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L’insostenibile incertezza dell’età

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Foto di Monoar Rahman Rony da Pixabay

 

di Paola Ivaldi

 

La vecchiaia non sa di più: contiene di più,
e va lasciato traboccare, questo di più,
e che diventi voce.
Chandra Candiani

 

“Provai uno strano miscuglio di malinconia e di speranza e mi chiesi se un ricordo è qualcosa che hai o qualcosa che hai perduto. Per la prima volta dopo tanto tempo mi sentii placata”. Così termina la sequenza conclusiva del film di Woody Allen “Un’altra donna” (Another woman, 1988) magistralmente interpretato da Gena Rowlands.

La crisi della (tarda) mezza età femminile coincide quasi sempre con il climaterio e la menopausa, che del climaterio rappresenta il gran finale; infatti Marion, protagonista del film, ha appena compiuto cinquant’anni e – nonostante incarni la classica figura un po’ cristallizzata di donna professionalmente e socialmente affermata dell’upper class newyorkese, alquanto ricorrente nella filmografia di Allen – propone allo spettatore alcuni spunti di riflessione inerenti al discorso su quella “certa età” nebulosa e complessa da elaborare che noi occidentali del XXI secolo ci ostiniamo a voler: definire, perimetrare, gestire e ottimizzare, in precario equilibrio tra aspettative e pretese.

Età di bilanci, età di ricerca di nuovi equilibri, età – per tornare alle parole di Marion – di malinconia e speranza. Età irta di ostacoli, ma anche generosa di snodi di maturazione. Un periodo della vita scandito da cangianti incoerenze e contraddizioni in cui ci pare di vedere il mondo attraverso un caleidoscopio, come se tutto andasse clamorosamente in mille pezzi. E a volte succede proprio così, la nostra tranquillizzante routine va in frantumi: perché ci si separa dai propri partner, perché i figli escono di casa, perché i genitori si ammalano e poi muoiono, perché ci sembra che gli amici siano lontani, che non ci si capisca più, che il comunicare si riduca alla messaggeria virtuale, che i rapporti si dematerializzino, lasciandoci alle prese con un crescente senso di solitudine e smarrimento. In aggiunta a tutto ciò ci troviamo a dover affrontare, in quanto donne, la nostra ultima straordinaria tempesta ormonale il più delle volte scoprendoci sole al timone.

Tra pochi mesi compio sessant’anni e inizio a scorgere in lontananza, ma in rapido avvicinamento, la vecchiaia che, al momento, non mi spaventa. La menopausa è alle spalle da tempo e, come la Marion del film, mi sento placata.

Nutrivo delle aspettative rispetto al libro di Gloria Origgi La donna è mobile. Filosofia della menopausa, ma devo ammettere che una volta giunta al termine della lettura mi sono accorta di provare una lieve delusione, più che altro un senso di perplessità rispetto alla visione filosofica dell’autrice. Vorrei tentare di spiegare perché nella speranza di offrire un modesto contributo al dibattito pubblico su un tema così complesso, intimo, delicato, ma al contempo universale e naturale.

L’interrogativo più ricorrente nel volume di Origgi, il cui merito è senz’altro quello di fare luce sul processo trasformativo del climaterio, sembra essere: chi è la donna dopo la menopausa? E la risposta che più di ogni altra parrebbe stare a cuore all’autrice è che la donna dopo la menopausa non è vecchia. La donna dopo la menopausa diventa, secondo Origgi, adulta. La stessa filosofa scrive che l’obiettivo del libro è quello di mettere in questione il prisma “menopausa-vecchiaia”. E questo suo intendimento non sfugge neanche a una lettura distratta poiché in un centinaio di pagine il concetto che menopausa non significa vecchiaia viene esplicitato e ribadito più e più volte, forse troppe volte per non destare il sospetto che il vero tabù, più che la menopausa, sia proprio la vecchiaia.

Prima perplessità. È lecito tracciare dei confini in un territorio come quello dell’età se non procedendo per grossolana e arbitraria approssimazione, rischiando poi anche di assumere atteggiamenti di negazionismo anagrafico? E ancora mi chiedo: è davvero così importante stabilire chi sia una donna in fase post-menopausa? Non potrebbe rivelarsi l’ennesima gabbia in cui rinchiudere noi stesse, intonando in un coro stucchevole e un po’ ipocrita che siamo: rinate, più forti, più belle, più vere, più libere di prima? Sempre questa spasmodica rincorsa al “di più”, come se non ci si accontentasse mai di vivere la vita per quello che è, senza pretese di continue performance, garanzie, risarcimenti e sempiterni upgrade. A mio modo di vedere il rischio di cadere in una trappola, seppure inconsapevole, è concreto perché ognuna di noi diventa solo e semplicemente sé stessa, seguendo una propria personalissima evoluzione, facendo come può, il più delle volte arrangiandosi con i mezzi, materiali e intellettuali, di cui dispone. In linea di massima sto scoprendo, invecchiando, che il “di meno”, adottato come claim a cui intonare il proprio stare nel mondo, è assai meglio del “di più” tendenzialmente compulsivo, edonistico, egocentrico.

Mi pare poi assai discutibile sostenere che la menopausa non vada confusa con la vecchiaia, appellandosi all’aspettativa di vita media della donna nei Paesi occidentali. Origgi dice, in buona sostanza: quando entriamo in menopausa abbiamo ancora davanti a noi trent’anni. L’autrice evidentemente non tiene conto che quel trentennio non presuppone un fermo immagine di come siamo a cinquanta, ma ci vede incamminate lungo un inevitabile declino che, oltre a implicare i nostri personali problemi di salute legati alla senescenza, ci espone alla perdita delle persone care, magari a situazioni di precarietà economica, di erosione graduale di autonomia. Insomma, la vita ordinaria, per le persone comuni.

Dunque non basta dire: abbiamo ancora trent’anni davanti a noi quindi non siamo vecchie. Occorre interrogarsi sulla qualità e sulle prospettive di vita che ci attendono nell’arco di quei tre decenni.  Bisogna fare i conti con un Servizio Sanitario Nazionale (SSN) che versa nelle penose condizioni che conosciamo. Nella nostra società già poco dopo i sessantacinque la multimorbilità è un fenomeno in drammatico aumento che va progressivamente deteriorando le condizioni di vita degli anziani. Affermare che dopo la menopausa non siamo vecchie perché possiamo ancora contare su una sorta di potenziale bonus esistenziale di un trentennio dice solo una piccola parte di verità e anche un po’ distorta. Perché se è vero che esistono donne che ancora in là negli anni si godono, in forma smagliante, un proprio buen retiro in qualche location esclusiva, in affettuosa compagnia di consolidati partner, amanti occasionali, famiglie queer, gatti, cani, pappagalli, e si divertono con le amiche a scambiarsi i sex toys, confidandosi in tono similadolescenziale ardite prodezze erotiche, ebbene se esistono queste donne dovremo pur dire che rappresentano una sparuta minoranza. Per noi altre, comuni mortali, la vita dai cinquanta agli ottanta, il più delle volte, è a dir poco impegnativa, assai spesso piuttosto grama.

Sostenere poi che le donne in menopausa sono all’apice della carriera e quindi: evviva evviva, altro che vecchie! mi pare un’affermazione che denota una visione edulcorata ed elitaria della faccenda perché per la maggior parte di noi si tratta, invece, di un periodo in cui anche sul piano professionale ci si sente gradualmente in difetto di allure visto che quasi tutti i lavori sono svolti tramite il ricorso esclusivo alla tecnologia che pretende, da chi non svolga ruoli apicali e dunque non possa delegare niente a nessuno, una sempre più rapida capacità di apprendimento e di esecuzione, richiede velocità, competenze informatiche. In questo scenario sì che ci si sente vecchie, lavoratrici vintage, non più portatrici di un sapere, l’antico know-how che fino a quindici, vent’anni fa poteva avere ancora un qualche tipo di valore. L’autrice evidentemente ignora che per la maggior parte delle lavoratrici gli anni dai cinquanta in poi non prevedono fulgide carriere o vertiginose verticalizzazioni, ma una sola certezza: la crescente fatica, fisica e mentale, accompagnata dalla sgradevole e inquietante sensazione di una sorta di schiavitù la cui fine (ebbene sì: la fantozziana agognata pensione) è perennemente avvolta nella fitta nebbia di fosche e pessimistiche previsioni previdenziali.

“La paura di invecchiare – scriveva Gustavo Zagrebelsky in un’altra Vela einaudiana di una decina di anni fa intitolata Senza adulti – ha fagocitato anche l’età di mezzo”. E ancora: “Tutto ciò gonfia il tempo della giovinezza talora oltre il limite del ridicolo, ma non ne sopprime la fine. Nel momento in cui arriva, si ha il tracollo.” Ecco. Tra l’altro, se seguitiamo a non accettare l’idea di invecchiare, se non proviamo a elaborarla, la nostra vecchiaia, oltre a mortificare noi stesse, rischiamo anche di danneggiare le generazioni più giovani, finendo per assomigliare ad attempate attrici bizzose che non ne vogliono sapere di lasciare il centro della ribalta e concedere spazio a chi ha diritto di partecipare da protagonista al gioco della vita, di metterla in scena come abbiamo potuto fare noi, a suo tempo. Se non si scardina la deleteria narrazione fiabesca dell’eterna giovinezza le donne avanzano verso il tracollo di cui sopra, con il rischio di apparire più simili a personaggi che persone, evocando atmosfere, tornando ancora una volta al cinema, a metà strada tra il grottesco di Sorrentino e la comica amarezza di Virzì.

Inoltre, pur sottolineando che il suo non è un libro di self-help, Origgi si dilunga in un excursus medico il cui messaggio neanche tanto subliminale sembra essere “più ormoni per tutte”, conducendo il discorso dei possibili rimedi alle sindromi climateriche sui rassicuranti binari della terapia ormonale sostitutiva (TOS): questo è un aspetto che suscita ulteriore perplessità. Forse perché inevitabilmente mi sono soffermata sul ricordo della mia esperienza e di quelle di amiche e conoscenti. Il climaterio per me ha rappresentato un lungo periodo molto tormentato in cui sono stata afflitta soprattutto da drammatici problemi di insonnia e di conseguenza ho subìto una medicalizzazione piuttosto aggressiva che, tuttavia, non ha fatto che peggiorare la sintomatologia altamente invalidante. Come ne sono uscita? Non assumendo più né benzodiazepine né tanto meno gli ormoni, che non tolleravo (udite, udite: non tutte le donne sopportano la TOS, non tutte le donne la vogliono, la TOS), ma semplicemente andando a nuotare in piscina e camminando molto, anche in città. Ho dato retta a una ginecologa illuminata che mi ripeteva come un mantra: attività-fisica attività-fisica attività-fisica, avanti tutta con la produzione naturale di endorfine!

I mezzi per affrontare gli eventi marcatori della vita (e la menopausa senz’altro lo è) sono spesso a portata di mano, ma noi non lo sappiamo, non li vediamo, come se giacessero dimenticati in una zona d’ombra: sono le nostre straordinarie risorse interiori, una strumentazione di bordo a costo zero e priva di effetti collaterali. Per fare solo due esempi: yoga e meditazione; entrambe le pratiche sono state le mie ancore di salvezza in tempi duri, essendo tutt’ora irrinunciabili alleate nella tutela di un benessere psicofisico che tuttavia non do mai né per scontato né tanto meno dovuto.

Mentre invece il fenomeno ancora scarsamente denunciato è il colossale business della menopausa alimentato a dismisura dal panico che monta alle prime avvisaglie climateriche; tra integratori e ormoni, opercoli e candelette, cerottini e creme (nelle costosissime e ridicole declinazioni commerciali: age interrupter, age reverse, global repair ecc.) l’obiettivo commerciale consiste nell’assecondare le donne che vogliono fortissimamente sentirsi e apparire “forever young”. Il foreveryounghismo pare affliggere soprattutto la generazione X. Tremenda paura della vecchiaia che colpisce chi, essendo nato e cresciuto negli anni del benessere, ha condotto un’esistenza tutto sommato facile nella radicata presunzione di poter sempre e comunque scansare le spiacevolezze della vita, tutte: dalla prima all’ultima, che c’è sempre un antidoto, un’app, una bacchetta magica, la lampada di Aladino.

Ed eccoci tutte in fila, smaniose di chiedere lumi, erroneamente convinte che la soluzione sia sempre quella di esternalizzare i rimedi. Oltre ai vari medici specialisti a cui potenzialmente rivolgersi (ginecologi, endocrinologi, nutrizionisti, neurologi, psichiatrici, neuropsichiatri), rispondono all’appello anche gli omeopati, gli agopuntori, gli psicoterapeuti, una galassia di sciamani e incantatori che, senza nulla togliere alla loro professionalità e i cui interventi in alcuni casi possono contribuire efficacemente a lenire e contenere i disagi climaterici, esigono onorari per la maggior parte delle donne sempre più economicamente insostenibili. Questo nel privato. Se, invece, guarda un po’, ci si ostinasse ancora a rivolgersi al SSN i tempi di attesa sono tali per cui è quasi certo che la visita richiesta per problemi legati al climaterio ti verrà fissata quando sarai in post-menopausa.

Altro tema, intrecciato al giro d’affari che attanaglia il climaterio, di cui raramente si parla: lo spietato sessismo del marketing. Avete mai notato, entrando in farmacia, il packaging delle creme intime femminili? Le confezioni riportano in bella vista il problema o il rimedio: Secchezza Vaginale, Lubrificante Vaginale, Lubrificante Sessuale e via così, come fossero prodotti pensati per macchine guaste che necessitano di rabbocco. Senza alcun riguardo. Mentre il Viagra o il Cialis, tanto per dirne due, eh… loro sì che sanno essere discreti, mica leggi sulla scatoletta: Disfunzione Erettile.

Liberiamo la menopausa! Questo io vorrei dire a voce alta. Occorre liberarla innanzitutto da cliché ed etichette. Liberarla dal consumismo, e dalla medicina. Liberarla dalla paura: di stare male, di non farcela, paura di trasformarci e sì, anche di invecchiare. Quest’ultima paura si sconfigge soltanto rielaborando l’idea distorta della vecchiaia e inizio talvolta a pensare anche rifondando la vecchiaia stessa sempre più abbandonata a sé stessa, inascoltata, mortificata ed emarginata. L’ageismo è fenomeno sociale dilagante, ma nessuno lo dice, nella sciocca deleteria convinzione che basti regalare uno smartphone alla nonna per farne una nonna smart, oh yeah.

Orsù, dunque, non spaventiamo le ragazze, le giovani donne e le energiche quarantenni: il climaterio è una storia a lieto fine, diciamolo forte e chiaro, purché sia la storia nostra, unica e irripetibile, necessariamente diversa da quella di qualsiasi altra donna e il cui tracciato sia la conseguenza di scelte informate e consapevoli, compiute in totale autonomia e in piena libertà. Andare in menopausa non è una iattura, ma un inevitabile processo trasformativo, come scrive efficacemente Origgi, i cui effetti collaterali, estremamente soggettivi, molto dipendono anche dal contesto affettivo e socioeconomico in cui la donna conduce la propria esistenza. Lo stesso si potrebbe dire del ciclo mestruale e delle eventuali esperienze di gravidanza e parto: finché alimentiamo il discorso pubblico di vissuti traumatici (nessuno intende negarli, sia ben chiaro, ma non posso credere che siano la maggioranza e che dunque debbano imporsi come la norma) e pretendiamo il controllo sul corpo, rischiamo la deriva ideologica che conduce nel vicolo cieco del rifiuto del corpo.

Insomma, ancora una volta potremmo parafrasare Tolstoj, affermando che tutte le menopause felici si somigliano, ma ogni menopausa infelice lo è a modo suo. L’importante è non drammatizzare, stando con i piedi ben a terra, evitando vittimismi (“a noi donne tocca pure questa!”) che suonano lievemente puerili perché in cuor nostro sappiamo che è proprio nella straordinaria complessità e alterità del corpo femminile che risiede l’incanto della vita che solo noi siamo in grado di custodire e dare alla luce. Questo comporta il “fardello” del ciclo mestruale per decenni, ma direi che in linea di massima ci si riesce a convivere.

Allora buttiamolo via, l’odioso rametto troppo spesso usato per tracciare linee di confine; sentiamoci fiume, lasciamoci scorrere, sapendo che ci aspetta la foce, in quanto viventi siamo destinati a procedere verso il mistero dei misteri. Intanto però sarebbe bello iniziare fin da ora a sincronizzare il nostro tempo di vita con il respiro e da lì, rallentando, ripartire. Non ha poi tutta quella importanza stabilire chi siamo diventate, dopo. Forse, come la Marion cinematografica, siamo semplicemente altre donne.

Se qualcuno mi rivolgesse la fatidica domanda, azzarderei questa risposta: è ormai passato un lustro dalla menopausa e io oggi, per la prima volta nella vita, mi sento innanzitutto umana (oh meraviglia!) e poi, sì certo, una donna in cammino inevitabilmente invecchiata. Ma non so altro e non desidero sapere, l’esistenza rimane un enigma e noi tutti assomigliamo alle nuvole: mutevoli, di passaggio, in rapida dissolvenza.

La vecchiaia che inizio a fiutare e di cui talvolta avverto delicate avvisaglie nel corpo e nell’anima non è un’umiliazione, come sostiene Origgi nel suo volume, piuttosto un percorso a cui si perviene se non capita di morire prima. La cura di sé, non di stampo narcisistico, ma dettata dall’amorevole gentilezza verso la nostra dimora terrena che è il corpo, passa attraverso una inedita forma di accettazione e di tenerezza verso questa straordinaria casa che, per dirla alla Emily Dickinson, è dove siamo. E il dove siamo non è nient’altro che un ingannevole traguardo, instabile, indefinito e impermanente, della nostra traiettoria su questo pianeta, privilegio e incanto che si rinnovano a ogni passo.

 

La risposta

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Copertina di Mario Ritarossi. Foto di Natale Madeo

di Enrico Galantini

Le parole del dottor Richards sono state un pugno nello stomaco. No, non è il solito ingrossamento della prostata, ha detto. È un tumore, avanzato, tra il terzo e il quarto stadio, probabilmente al quarto. Forse è operabile ma comunque è possibile trattarlo con la radioterapia. Decideremo insieme quale tipo d’intervento quando ne sapremo di più. Ma non bisogna perdere tempo. Non bisogna perdere altro tempo.

Daniel deve respirare a fondo per rimediare all’improvvisa mancanza d’aria, proprio come gli succedeva quando, giovane boxeur nella squadra di pugilato di Harvard, veniva colpito da un gancio sotto lo sterno. Guarda per terra, poi guarda il medico negli occhi. Ok, risponde, cominciamo anche adesso. Che cosa dobbiamo fare?

Tutto è iniziato così. Prima c’erano stati i soliti disturbi che ogni uomo che ha superato i sessanta conosce. Un po’ trascurati, è vero, ma c’era il progetto della mostra e del
libro fotografico sui Castelli Catari da portare avanti, con il lungo viaggio in Francia, in quella meravigliosa regione che si stende dai Pirenei al mar Mediterraneo, nella quale otto secoli fa si svolse una crociata che rappresentò una delle pagine più vergognose della Chiesa di Roma.

E prima di partire c’erano state le lunghe settimane di preparazione logistica – i contatti da trovare e poi da prendere e, ancora, gli accordi da fare, con i sindaci e tutti coloro che avevano a che fare con le rocche e con i ruderi che sua moglie Paula e lui avrebbero fotografato, per la mostra, il libro e anche per il loro blog.

Davanti a tutto questo, è vero, aveva taciuto la difficoltà di andare in bagno, i dolori, a volte forti ma anche saltuari. Li aveva taciuti, è vero. Ma non era stato tempo perso. Anche se su questo il dottor Richards non sarebbe mai stato d’accordo.

Tempo perso o meno, da quando l’urologo gli aveva prospettato la necessità di intervenire con urgenza, Daniel non si era tirato indietro. E praticamente dal giorno dopo era iniziato il tour de force. Prima le ultime analisi allo Sloane Kettering che avevano stabilito definitivamente che si trattava un tumore maligno al quarto stadio, un tumore che cioè oltre alla prostata aveva invaso i tessuti adiacenti. Poi l’incontro con l’oncologo dell’istituto newyorchese, il professor Barnes, che gli aveva spiegato come s’imponesse la radioterapia invece dell’intervento. Se ben fatta, e qui abbiamo una grande esperienza e una casistica da record, aveva detto, la radioterapia dà buone probabilità di successo senza i rischi che comporterebbe l’intervento. È vero, ci possono essere degli effetti collaterali, spiegò, ma tutto sommato sono gestibili.

Dopodiché era iniziata la preparazione, con la Tac di centratura e i micro tatuaggi puntiformi per definire con la massima precisione possibile la zona da trattare. E poi il trattamento. Lungo. Estenuante. Era durato otto settimane, cinque giorni alla settimana. Sedute brevi, sette minuti l’una.

Ancora si ricordava la prima seduta. Quando si era sdraiato sul lettino, nella stanza vuota di persone, aveva pensato che ormai per lui quella di morire non era un’idea astratta, una paura quasi atavica, ma una possibilità concreta. E aveva pensato che se fosse successo avrebbe saputo finalmente se c’era davvero qualcosa dopo. E che cosa.

Non ti voglio incontrare, disse al Dio in cui avrebbe voluto credere ma che non l’aveva mai degnato del minimo segnale. Non voglio sapere che ci sei e non mi hai mai risposto in tutti questi anni. Avrei voluto lottare strenuamente come Giacobbe con l’Angelo, piuttosto che essere bloccato in quel silenzio assurdo a cui mi hai condannato nelle mie lunghe notti in attesa. E quando il tecnico entrò e vide le lacrime che gli solcavano il viso disse che no, che non gli aveva fatto molto male, che erano solo brutti pensieri.

La radioterapia con fasci a intensità modulata era pensata per risparmiare il più possibile gli organi sani, ma il più possibile è un concetto relativo. Bruciori interni e malesseri vari vanno messi in conto, gli avevano detto i suoi medici, ed erano stati facili profeti. Alla fine di maggio il cancro sembrava sconfitto. Ma il paziente stava tutt’altro che bene. Gli effetti collaterali erano stati pesanti, soprattutto quelli sulla vescica. Gli oncologi pensano che il tumore se ne sia andato – scrisse Daniel sul suo blog – ma i trattamenti mi hanno distrutto dentro. E chi non se n’è andato è la paura che il cancro torni.

Per recuperare la funzionalità della vescica gli consigliarono un fisioterapista che viveva e lavorava nel New Jersey. Cinquanta minuti di macchina all’andata e altrettanti al ritorno per una seduta di quarantacinque minuti che però funzionava. Non era facile, non era piacevole ma Ken, così si chiamava il fisioterapista, era una bella persona. Duro, quando serviva ma anche disponibile. E lui piano piano riduceva lo sfascio recuperando autonomia. Sei mesi dopo però, tra novembre e dicembre, ci furono ancora dei problemi seri e dovette affrontare due interventi chirurgici d’emergenza, uno dei quali il giorno di Natale. Daniel disperava ormai di guarire davvero. Nella settimana tra Natale e Capodanno fece anche testamento.

Quello del 2019 sarebbe stato assai probabilmente il suo ultimo Capodanno e festeggiarlo non fu semplice.

Con Paula lo passarono a rivedere vecchie foto di loro due che fotografavano ruderi e rovine, una specie di backstage del loro blog. Potremmo farne dei post, disse lei sorridendo. Guarda, gli disse, qui è quando mi misi a cantare nella chiesa di San Vittorino a Cittaducale, quella del film di Tarkovskij. Mi ricordo, fece lui sorridendo, un Bach un po’ stonato ma molto suggestivo, con il rumore della sorgente in sottofondo. A mezzanotte si abbracciarono e restarono abbracciati a lungo, come a darsi coraggio, mentre fuori esplodeva la gioia un po’ inconsulta di chi spera sempre che il nuovo anno sia meglio di quello vecchio.

E in effetti verso fine gennaio le cose cominciarono a funzionare di nuovo e a metà febbraio Daniel cominciò a sentirsi bene, incredibilmente bene, come non si sentiva da tanto tempo. Così sembrò loro normale e anzi doveroso fare progetti per un nuovo viaggio in Europa.

Torniamo in Italia, andiamo in Sabina, disse Paula.

Sì, concordò Daniel, prima passiamo qualche giorno in Toscana, da Piero, in Maremma. Poi scendiamo verso la Sabina. Potremmo stare qualche tempo da Brunello, incalzò Paula, se ci ospita. La sua villa è nella posizione perfetta, vicino a tanti ruderi e rovine, castelli, chiese, interi villaggi, che aspettano solo di essere fotografati di nuovo da noi. E adesso abbiamo la maturità per farlo nel modo migliore.

Con quella felice prospettiva in mente Daniel si mise in macchina per andare da Ken. Nello stereo suonava una bella edizione del Trionfo del tempo e del disinganno di Haendel, e così i cinquanta minuti del tragitto passarono in fretta. Finito il trattamento decise di fermarsi a mangiare qualcosa in un bar non troppo lontano, come aveva fatto già più di una volta nei mesi passati.

La signora coreana che lo gestiva, Sun, una donnina bruna con i capelli sale e pepe, prese l’ordine e poi, quando gli portò l’insalata che aveva scelto, prima fece per andarsene ma poi si girò e gli si fermò accanto in silenzio. Lui la guardò senza dire nulla, ma la sua espressione perplessa parlava per lui.

Posso disturbarla un momento? disse la donna un po’ titubante.

Prego, rispose lui.

Devo dirle una cosa, fece Sun, ma non vorrei che lei pensasse che sono pazza.

Lui la guardò scuotendo la testa, come a dire Ma le pare, anche se dentro di lui l’idea s’era affacciata. E invece le disse Si sieda, per favore, l’ascolto.

A proposito, aggiunse, so che lei si chiama Sun, io mi chiamo Daniel.

Lei viene qui ogni tanto, signor Daniel, esordì Sun, non raccogliendo l’invito a sedersi ma restando in piedi accanto a lui. Lei non mi conosce ma io vivo qui negli Stati Uniti da molti anni.

Vengo dalla Corea e sono, cioè ero, buddista. Da tempo mi sono convertita al vostro Dio. È stata una mia amica che vive ancora in Corea a suggerirmi di pregarlo, il vostro Dio che adesso è anche il mio. È potente, mi ha detto Lin, e si prende cura di chi si rivolge a Lui. Se gli parli ti risponderà.

Sì, tranne se ti chiami Daniel, pensò lui amaramente.

Io le ho dato retta, continuò Sun, e dopo averlo fatto la mia vita è cambiata da un giorno all’altro. Vede, il mio compagno, Sean, è americano. Come molti di voi beveva. Beveva troppo e quando beveva non era più lui. Mi prendeva a male parole, mi picchiava, mi rubava i soldi. Ho chiesto aiuto a Dio, l’ho pregato di darmi una mano. E dopo averlo fatto mi sono già sentita più serena.

La mattina dopo ho detto a Sean che avevo pregato Dio perché lo aiutasse a smettere. Lui mi ha guardato e s’è messo a piangere: proprio la sera prima aveva preso la decisione di non bere più. Ci siamo guardati, ci siamo abbracciati e da allora tutto è cambiato. Ci siamo sposati, siamo venuti qui e da allora Sean e io viviamo in armonia.

Daniel si girò verso lei, uno sguardo interrogativo negli occhi.

La capisco, continuò Sun, lei si chiede che cosa c’entri questo con lei. Ci arrivo subito. Dovevo dirle queste cose perché capisse che non sono pazza. Insomma, io con Dio ci parlo. E in questi giorni, mentre gli chiedevo che cosa potevo fare io per Lui, visto quello che Lui ha fatto per me, Lui mi è mandato nella mente il suo viso, signor Daniel, e mi ha detto di parlare con lei e di dirle che il suo cancro è guarito. Io non sapevo come farlo ma Dio mi ha detto di fidarmi di Lui e di dirglielo, così, semplicemente.

Daniel queste ultime parole non le sentì nemmeno, travolto dalle precedenti. Era rimasto senza fiato. Sun stava lì accanto, timorosa, in attesa di una sua reazione. Ma lui non la vedeva. Era una vita che aspettava che Dio gli parlasse, gli rispondesse, gli si manifestasse. E ora, sia pur per interposta persona, era successo. Era già stato qualche volta in quel locale, ma con Sun non aveva mai parlato se non per ordinare qualcosa da mangiare. E lo studio del fisioterapista non era vicino. Lei non poteva sapere del suo cancro. Eppure gli si era avvicinata per dirgli che era guarito. E che era stato Dio a chiederle di comunicarglielo.

Tornò a casa avvolto da un turbine di pensieri. Quando disse a Paula quello che era successo, lei prima lo guardò come se il pazzo fosse lui, poi gli prese le mani e restarono così a lungo, senza parlare.

Si fece raccontare tutto un’altra volta, lo interruppe per qualche spiegazione, sempre guardandolo fisso negli occhi. È successo, disse poi. Non so come sia possibile e certo non lo sai neanche tu, aggiunse. Ma con questo devi farci i conti. È un fatto e negare i fatti è stupido, oltre che inutile.

Dieci giorni dopo Daniel dovette andare a Seattle, dall’altra parte del paese, per discutere della possibilità di una serie televisiva legata alla storia e alle vicende del loro blog. S’imbarcò sul volo delle otto di sera dal JFK. L’aereo era semivuoto e silenzioso. Gli era toccato un posto di corridoio verso la metà dell’aereo. Dopo il decollo tirò fuori il kindle e si mise a leggere un romanzo di Graham Greene.

