L’entusiasmante tempo presente
di Stefano Felici
«It’s an exciting time in the world right now», dice un uomo, dall’aspetto trasandato – forse un senza tetto –, sdraiato sui sedili di un vagone della metropolitana newyorchese. Viviamo in tempi entusiasmanti. Lo dice e lo ripete all’indirizzo di un giovane dall’aria allucinata, occhi sgranati e fissi, la testa coperta dal cappuccio della felpa, che seduto al suo posto si guarda intorno, come intimorito da qualcosa o da qualcuno. Ma nessuno, nel vagone della metro, sembra accorgersi di nulla. Tranne il ragazzo, appunto. Che sa – e ne avrà conferma di lì a poco – che quell’uomo sdraiato sui sedili, che ora si calca un cappello sulla testa e si gira dall’altra parte, non ha poi tutti i torti.
Mr. Robot è l’ennesima e acclamatissima serie tv prodotta negli Stati Uniti. Appena terminata la trasmissione della prima stagione (l’ultimo episodio è andato in onda il 2 settembre su USA Network, canale satellitare della NBC), si è subito ritrovata addosso l’etichetta di capolavoro. Pratica usuale, ormai, nell’ambito di questa consolidata arte rintracciabile a metà strada fra cinema e romanzo d’appendice.
Al centro di Mr. Robot, al massimo delle loro contraddizioni, ricchezze, ingiustizie, esaltazioni, drammi, catastrofi, paranoie e complotti, ci sono proprio i nostri tempi entusiasmanti. Il nostro presente.
Se è vero che risulta quasi impossbile trovare entusiasmo in un’epoca dove crisi economiche e conflitti politici su scala mondiale gravano sul pianeta con un peso sempre più insopportabile, evidenziando un desolante e inarrestabile moto autodistruttivo che il genere umano sembra ormai condurre con un’intensità via via crescente, si intravede, parallelamente, un innalzamento spropositato, massimale e ipertrofico di quello che è il prodotto più alto e compiuto della nostra mente collettiva – il suo picco massimo da quando, millenni addietro, l’uomo cominciò a interagire con l’ambiente circostante per mezzo della propria razionalità; e questo prodotto è la tecnica.
Oggi la tecnica, smarcata dall’oggettivazione materiale, tipica del secolo scorso, è – nelle sue massime espressioni – un qualcosa di totalmente impalpabile, invisibile. La sua manifestazione principale è composta da un universo di sistemi di codici alfanumerici e simboli, che viaggiano alla velocità della luce. Dati, informazioni e comandi; un caos efficiente ma ineffabile, difficile anche solo da immaginare. A meno che, dentro a tutto questo, non ci si ritrovi letteralmente immersi, connessi volontariamente a quella sorta di muta e anonima rete neurale che tiene collegati, anche a loro insaputa, persone, aziende di ogni tipo, banche, sicurezza nazionale, entità fisiche e finanziarie.
Per rappresentare questa idea di presente, Sam Esmail, creatore di Mr. Robot, inventa il personaggio di Elliot Alderson.
Elliot è un ingegnere informatico. Lavora per un’azienda che si occupa di sicurezza e custodia dei dati: la Allsafe. Elliot possiede un’intelligenza e delle doti informatiche eccezionali: oltre a difendere, è in grado di attaccare qualsiasi rete o sistema, e i suoi attacchi – al di fuori delle ore lavorative – sono altrettanto frequenti che le operazioni difensive di routine; Elliot, infatti, è un hacker.
Come insegna il luogo comune sui nerd, Elliot si trova a proprio agio quasi esclusivamente davanti a un monitor e a una tastiera. I rapporti umani non sono il suo forte, e anzi: sono il suo punto debole. Il suo bug. Che si allarga, per via di molti altri disturbi, fino a intaccare la propria sfera cognitiva: Elliot soffre di allucinazioni; dialoga con un amico invisibile, presente solo nella sua testa; arriva a non distinguere più ciò che è reale da ciò che è immaginario.
