di amicizia e di amore. Ma l’etnologo fa di questa necessità un sistema patriarcale e ne deduce un dominio”, scrive Bärfuss, convinto che oggi la famiglia abbia perso forza coesiva e continui a “scavare profondi fossati nella società”.
Con Il cartone di mio padre Lukas Bärfuss consegna un’acuta riflessione sull’origine, sulla proprietà, sul peso dei vincoli biologici, sul privilegio e la genealogia, invocando la possibilità di contemplare un altro tipo di eredità emancipandosi da dinamiche oppressive e narrazioni che nei secoli hanno contribuito a una distorsione di significato. E se, come sostiene Byung-Chul Han ne Le non cose, esistono oggetti capaci di ancorarci all’essere, un cartone rimasto chiuso per decenni può rappresentare la rivendicazione di un’origine rimasta incerta e la possibilità di gioirne.

Un utile Decalogo per la Scuola del Pluralismo e della Libertà

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Di Gian Nicola Belgire

Il Ministero dell’Istruzione e del Merito, dopo aver risolto l’annosa piaga dei telefoni cellulari a scuola (cancellando con un tratto di penna anni di Transizione Digitale portata avanti urlando lo slogan “BYOD – Bring your own device”), dopo aver ridato dignità all’esame finale della scuola superiore tornando all’austero nome “Esame di Maturità” e mandando in pensione l’anodino e burocratico “Esame di Stato”, e dopo aver sposato con sincero entusiasmo il rilancio dello studio degli abiti tradizionali, vero fulcro della nostra Identità Nazionale, ha finalmente risolto anche un altro problema cruciale della scuola: quello del suo essere diventata ricettacolo di eventi faziosi e di parte che nulla hanno a che fare con il ruolo costituzionalmente affidato alla scuola pubblica in Italia. Non v’e, in effetti, chi non veda come la scuola sia ormai da tempo piena di improvvisati e sedicenti esperti di qualsiasi argomento, convocati da sediziosi collegi docenti solo per fare becera propaganda contro l’illuminata cultura promossa dal Governo in carica.

Ecco allora, come rinfrescante toccasana, giungere la nota 5836 del 7 novembre 2025 che invita gli istituti a garantire nei loro eventi la presenza di «ospiti ed esperti di specifica competenza e autorevolezza», per permettere agli studenti di sviluppare una propria «autonomia e opinione non condizionata» attraverso il «libero confronto di posizioni diverse»; perché bisogna educare gli studenti a «cogliere la complessità della realtà che li circonda» e a fuggire «dalla logica della mera contrapposizione».

I Dirigenti Scolastici e gli insegnanti di tutta Italia, ben consci del problema e ben consapevoli di non essere stati finora capaci di organizzare eventi con ospiti autorevoli rappresentanti di punti di vista alternativi e posizioni culturali diverse, e altrettanto mestamente consapevoli di essere stati, finora, inabili ad aiutare gli studenti a sviluppare la propria autonomia e la propria opinione non condizionata, per non parlare della loro atavica incapacità di educare le nuove generazioni alla complessità che li circonda, accolgono con sincera gratitudine le indicazioni del Ministro e non vedono l’ora di farle diventare concreta prassi didattica in ogni Istituto del Paese.

A tale sincero entusiasmo, figlio della gratitudine, corrisponde però un senso di spaesamento e di inadeguatezza: “Se non siamo stati capaci finora di garantire pluralismo e autorevolezza, come potremo farlo da domani? – ci si chiede nelle aule insegnanti – Le nostre umili forze saranno da tanto?”.