Una mezz’ora dopo gli si avvicinò l’hostess e gli chiese se andasse tutto bene. Lui le sorrise – era alta e bionda, un bel tipo – e fece un cenno con il capo. Sì, andava tutto bene, grazie. Poteva portargli per favore un bicchiere d’acqua? le disse. Dopo qualche minuto lei tornò con l’acqua e gli chiese di nuovo se andasse tutto bene. Solito sorriso e solito cenno con il capo.

Provò ad appisolarsi, come i suoi compagni di volo. Ma il sonno non voleva saperne di venire.

Rimase a guardare il soffitto mentre la mente vagava sull’incontro dell’indomani.

Più tardi, una mezz’ora prima che iniziasse la procedura d’atterraggio, mentre intorno tutti dormicchiavano nelle luci smorzate della carlinga, gli si avvicinò di nuovo l’hostess e questa volta non gli chiese come stesse. Mi chiamo Jane, gli disse inginocchiandosi accanto a lui, e mi è stato detto di dirle che il suo cancro è guarito e che quando si volterà a guardare indietro, tutto questo le sembrerà solo un piccolo incidente di percorso.

Daniel la guardò e con un filo di voce le chiese (ma sapeva già la risposta), Chi le ha detto di dirmi questo?

È stato Dio, disse Jane, con un sorriso sereno sulle labbra.

È stato nostro padre, disse sua sorella Amanda, quando Daniel le raccontò della ristoratrice coreana e dell’hostess. È stato lui nell’alto dei cieli che ha convinto il Buon Signore a parlarti in questo modo. Papà ti conosceva bene, sapeva quanto sei testardo. Sapeva che se Dio ti avesse parlato direttamente tu non gli avresti dato retta – tu non dai mai retta quando uno ti parla – e allora gli ha suggerito di rivolgersi a te per interposta persona. E, per sicurezza, di farlo due volte. Mentre gli diceva questo un sorriso affettuoso contrastava con la durezza delle sue parole.

Papà o non papà, pensò Daniel, se prima le parole di Sun erano un fatto, adesso con l’hostess i fatti erano due. E non poteva far finta di niente. Perché nessuna delle due lo conosceva e nessuna delle due poteva assolutamente sapere di quel cancro che entrambe gli avevano detto essere guarito.

Un pensiero insistente gli girava per la testa. Perché io? si chiedeva. Perché Dio aveva voluto salvare lui e non Marcus, il suo vicino di stanza allo Sloane Kettering quando l’avevano operato a Natale? Per Marcus non c’era stata salvezza. Era morto pochi giorni dopo aver affrontato un’operazione non troppo dissimile dalla sua. Aveva vent’anni meno di lui, una moglie e tre figli ancora piccoli.

Perché lui e non Kara, quella splendida ragazza poco più che trentenne che s’era spenta il giorno di Santo Stefano poche stanze più in là per un cancro all’utero?

Qual è la logica che guida il tuo intervento, Signore? chiese sapendo che nessuno gli avrebbe risposto direttamente, ma anche che ormai un qualche dialogo con Dio s’era instaurato. Perché io? Perché hai scelto proprio me? Ma Dio non gli rispose.

L’estate intanto si avvicinava e con essa il tempo del loro prossimo viaggio. Il loro blog riciclava sui social materiale vecchio. Vabbè che parlava di rovine e di ombre del tempo, ma la logica di Internet chiede sempre roba fresca. Con tutto quello che gli era successo non aveva avuto più voglia nemmeno di andare a cercare nel loro sterminato archivio fotografico per farsi venire qualche idea per nuovi post. Paula gli aveva proposto di scrivere dei viaggi virtuali per i loro lettori, unendo in itinerari inventati qualcuno dei siti che avevano già trattato: i villaggi abbandonati del Centro Italia, le chiese romaniche del Massiccio centrale in Francia, le rocche sul mare nelle Asturie. Le idee erano buone e il materiale già l’avevano. Quella che mancava era la sua volontà, la capacità di concentrarsi per tirarne fuori nuove storie, quella che in altri tempi avrebbe chiamato “ispirazione”.

Sì, era decisamente tempo di muoversi. Dovevano ripartire. Fare le valigie, preparare il materiale tecnico, cercare magari qualche nuova macchina fotografica o qualche nuovo obiettivo da sperimentare. O magari questa volta avrebbero potuto anche decidere programmaticamente di fotografare all’antica, senza le comodità del digitale, ma con le difficoltà e gli splendori della pellicola. L’importante era muoversi, fare scorrere nuova linfa nei vecchi rami.

Questo pensava mentre percorreva le strade del New Jersey diretto allo studio di Ken. Quando ne uscì si rese conto di stare molto meglio, di aver recuperato in buona parte la funzionalità della vescica. Forse sono davvero guarito, pensò mentre entrava nel bar di Sun, che lo salutò con il solito sorriso timido e un piccolo inchino di capo e spalle insieme. Le sorrise di rimando e si sedette al solito tavolino d’angolo.

Quando lei venne da lui, Daniel ordinò la solita insalata. Dopo avergliela portata, lei si sedette lì accanto e gli disse che era andata su Internet a cercare il suo blog, l’aveva visto e lo aveva trovato molto bello. Però…

Però cosa? le chiese lui curioso.

Ho letto i suoi post, disse Sun, e mi hanno fatto sognare. A volte però ho avuto incubi. Sono luoghi bellissimi ma anche tristissimi quelli che lei, signor Daniel, e sua moglie Paula fotografate. Non c’è più vita tra quei muri che però in molti casi trasudano dolore. Il dolore non si lava via con la pioggia, come succede con la felicità. Il dolore resta attaccato alle cose. E se lo vedi, se lo senti, ti fa male. Ma scommetto che chi legge il suo blog di solito non si accorge di questo. Nessuno le ha mai detto qualcosa del genere, non è vero?

Daniel rimase colpito dalle osservazioni di Sun e quella sera riprese le immagini di un borgo abbandonato che avevano fotografato in un loro viaggio in Italia alcuni anni prima. Si trattava di un villaggio a cinquanta chilometri da Roma, costruito su un’altura tra due fossi, ma abbandonato all’inizio del 1600 perché colpito da un terremoto. La torre che lo sovrastava svettava nel panorama circostante. Ma il villaggio vero e proprio, con le sue mura diroccate che però erano ancora in piedi, era stato invaso da alberi e arbusti tanto che da lontano nessuno avrebbe potuto dire che là, sotto la torre, c’erano ancora le rovine del borgo. Paula e lui erano tornati a più riprese in quel luogo magico, che si trovava a solo un quarto d’ora dalla villa di Brunello, il loro ospite in Sabina.

Avevano scattato centinaia di foto e lui ne aveva utilizzate sì e no una decina in due post consecutivi che aveva dedicato al luogo. Ricordava di non aver usato quelle dell’interno di una casa il cui solaio era crollato lasciando nel muro l’incavo incongruo di un camino, ben identificabile accanto a una nicchia con i ripiani di stucco ancora al loro posto.

Lo scatto di Paula era stato davvero magistrale: aveva colto quasi miracolosamente un raggio di luce che si era infiltrato tra i rami e che era durato lo spazio di un respiro. La luce di quell’immagine toglieva il fiato e lui non aveva trovato parole adeguate a commentarla, così aveva finito per non usarla. Ma quando Sun gli aveva parlato del dolore che restava attaccato alle cose, gli era venuta subito in mente. La cercò, la trovò e ci scrisse attorno un post. Il dolore che vive nelle cose, così intitolò quello che aveva scritto, ebbe un successo inaspettato.

Molti dei suoi lettori commentarono l’immagine, chi concordando con le sue parole, chi invece dissentendo. Tutti quelli che scrissero comunque gli diedero il bentornato, augurandosi che riprendesse a scrivere a pieno ritmo. Lui, che all’inizio della sua malattia aveva avvertito i suoi lettori di non stare bene, anzi, di avere seri problemi di salute, e poi aveva dato solo sporadiche notizie di sé, ne fu molto contento e ne trasse impulso per progettare il nuovo viaggio.

Rivide Sun due settimane dopo, questa volta era in anticipo e passò al bar prima di andare da Ken. Entrò, si sedette e la salutò. Lei andò da lui e, come sempre senza preliminari, gli chiese perché non avesse scritto sul suo blog della malattia e della guarigione, del messaggio che Dio gli aveva mandato.

Lui rispose che ci aveva pensato, ne aveva discusso con sua moglie, ma che era sembrato a entrambi un argomento troppo privato e insieme troppo delicato per scriverne sul blog. E aggiunse che non sapeva neanche come scriverne. Non credo troverei le parole giuste, le disse, non è facile, mi creda.

Ma Dio vuole che lei lo faccia, gli replicò Sun guardandolo dritto negli occhi, tranquilla come sempre. Me lo ha detto ieri. Vuole che lei racconti tutto. Così com’è successo, né più né meno. Vuole la sua testimonianza.

Tornando a casa Daniel si disse che non sarebbe più andato in quel bar, da quella donna che cercava di costringerlo a fare una cosa che non voleva, che non sapeva fare. Come poteva Sun davvero pensare – o forse doveva dire: come poteva Dio davvero chiedere – che lui raccontasse a tutti sul suo blog questa storia così privata, così difficile da credere quasi come era difficile scriverne? Non era pronto.

Non riusciva ancora a sentirla sua, anche se riguardava lui e solo lui. Si chiese se fosse vergogna, quella che provava. Si chiese perché non riuscisse ad accettare quello che era successo. In fondo per tutta la vita aveva chiesto a Dio che gli parlasse, che gli rispondesse, che entrasse in qualche modo nella sua vita. E adesso non solo l’aveva guarito da una malattia di cui molti morivano, ma aveva voluto farglielo sapere. Gliel’aveva detto, sia pure per interposte persone. Gli aveva parlato. Forse era proprio questo che trovava difficile da scrivere.

Quella notte risognò un sogno che aveva fatto a diciott’anni. Quel sogno lo aveva salvato, in un periodo difficile in cui non riusciva ancora a capire chi fosse e che cosa volesse fare davvero della sua vita. Nel sogno c’erano due uomini che aveva fatto prigionieri e presto s’erano tramutati in cavalli bianchi. Scalpitanti. Desiderosi di libertà. Bellissimi. Uno era riuscito a saltare la barriera del recinto in cui li aveva rinchiusi entrambi ed era fuggito via. L’altro stava ancora lì, fremente. Lui sapeva che doveva liberarlo – la bellezza non può essere tenuta in un recinto a disposizione di pochi – ma sapeva anche che, liberandolo, si sarebbe condannato a morire. Allora chiese, in cambio della libertà del cavallo bianco – che una volta fuori dal recinto si sarebbe trasformato in Pegaso e sarebbe volato via alto nel cielo –, chiese che gli venisse concessa un’altra settimana di vita per salutare i suoi genitori. E mentre abbracciava il padre e gli diceva piangendo che gli voleva bene, sapeva che stava morendo ma sapeva anche che avendo visto Pegaso, avendo visto la bellezza, era pronto a morire.

La mattina dopo, verso le cinque, Daniel accese il computer. Aprì un nuovo file. Scrisse il titolo, La mia testimonianza, e incominciò a scrivere. Non ho mai scritto un post così – iniziò –. Un post in cui parlo così direttamente di me. Ma quello che mi è successo non lo posso tenere solo per me e per chi divide la sua vita con me. E visto che voi, miei cari lettori, mi avete seguito, ci avete seguiti per tutti questi anni, credo di dovervela raccontare bene, questa storia. Lo devo fare perché non voglio che ci siano fraintendimenti tra di noi. E anche perché questo è il primo post che scrivo nella mia vita non solo per il piacere di farlo ma per avere risposta.

Scrisse ancora per un paio d’ore raccontando tutto quello che avete letto fin qui. Quando finì – era senza dubbio il post più lungo che avesse mai scritto – selezionò il
bottone PUBBLICA e premette il tasto invio. Era fatta. Adesso era il momento delle risposte. Si alzò per sgranchirsi le gambe, andò in terrazza con una tazza di caffè e la visione del grattacielo di Ground Zero gli sembrò un’ulteriore benedizione, un momento di pura bellezza.

Le risposte non tardarono ad arrivare. Da tutti gli Stati Uniti, all’inizio, poi, complici i fusi orari, anche da chi lo leggeva nel resto del mondo.

A volte una sola parola: incredibile, straordinario, sconcertante; a volte la condivisione di ricordi personali, di grazie inaspettate; a volte solo fiumi di affetto e di comprensione.

Lui replicò diligentemente a tutti – era una sua abitudine da sempre, in questo caso gli sembrava ancora più importante farlo.

Nel pomeriggio andò a passeggiare un po’ verso l’Hudson, facendo indigestione dell’aria buona e salata del fiume. Quando rientrò c’erano più di dieci commenti di lettori e lui rispose fino a mezzanotte a questi e a tutti gli altri che si erano aggiunti nel corso della serata.

La mattina ricominciò allo stesso modo e andò avanti così fino alle quattro del pomeriggio, quando rispose a un commento che veniva dalla sua amata Sabina, dall’amico che li aveva ospitati più volte. Poi arrivarono altri messaggi che non ebbero risposta.

Sul blog, il giorno dopo, comparve un post firmato da Paula. Il nostro Daniel, diceva, è morto ieri verso le cinque. Il suo grande cuore ha ceduto all’improvviso mentre stava seduto davanti al computer. Fino all’ultimo ha lavorato a questo progetto che per lui era più importante della sua stessa vita. Riposa in pace, Daniel.

Nota

Questo racconto è un estratto in anteprima dalla raccolta Chi disegna e chi squadra, che uscirà a dicembre per le edizioni Gottifredo. Come precisa l’autore in una nota del libro, ”per quanto incredibile sia”, La risposta “è una storia vera, solo un po’ cambiata, nei nomi e in qualche punto per esigenze narrative”. Per chi volesse approfondire, in questo post c’è il modo di farlo. Il protagonista del racconto è ispirato a Dennis Aubrey, un blogger che, assieme alla moglie P.J., aveva realizzato un blog intitolato Via Lucis, sull’arte gotica e romanica. Il post in cui Aubrey racconta la propria vicenda è qui. Di storie come questa, in Chi disegna e chi squadra, ce ne sono molte altre. E ci ho ritrovato tutta la cultura, la raffinatezza e la sobrietà dell’autore, che ho conosciuto come collega e amico per molti anni, ma nel quale ora scopro un’ambizione narrativa, un desiderio esaudito di racconto, che invece è una sorpresa. Molte di queste storie (alcune “quasi vere”, altre vere del tutto, altre più fittizie che vere…) sono state scritte durante i mesi del Covid, e tutte – credo – sono state scritte in Sabina, una regione ricca di monti, boschi, borghi e comunità monastiche, dove l’autore si è trasferito da anni; un paesaggio, un territorio, che è anche protagonista di molte pagine della raccolta. Nello stile di Enrico Galantini non mancano delicatezza e ironia. Soprattutto quando racconta le sfide del tempo umano e biologico, la malattia e la vecchiaia. Il suo raccontare ha il talento della saggezza. È una qualità molto importante, quando si parla di scrittura (d.o).

presque un manifeste #2

0

[Il “quasi manifesto” in questione inizia qui.]

di Francesco Ciuffoli

 

une_lecture_italienne_de_l’affaire

***

cronostoria degli eventi che hanno portato a questo articolo:

11 | 2008 – 09 | 2011 – 04 | 2018 – 10 | 2024 – 12 | 2024 – 02 | 2025 – 04 | 2025

7 date riportanti gli eventi descritti nel testo e quelli più nascosti, personali.

7 saranno anche le sezioni che comporranno dunque questo quasi-manifesto.

+ + + + + + + + + 

indice in cui tradiamo già da ora quanto detto 

Parte 1

Section 5. La questione rivoluzionaria è ormai una questione musicale

Section 6. Appendice #2. Ai fotografi

Section 10. Workbook

Section 1. 26 indici per un indirizzo

 

Parte 2

Section 8. Piccolo manifesto di una nuova estetica

Section 4. Appendice #1. Ai poeti

Section 2. Il punto di vista estetico

Section 3. Poesia, capanne, skené

 

Parte 3

Section 7. Un epilogo. A tutte le persone che amo

Section 9. A questa cosa mai accaduta, mai appianata

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Section 8. Un piccolo manifesto per una nuova estetica
costruito su dodici terzine imperfette

il mondo di oggi, il nostro mondo, è cambiato. si è sancita ormai la fine del postmodernismo avanzato, la sovrastruttura – anche culturale – ha colonizzato ormai anche la critica e la teoria estetica attraverso cui osserviamo i fenomeni (poietici o meno), la stessa realtà che ci circonda.

alla luce di questo, vivere oggi significa abitare – qui, ora – questo mondo, situarsi, anche virtualmente (deleuze, non floridi). ciò però non va inteso, come spesso accade (soprattutto nei postmoderni), come uno svuotamento di realtà concrete, anzi qui è tutto il contrario, è pieno-tutto.

ora più che mai, vi è un forte, fortissimo ritorno alla realtà delle cose (concrete). il punto sta nel riuscire a osservarle come vorremmo. la verità si nasconde dietro l’oggetto, dietro la sua spettrale apparizione, la sua seducente atmosfera, il suo realismo capitalista. innanzitutto dividi i piani.

uno. in una certa forma il capitale è riuscito non solo a rendersi più astratto, spettrale e spirituale, ma anche più sistematicamente insidiato nel fenomeno. per questo, non si può più guardare tramite schemi binari (on/off). facendo così si ottiene solo un’immagine parziale del Reale.

due. ovunque la critica cerca di operare con vecchi attrezzi, imponendosi tutta una serie di schemi riduzionistici: tesi, antitesi, sintesi; non otterrà niente. tale processo, così istericamente portato avanti, sta portando solo una piccola parte dell’oggetto a combaciare le proprie teorie.

tre. ovviamente questa è la crisi attuale delle scienze umane, nessun tramonto dell’occidente. per uscirne bisogna guardare agli anelli di un albero, andando per gradi, avvicinarsi gradualmente al suo centro. guardare assolutamente, a ogni taglio, le forze agenti su quel singolo anello.

bisogna partire dal presupposto che tutto è già previsto dal sistema (fisher, cobain, matrix). oggi, «non è possibile uscire dalla contraddizione». si può però affermare il ventaglio delle contraddizioni, ponderando le sfaccettature dell’oggetto, incidendo, indurre anche nell’albero la caduta.

senza mediazioni, pseudo-sintesi, né postmoderna ironia, siamo seri, serissimi. dalla contraddizione all’affermazione assoluta della differenza, nasce così con noi, una nuova pratica estetica. siamo oggi tutti, indistintamente (poeti e non), manifestazioni, fautori di una nuova estetica.

la nuova estetica è virtuale, atmosferica, realisticamente capitalista. queste tre sono le prime principali caratteristiche dell’oggetto odierno, a ciò bisogna poi affiancare a ognuna di queste le corrispondenti tonalità emotive, nonché la capacità di agire rispetto a spazio, soggetti, altri oggetti.

l’esercizio di sguardo sull’oggetto e le sue contraddizioni è da rintracciare nuovamente nella tragedia greca, nell’intuizione nietzschiana, nella sua giusta interpretazione. vale a dire la riscoperta del vissuto autentico non come concetto ma in senso puro, pratico, quasi ritmanalitico.

tre autori: lefebvre, deleuze e bataille. centrale poi in questo senso è il recupero del vissuto, del Leib (corpo-proprio, organicità vivente) – tesi autenticamente nietzschiana –. bisogna però stare attenti. il vissuto non può ancora una volta essere inteso solo in senso metaforico, allegorico.

il corpo-proprio, quanto piuttosto si determina in senso di correlativo oggettivo (in poesia), di concreto predisporre e agire (nella vita). l’emozione nasce, in fondo, sempre in seno alla realtà concreta, alla materia, alla sua disposizione, al suo movimento. a noi, il compito di disporne i segni.

esserci nelle differenze, nei contrasti attivi, ma non senza fissare una regola. non viviamo mica sotto il segno di saturno, bensì sul fondo di una terra spugnosa, pregna di significati.

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Section 4. Appendice #1. Ai poeti

Città reale e città virtuale

A che punto è la città?

/// [Roberto Roversi, Il libro paradiso]

***

Credere la città un luogo vivibile – comprensibile – oggi sembra impossibile eppure, seppur vero, dietro lo sfondamento, la sopraffazione e lo smottamento del quotidiano c’è da rendersi conto prima di tutto che esistono due città: una città Reale e una città Virtuale [1]. Prendere coscienza di questo, significa prendere coscienza di dove risiede il problema, se vogliamo. Prendere coscienza significa quindi anche un comprendere, comprendere che l’unico modo che ci è dato – per avviare un serio processo di conoscenza – è affidarci finalmente alla poetica dello spazio di Bachelard, alla sua grande capacità di intercedere tra due mondi come farebbe un mistico o un necromante del fenomeno urbano.

«A che punto è la città?» invade e guida involontariamente questo processo di discernimento dei piani, lo infesta. Non si sa a cosa affidarsi per comprendere la realtà eppure la domanda c’è, sorge spontanea – penso – andando o tornando, seduti o in piedi nel buio non-ancora-in-luce della propria via o del tunnel scuro di una metro che ci riporterà a casa. «A che punto è la città?» circonda il nostro quotidiano e più che mai nelle orecchie e negli occhi di chi oggi la città la vive, nulla sembra risolversi in una situazione fissa, immutabile. La città ogni giorno fa la muta, squama, si converte e si modella, plasticamente, in base all’esigenza dell’istante, di momento in momento.

E in questo senso, forse il più ampio, che la poesia, e il non-più-mai-poeta, è allora un fissare-intanto, azzeccare qualche punto sulla lavagna all’interno del nostro ufficio personale, all’interno cioè di quel commissariato invisibile e collettivo dell’esperienza in cui i più fini detective urbani e commissari dell’esistenza cercano da sempre di trovare una soluzione, quella che spieghi almeno in parte cosa è successo, o, più semplicemente, cosa anche oggi stia accadendo. Indizi; speculazioni; intercettazioni; vecchi casi irrisolti; i faldoni e le carte si accumulano dappertutto, perché dentro persino qualcosa di superficiale, di minimo, si potrebbe nascondere la risposta che tutti stiamo cercando.

***

Dentro l’immagine fa sempre freddo, ed è lì, in quel freddo, che qualcosa potrebbe diventare, o capitare, qualcosa che potrebbe riuscire a tagliare le parole e le pagine assieme al vento.

Del giardino non esistono fotografie.

/// [Jean-Marie Gleize, «Aliquid ampius in sylvis invenies», Tarnac. Un atto preparatorio]

***

[5] Bisogna infatti ricordare che dove c’è innanzitutto un Reale – lacaniano, materiale e storico –, da decenni afflitto da un progressivo processo di annullamento e svuotamento –, vi è (e vi sarà sempre) anche un Virtuale che cercherà di infestare e colonizzare con forza il nostro mondo, la sua esperienza intesa qui come everyday life (espressa oggi da un effimero efficentismo, utile solo alla produzione e riproduzione isterica delle merci e dei rapporti). Da uno scorcio di via a una scena più ampia, tutto però ci scorre ancora davanti e ci attraversa con i suoi rapporti di significatività, i suoi valori, anche nella Virtualità di un sempre più profondo realismo inquietante, di tutto ciò che questo consegue. E a tal proposito che adesso, quando abbiamo parlato di Virtuale, non si può e non si deve più intendere tanto il Virtuale come una realtà assestante, dispersa nell’iperuranio come molti pensano, quanto piuttosto bisogna pensare e pensare bene alla virtualità dell’esperienza come un ulteriore – al Reale – e complesso sistema interconnessioni agenti sull’esperienza anche quotidiana. Dietro una quasi-banale “scena” esperita, c’è sempre un mondo di interpretazione e di valore.

Calcificate nella nostra memoria, quelle del Virtuale sono quindi dinamiche agenti concretamente nel quotidiano, le manifestazioni (fenomeniche) di come cresce si sviluppa dentro di noi persino quell’impotenza riflessiva – esistenziale quanto pratica – e che, attraverso di noi, nel sottopelle stratificato della nostra città determina più che mai anche l’andamento della nostra vita. È dall’urbano che nasce il suo abitante, come un residuo umano, un qui – situato – perché immerso nel contesto che lo circonda. E in ciò che ci circonda il Virtuale è e deve anche essere inteso come l’atmosfera che si respira non tanto fisicamente quanto esteticamente, l’aura cioè di ogni singolo frame della nostra giornata, il suo riprodursi con diversi ritmi, il suo ripetersi nell’identico, il suo martellante movimento. Parafrasando le parole di Benjamin: “ciò che fa del ramo e della montagna quella precisa, precisissima situazione di ramo e montagna [solo qui e ora]”, questo è in definitiva il Virtuale, quello che la poesia cerca e cercherà sempre disperatamente di raccontare, il volto invisibile della realtà, della sua esperienza.

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Section 2. Il punto di vista estetico

per esempio: se il punto di vista estetico è

un punto di vista d’azione?

Tarnac mi scorre dentro come se fosse polvere.

/// [Jean-Marie Gleize, Tarnac. Un atto preparatorio]

* * *

un exemple plus direct: il punto di vista estetico dell’Affaire è TRNC Tarnac è un’atmosfera, TRNC è una semi-cosa

***

un’atmosfera riguarda infatti le emozioni

le emozioni riguardano infatti le azioni

 

e le inazioni (individuali, collettive, sociali)

osservare, studiare, comprendere atmosfere

 

significa saper leggere, interpretare, maneggiare

le forze invisibili del campo (Bordieu, le lezioni)

 

un’atmosfera è quasi-più politica del fatto

il fatto in sé però si perde quasi subito, puff.

 

ciò che rimane del fatto è come una semi cosa,

spazio e tempo del suo ripetersi, anche in peggio.

 

CIÒ CHE TU CHIAMI CLIMA DI PAURA È ATMOSFERICO

CONOSCERLO TI PERMETTE DI, FERMARLO, VINCERLO

***

inizialmente pensato come un articolo di

lettura, assimilazione, accomodamento

 

il punto di vista estetico è e rimane

un punto di vista d’azione (sociale)

tornare a parlare oggi di Tarnac in termini estetici (come di un’atmosfera) quindi può e deve non solo avvicinarci a comprendere maggiormente la grande metafora di TRNC, o meglio la grande capacità che ha avuto l’Affaire Tarnac di condensare in sé determinati e specifici rapporti di significatività di un determinato e specifico momento (quasi-)storico – che a oggi, soprattutto in Italia, per via forse delle nostre personalissime intemperie e crisi, non ha mai trovato il giusto spazio di esposizione e di riflessione –, ma anche farci rendere conto di come Tarnac non rappresenti più tanto un semplice spazio di cronaca su un giornale, un evento giudizial-politico chiuso in sé, quanto piuttosto – alla pari di un ’68 al contrario – l’irruzione di un Reale puro, la manifestazione esasperata nonché politico-climaterica di due decenni interi, l’invasione sul piano concreto della vita, del quotidiano, di qualcosa già vivo e presente nel nostro inconscio sia virtualmente quanto atmosfericamente. Bisogna ancora comprendere che TRNC, cioè questa quasi cosa – al pari di un’installazione site specific –, esiste davvero, al pari cioè tutte quelle altre forze o “cose” in grado di toccarci materialmente quanto emotivamente. Uno spettro si aggira in Europa e non è quello che conosciamo, bensì qualcosa di nuovo, di terribile, esso ci intraversa ormai da parte a parte, sia come individui quanto come collettività. Non c’è più tempo o spazio in grado di salvarci, bisogna riprendere in mano la situazione, guardare assolutamente al virtuale quanto al reale accadere delle cose, fare, anche in questo senso, di ogni piano una postazione di tiro.

***

Mi chiedevi come fare a fotografare la notte.

Mi chiedi ancora cosa voglia dire «guardare assolutamente», o guardare «fino a estinzione dello sguardo».

/// [Jean-Marie Gleize, Tarnac. Un atto preparatorio]

***

Tarnac è un’atmosfera, TRNC una semi-cosa?

Quando parliamo di atmosfera, intendiamoci: le atmosfere sono, sì, manifestazioni (fenomeni) di uno o più sentimenti ma anzitutto «uno stato di cose molteplice e caotico, discriminabile da altri proprio grazie alla sua peculiare tonalità atmosferica» (Griffero, 2010) – esperita come “reazione comune” (istantanea e preanalitica), shock pre-intenzionale – che ci invade e ci attraversa tutti, indistintamente, al suo contatto, davanti al suo manifestarsi, alla sua messa in scena (Böhme, 2001).

C’è da comprendere che all’epoca, in Francia, il fenomeno Affaire Tarnac, non deve essere stato diverso da quel sentimento che coinvolge in questo momento l’Italia, non diverso da quel momento in cui “si avverte” lo Stato, in cui “si percepisce” come un governo sia capace di adoperarsi contro la libertà del cittadino, stringendo su di lui sempre di più uno stato di emergenza, di crisi e quindi di sorveglianza (al fine di garantirne un certo e quanto più falso senso di sicurezza).

L’atmosfera fa questo, descrive e definisce la struttura della relazione “emotiva” tra spazio (progettato, vissuto, percepito) e il soggetto, ne arrangia i canoni del suo verificarsi, può determinarne anche in un certo modo le condizioni del suo ripetersi, altrove e chissà quando. Leggere TRNC come un’atmosfera ci permette di dare nome, di delinearne forse la nomenclatura all’interno di quel suo spazio differenziale, cioè all’interno di quell’insieme contingente di pratiche e cose differenziabili che si possono allineare lungo gli assi della territorialità e della deterritorializzazione (Belli, 2013).

L’atmosfera è una questione di corpo vivo, di proprio-corporeo (Leib). L’atmosfera è ciò che affettivamente incide sul nostro habitus e sul nostro vissuto. L’atmosfera di TRNC è l’atmosfera della paura, del controllo, della sorveglianza, della presa di coscienza che lo Stato ci guarda, ci controlla e che ci può anche possedere in qualsiasi posto e in qualsiasi momento noi ci troviamo (senza farsi più tanti scrupoli come è stato per un breve lasso di tempo della nostra storia).