Così, il modo migliore di affrontare la vita, per Elliot, è rapportarsi agli altri come se questi fossero dei sistemi operativi: ne individua i bug, i daemon (cioè i comportamenti abitudinari e inconsci, dacché in informatica i daemon non sono altro che programmi automatici eseguiti mentre l’utente compie altre operazioni), per comprenderli e tentare, almeno, di uscire indenne dal confronto. Nel mondo di Elliot l’informatica è una chiave d’accesso per la realtà; ma gli esseri umani non diventano per lui surrogati delle macchine: semmai, la sua particolare visione restituisce, in un processo inverso, un aspetto umanizzato, quasi naturale, alla forma mentis informatica. Perché lo scopo di Elliot, a conti fatti, non è l’isolamento. La sua spinta è sfuggire a una dolorosa solitudine, a un’alienante incomunicabilità con l’esterno. Per sopravvivere, momentaneamente, Elliot fa uso di morfina e frequenta sedute di psicoterapia. L’equilibrio, però, sembra troppo lontano.
È la rabbia il risultato più visibile. La frustrazione ha il sopravvento. «Fuck society!», alla fine, è quello che Elliot vorrebbe gridare a tutto volume. Ma un individuo con le sue potenzialità, con la capacità di muoversi nell’invisibile rete che tutto sovrasta e avviluppa, non può concedersi solo un mero sfogo infantile. L’istintivo fuck society si contrae. Diventa fsociety.
Il tizio sdraiato sui sedili della metro, quello dei tempi entusiasmanti, è un hacker. Come Elliot. È un uomo strano e indossa una giacca con una piccola scritta sul petto: Mr Robot.
Mr. Robot si presenterà a Elliot con una richiesta: aiutarlo a distruggere il conglomerato di multinazionali più potente del mondo: la E-Corp. Il fine è quello di liberare qualsiasi persona da ogni debito, di cui proprio la E-Corp ha il controllo. «La più grande redistribuzione di ricchezza di tutti i tempi», dice Mr. Robot.
L’idea di Sam Esmail potrebbe sembrare semplice: una personalità borderline decide di far saltare l’intero sistema finanziario (e sociale) perché ha avuto la visione di un mondo migliore, in cui le persone sono libere, ancor prima che dai debiti, dal consumismo, dai desideri imposti dall’alto e che vengono fatti passare come bisogni primari irrimandabili per arrivare ad avere una vita soddisfacente. È, a ben vedere, l’idea che regge Fight Club, il romanzo di Chuck Palahniuk portato sul grande schermo da David Fincher.
Il Progetto Mayhem fantasticato nel libro del ’96, il cui scopo è far saltare in aria tutti gli istituti di credito della città, è qui trasformato nella fsociety, la squara di hacker messa in piedi da Mr. Robot per distruggere i server E-Corp, e il cui simbolo è una variante della maschera che raffigura Guy Fawkes, ideata per il protagonista del fumetto V for Vendetta da Alan Moore – adottata poi anche dal gruppo hacker Anonymus. Ma il parallelo è ancor più evidente quando si scopre che tra il protagonista di Fight Club e Elliot Alderson c’è in comune quell’inquietante ma – narrativamente parlando – geniale disturbo che dà letteralmente corpo al proprio sdoppiamento di personalità: a Tyler Durden, leader pazzo e carismatico dell’operazione Mayhem, corrisponde proprio il Mr. Robot a capo della fsociety, proiettato dalla mente di Elliot.
Ma il calco della trama di Fight Club non è un problema per l’originalità e la qualità di questa serie. Mr. Robot rispetta in pieno i canoni del genere: una sceneggiatura che sa dosare la velocità e la frequenza degli eventi, creando e risolvendo grovigli con estrema precisione; una regia concreta, pragmatica, eppure attenta a restituire il dato estetico, accompagnata dall’oscura e suggestiva colonna sonora “techno-thriller” di Mac Quayle. Non da meno gli attori, con Rami Malek – che interpreta Elliot Alderson – perfetto sotto ogni punto di vista, in un ruolo dove convergono una quantità spropositata di disturbi mentali, pulsioni, dubbi e riflessioni e paraonie.