Ecco allora che viene in soccorso la pubblicazione di un documento, che possiamo qui mostrare in anteprima, recante “Linee attuative e esemplificazioni pratiche per la realizzazione di una effettiva par condicio nei dibattiti scolastici”, che saranno a giorni distribuite a tutte le scuole e che, organizzate come sono in un semplice elenco numerato, potranno fungere da agile vademecum per tutti gli operatori del settore:

  1. Nel caso venga invitato un rappresentante delle forze dell’ordine all’interno di un progetto prevenzione della microcriminalità, ci si premuri di verificare che fra gli studenti ve ne siano almeno due dediti al furto e/o allo spaccio, in caso contrario invitare un esperto del settore (sottoscrivere regolare contratto o, in alternativa, lasciare libertà d’azione professionale durante i tempi morti dell’assemblea);
  2. In caso di corsi sulla prevenzione del sessismo e della violenza di genere, invitare almeno uno stupratore (verificare preventivamente che non sia pentito);
  3. Nel caso vengano invitati operatori di enti del terzo settore impegnati in operazioni umanitarie in contesti bellici, chiamare come contraddittorio un cecchino con almeno tre anni di servizio operativo sul campo (nel caso l’ente sia Emergency o Medici Senza Frontiere, i cecchini devono essere almeno due);
  4. In occasione del Giorno della Memoria, è proibita qualsiasi iniziativa che non preveda la partecipazione di almeno un negazionista della Shoah;
  5. I corsi sulla sicurezza siano bilanciati da un adeguato numero di eventi promozionali del parkour, del lancio con tute alari o di altri sport estremi e pericolosi (meglio se illegali);
  6. La lettura dei Promessi Sposi sia bilanciata da un congruo numero di pagine tratte da un romanzo a scelta del Marchese De Sade;
  7. In occasione del 25 aprile si proporrà agli studenti la libera scelta se denominare la giornata Festa della Liberazione o Giornata della Vergogna e del Lutto Nazionale – i contenuti saranno scelti di conseguenza;
  8. Tutte le attività didattiche relative a tematiche ambientali dovranno obbligatoriamente prevede la partecipazione, con diritto di parola, di un rappresentante di una multinazionale attiva nel mercato delle fonti non rinnovabili;
  9. L’introduzione allo studio del metodo scientifico avverrà obbligatoriamente con il contributo di un terrapiattista o, in caso di indisponibilità di esso, di almeno due no-vax.
  10. Da questo momento in poi è fatto obbligo di accompagnare la lettura di qualsivoglia circolare ministeriale con la contestuale lettura ad alta voce di una pagina a scelta dell’opera di Franz Kafka.

Monologo polifonico: su “Eco” di Cesare Sinatti

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di Francesco Scibetta

 

Con Eco (Italo Svevo Editore, 2025), il suo secondo romanzo, Cesare Sinatti – vincitore della XXIX edizione del Premio Calvino con La splendente (Feltrinelli 2018) – conferma la propria capacità di unire erudizione, riflessione su grandi temi filosofici e una gestione sempre più consapevole del dato linguistico e stilistico.

Il romanzo inizia con il punto di vista di Resi che – alle porte del proprio esame di maturità – sogna. Sogna nel senso che immagina il proprio futuro ma anche nel senso che ha un’esperienza onirica ricorrente. È proprio il racconto e l’interpretazione di questo sogno il perno dell’intera narrazione. Seguiamo infatti la vita della protagonista sempre defilati di un passo, attraverso lo sguardo e la voce delle persone che la incontrano: una zia, un’amica, il fratello, un professore universitario. Gli otto capitoli del romanzo corrispondono a otto flussi di coscienza di personaggi di provenienza e caratteristiche eterogenee. Ognuno di loro vede Resi come una persona diversa, e al lettore non resta che ricostruirne l’identità e la storia a partire dai riflessi che crea in ciò che la circonda.