/// [je suis italien, ajoutez les sources les plus utiles du français]

Se poi a questo aggiungiamo che, tutte le città hanno comunque «uno stile particolare, un gergo, un dialetto, […] che viene a volte indicato da un soprannome speciale» (Rykwert, 2000), insomma un’atmosfera, scopriamo anche che TRNC in Francia, a seguito della “situazione” – cioè degli accadimenti ‘assurdi’ che hanno coinvolto una piccola e sperduta comunità delle campagne francesi –, è la sintesi atmosferica perfetta di un clima politico, l’avvertimento a un livello più profondo che tutto e ovunque può essere suscettibile a poter essere rovistato e usato come prova a carico contro di te (Quintane, 2010).

***

«la follia di un ordine»

 

Alle cinque di mattina dell’undici novembre la polizia attraversa Toy-Viam con i cani.

Il paese viene isolato.

Un elicottero sorvola la zona.

 

150 poliziotti

60 della sdat (sottodirezione antiterrorismo)

50 della dcri (direzione centrale dell’intelligence)

40 della polizia giudiziaria di Limoges

 

Iniziano le perquisizioni.

Non trovano

né armi, né esplosivi, né ordigni incendiari, né tondini, né uncini di ferro.

 

Distese le felci, siepi di felci, argini e letti di felci.

 

Una maschera con gli occhi fissi si divora la testa di

un uccello.

 

/// [Jean-Marie Gleize, Tarnac. Un atto preparatorio]

***

L’investimento affettivo di cui si è fatto carico questo piccolo villaggio sperduto della Francia attorno cui sono ruotati gli eventi dell’Affaire Tarnac è estremo.  L’Affaire Tarnac, come vincolo situazionale specifico di un momento storico per la Francia, ha infatti condensato in sé tutti quegli anni che hanno visto (dal 2005 al 2018, o partendo ancora prima dagli anni de L’odio di Kassovitz) lo Stato francese combattere a fasi alterne e isteriche le rivolte, i sabotaggi, l’anarchia, il presunto e non presunto terrorismo, attraverso soprattutto i blitz, gli arresti, le accuse, i processi, la continua riorganizzazione e espansione del suo regime di controllo e sorveglianza.

Gli eventi che hanno sconvolto Tarnac sono il culmine di un vincolo situazione non limitato a un singolo frangente temporale geograficamente circoscritto, rappresentano un’atmosfera politica che occupa un’area oggi fin troppo vasta e che solo in questi ultimissimi anni stiamo iniziando a vivere, a percepire, anche noi. In seno a questo possiamo parlare oltre che di atmosfera, di una vera e propria semi-cosa, «una sorta di cosa intermedia, un ibrido» (Böhme, 2001). Proseguendo schematicamente: una semi-cosa «può fare qualcosa», «può avere anche delle proprietà» e inoltre possiede una certa «individualità», un questo-qui (tode ti).

/// [je suis italien, ajoutez les sources les plus utiles de l’allemand]

E a partire da questo punto che Tarnac. Un atto preparatorio viene scritto, assume forma ma anche sostanzialità. L’autore, Jean-Marie Gleize, non a caso nella contrazione TRNC cerca di racchiudere «le cose [in] un alone di dettagli che si sporge anche sul loro passato e sul loro futuro» (Fränkel-Joel, 1927, in Griffero, 2010). Si può dire ancora del libro su Tarnac che, in senso atmosferico, «la cosa più impressionante è che quello strato che normalmente si vive a malapena e che per il momento solo a fatica posso spiegarmi» (Fränkel-Joel, 1927, in Griffero, 2010), nella prosa poetica di Gleize riesce a fuoriuscire nella sua quasi-interezza, in tutta la sua quasi-vaghezza, nella scrittura che si rivolge a sé stessa (quest’ultimo punto reso anche meno emotivamente e più razionalmente paradossale da Nathalie Quintane in Pomodori, opera strettamente legata a quella di Gleize e più in generale all’Affaire Tarnac).

***

Quella notte il vento soffiava sopra le felci. Il cielo si era abbassato come una saracinesca di metallo.

La scena era quasi invisibile e muta. Si sentiva il rumore di alcuni passi.

/// [Jean-Marie Gleize, Tarnac. Un atto preparatorio]

***

La lirica e la politica si mischiano naturalmente nella nebbia di Tarnac, la politica invade l’estetica, la plasma e tenta di determinarne gli attributi. Qui c’è un tentare (attraverso i mezzi repressivi già nominati) di fare legge su tutto. Vita, ideali e ciò che leggi persino possono determinare un fattore di rischio che lo Stato di controllo non si può permettere, soprattutto se ha come scopo la pacificazione dell’intero territorio, l’applicazione cioè più rapida e diretta di un modello d’essere unico, di una virtuale quanto concreta egemonia di superficie. Concludendo, con Tarnac di Gleize possiamo arrivare a comprendere come, al pari di quanto viene espresso nel testo, dell’Affaire Tarnac (come di ogni altro evento politico di questo tempo) non esiste, né può più esistere solo un’immagine fissa, inquadrabile, geometricamente chiara, bensì per ogni evento (storico, culturale, politico) esiste anche (e con risvolti sicuramente più agghiaccianti) un’atmosfera, quasi-chiara ma precisa, un’aura cioè che trascende – con una sua peculiare agentività -, al di là dei fatti in sè. E da quest’ultima che dobbiamo imparare a stare attenti, guardando assolutamente alla sua capacità di estendersi e contaminare il resto della (nostra quanto fattuale) realtà che ci circonda, diffidando fino all’ultimo di quei vincoli situazionali in cui la nebbia, la confusione e la paura permeano, dove tutto si sedimenta e si apre a nuovi rapporti di significato, sotto la pelle stessa del paesaggio e all’interno del Leib (corpo-proprio) di chi, come Gleize, si è trovato lì (in quel momento quasi-storico) a respirare l’inquietante atmosfera di quell’oscuro stato di cose, in prima quanto in terza persona.

***

E allora che fine fa l’immagine? Si stacca e cade alla velocità del vento. Qui, quando c’era un temporale il vento sollevava le travi di legno e le frantumava.

 

– Io faccio cadere le vocali.

– Ce ne sono due però è una sola, è la prima,

l’unica, la lettera nera, quella dell’inizio,

dentro l’acqua della chiusa o del lavatoio,

quella al centro dell’immagine.

 

TRNC è il nome filmato di questo paesino. È formato da un frammento (giardino recintato), circondato («massa informe»).

 

Tu volevi fotografare la notte. Vedevi le cime degli alberi che si staccavano sul cielo e formavano

come i denti di una sega. Hai tirato a caso, hai lanciato le mani verso l’acciaio duro e freddo che

tagliava il cielo. E hai pensato: «tra Dio e noi non c’è più niente».

 

È questo che vogliono dire le quattro fotografie.

 

/// [Jean-Marie Gleize, Tarnac. Un atto preparatorio]

* * *

Alcuni dei libri citati qui:

Jean-Marie Gleize, Tarnac, un atto preparatorio, Tic Edizioni, trad. it. a cura di Michele Zaffarano, 2024.

Nathalie Quintane, Pomodori, Tic Edizioni, trad. it. a cura di Michele Zaffarano, 2021.

Altri autori citati in ordine sparso:

Griffero, Böhme, Belli e relativi autori già presenti nei lavori di questi ultimi.

A cui si potrebbero aggiungere anche a livello aistetico (per un’estetica come teoria della percezione) anche il testo di Henri Lefebvre: Ritmanalisi, La rivoluzione urbana.

+ + + + + + + + +

Section 3. Poesia, capanne, skené.

Un quasi-manifesto sulla lotta e il poetico

L’unica cosa che abbiamo è il tempo solo il tempo è la nostra capanna

/// [Jean-Marie Gleize, Tarnac. Un atto preparatorio]

* * *

È finito il tempo dei poeti da salotto. La poesia esige, necessita, perché bisogna, un ritorno dentro la storia. La poesia è un affare di partecipazione, poiché ogni posizione oggi di prestigio-culturale è messa in pericolo. Non esistono quindi più rifugi o posizioni sicure in cui nascondersi. La torre d’avorio mai come prima d’ora è sotto assedio, in preda a un incendio decennale, dalle fondamenta si registrano poi ingenti danni strutturali.

L’unica poesia che resiste ancora è quella che si arma in tempo, quella che decide di resistere e combattere. Perché mai come prima d’ora la cultura-tutta è messa a rischio, perché spodestata anche dalle sue comodità: scrivanie in mogano, buoni cappotti, belle poltrone in velluto. A nulla servirà farne della poesia un oggetto

d’arte se non per riempire vecchi e impolverati negozi dell’antiquariato dove vecchie signore, senza una lira in tasca, occupano il loro tempo, passeggiando intere giornate con l’aria di chi potrebbe acquistare tutto e non acquista mai, niente. Come siamo finiti così? Io non lo so. Se lo sapessi, non mi interesserebbe parlarne.
* * *

22. A che punto è la città?
La città tace perché non è più primavera.
La verità è il massacro.
Il massacro è la realtà.

[Roberto Roversi, Il Libro Parardiso]

* * *
È finito il tempo dei poeti, è venuto il tempo della poesia. La poesia è un’arma nelle mani di chi sa usarla. Bisogna sapere come fare. Perché il teatro sarà pure un mondo di parvenza, eppure ciò che vi accade -in linea di principio-, potrebbe accadere anche nel nostro mondo. E poi, cosa succederebbe, come già accade oggi, quando è la parvenza di qualcosa (conflitto–o–estinzione) a prendere spazio nel nostro reale –nostro mondo?

Adesso che le cose si mettono male e sempre più spesso mi trovo qui a dire: bisogna uscire fuori, andare per strada, assumendo come priorità la riappropriazione sociale degli spazi di vita, ciò che offre spiragli per la costruzione di utopie concrete; bisogna armarsi e armare la gente, l’avviso di sfratto sta appeso sulla porta.

La redditività e la produttività – tipiche dell’affermarsi della città ipermoderna, postpandemica e comunque sempre capitalista – distruggono e degradano la vita, a partire cioè dal suo, nostro, quotidiano vivere. In città si deve quindi, anzitutto, creare – come in quel secolo – uno spazio appropriato e appropriabile dagli abitanti.
* * *

33. Oggi è già domani.
Sono in molti a parlare dell’uomo che cammina col
suo passo di polvere e con la pazienza di un frate
per raccogliere cipolle e inoltre per salire sull’albero
delle ciliege.
Da lì si guarda il mondo.
Ma il mondo è rovesciato.

[Roberto Roversi, Il Libro Parardiso]

* * *
Le capanne sono il simbolo di tutto questo. La poetica dello spazio è in grado di rivendicarne l’importanza. Alcune tappe fondamentali: indipendenza, scontro, partecipazione, scontro, indipendenza, riappropriazione. Reclamare il diritto alla città significa riappropriarsi dello spazio e del tempo in base alle esigenze di chi vive lo spazio e non di chi lo sfrutta attraverso la valorizzazione economica. Ogni attività comporta Capitale.

Bisogna imparare a costruire capanne. Luoghi apparentemente inutili, questi non svolgono nessuna funzione economica. Spazio di riunione, di attività, di aggregazione, le capanne sono la nostra nuova casa, il punto di partenza di ogni possibile attività eversiva, dove per eversione si intende lottare per il diritto di sopravvivere.

Il Capitale – va detto – non va ignorato. Il Capitale è un mezzo di transizione e di transazione. Il Capitale va sfruttato al meglio, quando è indispensabile. Non credere mai che nessuno ti aiuterà, che sei solo in questo. Se serve qualcosa nella capanna, chiedi. Suona al campanello dei vicini, raccogli tutto ciò che loro ti daranno.
* * *

79. A che punto è la città?
La città si scuote come un cane.
Il ragazzo ucciso è seppellito
con il rito formale.
Segue la pace ufficiale
con i poliziotti ai cantoni.
In galera centottanta capelloni.
[…]

[Roberto Roversi, Il Libro Parardiso]

* * *
Le capanne accolgono tutti, anche la poesia. La poesia serve, perché la poesia è il mezzo di espressione di chi come me e te, non ha altro con cui difendersi. La poesia parla a tutti, indistintamente. Dalla tua capanna in-festa le strade che ti circondando, sii convincente sulle necessità. Dividi l’utile dal dilettevole. Ora scrivi, stampa e diffondi. Per riappropriarsene, bisogna prendere coscienza di aver invaso e colonizzato uno spazio.

In origine il termine greco skené significava casa, poi tempio, ma quasi subito anche (e già nell’età classica) palcoscenico. Skené è sicuramente uno spazio separato dal mondo e che protegge gli uomini. La poesia è con la skené un valore di necessità poiché è lo spazio di ciò che appare e fa apparire di sé, la sua messa in scena.

Metti in scena il disastro, il fallimento di ogni falso ideale. Usa la menzogna se devi. Il linguaggio è un’arma utile per abbattere il valore astratto del Capitale, la sua cultura, sotto-rivestimento tossico di un realismo tossico. Dai speranza, non farti ignorare. In ogni buca per le lettere, casa per casa, sul tergicristallo delle auto parcheggiate.
* * *

113. Cosa grida la città?
La città dice che l’età dei guerrieri è finita.
Dice che ieri è cominciato il tempo
degli uomini-rana, degli uomini-gabbia
degli uomini-lamento.

114. Ma che non si può finire
col non dire più niente.
Se si tace, il silenzio è la morte.
E nella notte resta solo voce di vento.

[Roberto Roversi, Il Libro Parardiso]

* * *

Qui entra in gioco Bachelard, qui, attraverso quello che potremmo idealmente pensare come il percorso che ha portato in senso lato i Tarnac Nine a rappresentare una perfetta metafora, degna di Matrix. Il punto infatti ruota in primis, nella fuoriuscita dalla città schizofrenica, il recupero in un certo senso di una dimensione primitiva. Come afferma Bachelard stesso «un sognatore di rifugi sogna la capanna, il nido, angoli in cui vorrebbe rannicchiarsi come un animale nella sua tana. Egli si trova in tal modo a vivere in un aldilà rispetto alle immagini umane» (Bachelard, 1957). Le immagini umane sono le immagini dello stato egemone, della condizione iper-urbana, delle asimmetrie strutturali che essa genera insieme al suo costante progredire, attraverso il suo continuo espandersi verticalmente quanto orizzontalmente. La costruzione delle capanne serve a creare delle oasi sicure per tutti quelli che ne hanno bisogno e da là, con i giusti numeri, bisognerà anche cercare di combattere, di appropriarsi prima della via, poi del giardino che sta lì, vicino o di fronte, e solo dopo della città. Continuare a estendere l’oasi finché sarà possibile mettere in scena una contro-egemonia, l’aura di un’utopia concreta che re-esiste nonostante tutto. Certo, ci vorranno anni, ma l’alternativa a questo punto quale sarebbe?

attendere, lasciarsi controllare, perdersi, nel caos degli eventi, diventare l’appendice perfetta di un sistema rotto, che perde e che continuerà a perdere fino al suo atroce e lento smembramento, pezzo dopo pezzo. Non rimarrà niente della macchina -città, -corpo senza organi.

* * *

da alcuni frammenti di Bachelard, presi e incollati alla bene e meglio

La dimensione della capanna è l’elemento privato, il luogo precario,
il terzo incomodo nella dinamica tra soggetto e capitale.
il luogo che riesce però a accogliersi, a nasconderci dalla dimensione
del fuori, dall’estraniamento del fuori.

Nella camera illuminata
dalla lampada, vicina a quella in cui il padre, bracciante e sacrestano, legge la sera
le vite dei santi, in quella stanza il bambino conduce la sua rêverie
di primitività, una rêverie che accentua la solitudine fino a immaginare di vivere
in una capanna sperduta
nella foresta.

Nella maggior parte dei nostri sogni di capanna, ci auguriamo di vivere altrove,
lontano dalla casa affollata, lontano dalle preoccupazioni cittadine. Fuggiamo
con il pensiero per cercare un vero
rifugio.

Le immagini

* * *

da alcuni frammenti di Lefebvre, anche qui presi e incollati alla bene e meglio

  1. [Poesia, capanne, skené] Si forma così questo concetto nuovo: l’urbano. Concetto che va ben distinto da quello della città. L’urbano si distingue dalla città precisamente perché fa la sua apparizione e si manifesta nel corso dei processi di esplosione della città, ma permette di riconsiderare, e anche di comprendere per la prima volta a fondo, alcuni aspetti della città che prima passavano inosservati:

la centralità, lo spazio come luogo di incontro, la monumentalità ecc. L’urbano, cioè la società urbana, non c’è ancora e tuttavia esiste virtualmente; attraverso le contraddizioni tra l’habitat, i processi di segregazione e la centralità urbana, essenziale alla pratica sociale, si manifesta una contraddizione piena di senso.

***

La peggiore delle utopie è quella che non pronuncia il suo nome. L’illusione urbanistica appartiene in proprio allo stato. È l’utopia statale: una nuvola sulla montagna che sbarra la strada. Insieme l’antiteoria e l’antipratica.

Che cosa è l’urbanistica? Una sovrastruttura della società neocapitalista, detto altrimenti del “capitalismo di organizzazione”, che non vuol dire affatto “capitalismo organizzato”. Detto ancora in altri termini: della società burocratica di consumo pilotato. L’urbanistica organizza un settore che sembra libero e disponibile, aperto alla azione razionale: lo spazio abitato. Pilota il consumo dello spazio e dell’habitat.

[…]

L’urbanistica appare così come il veicolo di una razionalità, limitata e tendenziosa di cui lo spazio neutro e non politico, costituisce l’oggetto (obbiettivo).

***

6. La violenza intrinseca allo spazio entra in conflitto col sapere. anch’esso intrinseco allo spazio. Il potere, cioè la violenza, scompone, e mantiene separato ciò che esso ha disgiunto; e inversamente, unifica e mantiene nella confusione ciò che gli conviene.

Per cui il sapere. basandosi sugli effetti del potere considerati come «reali», li convalida in quanto tali. Fra il sapere e il potere, fra la conoscenza e la violenza, non c’è confronto, così come non c’è confronto fra lo spazio intatto e lo spazio frantumato. Quando tutto è dominato, imposizioni e violenze sono ovunque, onnipresenti come il potere.

Lo spazio dominato realizza sul terreno dispositivi e «modelli» militari e politici (strategici). Ma c’è di più: lo spazio pratico porta in sé, attraverso l’azione del potere, norme e imposizioni; più che espressione del potere, esso diventa repressione in nome del potere.

In quanto somma di imposizioni, stipulazioni, prescrizioni, lo spazio sociale raggiunge una efficacia normativa repressiva. strumentalmente legata alla sua oggettualità. accanto alla quale l’efficacia delle ideologie e delle rappresentazioni diventa ridicola. In quanto spazio-trappola, può essere occupato da simulazioni della pace civica, del consenso, della non-violenza, e contemporaneamente contenere le istanze della Legge, della Paternità, della Genitalità.

* * *

da Jean-Marie Gleize, Tarnac. Un atto preparatorio (Tic, 2024)

+ + +

10. LE VOCI INTERIORI, NOI

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(la conferenza si è interrotta, adesso si sente una voce che sta per leggere una poesia)

Sono ancora qui in piedi e mi metto a leggere le Voci interiori. Chiudo gli occhi e vedo distintamente il libro vedo distintamente un sentiero di terra e asfalto le buche sul sentiero i pezzi accecanti di un sogno e la parola immagine le sue grandi lettere nere che galleggiano sopra le pagine sopra le parole e occupano tutta la superficie dello schermo.

Ci sono questi pezzi di cartone che pendono.
È come la testa in cima alla croce, pende,
è sempre più pesante a forza,
è senza forza è come se stesse per cadere
però poi non cade.

E il passaggio porta fino a qui, fino a qui fuori, non faccio differenza tra la parete e il terreno, io sono tu sei noi siamo voi siete nello stesso corridoio.

Passa il tempo.
per scrivere sfrutto gli accidenti del terreno, lo spessore del tempo,
L’unica cosa che abbiamo è il tempo solo il tempo è la nostra capanna
e «il mondo possiede già il sogno di un altro tempo».

Ho deciso di scegliere il mio dialetto

Il fuori è qui e io già possiedo già vivo realmente il tempo lo sto scrivendo a mano in questa lingua,
qui, sul grigio lavagna della lavagna.

[…]

+ + +

11. COSTRUIRE DELLE CAPANNE

+ + +

[…]

 

Nel frattempo l’immagine entra nell’immagine e tutto si confonde con la fotografia degli alberi finché non si arriva a una scrittura deviata.

 

[…]

 

– riparto dalla parola «comunista».

 

[…]

Comunista è questa parola chiusa dentro l’acqua,
questo corpo chiuso dentro l’acqua.
Qui a Tarnac la nebbia si posa sulla superficie
dell’acqua sgualcisce i banchi di felci è notte.

Nessuna rivendicazione nessun messaggio, la
politica come negazione della politica

scendere al fiume
la fotografia che cade sull’asfalto
la luce del freddo e dell’incendio, le salite, le salite
il sentiero per Javaud, il sentiero per Laperée
la scrittura deviata che si spezza in questo modo,
come la voce
come lei
come senza risposta.

Dobbiamo (dobbiamo costruire delle capanne)
Dobbiamo

Conosco un albero
Dobbiamo costruire delle capanne in mezzo agli
alberi
fare letti di felci
bloccare stazioni circonvallazioni autostrade
fabbriche

sfruttare gli accidenti del terreno

* * *

Alcuni dei libri citati qui:

Jean-Marie Gleize, Tarnac, un atto preparatorio, Tic Edizioni, trad. it. a cura di Michele Zaffarano, 2024.

Nathalie Quintane, Pomodori, Tic Edizioni, trad. it. a cura di Michele Zaffarano, 2021.

Gaston Bachelard (1957), La poetica dello spazio, edizioni Dedalo, Bari, 1975.

Henri Lefebvre (1972), Spazio e politica. Il diritto alla città II, ombrecorte, Verona, 2018.

Henri Lefebvre (1970), La rivoluzione urbana, Armando Editore, Roma, 1973.

Henri Lefebvre (1974), La produzione dello spazio, Moizzi Editore, 1976.

 

NOTA: Quasi tutti i versi di Jean-Marie Gleize sono stati riportati in maniera discrezionale. È cura dell’autore del seguente articolo dichiarare che ogni testo è stato debitamente maltrattato e forse anche sfruttato illecitamente per fini comunicativi di tipo personale.

 

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➨ AzioneAtzeni – Discanto Decimo: Pierangelo Consoli

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Ruggero parla a se stesso: “Fuggi”. Dopo trentaquattro anni di strappi alla terra dove hai amato, sofferto e fatto il buffone. Ogni angolo di strada testimonia una tua gioia, un dolore, una paura. In cambio sarò libero. Da Il quinto passo è l’addio, di Sergio Atzeni.  

 

Ruggero nasce grande.
di
Pierangelo Consoli

  È sordo, disse, sfiorandogli un braccio. Puoi smetterla di bisbigliare. Urla pure, se vuoi, tanto non ti sente. Il bambino si sporse dalla barca, sfiorò il mare con due dita e se le portò alle narici. Chiuse gli occhi. Era scuro, il mare, nero, come d’inchiostro. Mi chiamo Ruggero, si presentò e il bambino disse: lo so. È tuo padre?, chiese poi. Mio padre, rispose il bambino, no, e poi sorrise, nascondendo la faccia nell’incavo del braccio come un uccellino. Che fate? Siamo marinai, rispose. Mentre si accorciava le maniche della camicia. Era scalzo, il bambino, con dei calzoni tagliati fino alle ginocchia. Capelli corti, radi sulla testa, neri. Scura anche la faccia, da magrebino. L’uomo, seduto a prua, remava. Era piuttosto anziano, con la pelle dura, le rughe a solchi sotto gli occhi e sulle guance. Un ciuffo che gli copriva la faccia, gli occhi neri, un maglione dello stesso colore. Dove stiamo andando?, volle sapere Ruggero e allora il bambino si rivolse all’uomo che remava e quello mosse la testa oltre la prua, intendendo dire che si andava ancora a largo, verso l’orizzonte, in un punto in cui non si vedeva terra. Il cielo era lavanda e senza uccelli, senza le nuvole. Un lavanda molto tenue, omogeneo, come il dentro di una conchiglia. Per un istante Ruggero pensò che fosse un coperchio e se vi avesse scagliato contro un sasso, quello sarebbe tornato scortato da un tonfo sordo. Senza onde, senza vento e senza uccelli, oltre le loro voci, l’unico rumore che si sentiva era quello cadenzato delle vogate che fendevano il mare. Ruggero si guardava intorno, cercando di orientarsi. Dove siamo?, provò a chiedere e il bambino, paziente, disse: in mare. Lo disse con una naturalezza che avrebbe potuto offendere, eppure Ruggero non si offese. Il marinaio remava senza sosta, senza sentire la fatica. Il bambino, ogni tanto, gli sorrideva. Quando arriviamo?, chiese poi e l’altro disse: presto. Improvvisamente e una alla volta, dal fondo del mare, comparvero delle bottiglie, bottiglie grosse, altre più piccole, bottiglie da fiaba, da pirati, di quelle in cui si accasano le storie degli amanti e degli ossessionati. Una, poi due, poi troppe, talmente tante che il mare ne sembrava invaso. Una meravigliosa distesa di bottiglie ingolfava i remi mentre il marinaio, impassibile, continuava a vogare. Il suono dei colpi divenne un tonfo di cocci nell’acqua colma di vetro. Di dimensioni e colori diversi, le bottiglie galleggiavano placide e immobili, emerse dal fondale tutte insieme. A Ruggero sembrò incredibile e si guardava intorno osservando quelle bottiglie sbocciare sul pelo scuro del mare. Continuarono a navigare lenti, fino a quando fu evidente che il livello dell’acqua stesse diminuendo. Il bambino allungò un braccio, prese una bottiglia e gliela passò divertito. Ruggero si accorse che conteneva un messaggio, tolse il tappo di sughero e lesse:   Con gli occhi della memoria vola per i vicoli del paese dove ha vissuto gli ultimi tre anni, gli pare di udire il ronzio di un calabrone in un pomeriggio silenzioso…   Il marrone del fondale si affacciava alla superficie e la barca si arenava dolcemente come raccolta da mani di madre premurosa. Incuriosito, Ruggero, adesso che la barca rallentava, a sua volta si sporse e prese la prima bottiglia che gli capitava. Era una bottiglia bianca, trasparente. Il bambino ne prese un’altra, mentre Ruggero si apprestava a leggere:   Gli occhi di Monica color carbone… Ruggero era disorientato mentre il bambino gli porgeva un altro foglio che diceva:   Il ventuno di ottobre, seduti a un tavolino del caffè Genovese, immobili guardano la panna sulla cioccolata e lei sussurra: «tu non mi credi».   Sono collegate, disse il bambino quando si accorse che Ruggero non capiva. Lui, cercò di spiegare, le scrive ogni giorno. Scrive le frasi come gli vengono. Intanto la barca si fermava seguendo l’inerzia e si piegò un pochino. Davanti e ai lati, adesso, avevano una distesa immensa di sabbia bagnata, una battigia, che tale rimaneva per chilometri e chilometri. Erano a terra ma non c’era niente intorno, come se il mare, improvvisamente, si fosse ritirato. Le bottiglie erano, adesso, poggiate sulla sabbia. Il Bambino scese dalla barca, con i piedi che affondavano appena sulla sabbia bagnata. Vieni, lo invitò, e quando vide che non si muoveva, disse: togliti le scarpe. Non ti servono più. Ruggero si sfilò gli scarponi, si tolse i calzini. Anche i piedi del vecchio marinaio erano nudi e bianchi come fogli di balsa. Lui non viene?, chiese al bambino e quello gli disse di no. Torna indietro, lo avvisò, deve cercare ancora. Ruggero saltò giù dalla barca e sentì il calore della sabbia sotto i suoi piedi. Un calore insolito e piacevole. Le bottiglie giacevano sul fondale, con dentro l’anima arrotolata. Ruggero avrebbe voluto prenderle tutte, aprirle e schiudere i fogli, liberare tutte quelle parole perché aveva la sensazione che quella storia, sparpagliata e confusa, aveva bisogno di essere ordinata e doveva farlo lui perché, in qualche modo, lo riguardava. Il bambino cominciò a camminare, ma Ruggero non si muoveva. Rimaneva tra le bottiglie chiuse fino a quando non si abbassò per prenderne una. Il bambino vide che estraeva il messaggio e, mentre leggeva, Ruggero s’incupì.   Il chiarore dell’alba permette a Ruggero di guardare il colore degli occhi della madre. Nero.   Dopo aver letto quelle righe, mentre piegava il foglio in quattro parti, Ruggero sentì salire dallo stomaco una tristezza che sopraggiungeva improvvisa e paralizzante. La barca, alle sue spalle, si mosse e il marinaio riprese a remare. Ruggero vide le palanche affondare nella sabbia e fare leva tra le bottiglie. Vide le mani del marinaio che stringevano i remi, la schiena che s’incurvava e la scialuppa muoversi lenta come i pensieri al mattino presto. Era fermo, con i fogli piegati stretti al petto. Fermo tra la barca che si allontanava e il bambino che lo attendeva. Fermo tra quelle pagine ancora chiuse nelle bottiglie, pagine non proprio sue, che raccontavano una vita che cominciava a ricordare. Sentiva, sotto i piedi, un calore innaturale. La tristezza nello stomaco che si scioglieva. Cominciò a piovere, prima alcune gocce e poi altre. Il cielo era ancora dello stesso colore, gli uccelli erano assenti, la sabbia sembrava pulsare, le bottiglie adagiate tremare e la sua tristezza, dallo stomaco, era arrivata ai polmoni e poi alla gola. Le gocce di pioggia presero a scendere più forte, fino a schermare il suo sguardo. Il bambino rimaneva ritto sulle gambette e gli sorrideva, mentre la pioggia si univa alle sue lacrime mascherando la gioia di venire al mondo.