Il ritornello degli ultimi anni ci informa che le serie tv sono il mezzo di espressione più completo e adatto per raccontare i nostri tempi – o anche solo per intrattenerci – al pari di quello che sono stati romanzi e cinema in altri tempi tutto sommato non così lontani. Mr. Robot, inscrivendosi in questo continuum, grazie a un ineccepibile aspetto formale rafforza a tal punto i propri contenuti da renderli infatti molto simili, per attualità, pregnanza e valore letterario, ai romanzi americani massimalisti di un Foster Wallace o un Pynchon. Pur essendo un prodotto maggiormente attento ai risultati di audience, l’atmosfera che arriva allo spettatore sembra il composto chimico degli elementi che caratterizzano in pieno la narrazione postmoderna: una smisurata paranoia complottistica che parte dalla stanza del protagonista, o ancor più dai suoi pensieri, per arrivare a una rete di pura malvagità sospesa al di sopra dell’intero pianeta, e il cui scopo è controllare la volontà degli esseri umani (il conglomerato E-Corp viene ribattezzato da Elliot stesso come Evil Corp); il sospetto che dietro le cose, gli oggetti, e in questo caso i codici, le trasmissioni via etere, ci sia dell’altro, qualcosa su cui indagare, come se si nascondesse in fondo una metafisica dell’inanimato finora inesplicabile; la sensazione continua di essere naufraghi alla deriva fra piccole isole di verità lontane fra loro, e quindi menzogne, allucinazioni mostruose, teorie indicibili. Mr. Robot è inquadrato in un tipo di racconto classico, ma, come avvenuto di recente in una serie come True Detective, riesce a caricare di significati, ipotesi e riflessioni le scene che si susseguono rapidamente per venire a capo del finale.
A Mr. Robot è stata prontamente applicata l’etichetta di capolavoro perché riesce, almeno in questa prima stagione, nel tentativo di maneggiare e osservare sotto diverse luci questo entusiasmante tempo presente. Restituirlo in un racconto appassionante senza risparmiare critiche.






La storia di Alice, tutta la sua fantasmagoria irriverente e perturbante, la associo nella mente a un oggetto preciso. Un libro, e uno soltanto. L’ho recuperato, e con quello i ricordi d’infanzia che ad esso si fondono nella memoria, nella biblioteca della mia casa in campagna nelle Marche. Una casa dove non vivo – risiedo all’estero ormai da molti anni, in quello spazio contemplativo e spesso nostalgico che consente, o impone, la distanza – ma dove ho raccolto su scaffali di legno lucido e pesante tutti i libri che nei miei molti viaggi, traslochi e spostamenti non ho potuto portare con me. E sono tanti. Li ritrovo ad ogni ritorno, mi aspettano nel loro ordine non cronologico, non alfabetico, e neanche troppo tematico, aggiustati sui ripiani a seconda delle dimensioni e dell’altezza dei loro dorsi. Mi piace che la loro disposizione sia gradevole anche all’occhio – o sempre avuto un po’ la fissa delle simmetrie, dell’armonia delle forme. Mi riprometto spesso di cambiare quest’ordine molto poco filologico, di mettere in sequenza tutti quei libri per autore, o più diligentemente per argomento, il che, mi dico, verrebbe tutto a mio beneficio, la ricerca di questo o quel volume sarebbe senz’altro più agevole. Ma poi mi dico anche che i dorsi dei miei libri li conosco tutti, e che comunque mi ci vuole un attimo per riconoscere quello che mi serve, a colpo d’occhio, e a colpo sicuro. Allora a che pro cimentarsi in un riordino lunghissimo e noioso, visto anche il poco tempo che trascorro in quella casa, solo per le parentesi brevi delle vacanze. Quindi è rimasto tutto com’è, anche stavolta.