Lo spazio su cui si apre la narrazione è la provincia marchigiana, ma presto Resi e gli altri protagonisti se ne allontanano. È una caratteristica chiave di tutte le voci del romanzo, spinte da una mancanza di radici a una Wanderung eterna alla ricerca di qualcosa che, proprio come il senso del sogno di Resi, non fa che sfuggire. Il lettore viaggia dalla Siena universitaria, alla Roma dei giovani studenti fino alla Toronto degli italo-canadesi. Ma, come mostra chiaramente Orfeo – l’ultima voce del romanzo – con il suo ossessivo rimando alla vita e all’opera di Dino Campana, è proprio il moto centrifugo – che allontana dal nucleo emotivo e semantico del pensiero e dal centro dello spazio geografico – a permettere la “Poesia”.

Quello della letteratura è quindi un altro tema chiave del romanzo. Sinatti ha voluto riflettere sul rapporto che intercorre tra la vita, la scrittura e la scrittura “alla seconda”, ossia quella critica e non creativa. Anche in questo caso le interpretazioni variano in base alla voce che il lettore sta seguendo: dalla concezione sacralizzata della Resi studentessa di liceo a quella disillusa di Sam, wannabe sceneggiatore che non è mai riuscito a girare i propri film. Ma la riflessione più complessa è affidata a un dialogo dal sapore quasi platonico tra due professori universitari, che si trova nel cuore del romanzo e compone il capitolo numericamente più esteso (pp. 169-254). Potrebbe quasi sembrare un inserto teorico gratuito se non fosse che, attraverso un discorso che parla la lingua della filosofia letteraria, Sinatti riesce a delineare sottotraccia la psicologia e la storia dei due dialoganti.

È infatti questo il maggior pregio di Eco: una lingua polifonica al limite del metamorfico, che crea, nello sciogliersi del discorso dialogato e del monologo mentale, personaggi vivi e credibili. La penna di Sinatti riesce a spaziare dal linguaggio basso, quasi telegrafico, di un discorso da bar visto dagli occhi del fratello di Resi, fino al discorso alto e impostato, ma sempre orale, di una lezione universitaria. Da «Il ghiaccio nei bicchieri si è sciolto. Rimasugli di spritz annacquati. Il mio ancora da finire. Fa un caldo di Dio, anche qua fuori. Sembra di stare a Dar.» (p. 121); a «La seconda innovazione, che per noi è più rilevante, consiste in una maggior concentrazione sui caratteri dell’esperienza interiore dell’amore. Venendo a mancare il contesto sociale della corte, l’amore cessa di essere esperienza codificata» (p. 203).  Ma quelli di questo romanzo sono personaggi sfaccettati e quindi il discorso di alcuni ragazzi al bar può, intriso di nostalgia quasi elegiaca, farsi lirico: «Se li ricordano anche i muri, i nostri discorsi del cazzo. Gridati da quando eravamo ragazzini fino alle quattro del mattino, tutti e tre, parlando di ragazze di futuro, riempiendo le stradine intorno coi nostri “eh” e i nostri “oh”» (p. 134). E la riflessione di un teorico della letteratura resta quella di una persona, e pertanto ha i suoi tratti prosaici: «Dovrei tornare in ufficio a riguardare gli appunti su Cavalcanti per la lezione di oggi, ma la mia costipazione non dà segni di volersi sciogliere» (p. 171). E questi sono solo due degli esempi possibili, perché ognuna delle otto voci ha una lingua e un orizzonte di valori propri, e reagisce – quasi chimicamente – a Resi e al suo sogno con effetti diversi, reinventandoli e reinterpretandoli secondo i propri filtri

Gli otto «piccoli romanzi fiume» di Eco potrebbero, data la tecnica scelta, essere destinati a lievitare a dismisura e a perdere l’equilibrio dell’insieme, e invece vengono sempre arginati da una scrittura in grado di dominarsi e di darsi una forma equilibrata e compatta. Un romanzo stilisticamente e tematicamente così centrifugo viene contenuto da una struttura architettonica strofica ma non cadenzata, ritmica ma non monotona. Insomma, con questo testo Cesare Sinatti dà prova di una grande maturità e di consapevolezza dei propri mezzi stilistici e tecnici.