 

* Azione Atzeni- mode d’emploi

di

Gigliola Sulis e Francesco Forlani

‘E scoprirai quello che resta di un uomo, dopo la sua morte, nella memoria e nelle parole altrui’. Sergio Atzeni, Il figlio di Bakunìn Il 6 settembre del 1995, inghiottito dal mare come l’amato Fleba il Fenicio, Sergio Atzeni perdeva la vita nelle acque dell’isola di Carloforte. Sardo, appena quarantenne, era stato militante comunista, anarchico leader studentesco, impiegato insoddisfatto, sindacalista, pubblicista. Dopo la fuga dall’isola, tra l’Emilia e Torino, divenne correttore di bozze, lettore di manoscritti per case editrici, sontuoso traduttore – un testo su tutti: Texaco di Patrick Chamoiseau. Per tutta la vita fu intellettuale rigoroso, poeta e scrittore immaginifico, autore di romanzi-mondo come Apologo del giudice bandito, Il figlio di Bakunìn, Il quinto passo è l’addio, Passavamo sulla terra leggeri, e di una cascata di racconti tra cui Il demonio è cane bianco, I sogni della città bianca, e Bellas mariposas. Come nel Figlio di Bakunìn, pensando oggi a Sergio, ci chiediamo: che cosa resta di uno scrittore, dopo la sua morte, nella memoria e nelle parole altrui? Per rispondere a questa domanda, abbiamo invitato degli autori legati all’opera di Atzeni a dare nuova vita ai personaggi o ai luoghi o alle atmosfere della sua opera. Interpretando, riscrivendo, stravolgendo creativamente, in totale libertà. Un coro di voci diverse per una raccolta di racconti brevi, una rifrazione e moltiplicazione di frammenti post-atzeniani. Assolutamente vietata l’agiografia, e ‘massima penalità per chi si prende troppo sul serio’, come scriveva Sergio in uno dei suoi ultimi articoli per “L’ Unione Sarda”. Nasce così il gioco del discanto*, da intendere sia come far decantare delle buone pagine in nuove storie sia come costruzione di voci in forma di polifonia medievale. * Francesco Forlani ‘Nella Sardegna magica in cerca di Sergio Atzeni, “Reportage”, n.10, 2012, ripreso nel 2017 da Minima Moralia Gigliola Sulis, Chi era Sergio Atzeni?’, “Le parole e le cose”, 22 novembre 2012

Si può seguire il PODCAST su:

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Vita di Durruti

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di Pasquale Vitagliano

Con Morte dell’anarchico Durruti (DeriveApprodi, 2024), Paolo Bertetto rende il suo omaggio alla Catalogna. Chi ha ucciso Buonaventura Durruti, il capo delle colonne catalane, il più coraggioso e amato dei comandanti della resistenza al franchismo?
Il colpo di stato militare del 17 luglio del 1936 guidato dal caudillo Francisco Franco per la difesa della Nazione assedia la giovane repubblica democratica. La Spagna è diventata un laboratorio vivente. Dopo la rivoluzione sovietica, qui si sta sperimentando una variante libertaria che fa ancora più paura ai poteri costituiti, russi compresi. Gli anarchici controllano Barcellona. Socialisti e comunisti sono in maggioranza a Madrid. Come scrive Bertetto, però, la Spagna diventa “un piccolo mattatoio prima del grande mattatoio universale” della Seconda guerra mondiale. Fu anche l’incubatrice delle storiche e fratricide divisioni a sinistra. Una vera e propria guerra interna si combatteva parallelamente a quella ufficiale contro il fascismo franchista. In gioco era la via sovietica al socialismo e il dominio russo nel campo rosso. Anche per questo la grande speranza spagnola fu tragicamente spezzata. Eppure, in soccorso della repubblica erano arrivati in massa, dalla Francia, dall’Italia, dalla Gran Bretagna e anche dall’America. Simone Weil, George Orwell, Ernest Hemingway. In pochi mesi, tuttavia, tutte le correnti di sinistra “erano state ridotte all’impotenza” a Madrid. E anche a Valencia. Resisteva solo Barcellona, la città rivoluzionaria, la città anarchica, come San Pietroburgo nel 1917 e Berlino nel 1918. “Ma anche lì bisognava realizzare la limpieza roja”.
Il 19 novembre arriva un’auto e subito c’è una grande confusione, Durruti è stato ferito. “Bisogna operarlo”, grida uno. “Non deve morire”, grida un altro. La gente urla. Qualcuno minaccia. C’è chi piange. “Dicono che se muore Durruti è la fine dell’anarchia”. Viene adagiato su una lettiga e spinto fino alla sala operatoria. Non c’è più niente da fare.
“Il nostro compagno fermò l’auto e mentre scendeva per ispezionare gli avamposti della sua colonna, risuonò uno sparo. Crollò a terra senza una parola. La pallottola assassina gli aveva attraversato la spalla da parta a parte. La ferita era assolutamente mortale”, scrive il periodico Solidaridad Obrera il 21 novembre 1936. Il sindacato social-comunista incarica la compagna Pilar Valdès di indagare su una morte che resta piena di dubbi. Pilar è anche una giornalista e intende andare fin in fondo, non solo per zelo ideologico. Infatti, la ricerca della verità finirà per condurla dentro una ragnatela dalla quale uscirà viva, solo per fortuna, ma interamente disillusa rispetto agli ideali nei quali credeva.
Ad uccidere il compagno Durruti è stato un cecchino franchista. Questa è la versione più ovvia e sostenibile. Ma c’è anche chi dice che si sia trattato di un incidente, di un colpo partito per errore. È stato colpito da una fucilata o da un colpo sparato a bruciapelo. Infine, ci sono le tesi complottiste, spesso contrapposte, talvolta anche inverosimili. Sono stati i sovietici a decretare la sua morte. No, replicano i comunisti. Durruti stava per prendere la tessera del partito. Ad ammazzarlo sono stati gli anarchici che osteggiavano la sua alleanza con i sovietici. “Lo accusavano di essere diventato un uomo di Stalin”.
Bertetto oltre ad aver scritto molti romanzi (spesso storici) e anche uno studioso di cinema. Da appassionato a mia volta, ho letto visivamente il suo racconto. Mi aspettavo la struggente partecipazione alla sorte degli anarchici massacrati dai compagni come in Terra e libertà di Ken Loach. Invece sono stato risucchiato dentro un’avvincente caccia alla verità inseguendo tracce da spy story magistralmente condotte dall’autore. Da altro punto di lettura, il saggio storico interviene senza fastidio nella fiction, ovvero la narrazione viene ibridata con note storiche che integrano e sostengono l’invenzione letteraria.
Alla fine, non c’è verità che tenga, ovviamente. La forza del racconto è la figura di Pilar. Aggredita, violentata, arrestata dai sovietici, all’inizio del 1939 viene liberata. La storia ha preso un’altra direzione. “In carcere non serviva a niente e la caccia ai trotzkisti in Spagna era finita da un po’. Ma ormai il problema era salvarsi la vita.” Questa era stata l’unica liberazione possibile. Questa sarebbe stata l’unica emancipazione per cui lottare concretamente, specie come donna.

 

Gaza o del doppio tradimento dell’Occidente

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[Questo articolo è apparso in una versione più corta nella rubrica “Il Segnale” de “L’Indice” di ottobre.]

di Andrea Inglese

“La preparazione è giunta a buon punto quando gli individui hanno perso il contatto coi loro simili e con la realtà che li circonda; perché, insieme con questo contatto, gli individui perdono la capacità di esperienza e di pensiero.” Così scriveva Hanna Arendt in Le origini del totalitarismo. Nei settantaquattro anni che ci separano dalla prima edizione nel 1951, in Occidente, e in Europa in particolare, ci siamo persuasi, in virtù di svariate circostanze storiche, dell’inattualità di questa minaccia, anche perché ai nostri occhi essa riguarda una parte di mondo da cui siamo esclusi. Le nostre democrazie hanno sì mostrato, dopo l’euforia dell’ultimo decennio del secolo scorso, fragilità, storture, contraddizioni a volte imbarazzanti, ma in un contesto apparentemente garantito di dibattito critico e di pluralità di posizioni. Sappiamo ora, ne abbiamo le prove, che non è più così. Qualcosa di questo scollamento nei confronti sia dell’esperienza sia del pensiero, sembra riemergere nel discorso pubblico, assieme a un inquietante e tenace diniego di realtà. Il fenomeno è senz’altro profondo e coinvolge varie dimensioni delle nostre società, ma esso ha avuto una sua cristallizzazione evidente nella reazione dell’Occidente “ufficiale” (mediatico e politico) nei confronti di ciò che sta accadendo tra lo stato di Israele e il popolo palestinese.

Prendiamo l’esempio di No Other Land, film di un collettivo di registi palestinesi e israeliani, uscito nel 2024. È stato premiato alle Berlinale e in altri importanti concorsi europei, e ha ottenuto l’Oscar l’anno seguente per il miglior documentario. Nonostante il successo presso gli addetti ai lavori, No Other Land ha provocato la prevedibile censura israeliana, sostenuta proprio dal ministro della cultura. Nemmeno negli Stati Uniti, terra della libertà di espressione, il documentario ha trovato distributori e anche la sua proiezione puntuale ha suscitato polemiche. In Germania, sono invece gli autori stessi, a venire accusati di “antisemitismo” (accusa bipartisan, formulata da un sindaco conservatore e una ministra progressista), in seguito alle dichiarazioni fatte durante la premiazione al Festival del Cinema di Berlino. Di fronte a tali accuse, uno dei registri israeliani, Yuval Abraham, ha risposto così sul “Guardian”: “Essere in Germania come figlio di sopravvissuti all’Olocausto e chiedere un cessate il fuoco, e poi essere etichettato come antisemita, non solo è scandaloso, ma mette letteralmente in pericolo la vita degli ebrei”.

Oltre allo scandalo, si potrebbe parlare di una certa (metodica) illogicità. Il documentario in questione non riguarda Gaza né quello che è accaduto dal 7 ottobre 2023. Si svolge in un villaggio della Cisgiordania tra il 2019 e il 2023. Sostituisce alla formula “territori occupati”, corrente nei discorsi dell’Occidente, alcune sequenze tratte dalla vita quotidiana di famiglie palestinesi alle prese con l’esercito israeliano, con i bulldozer che distruggono le loro case e le loro scuole, con il perito del governo che viene a tagliare le condutture dell’acqua o a far seppellire i pozzi sotto colate di cemento. Si vedono anche le incursioni dei coloni, in genere armati e “accompagnati” dall’esercito”. I Palestinesi sono disarmati, protestano, ricostruiscono come possono le abitazioni distrutte, si rifugiano in grotte accessibili in quell’area geografica. Ogni tanto un soldato o un colono spara, così a bruciapelo, contro qualche palestinese che cerca di respingere vanamente i soldati. Un uomo finisce paralizzato in seguito a un colpo di fucile, un altro muore sul colpo. Per il resto non vi è grande spargimento di sangue, ma una sorta di bullismo su larga scala di una popolazione su di un’altra. Gli uni detengono le armi, i mezzi di controllo e di distruzione, usano le leggi o le dimenticano; gli altri cercano di vivere una vita elementare ma dignitosa, difendendo le loro case, le loro scuole, le loro povere infrastrutture. Se fosse un film di finzione, sarebbe una vicenda distopica a proposito di due specie viventi diverse, in cui la specie tecnologicamente superiore domina incontrastata sull’altra. In questa logica perfettamente ferrea e disperante, emerge però un’anomalia. Qualcosa che non fa tornare i conti: tra coloro che documentano l’accanimento sadico o burocraticamente impassibile, c’è chi fa parte degli occupanti, della società che ha il coltello dalla parte del manico. Nella compartimentazione stagna tra carnefici e vittime, che permette il perpetrarsi del sopruso, vi sono zone incontrollate, in cui si stabiliscono solidarietà difficili, strane, ma impreviste e pericolose. Un israeliano, Yuval Abraham, non sta al gioco politico della potenza occupante: attraversa ogni giorno i due mondi, per fare sì che si sappia in Israele quello che accade in Cisgiordania, nonostante il silenzio dei media “ufficiali”. Per i palestinesi, è un alleato degno di ospitalità, ma il cui supporto pare risibile. Per gli israeliani, invece, nel caso migliore è un giornalista militante, che tratta argomenti d’interesse per una piccola minoranza, nel caso peggiore è un traditore della patria.

Una riflessione ampia su quanto è accaduto e accada a Gaza, la troviamo invece in un libro Feltrinelli uscito a giugno del 2025: Un giorno tutti diranno di essere stati contro, di Omar El Akkad. L’obiettivo del saggio, in realtà, come dichiara lo stesso autore, “non è il resoconto di quella carneficina”, ma piuttosto l’indagine su quello scollamento tra pensiero ed esperienza, che Arendt vedeva come tratto specifico dell’universo totalitario e che oggi s’insinua nel modo in cui il pubblico occidentale percepisce e comprende la carneficina dei gazawi. In questione, nel libro di El Akkad, non è una guerra, tra le tante che emergono in quest’epoca di caos sistemico, né una catastrofe umanitaria ulteriore, rispetto a quelle che già colpiscono diverse aree del mondo: in questione è il primo genocidio del XXI secolo, ossia la reazione militare israeliana contro Gaza, all’indomani della strage di civili compiuta da Hamas il 7 ottobre 2023. Questa reazione militare ha perso quasi subito le caratteristiche di una guerra asimmetrica contro miliziani nemici, per rivelarsi un’impresa di distruzione sistematica della popolazione civile e del suo territorio densamente abitato. Lo scenario si è ulteriormente aggravato, poiché Israele ha intenzionalmente provocato una carestia nella Striscia, dapprima colpendo i mezzi di sussistenza gazawi (sistema agricolo e industria ittica) e, in seguito, realizzando il blocco degli aiuti internazionali (cibo, medicine, carburante). Sappiamo quante resistenze ha suscitato e suscita l’uso del termine che designa il supremo e più ignobile crimine che gli uomini possono compiere su altri uomini. Ma secondo l’autore, dietro la controversia terminologica, complicata dalla memoria della Shoa e degli altri genocidi, è una soglia epocale quella a cui siamo tutti confrontati: le democrazie liberali d’occidente, e quelle che con esse s’identificano come Israele, non si sentono più limitate dalle loro contraddizioni, dal loro agire secondo due pesi e due misure, e rivendicano platealmente la necessità della guerra fuorilegge, in dispregio di quelle norme e convenzioni internazionali che, dal dopoguerra, avevano fondato il programma di un ordine mondiale non basato esclusivamente sui rapporti di forza. Come i partiti e le correnti di estrema destra, all’interno delle nazioni occidentali, prendono a bersaglio le costituzioni democratiche e antifasciste, così, a livello internazionale, assistiamo agli attacchi da parte di Stati Uniti e Israele dell’ONU, delle sue diverse agenzie e di tutte quelle ONG, che per decenni hanno costituito il fiore all’occhiello dei regimi democratici. È di questo, in definitiva, che ci parla Omar El Akkad. Anche se il massacro dei bambini, delle donne, dei dottori, dei giornalisti di Gaza, non ci riguarda, perché non si tratta di gente come noi (bianchi, europei, relativamente ricchi, laici, ecc.), quel massacro distrugge puramente e semplicemente la nostra identità morale, ossia distrugge il nostro orizzonte di valori.

Di questo “orizzonte di valori”, El Akkad ne sa qualcosa, in quanto egli non ne è semplicemente erede, come ogni buon nordamericano o europeo. Egiziano di nascita, cresciuto in Qatar, emigrato in Canada, e residente, ora, negli Stati Uniti, El Akkad ha scelto, come molti individui provenienti dal Sud del mondo, di fare propri questi valori, pagando l’inevitabile prezzo di uno sradicamento, di una parziale rinuncia nei confronti della propria cultura d’origine. Lo racconta apertamente nel suo libro: “Volevo quell’altrove, quella parte del mondo in cui credevo esistesse un tipo di libertà fondamentale. La libertà di diventare qualcosa di meglio, la libertà che deriva dall’essere trattati in modo equo nel rispetto dell’ordine pubblico e delle norme sociali”. In lui non c’è nostalgia nei confronti né dell’Egitto né del Qatar, paesi in cui ha toccato con mano la crudeltà e l’arbitrio del potere. Nello stesso tempo, è consapevole di far parte della storia di quei colonizzati che, per offrire ai propri figli un futuro migliore, hanno accettato linguaggio e forme di vita dei colonizzatori: “Questa è la lingua che parlano, queste sono le usanze che praticano, e, se vogliamo che i nostri figli abbiano qualche possibilità qui, devono conoscerle alla perfezione, altrimenti saranno condannati a una vita da niente”.

El Akkad è giornalista e romanziere, e ha iniziato la sua carriera di reporter di guerra, nel momento in cui gli Stati Uniti, dopo l’11 settembre, lanciavano la loro campagna contro il “terrore”. È stato in Afghanistan e a Guantánamo: ha potuto essere testimone diretto, quindi, delle atrocità e ingiustizie commesse in nome dei valori occidentali di libertà e democrazia, così come, da professionista del quarto potere, ha assistito alla perversione del discorso pubblico, sottoposto ai precetti, ben introiettati, della propaganda occidentale: mezze verità, eufemismi, contesti lacunosi, accomodamento dei “fatti”. “Sapevo bene che c’erano crepe profonde, terrificanti nelle fondamenta di quella cosa chiamata mondo libero. Eppure, credevo che le crepe potessero essere riparate”, scrive El Akkad. Dopo l’autunno del 2023, è risultato chiaro a lui, come a un’ampia parte della popolazione mondiale, che il sogno democratico-liberale si è infranto irrimediabilmente in mezzo ai cadaveri e alle macerie di Gaza. Non è un perseverante marxista, che lo scrive, o qualche adepto del pensiero critico, che da sempre guarda con sospetto le “proprie” istituzioni liberali. Non è nemmeno un ingenuo studente rivoluzionario, che crede ancora alla possibilità di un altro mondo. Per questo motivo, lo sguardo di EL Akkad ha una profondità di campo, che nessun bianco occidentale possiede. Una profondità che nasce, dall’aver subito un doppio tradimento. Come ognuno di noi, educati a scuola all’importanza del ragionamento autonomo e critico, alla scrupolosa oggettività del pensiero scientifico, all’ammirazione della resistenza alla tirannia, all’apprendimento del “Mai più!” attraverso gli orrori delle storia, come ognuno di noi, insomma, figli delle democrazie occidentali, anche El Akkad, cittadino egiziano-canadese, è stato tradito. Tradito da tutti quegli atti politici, diplomatici, economici, giornalistici, che negano, nella società degli adulti, ciò che quella stessa società ha trasmesso per anni alla propria gioventù come principi e valori irrinunciabili. Ma il figlio di immigrati egiziani EL Akkad è stato tradito una seconda volta: egli infatti portava con sé il peccato originale di essere un arabo dalla pelle scura, un non-occidentale. Per questa ragione gli è stato detto: rinuncia a quello che sei, perché non vale nulla, e diventa come uno di noi. Noi non abbiamo nulla a che fare né con la barbarie, né con la viltà che tace davanti a essa. E il giornalista, romanziere, egiziano-canadese ha voluto crederci, nonostante la guerra in Afghanistan e le prigioni a Guantánamo, fino all’autunno del 2023. Poi è iniziata la distruzione di Gaza e il massacro sistematico dei gazawi.

Lackawanna (e altri fantasmi)

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Di Isabella Livorni

 

Lackawanna

Caseggiati. Camere che contengono.
Binari, pompe funebri,

i becchi dei dottori della peste
sospesi alle pareti dove
i don fanno facce da pesce,
mozzicano mezze parole
(l’America in cella).

Quaggiù le strade portano
i nomi propri di vari uomini
—uomini che sconosco.
Palafitte nell’acqua come denti spezzati
tagliano la strada al tuo stato, il tuo molo
un trabocco, una piattaforma di legno
scadente sotto il peso dei pesci.

Le travi il bilico mentre cammino.
Il gelo del boardwalk senza sale.

 

 

 

arrampicata a raiano

beatatté che tieni un corpo giovane e forte
e fai tutto ciò che la testa ti dice di fare.
noi teniamo i pollici storpi e cioppi, le ossa fraciche,

ma tu comandi le giunture, le pieghi e le fletti.
punta gli occhi sui nostri punti d’incontro:
rapidi vettori di partenza.

rintaniamo. ci strascichiamo.
dinanzi alla pietra impara.

 

 

 

–1

Forse nel Texas, o in Louisiana
un marito ammazzò sua moglie.
Il processo non si fece mai.

Un secolo più tardi, i parenti
non sentono lo strappo: muscolo
antagonista tende dentro

l’arte fantasma; l’elaborazione
del lutto ha luogo nella lacuna.

Da quarant’anni sulla testa delle
donne: si elimina con pochi
colpi di spazzola, oppure

di pistola—ma come preferisci,
a me non cambia molto. Se poi ti
getto il giornale in faccia, devi

ringraziare ché non lascia un livido.

Dove dormi, su quali superfici
ti riposi? La lacca risplende
a piccoli e brevi spruzzi

sui bigodini, le ciocche, capelli
piegati come gli arti di un corpo
morto occultato in un carrello

della spesa. Gli scarichi arrangiati:
castelli, rifiuti accatastati
per dare la forma voluta.

 

 

 

Sotto la stella del cane (The Deplorable Word)

It was a dull, rather red light.
Low down and near the horizon
hung a great, red sun:
a sun near the end of its life,
weary of looking down upon that world.
The water had long since vanished,
and it was now only a wide ditch of grey dust.

A sinistra del sole, un po’ più in alto, c’è
un’unica stella: grande e luminosa.
È d’estate che Sirio brilla più forte—
l’immagine di un mastino che feroce
ti azzanna e non ti molla più.

La canicola torna sulla pianura padana.
La nostra guida ci dice
che pure questi paesi sono costruiti
su friabili rocce di origine vulcanica.
Il gran lago salato, un tempo,
giungeva fin qua. E adesso
si è posto l’obiettivo di tornarci.

Si sta espandendo:
una lunga esondazione al rallentatore.
Le coste verranno sommerse;
la terra cederà passo dopo passo
all’avanzata silenziosa del mare.
Le gialle teste dei girasoli ruoteranno sugli steli
in un movimento attenuato dalla pressione subacquea.
Non si accorgeranno di aver oltrepassato lo sboccio.
Lasceranno i segni dei petali nella sabbia,
pietrificati come ammoniti; preverranno
la cancellazione delle loro vite
dall’archivio fossile.

Il disco rosso ci sorveglia.
Il problema è che il volere lo vogliamo far nascere da tutte le parti.
E mo’ cambia canale; anzi, rimuori.

 

 

 

Nubilato

Filomena, con fili rosa e blu,
tesse stama e stama.
Chiedere scusa è un colpo di pistola;
permesso è una lama sulla pelle.
Lo sai che questo paesino non è
abbastanza grande per entrambe?
Lascio cadere il temperino
e una goccia di sangue schizza sul telaio.

Filomena al galoppo
scappa per la steppa.
L’agave la infilza quando cade;
fusto di ferro, palo santo,
giace trafitta tra le foglie carnose.

Filomena mi chiama. La sua voce
è il fischio del treno, è l’ululato
del coyote, è il boato del bisonte
che si estingue nella grama azzurra.
La cavalco e sento il suo respiro;
il sangue che fiorisce sul vestito
è un bocciolo in mezzo all’erba secca.
Gli elettroni nell’aria raccolti
intorno al suo corpo supino:
aureola energetica che mi nutrirà.

 

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Isabella Livorni è poeta, studiosa e traduttrice italo-americana; insegna lingua, letteratura e cultura italiana a New York. I suoi interessi si situano all’incrocio tra sperimentazione letteraria, pratiche translingui e poetiche della traduzione, con particolare attenzione alla produzione italiana e diasporica dal secondo dopoguerra a oggi. Formata anche in ambito musicologico, indaga il rapporto tra testo e suono, esplorando le modalità con cui la dimensione acustica contribuisce alla costruzione di soggettività e alterità. Al centro di questa serie di inediti c’è l’esperienza della differenza linguistico-culturale come processo che non può risolversi: la traduzione come poetica del movimento, non come punto di arrivo. Nei suoi testi cogliamo una trama di lingue, tempi e luoghi che non si fondono ma si toccano, si mancano, e si trasformano a vicenda, anche attraverso la loro presenza fantasmatica.

La Resistenza al di là delle celebrazioni (1970)

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di Oretta Bongarzoni

Paese Sera, 25 aprile 1970

Per i giovani la Resistenza non solo continua, ma rinasce. Dicono: «I problemi sono ancora tutti in piedi, quindi non c’è che da andare avanti».

ESISTE la Resistenza? Oppure è soltanto esistita? Intendiamo chiedere: venticinque anni di vita, dalla primavera del ’45 a quella del ’70, sono il lungo ponte lanciato fra la vecchia vittoria e le lotte che si rinnovano, o somigliano a una balaustra massiccia e separatrice, da cui ci si affaccia a guardare il passato? Più di novemila giorni vissuti scavalcando la velocità del suono, della luce e del pensiero, insieme con i razzi e le missioni siderali, ci hanno trasformato in creature troppo vecchie o troppo giovani e insofferenti per avere voglia di voltarsi indietro, verso la strada alle spalle? La Resistenza è l’ultimo capitolo del «programma storia moderna» che comincia con una guerra durata anni e combattuta da processioni di cavalieri con la spada: o il prologo necessario di un’età nuova?

Raccontata in gran fretta

Nei libri di scuola, i diciannove mesi della guerra partigiana vengono di solito raccontati in gran fretta: poche righe «obbiettive» su una guerra civile tristissima nella quale il fratello versò il sangue del fratello, rovinando così una bella pagina di lotta contro lo straniero invasore. E questa sarebbe già una risposta, dal momento che veli pietosi e bugiardi si stendono sempre sugli oggetti che bruciano. Però esiste anche il fenomeno della retrodatazione millenaria. È significativo che oggi l’uomo preistorico susciti maggiore interesse di quello storico: dai trattati intelligenti e pignoli degli antropologi, agli allegri «antenati» dei fumetti che fanno ciao ciao ai missili e vanno in gita alla base spaziale. Si direbbe che il conterraneo dell’astronauta cerchi un messaggio diretto proveniente dalle caverne: come se si fosse svegliato all’improvviso, nudo e crudo, nell’anno zero. E la storia? Spazzata via dalla scienza totalitaria. Anche questa potrebbe essere una risposta: se non fosse equivoca e pericolosa come tutte le asserzioni che tagliano corto, spazzano via e magari trasformano questo 25 aprile in una celebrazione infiocchettata, cerimoniosa, piena di aggettivi e segnata in rosso sul calendario. Del resto in ogni celebrazione c’è il desiderio di annientare l’oggetto celebrato, fingendo di esaltarlo.

Una battaglia quotidiana

«E poi di quale celebrazione andiamo parlando?» esclama un giovane sindacalista della CISL, che si chiama Paolo Paramucchi. «La Resistenza non è mica finita; e non finirà finché le sue ragioni ideali saranno tenute in così poco conto. Si tirano fuori le parole libertà, giustizia, democrazia, rispetto della dignità umana (parole a cui gli uomini che vissero davvero la Resistenza davano un preciso significato). La libertà non è completa se non esiste ancora la libertà dal bisogno, dall’alienazione, se nelle fabbriche la libertà continua ad essere un obiettivo. La giustizia non si è realizzata se per vivere centinaia di migliaia di uomini emigrano o sono costretti a condizioni di lavoro disumane e con salari di fame. La democrazia rischia di essere un inganno amaro quando le occasioni di partecipare alle scelte politiche sono così rare e si devono appaltare le decisioni ai pochi che nelle segreterie dei partiti le gestiscono».

«E intanto c’è chi finge di credere che Agnelli e l’ultimo operaio della Fiat contano allo stesso modo perché danno un voto a testa. In Italia si rispetta la dignità umana tollerando le condizioni di vita di migliaia di famiglie nelle baracche, alla periferia delle grandi città; si rispetta la dignità umana e si consente lo sfruttamento nelle fabbriche e una sopravvivenza spaventosa in tante campagne. Guardiamo al di là dei nostri confini: dove c’è una parvenza di libertà, manca la giustizia; dove si persegue la giustizia, la libertà è un bene dimenticato. Guerre, bombardamenti, torture sono il tragico contorno di tutto questo, e spesso – cosa gravissima – c’è il tacito assenso dell’Italia ufficiale».

Rivoluzionari e scandinavi

Cinque anni fa, l’argomento Resistenza avrebbe diviso i giovani in due schiere: da una parte, un’indifferenza tecnica galleggiante in un sogno di benessere scandinavo; dall’altra, un’impazienza «rivoluzionaria» pronta a gettare pietre sulle cose vecchie e ansiosa di inventare le barricate «vere». Qualunquismo da miracolo economico ed esplosione generosa ma sterile erano — ciascuno a suo modo — la radice quadrata di un costume e di una mentalità cosmopolita antichi quanto l’impero romano e «benedetti» a suo tempo dalla chiesa cattolica, romana e universale. Cinque anni fa, la Resistenza era per i giovani la presa della Bastiglia, la battaglia di San Martino, il viva l’Italia di Giuseppe Verdi. Oggi è un fatto ovvio. Continua. Rinasce attraverso la rabbia organizzata degli operai che si sanno forti, attraverso i cortei degli studenti e le nevrosi sbigottite dei piccoli borghesi che forse non sono più capaci di giuocare con l’automobile giallo-banana o con i servizietti di plastica per andare a mangiare felici sull’erba.

Sempre attuale

«Che cosa è per te il 25 aprile?» I giovani reagiscono con stupore, fastidio, imbarazzo. «Perché lo chiamano anniversario della liberazione?» chiede Roberto Brancaccio, V anno all’Istituto tecnico «Enrico Fermi». «Non fu soprattutto una rivoluzione? E allora bisogna avere il coraggio di dirlo, altrimenti è come non averla fatta. Liberazione dallo straniero: certo, così ognuno può gonfiarsi di orgoglio patriottico e la Resistenza diventa qualcosa di simile alla conquista di Trento e Trieste: qualcosa da impacchettare e da applaudire a distanza. Molto comodo ma sbagliato».

«E allora, cosa bisogna fare?».

«Bisogna continuarla, quella rivoluzione. I problemi di allora sono stati risolti? No, sono ancora tutti in piedi; quindi non c’è che da andare avanti. E invece nel ’45 calò il sipario addirittura».

«Non poteva non calare – afferma Raoul Mordenti, che fa parte del movimento studentesco universitario e che non ha troppa voglia di rilasciare dichiarazioni («il movimento è in una fase delicata, forse non è opportuno esporsi, noi stiamo lottando per raggiungere un equilibrio interno…») – Non poteva non calare perché ci furono gli accordi di Yalta, le basi americane in tutta Italia e delle forze popolari ancora esigue». Sorride, con uno sguardo trasparente e spavaldamente mansueto: per lui oggi non scade un bel nulla perché tutto deve ancora scadere.

Mauro Casotti fa il V anno di ingegneria e allarga le braccia: «La velocità ultrasonica, i razzi interplanetari, gli anni che sono secoli? Sarà anche vero, ma accanto a questo esibizionismo fantascientifico ci sono anche guerre “artigiane” e terribili come quella combattuta dai vietnamiti. Lo so, lo so, è un luogo comune ormai ma io continuo a ripeterlo. I modelli della Resistenza si rinnovano ancora oggi, dal Vietnam al Guatemala; e quindi esistono, fanno parte della storia come l’avventura della Luna. Anzi di più, perché quelli costano sangue e questa solo miliardi di dollari. E voglio dire anche che la corsa allo spazio, se non ci fossero sulla terra i partigiani vietnamiti e i guerriglieri dell’America Latina, sarebbe solo uno scandalo ignobile. Così, invece, è una speranza per quelli che verranno dopo; per coloro che, come dice Brecht, dovranno pensare a noi con gentilezza».

Suor Antonia Maria

«Lei pensa che il mondo sia gentile?», domandiamo a Suor Antonia Maria, 25 anni, infermiera in una clinica di Monte Mario, due occhi lucidi e chiari come castagne e molta paura che il nostro colloquio venga scoperto da una madre superiora dolce e vendicativa.

«Il mondo gentile? Oh no, è terribile, più terribile delle grandi calamità della Bibbia.
«Per questo è diventata suora e crede nell’aldilà?».
«Io sono diventata suora anche perché ero povera. E credo in Dio. Ma faccio l’infermiera per aiutare gli altri».
«Sa che cos’è il 25 aprile?».
«È la festa della Liberazione. È una bella festa, io sono d’accordo».
«È d’accordo perché fu la fine della guerra?».
«Gli italiani hanno fatto bene a combattere contro i tedeschi e contro i fascisti. Io… avrei voluto esserci».
«E avrebbe sparato?».

Arrossisce e ha un’aria spaventata: «Non lo so se avrei sparato. Ma avrei voluto esserci».

«Quelli della guerra e della Resistenza le sembrano fatti lontani, passati, o attuali e vivi ancora oggi?».
«A pensarci sembrano cose lontanissime, ma poi se ci si guarda intorno si vede che la gente muore e soffre come sempre. E allora si capisce che il mondo è ancora allo stesso punto, nonostante tutto, e si vorrebbe fare di più. Ma per favore non mi chieda altro, io debbo andare via». E scappa, bianca e grassottella, per il corridoio di linoleum verde sorvegliato da una madonna che tiene in mano una lampadina accesa.

Un salto compiuto

Per ultimo, incontriamo un giovane netturbino che si chiama Sergio Ferrante ed è iscritto al partito comunista. «Il 25 aprile non è la fine della Resistenza ma la fine della lotta armata. Dopo, è continuata e continua ancora, nonostante quelli che allora hanno combattuto e che oggi sono d’accordo con la Nato. Da dove nascerebbero, se non da quella spinta, le rivendicazioni degli operai, degli studenti, di tutti coloro che non sono d’accordo? Noi le vediamo le grandi masse che si muovono e crescono e parlano. Chiedono sempre di più e ottengono sempre di più. Esplodono oggi ma sono lì, pronte, da più di vent’anni. E lo sanno tutti, a cominciare dai partiti conservatori: tant’è vero che dal ’45 ad oggi, hanno tentato più di una volta i colpi di mano, dai tempi di Scelba, al Sifar, alla repressione organizzata in questi ultimi tempi».

L’odio per la memoria enfatica

Parla con calma, pazienza, durezza, per quasi un’ora. E il 25 aprile è dimenticato, perché non si può parlare di un ricordo quando si ha a che fare con la realtà. È la migliore conferma di un salto compiuto. È l’odio per la memoria enfatica. È la diffidenza verso coloro che dalle poltrone ufficiali allargano le braccia e dicono: «Ecco qua, ragazzi, sappiate che tanti anni fa siamo stati bravi anche noi». I giovani dell’Italia del ’70, dinanzi a questi discorsi, socchiudono gli occhi e neppure si irritano più. Hanno lo sguardo adulto e le bocche infantili. Vestono male, dormono poco, non sanno tradurre il greco, perdono tempo. Ma corrono per le strade tutti insieme cantando «viva la libertà» e imparando che la libertà non è una parola meravigliosa, ma è il gesto di una dura disciplina.

Sono «ammalati» di politica ma non si tratta solo di una moda, dal momento che hanno il coraggio, in nome della politica, di usare un linguaggio troppo noioso. Corrono verso la politica perché debbono capire e sanno finalmente che non vi sono altre strade. Sanno — come disse Giaime Pintor che morì partigiano a poco più di vent’anni e che quindi è loro coetaneo — che «non ci sono individui insostituibili e perdite irreparabili. Un uomo vivo trova sempre ragioni sufficienti di gioia negli altri uomini vivi, e tu che sei giovane e vitale hai il compito di lasciare che i morti seppelliscano i morti». Perciò lasciano ad altri il compito di «celebrare» il 25 aprile.

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Nota

Ecco un articolo su 25 aprile e Resistenza che arriva da un altro tempo. Quando parlare di guerra civile era ancora politicamente, e storiograficamente, un gesto reazionario. In piena esplosione di eventi planetari o locali che oggi sembrano ancora più lontani della stessa Resistenza: la conquista dello spazio, il Vietnam, il movimento studentesco e operaio dopo il ’68, l’esistenza di un partito comunista italiano. È un piccolo documento storico, un’inchiesta pubblicata da Oretta Bongarzoni, una giornalista, nel 1970 su Paese Sera, quotidiano popolare italiano “fiancheggiatore” del Pci. Ha le sue suggestioni, in quest’anno, il 2025, altrettanto celebrativo del 25 aprile, sul quale anche su Nazione Indiana abbiamo ampiamente lavorato. Ha qualcosa, molto o poco, da dirci. Ognuno si faccia la sua idea. Parla persino una suora (idea geniale). Parla un coro neanche troppo sommesso di insoddisfazioni di classe e generazione, e critica dell’esistente, dell’eredità, della celebrazione sterile. Allora come oggi la più importante festa laica italiana divideva le menti dei più lucidi tra fierezza e frustrazione.

Quella giornalista, l’autrice, prima o poi dovevo dirlo, era mia madre. Pubblico questo suo articolo in una settimana sempre complessa per me che si apre col giorno della sua nascita (oggi, 3 novembre 1939) e si chiude col giorno della sua morte (9 novembre 1995). Sono quindi trent’anni esatti dalla morte di mia madre e qualcosa dovevo fare per ricordarla “pubblicamente”. Approfitto (spero, senza avere esagerato) della libertà di espressione e pubblicazione che mi consente Nazione Indiana, rivista alla quale ho la fortuna di appartenere. Addiopiacendo tra un paio di mesi compirò gli anni che aveva mia madre quando morì, e inizierò a superare la sua ultima età. Non ha visto quasi nulla della mia vita e io non ho potuto accompagnare il prosieguo della sua. Avrei voluto vedere mia madre divertirsi molto più a lungo. Fu giornalista negli anni ’60-’80, in un ambiente professionale e in un tempo storico di dominio maschile. Faceva i turni di notte al giornale e una mia maestra la convocò pensando che fosse una prostituta. Per dire dei tempi. Era invece redattrice, breadwinner, capofamiglia. Oggi voglio ricordarla col rispetto che merita. E chi passa di qui, se vuole, lo faccia insieme a me (d.o.).

Via dalla pazza folla olimpionica

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di Gianni Biondillo

Anche a costo di apparire irrispettoso, quando penso alle Olimpiadi invernali che si terranno fra circa tre mesi, mi viene sempre in mente Enrico Berlinguer quando, nel lontano 1981, parlò della “spinta propulsiva” della Rivoluzione d’Ottobre ormai esaurita. Ecco, con dimensioni ben più modeste, lo associo, e giuro senza ironia, alla spinta propulsiva che inebriò i milanesi quando decisero di proporre nel 2006 la candidatura di Milano a EXPO2015.

Io c’ero. Fu un’ubriacatura collettiva. Tutto era Expo, in quegli anni, anche cose che con l’Esposizione universale non c’entravano nulla. Tra l’altro, nessuno davvero aveva capito cosa fosse, a cosa servisse. Ma l’improvvisa riapparizione di gru e cantieri che stavano trasformando radicalmente il volto della città fu, nell’immaginario collettivo, addebitata tutta ad EXPO2015.

Io c’ero, insisto. E scrivevo dell’inutilità di una Esposizione Universale in un mondo dove le merci, le novità, l’innovazione, erano a portata di un click. Che insomma Expo serviva solo a restituire l’idea che Milano fosse di nuovo una città globale, dopo che gli scandali di Tangentopoli ne avevano appannato e affannato l’immagine. Operazione di marketing urbano oggettivamente riuscita. Era dalla Swinging Milan degli anni Ottanta – la Milano prêt-à-porter del compianto Giorgio Armani raccontata da Martin Scorsese in Made in Milan – che la città non si dava così tante arie. Era diventata la “Place to be”.

La città dove esserci. E io c’ero. Quale sia stata poi la legacy di Expo non lo sa nessuno, anche perché nessuno sa per davvero di cosa trattasse. Di Food? Di Global Experience? (“eredità”, “cibo”, “globale”, “esperienza”, tutte parole che dal 2015 non esistono più nell’italiano corrente). Qualcuno si ricorda di Foody? Qualcuno sa dirmi cos’era e a cosa sia servita la “Carta di Milano”? Eppure Expo, per davvero, mise in moto l’immaginario collettivo. Fu la spinta propulsiva.

Ebbene, oggi, con un evento altrettanto globale e mediaticamente molto più importante quale quello delle Olimpiadi, sembra che la cosa non interessi più a nessuno. La spinta al posto di rinvigorirsi s’è esaurita. Non c’è più alcun cuore di milanese che batte all’avvicinarsi di questo evento globale. Cos’è successo?

Ripeto, io c’ero a Expo e ci sono oggi per le olimpiadi, ma sono in un certo senso un’eccezione. Oggi un milanese su tre non era qui quando Milano vinse la candidatura battendo Smirne. Quei milanesi che volevano Expo hanno vissuto gli ultimi quindici anni vedendo impoverire la loro condizione lavorativa, abitativa, sociale, fino a fuggire da Milano, dato il costo insostenibile di una città diventata una “Place to buy”. Chi voleva Expo o se ne è andato o ha l’età della pensione (che però viene continuamente spostata sempre più in là).

Non esiste nulla come lo sport che riesca ancora a stimolare entusiasmi nazionali senza scomodare i nazionalismi. Cioè a farci sentire italiani, fratelli, solidali, senza che la cosa sia un problema di schieramento partitico. L’ultimo rito popolare, dopo che le elezioni politiche sono ormai ad appannaggio di una schiacciante minoranza. Nonostante ciò i milanesi, quelli vecchi e quelli nuovi, non credono più neppure alle olimpiadi. Quasi tre settimane di gare, atleti, giornalisti, televisioni, confusione, traffico. E poi? Cosa resta alla città? Qual è la legacy? Lombardia e Veneto credo siano le due regioni che più hanno rimpinguato il medagliere nazionale. Lo sport di base, qui, non ha bisogno di stimoli (ai milanesi basterebbe che le piscine pubbliche non chiudano, come invece sta accadendo). Cos’altro? Qualche impianto nuovo, qualche impianto rinnovato, qualche strada asfaltata. E il villaggio olimpico che diverrà uno studentato (privato, ovviamente). Ottimo. Tutto qui?

È il potere d’acquisto in picchiata degli stipendi medi, i sette euro per un chilo di pane, la carta igienica da portare a scuola, l’emigrazione della gioventù qualificata verso nazioni più ricettive, la paralisi della borghesia produttiva (e innovativa) trasformata in borghesia finanziaria indifferente ai destini della città, è questo quello che interessa oggi al popolo milanese. Che interessa a me. Non certo fare la fila (si prevedono due milioni di spettatori) per acquistare un biglietto per una gara o un evento (sperando che i cambiamenti climatici non ci regalino, beffardamente, un febbraio poco invernale).

Fossi furbo, cosa che non sono, per quelle settimane affitterei a costi proibitivi casa mia e con quel guadagno me ne andrei su qualche isola tropicale a rilassarmi. E magari a guardarmi le olimpiadi in televisione. Cosa che non escludo molti milanesi sicuramente faranno.

(precedentemente pubblicato, il 30 ottobre scorso, su Repubblica-Milano)

Mots-clés__Foglie

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Foglie
di Paola Ivaldi

Serge Gainsbourg, La chanson de Prévert -> play

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“Foglie morte” (1961) di Nazim Hikmet, da Poesie d’amore, Arnoldo Mondadori Editore (2006), traduzione di Joyce Lussu, pag. 115.
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Veder cadere le foglie mi lacera dentro
soprattutto le foglie dei viali
soprattutto se sono ippocastani
soprattutto se passano dei bimbi
soprattutto se il cielo è sereno
soprattutto se ho avuto, quel giorno,
una buona notizia
soprattutto se il cuore, quel giorno,
non mi fa male
soprattutto se credo, quel giorno,
che quella che amo mi ami
soprattutto se quel giorno
mi sento d’accordo
con gli uomini e con me stesso
veder cadere le foglie mi lacera dentro
soprattutto le foglie dei viali
dei viali d’ippocastani.
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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. La prima domenica del mese Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a:  ornellatajani@hotmail.it Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

La cerimonia del possibile

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di Paolo Morelli

L’antico filosofo Sesto Empirico diceva che chiunque cerca qualcosa arriva a questo punto: o dice che l’ha trovata, e che non si può trovare, o che ne è ancora in cerca. Tutta la filosofia è divisa in questi tre generi, diceva.
Se questo è vero, La vita che brucia di Edoardo Camurri (Timeo Editore, 18 euro) appartiene certamente al genere numero tre. Con una particolarità: il Qualcosa si trova ad ogni istante durante il cammino, ed anche nell’attualità del rendere partecipi gli altri delle proprie scoperte, perfino con l’urgenza di avvertire di una possibilità che si è intravista.
Un libro di filosofia dunque, non però nel senso corrivo e ormai quasi unico di esibizione culturale, bensì “la filosofia, in questo libro, sarà un fenomeno atmosferico, un discorso che scaturisce e si sviluppa nella vita di un giorno, seguendo e sentendo il percorso del sorgere e del tramontare del Sole, dalla notte all’alba”.
Il libro si trova a fare un dittico con Introduzione alla realtà, uscito l’anno scorso per lo stesso editore e ne è in qualche modo il dispiegamento nel pensiero. Se nel dirlo fosse possibile dimostrarne l’umiltà, si tratta di un ricco libro sapienziale mosso, appunto, da un’urgenza, un’urgenza di dire accorata e a tratti commovente ma soprattutto nitida e rigorosa, che riguarda una possibilità che abbiamo e che si potrebbe perfino definire spassionata, nel senso che come possibilità c’è sempre stata, per l’essere umano, quella di diventare se stesso. L’uomo è l’unico essere vivente che ha la possibilità, o l’onere, di diventare se stesso, ai gatti o alle antilopi non passa nemmeno per l’anticamera. Se si tratti di destino, di un privilegio oppure di una condanna si è dibattuto a lungo nei millenni, anche se serve a poco chiederselo, perché il dato di fatto è che l’uomo può superare l’aporia del diventare quello che è già, e magari trarne dei vantaggi.
Qui è il racconto di una giornata che comincia dall’alba e odora forte di eterno ritorno. Trae spunto dal tempo ciclico per una rinascita, se non è parola brutta anzi “sciagurata”, o una meditazione se non è parola brutta anch’essa e soprattutto se serve a Qualcosa.
Non si può che partire dalla sofferenza che è la vera trama nel tessuto della nostra vita, è ciò che non puoi nascondere se vuoi dare valore al Qualcosa che fai o che sei. Come sappiamo se tentiamo di ignorarla diventerà una cosa mostruosa, una paura molto profonda radicata nel corpo e nella mente, farà ulteriori danni. “È il dolore che proviamo che ci fa essere chi siamo”, è forse questo il famoso stile di una vita, il modo in cui ci barcameniamo, ed è anche forse la ragione necessaria per ogni tentativo filosofico: bisogna trovare un modo o una maniera per convivere con il dolore. Forse l’antico detto popolare Siamo nati per soffrire è stato tràdito male, forse l’originale era Siamo nati per sopperire.
Nel libro infatti si ripercorre con la propria voglia un cammino già fatto da tanti altri, si rifà a modo proprio tutta la strada costeggiando e anzi corteggiando l’indicibile, ci accompagna fino alle soglie dell’indicibile, perché oltre ci si va solo con l’esperienza personale. Non si può spiegare, solo sperimentare.
Si tratta così di un’esperienza, “l’espressione di un’esperienza”, basterebbe questo al giorno d’oggi a tacciare il libro di sovversivo, avendo l’avventatezza di presentarsi come un richiamo, un appello, persino una preghiera, in un Mondo Nuovo che ci si è imposto senza quasi che ce ne accorgessimo e che ha fatto dell’esperienza diretta uno dei suoi nemici giurati.
Quindi il tentativo di comunicare un’urgenza, insieme alla possibilità di un mutamento di visione che è forse la cosa più lontana dal nostro orizzonte, da quello che crediamo ci sia utile e necessario.
Viviamo in un’epoca, molto più di altre, in cui ogni mutamento del rapporto con la realtà viene considerato pericoloso per l’ordine costituito, quindi vengono definiti realisti soltanto coloro che accettano l’esistente come dato di fatto immodificabile. Questo era già il terreno di lotta identificato nel primo libro del dittico, in cui la Realtà in questo senso veniva definita addirittura “uno stato di polizia”.
E viviamo anche in un’epoca in cui vige sempre più un equivoco micidiale: la pretesa e proditoria coincidenza tra Realtà e Verità, fonte primaria e motivazione principe a ben vedere degli assolutismi e totalitarismi crescenti nel mondo: vale a dire che ciò che è reale, o percepito o fatto percepire come tale è vero, falso tutto ciò che non è reale. E questo proprio mentre si celebra la pare definitiva perdita di privilegio del vero nei riguardi del falso.
Nonostante tutto restiamo convinti di avere saldo un controllo delle operazioni, diciamo così, anche quando risulti un bel po’ sgangherato con l’invasione nelle nostre teste dei device, e nonostante gli scienziati cognitivisti ci avvertano che non esiste alcun centro di diramazione permanente nel nostro cervello, di come quindi il nostro famoso Io sia in definitiva soltanto virtuale. È una finzione certo a cui è assolutamente necessario credere, ma altrettanto assolutamente rimane una finzione, anche a ristretto rigore di logica.
Ognuno di noi ha in testa una mappa della realtà che non solo crede vera, cioè perfettamente aderente a quello che c’è fuori, ma crede che coincida con quella degli altri. In realtà, e al contrario delle avventurose mappe di Borges, esse non coincidono in nessun caso.
E insomma qui si racconta un processo di liberazione mimetico del pensiero, si indice una cerimonia che sa solo una cosa: un mutamento di prospettiva è possibile, ed è allo stesso tempo radicale e naturale: “Siamo partiti dal sussulto dell’essere, dalla sofferenza come sensazione primaria, e siamo alla ricerca di una liberazione possibile – anche attraverso la comprensione e il ragionamento – dal dolore che caratterizza la vita”. Una cerimonia rituale fatta con le parole dettate dal cuore: un processo che si disidentifica subito dal tempo della logica lineare e si reidentifica con quello ciclico, magari così ci abitua meglio all’impermanenza di ogni cosa al mondo, noi compresi, e anche alla forza insita nella ripetizione.
E si fa luce la necessità di un addestramento, ne abbiamo assolutamente bisogno come di una strategia per uscire dall’inganno, ma il libro fa già parte dell’addestramento, in questo senso è una guida, un manuale per orientarsi.
C’è una frase che unisce i due libri del dittico: “Nessuno deve rimanere indietro”, che in Introduzione alla realtà viene definitita “una legge spirituale universale e necessaria come, nel mondo fisico, la forza di gravità”. È il modo della compassione da cui parte e per la cui ragione si dipana il racconto, ma non come un’ansia sentimentale, è più quel modo della compassione di stampo orientale che proviene dalla possibilità appunto, e dal piacere si potrebbe addirittura dire, di poter vedere le cose da più punti di vista e quindi anche da quello dell’altro. La compassione è l’aprire le mani del pensiero, della visione rigida che ci vuole arroccati, di quella illusione ottica della coscienza che ci fa credere separati dal resto. È la percezione reale che tutto quello che incontro diventa parte del mio corpo.
Quella frase però coincide ad esempio con il voto del bodhisattva buddista, il rinunciare a liberarsi fino a che non sono liberi tutti gli altri, e così diventa anche un trucco, un upaya si direbbe in sanscrito, l’espediente perché nell’addestramento l’io non si accorga del risultato raggiunto, serve affinché non possa farlo. Per giungere al risultato quindi bisogna che l’ego non raggiunga il risultato, bisogna che il soggetto non se ne accorga: ecco l’unico modo per aggirare l’egosistema.
Il libro, o la cerimonia, o la danza, è tutto innervato su immagini prensili, allucinogene (“l’allucinazione è una malattia sacra”), serpenti, montagne, il labirinto, fino al rito comune del falò finale. Immagini che producono altre immagini. Questa per esempio: “Come il cacciatore che spara in cielo agli uccelli e ritorna a casa soddisfatto col suo bottino di volatili, così la nostra vita non è altro che la predazione di tutti i pensieri che sono in volo nel cielo della nostra coscienza”, ossia il nostro ordinario modo di pensare consiste nel pensare di afferrare la cosa pensata, quindi una tautologia inconsapevole, inesausta, spiritata, la condanna a una mente delusa. È un’immagine che fa venire in mente la possibilità che abbiamo di abbandonare quella caccia per dedicarci al bird-watching: se lo facciamo a lungo, come una disciplina (una parola che già da molto tempo abbiamo lasciato alla destra, coi risultati orripilanti che solo potevano scaturirne), se lo facciamo a lungo ci possiamo accorgere di quanto noi siamo, anche, parte di quel pomeriggio nella vita del cielo e nella vita di ogni singolo uccello.
Incontriamo durante il cammino molta tradizione filosofica occidentale, ad esempio nei dialoghi che sono il mezzo più sicuro per non raggiungere conclusioni se non momentanee, e su su traverso la meraviglia dei frammenti eraclitei fino alle sorgenti orientali, fino al capitolo finale: la possibilità, la rivelazione avviene per mezzo di tre semplici righe tratte dal Ṛgveda (una immagine, anche qui, perché persino ove si tratti di percorsi di pensiero gli orientali preferiscono descrivere piuttosto che spiegare). Dunque: appaiono due uccelli che sono molto amici e stanno sul ramo di un pìppala, albero sacro dell’India, l’albero della chiaroveggenza: uno dei due mangia, l’altro semplicemente guarda. Uno è la verità di un Io che si identifica con se stesso e quindi agisce, l’altro sa bene che è una finzione. Siamo nella via mediana del buddismo, o nel non-due dei cinesi: vale a dire ci dice che possiamo essere, allo stesso momento e, è meglio ribadirlo, proprio nello stesso, la verità assoluta e quella relativa, nello stesso tempo io posso essere pienamente convinto di essere me e pienamente consapevole che è una finzione. Ed ecco la possibilità che subito avvertiamo come comoda, naturale, di come sia l’attività normale per la nostra mente, mentre quella precedente ci appare ora solo inutile e dolorosa.
Ne scaturisce un tipo di attenzione che, dando fiducia all’intuizione, diviene man mano una speciale qualità di percezione delle relazioni tra noi e le cose del mondo.
Ecco che un altro giorno inizia.

 

Storia “emetica” della musica. Alessandro Baricco e gli abissi della divulgazione

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di Cesare Cherchi

C’è qualcosa di sospetto in tutti quei libri che prospettano al lettore qualcosa di “diverso,” di cantare fuori dal coro, di essere appunto “eretici” come promette il titolo dell’ultimo saggio di Alessandro Baricco “Breve storia eretica della Musica Classica.” Specialmente in ambito storico, queste affermazione di diversità giustificano i sospetti; il messaggio di fondo pare essere che, fin’ora, qualcuno ci avesse nascosto qualcosa, qualcosa che solo ora ci viene finalmente rivelato.

Questo tipo di promesse raramente vengono mantenute dall’autore, il più delle volte il prezzo da pagare per dire qualcosa di diverso è dire semplicemente qualcosa di falso. Ciò accade perché è difficile che qualcuno ci nasconda qualcosa, e nel caso specifico viene difficile immaginare quali nascondimenti possano venire operati in Storia della Musica. Si potrebbe pensare che anche questa Storia eretica di Baricco cada nella categoria, ma non è così o meglio lo è solo in parte. In cosa consiste dunque, questa eresia?

 

Il libro ha una struttura ad aforismi come La Gaia Scienza, e come ne La Gaia Scienza gli aforismi variano ampiamente in lunghezza, da due righe a due pagine. Numerati, la numerazione si interrompe in ognuno dei sette capitoli che affrontano in ordine (quasi) cronologico la storia della musica occidentale, da Pitagora (o Giamblico) a Stravinskij. Il libro inizia, come molti manuali di storia della musica convenzionali, con il problema del temperamento. Il tema è trattato in maniera piuttosto confusionaria, con molte semplificazioni e alcuni fraintendimenti. Si dice, per esempio, che Pitagora scoprì che suonando due corde di lunghezza l’una doppia dell’altra (e uguale tensione) si ottiene “lo stesso suono.” La cosa ovviamente è falsa (si ottengono due suoni diversi che oggi, essendo a distanza di ottava, sono rappresentate da due note, anch’esse diverse, ma con la medesima posizione nella scala) ed è sintomo di una confusione continua che Baricco fa tra suono, nota e posizione in una scala.

Come invece nessun manuale di storia della musica farebbe più (era forse più comune in passato), Baricco compie un salto millenario con cui arriviamo all’improvviso da Pitagora a Guido d’Arezzo. Ovviamente non ci si aspettava che Baricco sapesse dirci qualcosa di musica bizantina o di Egon Wellesz, ma allo stesso modo non gli si chiedeva di scrivere una storia della musica.

Un vezzo del libro è che tutti i periodi storici della musica occidentale vengono rinominati, e i nomi ricorrono spesso una volta introdotti, ci sono la Prima Musica, il Disordine, la Musica Classica e la Modernità. La cosa che lascia perplessi di questi nuovi nomi è che non hanno nessuno scopo apparente: ricalcano esattamente le usuali categorie storiografiche, in cui la Musica classica è sempre la stessa (grosso modo, la musica viennese da Haydn a Beethoven), il Disordine è il barocco, la Prima Musica è la musica rinascimentale e medievale, e la Modernità è il romanticismo. Quella che agli sprovveduti può apparire come un totale ripensamento è in realtà una innocua ri-denominazione dal movente inizialmente misterioso, ma di cui vedremo più avanti lo scopo.

Tutta la parte sulla Prima Musica è di natura sostanzialmente metaforica, leggendo il libro non si potrebbe in nessun modo immaginare come suonasse e come fosse composta, viene solo utilizzata per tracciare un percorso (un percorso che per essere verosimile richiede inderogabilmente di non capire davvero cosa sia il problema del temperamento) che ci possa portare al momento per cui Baricco pare avere il maggiore interesse, ossia il passaggio dal classicismo al romanticismo.

Sarebbe inutile mettersi qui a elencare tutte le cose fattualmente non corrette dette sulla musica barocca e sulla musica classica, ne verrebbe fuori un’appendice noiosa che non avrebbe in sé nulla che il lettore non potrebbe trovare in manuale di Storia della Musica ben fatto. È invece più interessante parlare della natura di questo libro, che solo arrivati a Beethoven inizia a emergere con più chiarezza.

Infatti la storia eretica di Baricco, una volta arrivato ai confini del diciannovesimo secolo, inizia a snocciolare una serie di luoghi comuni che sono più che familiari per chi ha avuto a che fare con altre storie della musica approssimative: se alla musica rinascimentale si riconosce un credito di spiritualità, la musica barocca è invece superficiale: Lully “traduce il nulla in musica” mentre Rameau è un freddo burocrate del suono. La musica classica (Mozart in particolare, più soggetto ai luoghi comuni di Haydn) è invece cortigiana, graziosa e innocua ma, a quanto pare, meno vuota di quella barocca (o meglio, del Disordine) anche se non è mai chiaro perché. In particolare sullo stile classico Baricco si profonde in un aforisma che, presso qualcuno immagino, sia esempio delle sempre celebrate sue abilità di prosatore:

 

La vocazione intima che gli umani coltivavano e che la Musica Classica portò in superficie era quella a sciogliersi in una qualche leggerezza.

Diventare bersaglio imprendibile. Vivere di profilo – un profilo sottilissimo.

Disinnescare qualsiasi turbamento col potere benefico della simmetria.

Sostituire col finto la rovinosa opposizione di vero e falso. Adottare l’eleganza come categoria etica. Vivere in fretta e morire spesso. (5.2)

 

È un espediente spesso usato e sempre sgradevole quello di affermare con sdegno che non si è capito qualcosa, come a dire che se non lo ha capito chi scrive certamente non lo capirà il lettore, che si sottintende più stupido. Tuttavia, a rischio di farne uso, non saprei dare nessuna interpretazione significativa al testo citato (che non è decontestualizzato, ma un aforisma intero) e così a molti altri dello stesso genere sparsi per il libro.

 

Possiamo ora tentare di rispondere alla domanda che ci eravamo posta qualche pagina fa: in cosa consiste l’eresia di Baricco? Non nel dire il falso pur di dire qualcosa di diverso, anzi, il libro tradisce – indipendentemente dai risultati – una volontà di apparire ben informato e ossequioso del lavoro degli storici della materia. Non è neanche una trasgressione di forma, come le bestemmie dette da ragazzi davanti ai catechisti prima di scappare. L’eresia sta invece in una totale e parodistica adesione ai precetti, un tentativo di essere più santi di Cristo, una bigotteria che lascia anche il povero catechista un po’ perplesso. Fuor di metafora; la cosa che questa Storia fa e che non troverete in nessun’altra è l’adozione totale e acritica di tutti i luoghi comuni (in gran parte abbandonati nell’imbarazzo) che si possano trovare nella storiografia musicale più vecchia, retrograda e scadente: nessun manuale sarebbe più disposto a raccontare una storia della musica fatta di una successione lineare e progressiva di autori (Bach, Haydn, Mozart, Beethoven, Schumann, Brahms, Wagner, Schoenberg) che realizzano lo Spirito della Musica (tedesca); certo, in molti può essere un vizio di fondo rivelato dalla struttura dei capitoli (è il caso di Mila o Grout, dove i capitoli su Verdi, Puccini o Mayerbeer sono inseriti quasi a caso trai passi della progressione) ma anche il più ideologizzato dei musicisti tedeschi – persino Furtwängler – avrebbe avuto pudore a proporre esplicitamente una cronologia tale. Ci sono troppe cose che non tornano.

Questo però, per Baricco, non è un problema. Procede infatti a disegnare, passo per passo, proprio questa grande colonna di grandi autori, stando attento a elidere di volta in volta tutto ciò che ne eccede. Se il teatro musicale non entra nella narrazione basterà fingere che non esista, che faccia parte di una Storia in qualche modo distinta e parallela. Si profonde in questo raggiro in misura tale da riuscire a parlare di Mozart per pagine senza nemmeno accennare al fatto che fosse il più grande autore di musica per teatro del suo secolo. O parlare di Beethoven ancora più a lungo senza accennare che il lavoro a cui dedicò quasi dieci anni della sua vita e le sue maggiori energie fu, anche qui, un’opera lirica.

Questo è possibile perché Baricco non pare particolarmente interessato alla musica in quanto tale: un esercizio divertente è vedere come tutte le cose cose che dice su uno stile musicale possano essere dette di qualsiasi altro senza mai dire nulla di veramente falso (o di veramente vero). Lully può facilmente diventare elegante e “di profilo,” e la musica di Mozart può altrettanto facilmente diventare musica “sul nulla” come era quella di Lully o magari – nelle sue declinazioni sacre – spirituale e rarefatta come la Prima Musica. Quello che pare interessare l’autore è, piuttosto, costruire “una storia perfetta che a costo di molte imprecisioni racconti una cosa esatta.” Un ambizione che pare realizzata solo a metà.

La natura teleologica del libro sembra nuovamente confermata dal fatto che Baricco pare non vedere l’ora di arrivare all’inizio della sequenza classico-romantica per mettere in moto il meccanismo che le cinquanta pagine precedenti servivano solo a preparare. Tanto che una volta arrivati al culmine – alla perfezione della musica wagneriana, e alla sua perversione dodecafonica – la storia, realizzatasi, termina. Suggerendo che tutto ciò che viene dopo altro non siano che vani esercizi privi di senso. Anche qui, pagine e pagine vezzose che finiscono per riproporre le opinioni più reazionarie.

Visti così i nomi nuovi dati alla vecchie categorie acquistano un senso, servono a camuffarle e nascondere – forse anche a Baricco stesso – la natura conservatrice di tutta la sua concezione sotto nomi nuovi, leggeri e trasognati.

 

Giunti fin qui vale la pena chiedersi che senso abbia questo libro. Cosa ottiene il misterioso lettore medio da un’opera che, seppur stilizzata, è la quasi letterale trasposizione dei peggiori luoghi comuni che la Storia della Musica abbia prodotto negli scorsi due secoli? Luoghi comuni dai quali la materia si sta proprio ora lentamente affrancando.

In questi casi la prima difesa è dire che è un libro di “divulgazione,” ma varrebbe la pena chiedersi cosa si divulghi qui esattamente. Non c’è nulla nel libro che possa rendere un lettore informato di qualcosa che non sapeva già. Le poche questioni tecniche che vi sono nominate non sono mai spiegate, ma sostituite da glissandi metaforici. Paradossalmente questa Storia Eretica rende un lettore che non sa nulla di musica più ignorante; non gli dà nessun mezzo ma lo lascia con la convinzione di avere qualcosa da dire – forse addirittura opinioni da condividere – sulla Musica Classica.

 

Quello che rimane alla fine di Storia eretica della Musica Classica è quello che rimane dopo tutti i saggi di Baricco. Una certa aria rarefatta; in cento pagine e poche più sì è stati ben attenti a dire il minimo indispensabile che ne giustificasse l’esistenza (e quel poco è ciò che abbiamo già detto). Ci sono poi tutti i tipici vezzi dell’autore, il gusto per una prosa tanto piana da fare il giro e apparire affettatissima, con tanto di “cool,” “trick” e “farm” a decorazione. C’è il solito gusto dell’incertezza e del mistero: ci sono cose “inspiegabili” e “misteriose,” e eventi che “non capiremo mai abbastanza” quando, a guardar bene, l’unico mistero è cosa veramente ci sia di misterioso. Non mancano nemmeno le tipiche paroline à la Baricco; commenti laconici messi dopo la fine della frase, o dell’aforisma, per rafforzarne il senso. Fastidiose.

Rimane, in fondo, una persistente nausea, la nausea di quando non si è mangiato nulla.

➨ AzioneAtzeni – Discanto Nono: Paolo Fresu e Lella Costa

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da Passavamo sulla terra leggeri

di

Lella Costa e Paolo Fresu 

Passavamo sulla terra leggeri come acqua, disse Antonio Setzu, come acqua che scorre, salta, giù dalla conca piena della fonte, scivola e serpeggia fra muschi e felci, fino alle radici delle sughere e dei mandorli o scende scivolando sulle pietre, per i monti e i colli fino al piano, dai torrenti al fiume, a farsi lenta verso le paludi e il mare, chiamata in vapore dal sole a diventare nube dominata dai venti e pioggia benedetta. A parte la follia di ucciderci l’un l’altro per motivi irrilevanti, eravamo felici. Le piane e le paludi erano fertili, i monti ricchi di pascolo e fonti. Il cibo non mancava neppure negli anni di carestia. Facevamo un vino colore del sangue, dolce al palato e portatore di sogni allegri. Nel settimo giorno del mese del vento che piega le querce incontravamo tutte le genti attorno alla fonte sacra e per sette giorni e sette notti mangiavamo, bevevamo, cantavamo e danzavamo in onore di Is. Cantare, suonare, danzare, coltivare, raccogliere, mungere, intagliare, fondere, uccidere, morire, cantare, suonare, danzare era la nostra vita. Eravamo felici, a parte la follia di ucciderci l’un l’altro per motivi irrilevanti.

Nota (non musicale) 

di  Claudio Loi

Sergio Atzeni, le ossa di Giuda e la tromba di Paolo Fresu Mi sono aperto il petto e ho scoperto di avere un cuore africano Questo verso – leggermente satanico –  di Sergio Atzeni arriva da una sua poesia e ci racconta di un uomo e di un artista che ha sempre vissuto all’interno di un irrisolto conflitto emozionale. Ma ci ricorda soprattutto la grande attenzione che Atzeni aveva verso il ritmo, la passione infinita e sterminata per il pulsare dei suoni, per le pelli che vibrano e ululano se percosse da ossa ancora vive, il ritmo irregolare dello scrivere e del creare. Il cuore africano di cui parla Atzeni e quello di chi è stato protagonista suo malgrado di una delle più violente e terribili mutazioni che gli esseri umani hanno conosciuto. Le voci e le canzoni che dall’Africa sono traslate nel nuovomondo hanno continuato a pulsare e a riprodursi, hanno dato vita a quell’immenso mare di suoni di cui è fatta la nostra vita: emozioni che per pura semplificazione chiamiamo blues, rock, jazz e tutte le forme ibride e intermedie possibili. Roba seria che Atzeni ha sempre preso in debita considerazione. Sogno albe africane lontane dalle voci dal mondo Narra lo scrittore in un nervoso desiderio di fuga e redenzione. Le voci del mondo sono quelle voci che lui ha descritto in modo magistrale nei suoi scritti, nei romanzi, negli articoli giovanili. Voci senza voce, fuori dal coro, senza una logica da rispettare, suoni che arrivano dal nulla, che si contaminano, che diventano nuova lingua e alfabeto che non ha bisogno di essere soggiogato dalle regole della grammatica. Quel mondo ha sempre affascinato Atzeni e la sua opera è un lungo e periglioso cammino nei sentieri poco battuti della cultura popolare (o meglio pop). Senza troppe infrastrutture ideologiche e teoretiche, con la sola potenza del suono, dei profumi, degli sguardi. Corri treno, batti il ritmo, canta la tua canzone Nell’opera di Sergio Atzeni appare evidente che il suono e quindi la musica non è solo scuola e accademia ma qualcosa che ci portiamo dentro, che ci attraversa e avvolge. Sono mani che battono il petto, l’incedere fragoroso di mille gambe, il boato di animali che corrono e volano, un treno che ci trasporta lontano con la sua voce, il suo ronzio, il motorik del suo passo. Atzeni è ben cosciente che quella cosa che noi chiamiamo ‘musica’ è sempre presente nell’intimo delle cose: basta cercare, crederci, immaginare e ascoltare: come le pietre di Sciola finalmente liberate dalla loro stessa natura. Di notte muta in scimmia e danza, canta imitando i suoni del sassofono, prega senza sapere più che dica… Ecco un’immagine quasi kafkiana che Atzeni ci consegna nel quinto passo in cui è spontaneo immaginare una sottesa autobiografia. Riemerge la voglia di cambiamento, la mutazione agognata ma impossibile, la solita diaspora tra quello che siamo e quello che non possiamo essere. Ma conosciamo anche la medicina che ci può aiutare a risolvere la questione e ritroviamo in tanti passaggi dello scrittore. Dosi misurate e quotidiane di Mingus, Barbieri, Parker possono farci arrivare là dove desideriamo essere e divenire. La musica come strumento di liberazione sembra un abusato luogo comune ma è pur sempre una delle più vitali soddisfazioni che ci possiamo permettere. …come acqua che scorre, salta, giù dalla conca piena della fonte, scivola e serpeggia fra muschi e felci.. Acqua che scorre e suona, e viaggia e trasporta saggezza e ricordi. Acqua e suoni che arrivano anche alle orecchie (sempre ben aperte) di un trombettista di Berchidda che le accoglie e le sfama, le cresce, le trasforma. Nella musica di Paolo Fresu è facile ritrovare le parole di Atzeni, anche quelle non dette, soprattutto quelle. La musica di Fresu si incunea negli interstizi lasciati liberi in quelle storie, le completa e le anima. E non è solo colonna sonora o complemento di arredo è qualcosa di più intimo e connesso, è la naturale evoluzione di un pensiero pensato proprio per essere funzionale a nuove ipotesi estetiche. Una follia che è persino difficile da descrivere ma che riconosciamo subito nelle note che percepiamo nella trasposizione cinematografica del figlio di Bakunin, nel vibrante dialogo con Lella Costa, in tante altre occasioni. Stessa passione per il ritmo, per le voci che arrivano dal basso, e un costante richiamo a quella forma libera di pensiero che è l’improvvisazione che nasce e si consolida nella musica popolare più arcana, nel jazz e nelle visioni di Sergio Atzeni. Ballavano tremolanti nelle chiese, al suono delle ossa di Giuda…

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Ox e Mandarin ‖ un rorschach

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di Milla van der Have, traduzione di Laura di Corcia

 

certe volte

Ox

e

Mandarin

 

danzano piano fino al mattino

la musica come un tenero bozzolo

 

rotolando al centro della loro gravità

 

non si sono incontrati

ma si tengono stretti

 

d’altronde

che cos’è poi la vita

se non un sogno complesso di pelle

 

 

                         certe volte

 

c’è un oceano chiamato notte

che culla

 

Ox

e

Mandarin

li stringe audaci e teneri

facendoli sprofondare

 

come sottomarini

 

ti sei mai fermato a pensare

                  che un rottame può serbare

                               così tanto potenziale?

 

                    trovare una testa di toro

                    sul sedile di un biker

una sirena in un frutto lontano?

 

certe volte

Ox

e

Mandarin

vengono fermati per strada

senza motivo, senza precedenti

costretti a sollevare i propri averi

per l’ispezione

 

e Ox

deve spiegare la somiglianza

che buca la grotta ruvida

e Mandarin

rimanda ai suoi cugini

per trovare gli alberi

e quando si ricompongono

nell’assenza che li ha formati

trovano sempre pezzi mancanti

 

hanno solo i fatti del caso

 

e sì certe volte

Ox

e

Mandarin

trovano divertente pattugliare un relitto

 

poi Mandarin inventa strategie per trasformarsi in un sole luminoso e visibile

 

e Ox sul retro

studia metodi di lavorazione a maglia

descrivendoli come macchine

 

come destinazioni sospette

 

e

 

certe volte

 

le corna di Ox si accendono

come mezze lune

e tutti sanno che sta arrivando una nuova marea

una marea di amicizia e di presagio ferito

una marea di cupa bellezza sussurrata

 

che non deve essere più trattenuto

per rimanere vero

 

 

certe volte Ox e Mandarin

si consumano a vicenda come domande

 

come cosa rende possibile il mattino

una tale, stellare grandezza

 

 

e certe volte

certe volte

 

                                      Ox e

Mandarin

 

si traducono in un impulso alla vicinanza

una trama luminosa di interazioni

 

che ci mostra

cosa dobbiamo a noi stessi

quando perdiamo la fede

 

certe volte

 

Ox

e

Mandarin

sono composti di semplice luce

che lega pensiero a pensiero

 

                           che noi chiamiamo

 

costellazioni

e li conoscono come

cani guida stranieri

e certe volte Ox e Mandarin

si considerano

fortunati

ad avere nomi per cose che altri

ancora cercano

 

 

perché certe volte

tutto ciò che Ox e Mandarin

vogliono è essere

 

piccoli dei che giocano

nei campi ancora intatti

 

 

 

 

 

 

 

“Lo sbilico”: romanzo estremo

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di Pasquale Giannino

            Si sta parlando molto della nuova prova narrativa di Alcide Pierantozzi. È un libro che non salva nessuno. Non salva l’autore: “È da tempo che non mi sento più uno scrittore […] Posso solo raccontare la melma dei giorni: continui episodi di dissociazione, allucinazioni, autolesionismo, corse al pronto soccorso, minacce e tentativi di suicidio che hanno annichilito la mia famiglia”. Non salva il lettore. Vale la pena domandarsi se, quantomeno, riesca a salvare se stesso.

Lo sbilico (Einaudi, 2025) prende le distanze da talune pratiche liberatorie di stampo psicoanalitico, presenti nell’opera di scrittori cui Pierantozzi si richiama (fra gli altri, Umberto Saba e Giuseppe Berto). Il lavoro sullo stile risulta notevole, in netto contrasto con quello asettico dei referti, che l’autore riporta fedelmente. Quello sul lessico sfiora le vette di uno scrupolo maniacale: “Sono sempre in cerca di parole assolute, che mettano il guinzaglio ai pensieri, che facciano un po’ d’ordine nella scompagine che ho in testa”. Un passaggio chiave del romanzo è quello in cui si arrende alla malattia: “Ormai da cinque anni la mia malattia mentale ha raggiunto la sua acme […] È come se mi mancasse quell’intelligenza di fondo che induce ogni persona sana non tanto a scacciare un brutto pensiero, o ad andare dal dottore, ma a comprenderne l’infondatezza, la portata fantastica”. La disfatta, nondimeno, si accompagna alla decisione coraggiosa di dare la parola a tali gravissime distorsioni del reale; di lasciare esprimere i tormenti più dolorosi e profondi, che la malattia innesca nel proprio animo. Ne discende una determinazione che non sembra suggerire una via di fuga, tantomeno di salvezza nella scrittura. Emerge semmai un’urgenza di tipo espressivo, la quale non si abbandona al talento narrativo, ma si corrobora costantemente con una ricerca attenta e scrupolosa – spinta fino ai limiti dell’ossessione – che non è solo di tipo formale. L’attenzione posta nel rendere lo stile gelido e asettico dei referti si riverbera nella “voglia di impugnare la matita e riscrivere questi fogli da cima a fondo, con altre parole, con un’altra tensione drammatica. Per raccontare le cose come sono andate davvero dovrei dare alle frasi un nuovo effetto di senso, un diverso nitore di traiettoria”. L’intento dichiarato è “raccontare le cose come sono andate davvero”. La ricerca stilistica e lessicale, dunque, non è fine a se stessa ma si pone al servizio di un’urgenza espressiva, che permetta all’autore non già di fuggire la malattia, ma di penetrarla a fondo, al fine di svelarne i recessi più oscuri e inquietanti. Ne risulta un’opera che assume i tratti di una drammatica testimonianza. Il racconto in prima persona della malattia, reso con una tale dedizione comunicativa, si rivolge anzitutto a quanti affrontano la medesima solitudine. Ma non parla soltanto ai malati. Parla a chiunque vi riconosca, ricordando Ludwig Binswanger, una forma di esistenza mancata: ovvero, se la malattia psichiatrica è tale, una specie di solitudine estrema. Parla a tutti, malati e presunti sani.

Alberto Moravia disse che l’artista è un essere profondamente anormale. Vincenzo Guerrazzi sosteneva che lo scrittore è un monco, un albero spezzato, uno che non si è realizzato nella vita. Sono due le forme di esistenza mancata, nel romanzo, che si corroborano e a tratti si confondono, con esiti apprezzabili dal punto di vista letterario. Non vi è traccia di momenti liberatori e tantomeno salvifici, in questo libro. Non è un’opera che indica vie di fuga dall’inferno esistenziale che rappresenta. Tuttavia, colpisce la lucidità narrativa con cui è pensata e costruita: nella struttura, nel contenuto, nelle scelte lessicali e stilistiche. Sembra che vi sia una contraddizione con la grave patologia dichiarata dall’autore, ma è solo apparente. Quelle due forme di anormalità non sono estranee fra loro, bensì due volti della stessa anima tormentata, reietta, dilaniata dalla malattia, che ha deciso di esprimersi e raccontare dal di dentro il proprio mondo, gremito di fantasmi e allucinazioni terrificanti. Così, quell’esistenza negata, colpevolmente stigmatizzata ed esclusa nel mondo dei cosiddetti sani, reclama il diritto di piena cittadinanza in quello non meno reale della letteratura.

Una volta superato l’impatto con la realtà distorta e spaventosa che Pierantozzi svela dal di dentro, il lettore non può fare a meno di entrare in empatia con l’autore, nelle pagine in cui il racconto si apre ai momenti della vita quotidiana, alla rabbia, all’indignazione, alla speranza: “L’unico sollievo è pensare che Milano c’è ancora, che via Plinio 33, dove abitavo, esiste ancora, che a un certo punto per me potrebbe tornare la vita di prima”. In quelle pagine, Alcide non parla solo del proprio mondo: parla di tutti noi, della nostra vita, delle piccole e grandi solitudini che ci riguardano tutti, per la colpa che abbiamo di essere vivi. Il riaffiorare del tempo trascorso con la nonna in campagna, durante l’infanzia, può spiazzare il lettore. Sembra un capitolo a sé, quello di un’altra esistenza possibile, idilliaca e felice intravista dall’autore da bambino: “Il dolore e la voglia di morire sparivano solo mentre correvo da nonna […] Le galline razzolavano libere in mezzo alla strada, i contadini dormivano sulle sedie di paglia davanti agli uscioli, avvoltolati nell’ombra”. Appare troppo marcato il contrasto con l’urgenza che promana dai brani più sofferti e laceranti. Sennonché, quella rappresentazione bucolica idealizzata è infranta dal rito macabro dell’uccisione delle bestie, nel quale si insinua potente il pensiero della morte: “Il cortile si riempiva di strilli […] Gli occhi del coniglio andavano all’indietro fino a mostrare le sclere bianche e nude. Faceva un ultimo strillo, povero amico mio, e si contraeva in una quiete flemmatica […] La morte è un coniglio con i centri motori andati in panne, pensavo. Si muore sbaragliati da una pressione che schiaccia a terra tutte le cose, la stessa che sentivo anch’io, come un accento sopra la «o» della testa”.

Dunque Lo sbilico non salva nessuno: né l’autore né il lettore. Pierantozzi lo ribadisce nelle ultime pagine: “La scrittura, per me, non è un progetto di salvezza […] Io vivo un passo alla volta, una riga alla volta, resisto un’ora alla volta, vado da A a B”. Riesce almeno a salvare se stesso? Per quanto mi riguarda, la risposta va cercata in quei momenti di vita ordinaria, comune che fanno da sfondo al romanzo, ma che a ben vedere costituiscono la struttura portante dell’opera; il fil rouge che permette di comporre in un mosaico unitario i tasselli di una vita frantumata dalla malattia, che Alcide racconta senza filtri psicologici, espressivi e morali. È quello sfondo di “normalità” che rende credibile questa prova di scrittura e la giustifica dal punto di vista narrativo, oltre la prospettiva esasperata dell’io narrante, che si impone con prepotenza sulle altre figure minori lasciandole nell’ombra: il trasferimento dall’Abruzzo a Milano per studiare Filosofia, l’attività di scrittore, le speranze e i disincanti, i rapporti con i familiari: il legame con la madre a tratti simbiotico, morboso; l’incomunicabilità con il padre (il Negazionista, colui che si ostina a negare sia la malattia che l’omosessualità del figlio); la presenza discreta ma preziosa del fratello vivente; la figura del fratellino morto che aleggia nel racconto. È un quadro che si compone lentamente, tassello dopo tassello. Si completa nelle ultime pagine. Appare nitido e profondo, nel finale poetico e struggente che l’autore ci consegna.

Tra segnale e rumore. Weizman, Fuller e le estetiche investigative

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di Matthew Fuller e Eyal Weizman

Krisis Publishing ha portato in Italia Estetiche investigative. Conflitti e commons nella politica della verità, il nuovo, importante libro di Matthew Fuller e Eyal Weizman, che s’inserisce all’interno di Forensic Architecture, il collettivo di ricerca fondato da Weizman alla Goldsmiths University di Londra: «una squadra interdisciplinare di architetti, cineasti, artisti, scienziati e avvocati». Come scrive Maurizio Guerri nella prefazione all’edizione italiana: «l’esigenza da cui gli autori prendono le mosse è quella di riuscire a rapportarci alle immagini secondo “giustizia” e ristabilendo quella dimensione di comunità che nella sfera sensibile – che si articola in sempre più fitte tecnologie mediali – si è perduta».

Ospito qui un estratto dall’introduzione.

***

La violenza atterra. Centinaia di soldati irrompono in una città. In quell’istante, la città comincia a registrare il proprio dolore. I corpi vengono dilaniati e perforati. Gli abitanti memorizzano l’assalto in balbettii e frammenti rifratti dal trauma. Prima che Internet venga disattivato, le fotocamere di migliaia di telefoni si accendono e le persone rischiano la vita per documentare l’inferno che le circonda. Mentre si chiamano e si scrivono freneticamente, la loro comunicazione si dirama a stella, in centinaia di reti. Altri lanciano segnali nel vuoto dei social media e della messaggistica criptata, sperando che qualcuno li intercetti. Nel frattempo, l’ambiente cattura le tracce. Il terreno non asfaltato registra le impronte lasciate da lunghe colonne di veicoli corazzati; le foglie della vegetazione raccolgono la fuliggine dei loro gas di scarico, mentre il suolo assorbe e trattiene le sostanze chimiche riconoscibili rilasciate da munizioni proibite. Il cemento sbriciolato delle case distrutte porta i segni dei proiettili che lo hanno infranto. Colonne di fumo e detriti vengono risucchiate nell’atmosfera e si innalzano finché non si mescolano alle nubi, cristallizzandosi nei punti in cui le bombe sono esplose. In questo incidente ogni persona, sostanza, pianta, struttura, tecnologia e codice registra, a modo suo. Alcune tracce si accumulano così rapidamente e in modo così disordinato da cancellare quelle precedenti.

Questi documenti, tracce di distruzione e sofferenza, costituiscono contemporaneamente modalità di registrazione estetica e di rimozione. Dal momento in cui persistono, tali tracce possono, disponendo delle tecniche adeguate, essere interpretate per scopi diversi: alcune per alimentare ulteriore violenza, altre per opporvisi o persino solo per cercare di sopravvivere. Quelle che vengono occultate o represse risultano più difficili da rintracciare. Coloro che perpetrano la violenza hanno accesso a sensori ad alta risoluzione: telecamere su droni, aerei e satelliti, in grado di registrare gli scontri da molteplici prospettive. Il loro enorme potere si fonda sulle armi, ma anche sull’accesso alle informazioni – raccolte in flussi di immagini e segnali – e sui mezzi per analizzare questi flussi di dati, impiegando l’intelligenza artificiale per interpretarli e formulare previsioni. Mentre ha luogo questa raccolta massiccia di dati, la violenza consiste anche nel tentativo simultaneo di imporre, a coloro che subiscono l’attacco, un blocco di informazione uniforme e impenetrabile, che si presenta come informazione da un lato e come rumore dall’altro. Questa differenza tra segnale e rumore sarà anche impiegata per consentire alle autorità di ogni sorta di mentire su ciò che è accaduto, diffondere disinformazione, manipolare o alterare i dati, e negare i fatti più elementari. Più tardi, coloro che hanno subìto o resistito alla violenza testimonieranno. Forse un soldato avrà il fegato di rivelare ciò che lui o i suoi commilitoni hanno fatto – pubblicamente o tramite la rivelazione di file scaricati segretamente. Un altro potrebbe farlo accidentalmente, magari vantandosene sui social network. Tuttavia, esiste anche una contro-lettura, una contronarrazione che può raccogliere tutte queste diverse tracce e si sintonizza sulla loro cancellazione. Rielaborare quelli che talvolta sono solo segnali deboli – aggregando tutte queste registrazioni – può mostrare che cosa è accaduto e quali condizioni politiche lo hanno reso possibile. Interpretare segnali deboli e tracce impercettibili è complesso come solo una lettura ravvicinata può essere. Intessere questi segnali in una relazione reciproca non è soltanto uno sforzo di natura scientifica o tecnica, ma anche culturale, etica e politica. Implica modalità ampie e diversificate di prestare attenzione ai racconti delle persone, della materia e del codice. Per chi fa esperienza della violenza in prima persona e conduce la lotta per qualcosa che assomigli alla giustizia, la domanda è sempre la stessa: come può la ricerca della verità sugli eventi in corso rivelare, al contempo, l’ombra di processi storici di lungo periodo? E ancora: come può il racconto della storia, a partire dall’esperienza diretta della violenza, contribuire alle rivendicazioni politiche di chi la subisce? Per essere davvero efficace, la critica delle narrazioni ufficiali va inquadrata come una questione di investigazione, di storia e di solidarietà, e un simile racconto è valido solo in quanto parte di un processo politico.

Una bomba viene sganciata da un aereo da guerra saudita ed esplode in un ospedale nello Yemen. La bomba è un oggetto composito, i cui molteplici componenti provengono da dozzine di fabbriche sparse tra Europa e Stati Uniti. Questi prodotti sono assemblati con altri elementi provenienti da centinaia di subappaltatori, a loro volta procacciati da fornitori di materie prime estratte in miniere in tutto il mondo. La struttura assemblata della bomba coincide con l’economia globale. Quando colpisce il bersaglio, frammenti si spargono in ogni direzione, lacerando corpi e proprietà, distruggendo mondi di vita vissuta. Queste schegge non corrispondono direttamente ai componenti assemblati o ai prodotti iniziali, ma li approssimano in modo disordinato in uno stato trasformato. I sopravvissuti a tali bombardamenti spesso si preoccupano di fotografare questi frammenti e di caricare le immagini in rete. Altre persone guardano quelle fotografie, cercano di confrontare e identificare i pezzi, risalendo alle aziende che li hanno prodotti. Gli attivisti legali utilizzano questo materiale per invocare una moratoria sulle future esportazioni. Il processo investigativo somiglia a una riproduzione in slow motion, al contrario, del bombardamento, come la scena in cui Kurt Vonnegut, nel suo romanzo Mattatoio n. 5, descrive il devastante bombardamento di Dresda a ritroso. Dalle macerie e dalle schegge si riassembla la bomba; poi questa viene risucchiata verso l’alto nell’ala di un aereo che vola al contrario e la riporta a terra in un aeroporto, dove può essere smontata e poi disassemblata, spedita altrove, separata nei suoi componenti, ciascuno rinviato nel luogo d’origine; infine i metalli grezzi vengono ricollocati nelle profondità delle miniere, ricoperti di terra che viene riforestata, così che non possano mai più fare del male a nessuno. In questo libro sosteniamo che un’indagine antiegemonica, che vada a estrarre e poi a unire singole registrazioni fino a farle diventare collettive – un bene comune – sia una pratica intrinsecamente estetica. Comprendendo questa capacità di percezione collettiva e di costruzione di senso, possiamo elaborare una concezione rinnovata, accurata e politicamente incisiva delle pratiche di verità del presente. Nelle pagine che seguono vorremmo proporre alcune riflessioni sulle poste in gioco politiche di una tale formazione. Questo volume, a cui siamo giunti ciascuno da prospettive differenti, non è una rassegna storica dell’incrocio tra estetica e investigazione; piuttosto, è il nostro tentativo di ragionare teoreticamente sulle nostre pratiche e su quelle di alcuni colleghi, analizzandone i termini, i componenti e le premesse che costituiscono il codice sorgente di ciò che facciamo, e riflettendo al contempo sul perimetro delle nostre ambizioni, a proposito di quanto non abbiamo ancora realizzato ma che resta da fare.

Fanfani e il nudo

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The Miriam and Ira D. Wallach Division of Art, Prints and Photographs: Print Collection, The New York Public Library. "Cats." The New York Public Library Digital Collections. 1876. https://digitalcollections.nypl.org/items/0c14eec0-c610-012f-9952-58d385a7bc34
The Miriam and Ira D. Wallach Division of Art, Prints and Photographs: Print Collection, The New York Public Library. “Cats.” The New York Public Library Digital Collections, 1876

di Riccardo Eymann

«Je vous ai compris!»

Con le braccia spalancate da De Gaulle redentore, il nudo pronuncia (è la terza volta) il suo apriti sesamo, e spera che ora lo sportello faccia tac. Siccome però non succede niente, no?, assolutamente niente, nulla, e il suo labbro inferiore (è la terza volta) trema di nuovo a vuoto, decido così, giusto per smorzare un po’ la tensione, di liberarmi da un peso dalla bocca dello stomaco che mi tormenta da due giorni — dico: due giorni —, e gli vomito una noce di pelo dritta sul tappetino del lavandino. Lui, bontà sua, non si scompone neanche più di tanto, dice giusto che schifo, il nudo, che schifo t’era rimasto proprio indigesto quel pelo?, e nemmeno mi degna d’uno sguardo, il nudo, anzi se ne sta lì e continua a fissare il timer che è da dieci minuti che segna zero punto zero zero.

E io penso: questo è proprio scemo, scommetto che a farmi visitare non mi porterà mai e che se gli dico che c’ho l’artrite mi ride in faccia.

«Je sais ce qui s’est passé ici. Je vois ce que vous avez voulu faire. Je vois que la route que vous avez ouverte est celle du blocage et du mensonge!»

Ma non esiste qualcosa come l’artrite, esistono solo le articolazioni e i liquidi sinoviali. Mi fa male tutto mentre mi lecco, però, questo è un segno certissimo che è una roba seria. E poi io ho una brutta storia d’artrite, in famiglia, me lo diceva sempre anche mia madre.

«Sei ancora ed oggi come sempre una povera comunista!»: il tac non arriva neanche con il Silvio, e il nudo ha freddo e ora il labbro gli trema ancora di più, poverino, sicché bisognerà dirglielo, prima o poi, in prima persona, io, a me la responsabilità politica, morale, storica e tutto il resto: nudo, qui ci vuole una nuova regola, la trecento ventuno, to’: mai fidarsi dei contaminuti delle lavasciuga, mentono sempre. Così anche questo tipo di commercio col mondo l’abbiamo regolato e tu sei lì tranquillo, e non hai più di questi problemi, e mi porti a visitare. Eh, se l’avessi saputa prima, questa bella regolina, caro il mio nudo! Adesso non te ne staresti lì come un pirla ad aspettare dei vestiti che non vengono.

Sbuffa pure, sbuffa quanto vuoi, guarda, sbuffa che ti passa — e adesso apre di nuovo l’acqua per rifarsi la doccia. Povero nudo: è già la terza, e francamente si vede proprio che s’è rotto i coglioni.

E se fosse la pronuncia? Mia madre, quella che mi diceva che c’avevo l’artrite anch’io, no?, finirai tutto rattrappito e artritico a morire in un cofano d’una qualche automobile se non ti prende nessuno a te, se non te ne vai, ecco lei parlava un francese perfetto — ma è solo perché era cresciuta in Svizzera. Poi certo, in generale la pronuncia può anche non avere nessuna rilevanza, sia chiaro: parlare una lingua è solo un fatto di significati, la fonetica è roba per gente chic. Ma in casi come questi, in cui è necessario trovare la chiave d’accesso al mondo numinoso del fulgore e del Bene e del pulito e di tutto il resto, allora, forse, dico, anche la pronuncia può avere una sua parte d’importanza, un suo potere, una sua penetranza, insomma, chiamatela come vi pare.

Per la frustrazione del nudo, però, — e ve lo dico senza malignità — il suo francese fa cagare e non ha mai penetrato proprio niente, nemmeno quando stava alla rue d’Ulm e pure continuava a dire maten, bien, saten

Ah, erano proprio altri tempi, m’aveva preso da poco, ero riuscito a tenermi i coglioni, lui mi portava in giro per strada, una roba rarissima, e mi guardavano tutti. Cogentissima la disposizione transitoria centodue: la destra è la sinistra e viceversa — una fase ch’è parsa un’eternità, giuro —, e a momenti non ci ammazzavamo per andare anche solo al Panthéon, che è lì dietro, e si faceva una fatica tremenda, col nudo che non sapeva dove mettere i piedi, girava la testa dappertutto e con le direzioni che andavano ribaltate per stare nel Bene e nel pulito: destr sinistr destr sinistr, tutto sbagliato, e lui che ripeteva lorsque dans une centaine d’années les historiens s’occuperont de nous, ils diront sans aucun doute: ‘quelle étrange époque! Où ce que l’on appellait la droite n’était pas à droite, où la gauche n’était pas à gauche, et où le centre n’était pas au milieu!’, per riderci su.

Mica ci pensavo di finire con uno così, io: era mia madre che voleva che mi prendesse qualcuno, l’ho già detto, che voleva piazzarmi in qualche famiglia, tutto per ‘sta artrite, con bambini o meglio se solo single, così avrebbero avuto il tempo di starmi dietro quando mi si sarebbe stortata la schiena, (perché ti si storta anche a te come al papà, che poverino me l’hanno anche tirato sotto); e che quella volta che venne il nudo a prendermi e quasi non lo fece per una cosa che dissi mi diede pure un ceffone che me lo ricordo ancora.

«Io mi rivolgo a voi, lavatrice ed asciugatrice in un unica soluzione: restituite alla libertà, al tepore della casa, alla pelle del mio corpo i vestiti che custodite!»

Perché, no?, gli storici sono tutti tacchini, gli avevo detto quando m’aveva parlato del suo mestiere (ricercatore espertissimo in socialdemocrazia europea ma che zoppica non poco in Hayek e in Friedman, e comunque la mia vera passione è il gollismo), tutti, dal primo all’ultimo, e anche tu, guardati, un tacchino fatto e finito, che magari vai anche negli archivi di Stato e poi torni a casa con tutto lo sporco del passato, e la polvere, anche — c’è la polvere negli archivi di Stato, no? —, che io ci sono allergico e magari inizio anche a starnutire e mi si secca il naso, e lo sanno tutti che i gatti col naso secco non vanno avanti tanto.

Ed era qui, alla fine, che la mamma m’aveva dato il famoso ceffone e m’aveva squadrato male: è un po’ esigente, mio figlio, lo perdoni, è un po’ viziato. Sono sicura che con lei si troverà benissimo. È di queste parti, lei? No, noi siamo originari del Rodano Alpi, mio padre era di là, era partito in Svizzera a lavorare in un albergo come accalappiatopi prima di scendere giù, ché non lo volevano più. Sa cosa dicevano, ‘volevamo far morire i topi, sono arrivati i gatti’. Sono sicura che mio figlio si troverà benissimo con lei.

Il nudo comunque mica s’era scomposto più di tanto: questa del tacchino me la devi spiegare, m’aveva detto. E io gliel’avevo spiegata, no?, che i tacchini sono fra gli animali più scemi, e lo sono tanto da pensare che se il padrone va da loro una settimana intera a portar da mangiare sarà sempre così, e invece un bel giorno il padrone arriva, il tacchino gli va incontro tutto gaudente pensando di mangiare e poi invece il padrone gli tira il collo e se lo cucina. Sono scemi, i tacchini, ecco, come gli storici, che vogliono il generale dal particolare e non ce la fanno proprio. Mi stupisco che lei perda tempo a fare il tacchino, sembra tanto intelligente!

Fatto sta che impressionante!, m’aveva detto il nudo, anzi rag-guar-de-vo-le! E m’aveva adottato seduta stante, imposto le mani e battezzato con un nome improponibile (addirittura in latino: ego tibi nomen impono…), e m’aveva portato a casa tutto felice, per la gioia della mamma che non vidi più.

Che poi, sia chiaro, parlando di nomi: checché se ne dica, ai gatti non importa d’avere un nome, e mica si rendono conto d’esser chiamati quando li cercate. Noi sappiamo, e forse meglio di voi, che i nomi non hanno niente a che fare con quello che esiste, e che un Fuffi, un Micio o un Felix non fanno se non la vostra, di felicità.

Incidentalmente, comunque, a me era capitato un ‘Fanfani’, ma su questo non voglio dire una parola di più.

«J’invite tous les lave-linges séchants qui veulent rester libres à m’écouter et à me suivre», dice il nudo, ma non ne viene ancora nessun tac. Così è triste, e a me verrebbe voglia di dirgli che bisognerà proprio attribuire alla trecento ventuno una supremazia sulla quattro (regola numero quattro: la verità attiene più alla retorica che alla logica, quindi tutto è possibile, quindi esistono le parole magiche) che ha usato fin qui per far aprire la lavasciuga (e per vincere il bando, e per trovare un reviewer gentile).

Il nudo mi guarda: «Fanf, vai a vedere se si apre…»

«Non si apre se non fa tac.»

«Lo so, ma tu guarda lo stesso, prova.»

«Non posso.»

«Dài, Fanfani, fammi ‘sto favore. Sennò guarda che ti tiro le orecchie.»

«Non posso, mi fa male la schiena.»

«Come ti fa male la schiena?»

«Ma sì, da un po’ di giorni. È artrite, lo so: Fanfani muore.»

«Ma non dire cazzate. Prova ad aprire la maniglia senza forzarla, intanto. Poi ti do un’occhiata. Così nudo non posso uscire, no?»

Con la zampa provo a sbloccare l’asciugatrice che tiene in ostaggio tutti i vestiti strapuliti del nudo, che senza è anche più nudo del solito, e dio che male, è proprio artrite, vero? L’oblò è bloccato.

«Mi dispiace.»

«Non importa: non si apre se non fa tac, giusto?»

«Giusto.»

«Quoi qu’il arrive, l’eau de la douche ne doit pas s’éteindre et ne s’éteindra pas!»: il nudo incomincia a fare un’altra doccia. Sono stanco, esco dal bagno. Vado fino in camera, gli armadi sono tutti aperti e vuoti: la maggioranza dei vestiti sono finiti dentro ai sacchi scuri che adesso ingombrano il corridoio. È una nuova ossessione, una perversione recentissima che gli è venuta al nudo: distinguo, distinguo, munda et immunda, e in un pomeriggio ha discriminato i vestiti puliti da quelli strapuliti, e per star sicuro che quelli strapuliti erano proprio puliti li ha lavati di nuovo e s’è lavato anche lui in contemporanea. Adesso è lì dentro, e finché non s’apre l’asciugatrice non può mica andar nudo per casa, no?

Certo che può! Che ci sia un divieto questo lo pensa lui, io gliel’ho anche detto, il bello è questo: gliel’ho detto, io, sissignore, al nudo: guarda che non ti devi mica vergognare, so come sei fatto, non farti scrupoli, ai gatti non dà mica rossore il veder nudi i nudi. Aumenta semmai il nostro compiacimento, questo sì, nel vedere quanto siate sprovveduti, quindi datti pure una calmata. Ma lui non ha voluto sentir ragioni: no, Ffanf, q-questioni di principio: non si può, non si può.

Ma, che volete farci?, ogni tanto arrivano, le ossessioni, ed è sempre un divertimento. Perché è sempre stato stravagante, il nudo: a invertire destra e sinistra, ad attaccarsi alle parole magiche de mon général… Quando mi portò a casa, per dirvi, mi fece fare tre bagni, non ne potevo più. Guarda che sono pulito, gli dicevo, guarda che splendore, guarda queste zampe polidattile, non vedi che linde e che nitore? Ormai le pulci si sono trasferite tutte al di là del mare, oltre la vasca, basta lavarmi. Piuttosto vai a fare qualcos’altro, no? Un bel training autogeno, vuoi?

«Ils ne passeront pas

Finalmente il tac arriva. Corro verso il bagno, mi fa male tutto ed è artrite, lo so, e ora il nudo sta aprendo l’oblò («il Front popu non delude mai»): raccoglie un fagotto di vestiti strapuliti che stringe fino alla camera, ciabattando mentre gli vado dietro. Poi mi chiude fuori («Eddai, Fanf, eh! Non essere morboso!»), e mentre sto seduto fuori il mio mal di schiena aumenta: senza dubbio è artrite e sto morendo. Ripenso a tutti i momenti belli e a quelli meno belli e so di morire. Mi chiedo se dovrei lasciare testamento.

Di fatto l’unica cosa a cui sono veramente legato sono i miei coglioni. Dovetti contrattare per tenermeli, quando il nudo m’adottò: lui rideva e mi prendeva in giro, che te li tieni a fare, i coglioni, se tanto non ti farò mai incontrare nessuno?, ma per me la questione era seria: non dovevo assolutamente venire castrato.

«Guarda che ho firmato un documento quando t’ho preso: eh!, bisogna proprio: zac!»

«Ma roba da matti: io i coglioni me li tengo, figuriamoci. Signorsì, me li tengo eccome!»

«Eh lo so, Fanf, che tu vorresti tenerteli, ma il gattile e l’ASL dice che bisogna toglierteli, sennò magari mi scappi, poi si sa come funzionano queste cose: la carne è debole, si indulge un po’ troppo in certe frequentazioni e poi vien fuori troppa prole.»

«E anche se fosse? La mia sarebbe un’esigenza e un diritto.»

«Purtroppo questi sono i termini posti dall’ASL: castrazione per tutti i gatti e le gatte adottati in gattile, il documento è questo. Certo, se potessi provare d’essere di razza allora forse se ne potrebbe discutere, ma così…»

«Razzista di merda. So di gatti del gattile che se li sono tenuti e non hanno mai dato problemi a nessuno. Potrei tenermeli anch’io.»

«Potresti se ti impegnassi in un voto di castità, la più severa castità. E oh, s’intende: vita natural durante.»

«Ma non ho dei diritti anch’io? Cosa mi resta così? La nuda vita?»

Il nudo allargava le braccia: «Senti, mio caro: i gatti non esistono come soggetti capaci di autodeterminazione e quindi sotto questo rispetto non hanno diritti di alcun tipo. La costituzione su cui si basa la nostra mutua convivenza per voi è una costituzione concessa, octroyée, capisci? Siamo noi che ve la diamo, quindi siamo noi che decidiamo cosa si può fare e cosa no. E in questo caso non è previsto che un gatto di un gattile si tenga i coglioni. L’unica cosa che ti posso concedere è un privilegio: non castrarti. Perché il bello di questa costituzione è che nessuno sa di preciso che cosa contenga, perché non è mai neanche stata scritta, quindi possono starci dentro tutte le eccezioni del caso. Però mi devi promettere: niente prole.»

«E se non mi sta bene?»

«Se non ti sta bene tirati insieme, riunisci un po’ di gatti revanscisti dei miei coglioni, assediate la sede dell’ASL, prendetela, scrivete una bella costituzione in cui ponete come principio indiscutibile la vostra integrità fisica e biologica, e ne possiamo riparlare. Fino ad allora le alternative sono due.»

Che poi, scusate, diciamoci un bel po’ la verità: perché avrei dovuto prenderla proprio io, la sede dell’ASL?

«Castità?»

«Vita natural durante.»

«Così sia. Purché si metta agli atti che sarà così più per necessità che per vocazione.»

E mi tenni i coglioni, e partimmo per Parigi.

«Dunque, vediamo un po’ quest’artrite gravissima.»

Uscito dalla camera, per visitarmi il nudo deve lavarsi tre volte le mani, perché proprio mentre sta per venirmi vicino tocca per sbaglio la sedia del male, l’ultima in fondo sul lato lungo del tavolo, e deve correre al lavandino. La quarta volta mi dice: «stavolta non ripetiamo più», e poi inizia a far pressione sulle articolazioni: «Ti fa male qui? E qui? Qui sento qualcosa,» e quando vede che mi spavento minimizza subito: «ma no, no: scherzo.»

Il responso comunque è che lui è un ricercatore di storia contemporanea e non un medico, che a lui non sembra di sentire niente e che di certo non sto morendo, ma che per ogni consulto attendibile bisognerebbe chiamare il veterinario.

Il problema è che il veterinario è sporco.

L’ultima volta che il nudo mi ci ha portato ha dovuto disinfettarsi tutte le braccia fino alle spalle, mentre eravamo in attesa, e quando poi il veterinario è venuto e gli ha chiesto si sente bene?, il nudo gli ha risposto sì, sì, non si preoccupi, non sono pazzo, sono già impazzito due volte ma poi mi hanno curato, e quando il veterinario l’ha guardato ancora più storto lui l’ha buttata sul ridere: scherzo, mio caro, sto solo scherzando. Non ho certo bisogno di vergognarmi quando dico che sono ossessivo-compulsivo. Però io sono io, e lei e lei, ed è per questo che oggi siamo qui! Vede, il vero problema è che tutti si sono persuasi che le cose si regolino da sé, in modo naturalistico, ma sbagliano, io lo dico sempre. Eh, naturalismo, volontarismo, neovolontarismo… Il vero problema è che viviamo alla periferia dell’impero, è questo il problema. E nemmeno nella decadenza, ma nella periferia. La questione, vede, è che c’è stato un tempo cui esistevano il permesso e il proibito, e uno poteva entrare nell’uno o nell’altro come si andava in chiesa o nei postriboli. Adesso è tutto una stessa cosa e mi manda in confusione. Poi, si sa come vanno a finire queste cose: la forma di sintomo eccetera eccetera. Ma mi confondo, m’impappino, e poi lei è un medico, un veterinario, insomma, che glielo dico a fare?

Lui comunque è qui per una vaccinazione e perché negli ultimi giorni ha avuto problemi a urinare.

Così il veterinario era diventato sporco e il nudo non mi ci aveva portato più, e giacché quella volta quello lì si era tenuto il mio libretto sanitario non eravamo potuti più andare altrove: eravamo rimasti attaccati al veterinario sporco, che s’era tenuto tutto il sapere della mia salute.

«Posso anche andare da solo. Mi lasci giù, io entro, ci parlo un attimo e vediamo di risolvere con una prospettiva di vita: sei mesi, forse un anno, non di più.»

«Ma piantala. Piuttosto posso portarti magari settimana prossima, devo chiamare, però, prima.»

«Ma come, non è più sporco?»

«È sporco, ma ci penseremo.»

«Vuoi proprio vedere con soddisfazione, sentirti dire che Fanfani muore. È il sogno di un Tambroni qualsiasi: ti credevo un uomo di sinistra.»

«Guarda che non si muore mica per l’artrite, si campa anche cent’anni.»

«Mia zia è morta settimana scorsa in una RSA, per l’artrite. Vallo a dire a lei.»

«Oh, signore! Ma guarda che l’artrite ormai si cura, c’è la cannabis, la canapa…»

«Si, così magari te la fumi tutta tu, e ti dai una bella tranquillata.»

«Ma se sono goccine!»

Quando viene sera e il nudo si rimette a studiare io mi siedo in cucina e dico il rosario: lo sgrano tutto e prego per tutti, Dio non sta certo a sottilizzare e anche gli animali hanno un’anima, lo ha detto persino il Papa. Poi mi leggo un po’ un giornale da cani, ce ne sono tanti in giro, così mi tengo informato e prevengo pure la demenza, che è un bel vantaggio. Non sapete quanti amici di tredici, quattordici anni si sono trovati con la demenza nel giro di una settimana, un ictus, una roba tremenda — diceva così un’amica del nudo con un gatto che conosco che una brutta serata il suo Diderot s’era messo a gridare per casa: un siamese vero, col muso a triangolo, miagolava come se non ci fosse un domani, gli occhi slavati, e non capiva più niente. Diderot.exe ha smesso di funzionare, diceva quest’amica, e non so se ridere o piangere, è terribile vederlo così, terribile.

«E se divento così anch’io?» Adesso il nudo vorrebbe spegnere la luce: è molto tardi, m’ha già detto due o tre volte, che cosa c’è ancora?

«Ti metterò in RSA, magari ti prendono per la pet-therapy.»

«Come quella mia zia, che s’era pure trovata tra gli anziani che la bullizzavano, le tiravano la coda.»

«Proprio sfortunata tua zia: l’artrite, il bullismo…»

«Eh, una roba di famiglia.»

«Comunque secondo me tu hai un problema d’ansia. Ipocondria.»

«È l’influenza perniciosa dell’ambiente familiare.»

«Sarà. Però adesso dormiamo, ché sono stanco.»

Mettere alla prova l’esistenza: mistica, estetica e relatività radicale

4

di Daniele Barbieri

“Chiudo gli occhi e vedo uno stormo di uccelli. La visione dura un secondo o forse meno; non so quanti uccelli ho visto. Era definito o indefinito il loro numero? Il problema implica quello dell’esistenza di Dio. Se Dio esiste, quel numero è definito, perché Dio sa quanti uccelli ho visto. Se Dio non esiste, quel numero è indefinito, perché nessuno ha potuto contarli.”

È Jorge Luis Borges, ne El Aleph (1949), trovato in exergue a un articolo de Le Scienze (maggio 2025, “Il senso degli umani per il numero” di Giorgio Vallortigara). La (comunque sempre) brillante riflessione di Borges sollecita il filosofo che c’è in me a osservare che l’argomento vale solo se si accetta un’ontologia cartesiana: una res extensa esterna, che io mi sforzo di conoscere, e una res cogitans interna, che solo io posso conoscere. A parte Dio, il quale, se c’è, conosce tutto – e conosce quindi anche il numero degli uccelli della mia visione, numero che altrimenti resterebbe inesorabilmente indefinito.

Borges (brillantemente) ci inganna, dando per presupposta quella che è semplicemente una tra le ontologie possibili, sia pur quella storicamente più assestata. Sono, quest’anno, esattamente 1700 anni da quando il Concilio di Nicea ha stabilito definitivamente la verità del credo cristiano cattolico (in opposizione a quello ariano), una verità che Cartesio, 1300 anni dopo, si limita (indirettamente, perché i suoi interessi sono altri) a cristallizzare in termini più chiari e filosoficamente definiti.

Definire Cristo come consustanziale al Padre implica evidentemente che Dio sia una sostanza, ovvero una cosa, sebbene una cosa affatto particolare, e questa cosa esiste sebbene su un piano trascendente, diverso da quello immanente. Il Concilio di Nicea, insomma, fonda il Cristianesimo su una base metafisica, ontologica, platonica ma soprattutto aristotelica, perché quella è la prospettiva di riferimento: l’esito della filosofia greca (compatibile con la componente ebraica) che dà senso compiuto al tutto. Dio è sostanza, dunque essere. Anzi, nello specifico, è l’essere per antonomasia.

Come sarebbe andata se il greco e il latino non avessero avuto, nella loro struttura grammaticale, la possibilità di nominalizzare il verbo essere? Come ci fa notare François Jullien, il cinese classico non ha questa possibilità (in verità non ha nemmeno il verbo essere – e la predicazione funziona in altri modi); e da questo semplice fatto linguistico deriva uno sviluppo culturale radicalmente differente da quello occidentale.

Dal 325 fino a ieri, e in parte ancora oggi, la teologia è stata l’impresa di spiegare razionalmente Dio, ovvero l’essere, la sostanza per antonomasia – anche senza arrivare a quell’argomento ontologico che dovrebbe dimostrare (almeno per Sant’Anselmo) incontrovertibilmente l’esistenza di Dio, il quale essendo per definizione l’essere dotato di tutte le perfezioni, non può mancare della perfezione più fondamentale di tutte, ovvero l’esistenza.

Da quando il confronto tra le culture e tra le lingue ci ha reso più consapevoli della relatività culturale dei presupposti filosofici di Nicea, alcuni teologi maggiormente sensibili hanno cercato vie differenti per affrontare il problema di una fondazione della religione cristiana. Trovo particolarmente interessante la posizione, per esempio, di Raimon Panikkar, un pensatore sottile, formatosi attraverso un confronto profondo tra il pensiero cristiano e quello delle religioni dell’India.

Panikkar (Mito, fede ed ermeneutica. Il triplice velo della realtà, 1979, Jaka Book pp. 350-351) distingue tre posizioni possibili sul deontologizzare Dio:

La prima è la posizione dell’ateo razionale: Dio non c’è, non esiste. Non esiste perché nel mondo non c’è traccia di lui, e la scienza va spiegando progressivamente le leggi della natura senza ricorrere a nessun Primo Motore Immobile. Del resto a suo tempo Kant ha avuto buon gioco a inserire la questione dell’esistenza di Dio nella sua Dialettica trascendentale, dimostrando in parallelo (pagine di sinistra e pagine di destra) sia la sua esistenza che la sua non esistenza – così mostrando che la questione è empiricamente e razionalmente indecidibile. Di questa indecidibilità, l’ateismo è una potenziale soluzione; ma è, evidentemente, a sua volta una soluzione di fede: non c’è argomento che dimostri l’attendibilità delle nostre percezioni. Noi crediamo ai nostri sensi, e poiché i nostri sensi non ci mostrano Dio, Dio non c’è.

Si osservi che questa soluzione contraddice l’argomentazione di Borges. In una posizione coerentemente scientista, la mente non è che la manifestazione percepita dell’attività cerebrale, e quindi non una res cogitans separata da quella extensa. La mia visione dello stormo di uccelli deve dunque corrispondere a un mio preciso stato neurofisiologico di quel momento. Se avessimo gli strumenti e le conoscenze adeguate per fare corrispondere lo stato misurabile dei miei neuroni al numero degli uccelli da me visti, quel numero sarebbe definito, anche se io non ho potuto contarli. Se si crede all’oggettività del reale, non c’è bisogno di Dio: la scienza basta, almeno virtualmente. Ma sempre su una fede ontologica ci si fonda, anche se si è abbandonato il dualismo di immanente e trascendente.

La seconda posizione è quella apofatica: Dio non è. L’apofatismo può essere epistemico, sostenendo che Dio non è conoscibile (o che è conoscibile solo in negativo, per negazione, per ciò che non è) ma può anche essere paradossalmente ontologico (Dio è il non essere). Il buddismo, pur profondamente religioso, oscilla tra le due posizioni. Panikkar ha dedicato un intero libro (Il silenzio del Buddha. Un ateismo religioso, 2006, Mondadori) a discutere un aneddoto della predicazione del Maestro. Un giorno un discepolo chiede al Buddha: “Maestro, esiste Dio?”. Buddha, senza rispondere, si volta e se ne va. Il giorno dopo chiama il discepolo e gli dice: “Sai perché non ti ho risposto ieri? Se ti avessi risposto, con qualsiasi risposta, avrei dato valore alla domanda: ma è la domanda che è sbagliata!”

Otto secoli prima di Nicea (ma con presupposti culturali un po’ diversi), il Buddha aveva già vanificato le posizioni del Padri fondatori della Chiesa: dell’esistenza non si può parlare. E in questo senso Dio appare come la non-sostanza. In questa prospettiva, ci dice Panikkar, “La fede in Dio richiede una confidenza così totale che non ci importa del suo essere o della sua esistenza” (Mito, fede ed ermeneutica, p. 350). Con buona pace dell’argomentazione di Borges, che in questa prospettiva perde qualsiasi significato.

La terza posizione è quella della relatività del reale: Dio è nella relazione tra le cose. È relazione, non sostanza: quindi non si può dire né che ci sia né che non ci sia. Scrive Panikkar (ibid. p.351) “Poiché la realtà è la relatività radicale di tutte le cose, essa ci mostra il divino non come un aspetto delle cose, né come pura totalità o alterità, ma come la pura e realmente infinita correlazione reciproca di tutte le cose. La realtà non è niente altro. Il tutto non è che un fascio inesauribile di relazioni. In altre parole: l’esperienza genuina della contingenza porta l’uomo a scoprire non tanto che egli si appoggia ad un ‘altro’ essere per poter sussistere, quanto che il suo stesso essere non è altro che uno stare dentro, un venire da, un far parte, una tensione, un polo, un elemento del tutto, e che questo tutto è la somma degli infiniti fattori esistenti intesa come relazione di tutte le cose. Dio non è né essere né non-essere; né esiste né non esiste; non è tutt’uno col mondo o con l’uomo, ma non è neppure differente e altro; egli è la relazione stessa, la relatività radicale, la dimensione non-dualistica, il fondo o la sommità o qualunque nome vogliamo dargli.”

Questa posizione, che è quella che Panikkar sostanzialmente sposa, è molto vicina a quella che troviamo sostenuta nel più recente libro di Roberto Tagliaferri, Razionale e irrazionale: svolta per un sacro ecologico. 1700 anni dopo Nicea, Cittadella Editrice 2025. Al centro del discorso di Tagliaferri (e di Aldo Natale Terrin e Sergio Manghi, autori di alcuni dei capitoli) c’è il pensiero di Gregory Bateson, con particolare riferimento al suo ultimo libro (in realtà confezionato dalla figlia Mary Catherine sulla base di abbozzi del padre e dialoghi con lui) Dove gli angeli esitano. Verso un’epistemologia del sacro (1987, Adelphi).

Che cos’è il sacro per Bateson? Che cos’è il sacro per un non credente quale lui tranquillamente era (come pure, peraltro, chi scrive queste righe)? Potremmo dire che si tratta proprio di questa dimensione di radicale relazionalità delle cose, una dimensione in cui noi siamo costantemente immersi e che ci colpisce, ci sovrasta, senza che possiamo arrivare a comprenderla nella sua interezza. Quello che la scienza fa (e Bateson era uno scienziato: antropologo, psicologo, biologo figlio di biologi) è di sondare localmente questa natura delle cose, fornendone locale spiegazione. Questa spiegazione, per quanto innegabilmente utile, non è mai sufficiente, e, anzi, talvolta persino alimenta a sua volta la meraviglia e lo stupore per la complessità del tutto. Nessuna comprensione razionale può cogliere nel suo insieme questa dimensione, e il sacro (o Dio) è il senso di meraviglioso e insieme terribile che la sua contemplazione suscita in noi: è la sensazione di essere al cospetto della rete, del sistema di relazioni che ci comprende e dà vita.

All’inizio di Mente e natura (1979, p. 20 dell’edizione Adelphi), Bateson pone un’opposizione tra due universi esplicativi, che lui chiama, con termini gnostici e seguendo Jung, il pleroma e la creatura. Il pleroma è il mondo spiegato secondo le leggi dell’inanimato, quelle della fisica, in altre parole: quelle del determinismo, o delle sue versioni aggiornate dopo Heisenberg. La creatura è quel medesimo mondo spiegato secondo le leggi del vivente, come interpretazioni e finalità, evocando differenze e distinzioni. Nessuno dei due universi esplicativi è più vero o fondamentale dell’altro, anche se ci sono ambiti specifici in cui uno dei due funziona meglio dell’altro.

Indubbiamente, là dove è applicabile, la spiegazione pleromatica fornisce dei vantaggi di capacità di previsione che la farebbero preferire alla spiegazione creaturale; ma la pretesa di riportare quest’ultima ai principi della prima, che viene detta riduzionismo, è a sua volta una posizione di fede, molto vicina alle posizioni sostanzialiste di cui si diceva sopra. La posizione di Bateson, viceversa, non è una posizione ontologica, perché non viene posta nessuna sostanza cui vengano attribuite caratteristiche di per sé. Tutto, piuttosto, si definisce in relazione.

In più luoghi Bateson accenna a una vicinanza tra il senso del sacro e quello del bello, e questa prossimità viene sottolineata anche da Tagliaferri. Credo che questo accostamento ci possa chiarire qualcosa di più su ambedue le dimensioni, mistica ed estetica.

Si può considerare il bello come qualcosa che evoca in noi un senso di sintonia con il mondo, una sintonia dei sensi o anche una sintonia più squisitamente intellettuale. Il senso di bellezza potrebbe essere la consapevolezza di questo senso di sintonia che stiamo provando. Si tratta comunque di un’esperienza, per quanto importante, locale e limitata. Il sacro sembra funzionare allo stesso modo, ma ha carattere globale, e quindi soverchiante, e questo aspetto soverchiante è talmente cruciale che può anche includere il senso (drammatico) di una dissintonia radicale. Il mistico è colui che si mantiene pericolosamente in contatto con questo estremo (insieme meraviglioso e terrificante). La religione (ci dice Bateson) sarebbe quindi il sistema di regole (di riti) attraverso il quale cerchiamo di mantenere il contatto con il sacro senza esserne bruciati.

Lo stesso Tagliaferri ci aveva già raccontato, in un libro del 2013, Sacrosanctum. Le peripezie del sacro (Edizioni Messaggero Padova), come il cristianesimo abbia consapevolmente rinunciato al contatto con il sacro, sostituendolo con un molto più controllabile santo. La stessa impresa razionale della teologia appare, in generale, come un tentativo di controllare Dio sottraendolo alla dimensione pericolosa del sacro, e non pochi mistici sono a loro tempo finiti sul rogo, da Margherita Porete a Giordano Bruno, proprio perché riportavano la dimensione del sacro troppo al centro dell’attenzione, e troppo al di fuori della razionalità imposta dall’istituzione.

È interessante notare poi come la Chiesa arrivi progressivamente a sbarazzarsi del misticismo nel corso del Settecento. Fa notare Marco Vannini (Storia della mistica occidentale, Mondadori 1999, p. 286) che in quel periodo “la mistica venne espulsa dal terreno comune dell’esperienza religiosa e confinata in una ‘riserva’ soprannaturalistica, senza alcuna vera importanza”, di fatto molto più di competenza dell’istituzione psichiatrica che di quella religiosa.

Ancora più interessante è rendersi conto che mentre il Settecento è il secolo dell’abbandono del sacro in occidente, è anche, d’altra parte, il secolo in cui progressivamente si afferma il sentimento del sublime. Il sacro e il sublime hanno una quantità di aspetti in comune, ma mentre il sacro è di pertinenza della religione, il sublime è di pertinenza estetica. Attraverso la contemplazione mediata dall’arte, il meraviglioso e il terribile rientravano tramite il sublime mentre venivano espulsi insieme con il sacro. Con l’ingresso in campo del sublime, la dimensione estetica si configura spesso come una sorta di misticismo controllato, spogliato dei suoi aspetti più pericolosi, più brucianti; ma ugualmente non così tradito – meno tradito, certo, rispetto alla razionalizzazione della fede che è diventata la norma cristiana.

I tempi sono fortunatamente cambiati, e Tagliaferri non farà la fine di Giordano Bruno, e probabilmente nemmeno quella di Baruch Spinoza, cacciato dalla comunità ebraica cui apparteneva perché sosteneva posizioni non così lontane da queste. Ho il sospetto che il libro creerà qualche problema ai credenti più tradizionalisti: è vero che pensare alla relatività radicale getta nuova luce sulla questione della Trinità, la quale è prima di tutto una relazione – ma è anche vero che diventa difficile concepire come persona un Dio che sia pensato in questo modo.

 

Non ho citato integralmente il testo di Borges. Il breve racconto, intitolato “Argumentum ornithologicum”, continua e si conclude così: “In tal caso [il caso in cui il numero è indefinito], ho visto meno di dieci uccelli (per esempio) e più di uno, ma non ne ho visti nove né otto né sette né sei né cinque né quattro né tre né due. Ho visto un numero di uccelli che sta tra il dieci e l’uno, e che non è nove né otto né sette né sei né cinque, eccetera. Codesto numero intero è inconcepibile; ergo, Dio esiste.” L’argomento di Borges contiene un errore (suppongo intenzionalmente) analogo a quello dell’argomento ontologico di cui è la parodia: il passaggio inferenziale dal sapere all’essere, dalla logica all’ontologia.

 

 

La schiava ripudiata

2

di Barbara Antonelli

Il notaio ci aveva dato appuntamento il trentuno mattina, lasciando intendere che non era possibile rinviare. Zia Rita era morta da un giorno appena.

 

Quando papà aveva chiamato dall’ospedale, mi aveva chiesto di andare a casa di zia a prendere qualcosa per vestire la salma.

Non tornavo a casa sua dalla morte di zio Franco, perché zia non ci faceva più salire. Jera mejo passà n’antra volta, diceva, che la casa jera ‘n casino e lei nun c’aveva gnènte da offrì.

Come si veste un morto, nessuno me l’aveva spiegato. Che ne sapevo che ci voleva l’intimo. Papà aveva detto di non darsi pensiero per la taglia, ché la zia negli ultimi tempi si era gonfiata per via delle medicine. «L’infermiera dice che li vesti li tagliano dietro la schiena, chè tanto drento la vara nun se vede gnènte».

Vestire un morto o un vivo, la differenza sta nel taglio, un colpo di forbice e via l’impiccio.

Dovevo fare alla svelta, ma per via di quella puzza di marcio, avevo spalancato le finestre della cucina e controllato il frigo.

Tamponare gli orifizi per piangere meglio il congiunto, mantenere la bocca chiusa con un supporto sotto al mento.

In bagno avevo tirato lo sciacquone e tappato gli scarichi, ma non era servito granché.

Drenare liquidi organici e iniettare conservanti per restituire un colorito naturale alla compianta.

L’arazzo stava appeso in salone, lì dove aveva deciso il nonno, che era sicuro avesse un qualche valore, perché era tessuto in filati di lana e realizzato da manifattura francese. Raffigurava Abramo con Sara, la sposa incapace di procreare, che gli conduce Agar, la schiava che verrà ripudiata. Sposa, io, non lo ero stata per un soffio e subito ero stata ripudiata.

Avevo esaminato dal primo all’ultimo cassetto del comò, alla ricerca di biancheria intatta. Zia aveva rivestito i cassetti con carta di quotidiano, chè l’odore del giurnà lèva via li bestioli, diceva. Anche se l’inchiostro era dei tempi della guerra, che forse gli insetti li sottovalutiamo, ma sono capaci di rimanere stecchiti a leggere della crudeltà umana.

Avevo rimediato qualche maglia lacera, pantaloni rammendati, bende per il sudario, che zia non buttava niente. Un reggipetto con le bretelle allentate e tre paia di mutande in tutto, bucate e con gli orli slabbrati.

Dalla camera da letto mi ero diretta in fondo al corridoio, verso il ripostiglio che la zia teneva inchiavato.

La lampadina era fulminata e mi ero fatta luce con il cellulare. Al centro, in mezzo ai due carrelli dove zia teneva appesi gli abiti di zio Franco, stava il vecchio inginocchiatoio di nonna e un piccolo altare allestito su un tavolino da tè. Sopra la tovaglietta aveva sistemato ceri, lumini, un paio di crocifissi in ottone, un rosario con le pietruzze colorate e fiori imputriditi dentro vasi di porcellana sbeccati. A uno a uno avevo acceso i ceri e ora intravedevo anche un piattino con residui di cibo avariato, oltre a una ciotola con acqua putrida e larve di zanzara. Un cimitero dentro al ripostiglio. Le fiammelle ingigantivano le ombre che tremolavano intorno a due ritratti, quello di zio Franco e quello di un uomo con la tonaca. Di frati o preti in famiglia però, mio padre non mi aveva mai parlato.

 

A detta del notaio, zia Rita aveva dettato istruzioni molto precise riguardo al suo funerale e papà voleva fare le cose secondo carità cristiana.

«Vista l’entità della cifra» aveva detto il notaio lisciandosi la barba, «avremmo potuto chiudere un occhio sul testamento e metterci d’accordo. Ma mi ha telefonato il parroco».

Io e papà ci eravamo guardati senza capire.

«Mi ha detto di stare attento a come mi comportavo, perché aveva una copia del testamento».

«Scusi, de che cifra stìmo a parlà? Nun ce capìsso» aveva detto papà.

Papà era stato sempre attento a non discutere di soldi in famiglia. Quando si era sposato, la zia gli aveva regalato centomila lire. Papà e mamma ci erano andati al lago di Garda ma, al rientro dal viaggio di nozze, la zia aveva richiesto i soldi indietro. Se trattava de nu prestito, aveva spiegato e papà aveva onorato il suo debito.

«Quale parroco?» avevo detto io.

«Il parroco di Sant’Andrea. Per volontà della defunta, le spese del funerale competono al parroco, ma lui mi ha chiesto di metterle a carico vostro. Mi sono permesso di rispondere che con un milione di euro, una cifra da destinare alle esequie poteva anche rimediarla».

«Quant’è che ha detto? Nu milione?»

Papà era andato in confusione. Stava contando i debiti del negozio. Ci saremmo sistemati una volta per tutte. Avremmo potuto chiudere senza troppi pensieri e liquidare i dipendenti senza brutte figure. Che io a Serra c’ero tornata soltanto per dare una mano a papà in quel frangente, dopo essere andata via per la vergogna. Che pure mia madre era morta dal dispiacere dopo che ero stata abbandonata sull’altare.

Ma l’avevo bloccato subito papà, prima che si illudesse: «Papà, non è per noi il milione».

«No, infatti. Sua zia, la defunta sorella di suo padre, ha lasciato tutto a Don Lavinio Patrone».

«E chi è ‘sto Patrone? Noi ce semo presi cura de lu nonno, che mia sorella belpunto mica lo voleva in casa. Te ricordi che quella vorta che ho deciso de portà la famija in vacanza, ho chiesto a zia de prenderselo in casa, lu tempo che stavamo in campeggio. Che quando semo tornati dal campeggio, zia ce ha presentato lu conto del vino, perché lu nonno nun pranzava senza. Mejo puzzà de vi’ che d’ojo santo!».

«Se posso darvi un consiglio, se mi permettete signori, abbisogna sentire il parroco. Andate a bussare alla porta sua. Chiedete un aiuto, dopotutto la misericordia…»

Ancora il pensiero dei debiti e dei fornitori da liquidare prima che le banche si portino via tutto. Pure la dignità.

Pagare i contributi ai dipendenti prima della chiusura, che papà faceva qualunque cosa pur di non rimetterci la faccia.

Prendersi il nonno in casa ammalato e accontentare la zia che in casa non lo voleva.

Accontentarsi del negozio, perché lei si era presa la casa con l’arazzo dentro.

Accompagnarmi all’altare con l’abito bianco. Che io un dispiacere così grande non lo volevo dare a papà ed ero scappata in città per non pensarci.

 

«Inzomma, me sorella s’è comprata lu paradisu. ‘N lascito pe’ le opere de bene».

«Ecco guardi, mi rimetto alla buona fede del fortunato erede, ma per puntualizzare, se permettete signori, non è un lascito alla parrocchia, ma un lascito personale».

 

Ci ero andata, allora, da don Lavinio. A chiedere di avere indietro l’arazzo, quello della schiava ripudiata. Un cimelio di famiglia, poca cosa, che ci avrebbe dato una mano a liquidare i fornitori.

«Ma certo» aveva detto «lo farò stimare e vi farò sapere il prezzo».

 

E siccome la dignità l’avevo accantonata da un po’ e a me non importava un fico di rimetterci la faccia, dopo il brutto tiro che ci aveva giocato la zia, mi ero decisa a scrivere una lettera.

A Sua Eccellenza Reverendissima, Arcivescovo di Civitanova,

 

mi rivolgo a Lei rispettosamente circa la possibilità di un confronto intorno a un tema delicatissimo e di grandissima importanza.

 

 

Michael Palmer – Appunti per Echo Lake

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Dopo l’uscita di alcune traduzioni online nel corso degli ultimi vent’anni – a cura di Andrea Raos, Gian Maria Annovi (qui e qui) e, più recentemente, Stefano Bottero – sarà dal 6 novembre disponibile una prima traduzione italiana in volume della poesia di Michael Palmer: Appunti per Echo Lake, tradotto da Lorenzo Mari per Finis Terrae, nella collana Le Meteore diretta da Domenico Brancale e Anna Ruchat. Come si legge nella bandella del libro, si tratta di una scelta specifica nella vasta produzione dell’autore, nato nel 1943 a New York e residente in California, perché «[i]n Notes for Echo Lake (1981), la scrittura di Michael Palmer, spesso identificata con la Language Poetry, segna un apice e insieme un punto di svolta», e ancora, «[s]e Notes for Echo Lake si basa sull’assunto che il mondo possa essere letto come un testo, non si accontenta per questo di sancire la definitiva dissoluzione dell’esperienza: ogni slittamento del linguaggio nella costruzione del senso poetico è motivo per intrecciare riflessioni e operazioni linguistiche alla meditazione filosofica ed etica». Traduttore dal portoghese, dal russo e dal francese – emblematico, tra tutti, il lavoro di traduzione reciproca con Emmanuel Hocquard – Palmer suggerisce un ascolto costante della “musica silente” del linguaggio – un po’ come Keats, come sottolinea Ben Lerner in questa breve introduzione per sei poesie di Palmer pubblicate su “Harper’s” nel 2018, e un po’ come Wadada Leo Smith: in un testo dedicato al grande jazzista afroamericano, Palmer scrive qualcosa che vale anche per tutta la sua poesia: «It must not flow, / must come out wrong, / since such is song.».

Appunti per Echo Lake 2

Lui assumeva uno sguardo fin dentro la parola, chiunque ci fosse a guardare. Chiunque volesse guardare. Un andare e venire nel fumo.

Una parte e a parte.

Voci attraverso una parete. Sono lì perché noi le sentiamo che cosa sentiamo. Verso la fine il tono si alza per indicare una domanda.

Cos’è che sta spuntando in giardino.

Aver perso le parole. Com’è che vi si muove la mente, camminando oltre l’argine di quello che era stato un fiume. Com’è che la luce.

E il ritmo come un braccio, il ritmo come un braccio aperto, lui gira ancora e ancora ricordando la canzone. Cos’è che rammentava lei.

Ovvio che fosse il presente ciò che la Sibilla vedeva più distintamente, leggendo i segni letterali, le parole intorno a lei, finché non appariva un nuovo insieme di segni. E divinare l’interezza del messaggio da lei pronunciato esigeva da chi l’ascoltasse un’attenzione consona. Il messaggio era il mondo tradotto, e chi parlava e chi ascoltava diventavano una cosa sola. Il suo messaggio era il segno stesso.

Hermes a un tempo come il messaggero e il dissimulatore. Hermes come il segno.

Chi è che vive parlando e disascoltando, i lampascioni vicino al fiume, le rose centenarie in giardino, il lillà, l’iris, il papavero, il gelsomino a pergola sulla finestra della cucina.

Camminano accanto alla partenza e si dispiegano le immagini di un greto secco, le voci a braccetto attraverso una parete. Camminano accanto a una risposta che digita ogni sua lettera nello stesso istante in cui appare. Una grande stanza bianca ha un soffitto con le travi a vista. I poveri vivono in grandi schiere.

Osservando il mare lui dipinge un viso di donna, richiede più luce e più tempo. C’è mai un’immagine che appaia, parola nella parola, pelle blu come la polvere, più oltre colline senza un nome. C’è mai un’immagine se c’è.

Aver perso e fare ritorno laggiù, dicendo cose e parlando, è iniziato a piovere. Lui dipinge un viso di donna color del mare ma poi ritrae un’altra persona come una sedia vuota. Poi impara a cancellare ogni giorno quattro parole.

Come un braccio piegato potrebbe significare “scorrere”.

Si scontrano vicino alla porta del bar, si sorridono educatamente e passano oltre. Lui osserva il filosofo voltare l’angolo e sparire.

C’è una poesia gradevole.

C’è una poesia come uno straccio bianco.

C’è una poesia che si lecca la lingua.

Lascia che ti presti la mia forchetta.

La voce ha luogo attraverso una parete.

Mentre la canzone si divide, lei spiega con un ampio gesto.

Noi non siamo mai stati felici qui mai stati più felici.

 

Parla novembre

Certe facce sembrano le nostre
brandelli di aprile recisi dalla parte del tronco
finestre e porte in tutto e per tutto nostre
che sognano il sentiero di ghiaccio
al di sotto della cheppia, sonno che fiorisce

casualmente sulle spalle strette
e le ruote di un certo qual giorno dentro le ruote
Un uomo senza testa sta attraversando la strada
mentre ricordiamo la riva più vicina
delineata da nuvola, sonno

umido al nostro tatto, sostanza
di lacrime offerta a sorsi
così tanti di noi
qui, così tanti che mancano
che sarebbero potuti essere qui

per Bob Perelman

 

Documentazione

Ti ho detto tutto in breve e sinceramente”
Inno omerico, A Demetra

Questa strada finisce in un campo di grano
e il cielo è pieno di corvi ubriachi
ovvero com’è che sappiamo quel che sappiamo

Ha detto lui reggendosi l’orecchio tagliato
Il cielo attraversa con troppa rapidità la cornice
e il sorriso è stato applicato in obliquo

Ecate velata vive in tre corpi
illuminati da una luce approssimativa
La figlia riceve dolore ed è in vita

La figlia recita dolore ed è in vita
mentre la madre la espone al fuoco
e la bambina alza un ciuffo di capelli gialli

chiedendosi perché siano stati tagliati
L’albero barbuto è la terza parte
cui sono appese le età dell’orzo

Hanno amato un’architettura segreta
che lascia false prove di sé
e amano essere tre in una sola

La nostra visita è durata un inverno intero
e noi abbiamo quasi scordato come si chiama ogni parola
Il cielo attraversa con la sua rapidità la cornice

 

Caro M

sono il sesso e i soldi che importano, un vasto canyon dove il vento fa il suo giro, acqua con sali minerali rappresi sulla superficie del bicchiere, un paese che ha cessato di esistere, come per intesa. Violini (sentimentali), pianoforte (pomposo), A con i suoi piaceri misteriosi che nessuno conosce e i fiati infine – da dove sono arrivati i fiati? È lunedì e la laguna rimane entro i propri limiti. Ci sono degli aironi. Come sempre mi perderò la tua visita poi te la renderò. Non c’è parvenza di movimento sulla terra. Qui “acqua” sta per “ordine”. La versione straniera non ci dice né di più né di meno.

*

 

Notes for Echo Lake 2

He would assume a seeing into the word, whoever was there to look. Would care to look. A coming and going in smoke.

A part and apart.

Voices through a wall. They are there because we hear them what do we hear. The pitch rises toward the end to indicate a question.

What’s growing in the garden.

To be at a loss for words. How does the mind move there, walking beside the bank of what had been a river. How does the light.

And rhythm as an arm, rhythm as the arm extended, he turns and turns remembering the song. What did she recall.

It was of course the present the Sybil most clearly saw, reading the literal signs, the words around her, until a further set of signs appeared. And to divine the fullness of the message she uttered would demand of her listener an equivalent attention. The message was the world translated, and speaker and listener became one. Her message was the sign itself.

Hermes alike as the bearer and concealer. Hermes as the sign.

Who lives in the speaking and unlistening, wild onions by the river, roses in the garden a hundred years old, lilac, iris, poppy, jasmine trellised above the kitchen window.

They walk beside departure and images of a dry riverbed unfold, voices through a wall arm in arm. They
walk beside an answer typing each letter as it appears. A large white room has a beamed ceiling. The poor live in long rows.

While staring at the sea he paints a woman’s face, requests more light and time. Is there ever an image that appears, word inside word, skin blue as dust, nameless hills beyond. Is there an image if there is.

To be at a loss and to return there, saying things and speaking, it’s started to rain. He paints a woman’s face the color of the sea but portrays someone else as an empty chair. Then he learns to erase four words each day.

As an arm folded might mean “to flow”.

They collide near the café door, smile politely and pass. He watches the philosopher turn the corner and disappear.

There is agreeable poetry.

There is poetry like a white cloth.

There’s a poetry licking its tongue.

Let me lend you my fork.

Voice occurs through a wall.

As song divides itself, she explains with a wave.

We have never been happy here have never been happier.

 

November Talks

Certain faces seem to be ours
pieces of April broken from the main part
window and door entirely ours
who dream of the path of ice
beneath shad, sleep flowering

casually over narrow shoulders
and wheels of a given day within wheels
A headless man is crossing the road
as we remember the earliest shore
outlined by cloud, sleep

wet to our touch, material
of tears offered in sips
so many of us
here, so many missing
who might have been here

for Bob Perelman

 

Documentation

“This is how it happened”
Homeric Hymn to Demeter

This road ends in a field of grain
and drunken crows are filling the air
or how do we know what we know

He spoke holding his severed ear
The sky moves too quickly through the frame
and the smile has been put on sideways

Veiled Hecate lives in three bodies
lit by approximate light
The daughter receives grief and is alive

The daughter recites grief and is alive
as the mother places her in the fire
and the child holds her yellow hair out

wondering why it’s been cut
The bearded tree is the third part
where the ages of the barley hang down

They have loved a secret architecture
that leaves false evidence of itself
and they love to be as three in one

Our visit has lasted an entire winter
and we have half forgotten each word’s name
The sky moves that quickly through the frame

 

Dear M

Yes it is sex and money that matters, a long canyon wind effects, water with minerals caked on the edge of the glass, a country that has ceased to exist, as per agreement. Violins (maudlin), piano (overwrought), A with her mysterious pleasures none share and horns finally – where did the horns come from? It is Monday and the lagoon maintains its border. There are herons. I will miss as always your visit and return it. There is no suggestion of movement in the earth. “Water” here stands for “order”. The foreign version tells us neither more nor less.

Distanza, speranza. In scena a Napoli «La Distance» di Tiago Rodrigues

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di Ornella Tajani

Che cos’è la speranza? L’irraggiungibile traguardo di una lotta costante, che quotidianamente si confronta con l’imperfezione del mondo, o l’ideale di una vita drasticamente migliore, seppur svuotata di storia, di arte, di quanto insomma definibile come cultura umana?

Nel 2077 una figlia si trasferisce su Marte per partecipare alla creazione di un nuovo mondo, improntato al valore dell’uguaglianza; il padre, rimasto su una terra scossa da grandi, imprecisate catastrofi, cerca il modo di entrare in contatto con lei. Ci riuscirà attraverso degli audiomessaggi, che molto ricordano la sottile alienazione delle conversazioni tramite vocali su Whatsapp: asincrone, fatte di repliche giustapposte, quasi senza intersezione. Se l’incomunicabilità generazionale è il nervo del dialogo, in questa distanza planetaria tuttavia la loro comunicazione raggiunge forse il suo stadio più riuscito – chi guarda si chiede fino alla fine se sarà anche l’ultimo.

È il plot di La Distance, bellissimo spettacolo inaugurale della stagione del Mercadante di Napoli: in anteprima italiana dopo il debutto al festival di Avignone, del quale l’autore e regista Tiago Rodrigues è direttore, va in scena ancora per stasera nel suo adattamento francese, con protagonisti Adama Diop e Alison Dechamps (traduzione di Thomas Resendes, sottotitoli italiani di Chiara Elefante).

La distanza fra padre e figlia inizia ben prima del trasferimento su Marte, quando Amina si trasferisce a Sidney, agli antipodi di un genitore che non andrà mai a trovarla, pur documentandosi su ogni aspetto della città e suggerendole il tour in barca fra le rovine del teatro d’opera metropolitano dalla celebre architettura. Plausibilmente a causa di danni dovuti al surriscaldamento climatico, il paesaggio terrestre è infatti pesantemente modificato: nel mare non si fa più il bagno, le acque sono piene di meduse, mangiare il pescato è pericoloso; l’ospedale dove il padre lavora soffre di grandi penurie.

Fra accuse e rimpianti il dialogo fra i due lascia il posto ora a considerazioni di ordine politico-culturale sul valore della storia e della memoria, che riecheggiano aspetti dello scenario internazionale attuale, ora all’evocazione di ricordi più intimi. Proprio la memoria è un tema fondamentale: per poter partecipare al programma su Marte, Amina ha dovuto accettare di seguire «il protocollo dell’oblio», ossia di perdere ogni traccia della propria vita personale, compresa naturalmente l’esistenza dei familiari; solo le resteranno quelle delle sue competenze scientifiche (eppure, strada facendo si scopre che anche della scienza, senza l’umanità che l’ha inventata, resta poco). Alla verticalità della prospettiva storica, cui è profondamente legato il padre, si oppone l’orizzontalità spaziale della figlia, per la quale gli strati del passato sono obliterabili: sebbene la vicenda si svolga nel futuro, sembra di assistere al conflitto fra una visione ancora novecentesca e quella di una ventenne di oggi.

I due hanno circa trecento giorni a disposizione per sentirsi, raccontarsi, prepararsi al distacco definitivo: se il primo tenta insistentemente di convincerla a rientrare sulla terra, la seconda, inizialmente più motivata a restare, nel perdere pian piano la memoria comincia ad avere nostalgia del mare, del cibo, di quella lingua materna – il portoghese – che quasi non riconosce più. È uno dei momenti più toccanti della pièce: nel giorno del compleanno di Amina, il padre le registra un audiomessaggio con la «loro» canzone, Sonhos di Cateano Veloso. All’interno della struttura deliberatamente arida della pièce, sostenuta però da una scena funzionale e d’impatto (un palco roteante diviso in una metà terrestre e una marziana), le sonorità del brano musicale sono dirompenti: complice la bravura del protagonista Diop, che intorno alla propria figura riesce a creare una fortissima empatia, le note risuonano davvero come una voce materna proveniente da uno spazio remoto.

Nelle parole dello stesso Rodrigues, inventare una distopia significa immaginare uno scenario da incubo per scorgervi un’ipotesi di sogno: qui il sogno, la speranza sono plasmati dagli scambi fra i due protagonisti, che in forme diverse, ognuno a proprio modo, riescono a incarnarla. «A esperança é um dom que eu tenho em mim», canta Caetano Veloso: la speranza è un dono che ho dentro di me, e in quanto tale non può che rivelarsi disperatamente umana.