Non so bene se mia sorella conoscesse già la storia di Alice nel paese delle meraviglie, probabilmente mio zio doveva avergliene parlato in precedenza, e il libro in regalo era il coronamento ideale dei suoi racconti. Ma ricordo la felicità e il sorriso aperto sul viso di Elena per quel regalo così piccolo eppure così carico di promesse e di avventure da sfogliare ad ogni pagina. E ricordo la mia curiosità di minuta analfabeta e nuova al mondo per quel piccolo oggetto rettangolare e misterioso. Era l’ultimo Natale di quei difficili anni Settanta – funestati dal terrorismo, dalla crisi energetica ed economica, e la nostra Ancona anche da un terribile terremoto venuto dal mare di cui ancora, nonostante una rapida ricostruzione, la città e i suoi abitanti portano con sé la memoria e le ferite – che ci avevano visto nascere, e ci stavano lasciando crescere. Un paperback poteva ben bastare, al tempo, per renderci felici. E non avremmo osato, comunque, chiedere niente di più.
sse mai uno spasso per lei, una ricreazione, piuttosto una prova assurda da superare per approdare all’avventura successiva, come in una specie di raccontato videogame ante litteram (e anche i protagonisti dei vecchi giochi elettronici con cui mi intrattenevo da bambina, a ripensarci adesso, non ridevano mai).
N.I. La casa, intesa sia come spazio fisico che come luogo immaginario, declinata come nido in cui rifugiarsi o come carcere castrante e opprimente, come ricettacolo di affetti e ricordi familiari o come luogo congeniale allo sprigionarsi di forze psichiche irrazionali e violente, è un ambiente che ha spesso ispirato gli scrittori, in ogni epoca e a qualsiasi latitudine. Molti di questi scrittori sono tra l’altro a te particolarmente cari, penso a nomi quali Landolfi, Borges, Gombrowicz, Poe, Kafka, Canetti e tanti altri. D’altra parte tu stesso hai posto la casa al centro di molti tuoi romanzi e racconti. In tal senso
N.I. Un altro autore che ami, Gesualdo Bufalino, giunse all’opera di traduzione da autodidatta per poi regalarci non solo splendide traduzioni ma anche interessanti riflessioni sull’arte del tradurre, quale ad esempio questa: «Il traduttore è come uno scassinatore di casseforti. Guai se gli tremano le mani […] Freddezza e passione, dunque, ci vogliono entrambe. Il traduttore deve essere insieme un mistico e un ingegnere. Quindi tradurre è più di un esercizio: è un gesto di ascesi e di amore». Quali sono gli aspetti che per te contano di più nella traduzione di un testo? Saresti disposto a sacrificare la fedeltà a favore di una maggiore letterarietà, insomma, per dirla con il Monti, «una bella infedele fa sempre miglior fortuna di una brutta fedele»?

Sempre a proposito del forte legame che lega Mari ai propri oggetti non ci si può esimere dal chiamare in causa (è egli stesso a farlo nella Prefazione) il trattatello intitolato Fantasmagonia, racconto eponimo della raccolta uscita nel 2012. Fantasmagonia, articolato in un introibo e diciannove paragrafi, costituisce un esauriente enchiridio sulla fantasmasi e presenta tratti fortemente autobiografici. In esso almeno due paragrafi, il dodicesimo e il diciassettesimo, si soffermano sul rapporto che l’apprendista fantasma intrattiene con gli oggetti. Egli ama soffermarsi «con speciale affetto» su alcuni oggetti della casa «provando in anticipo il lutto della loro perdita» e «proprio le cose cui più il proprietario pensava con prolettico rimpianto sono quelle che più, dopo la morte, lo imprigioneranno».



Il corpo a corpo tra realtà e finzione è qualcosa che ci riguarda tutti, ossia tutti gli uomini, anche se naturalmente riguarda ancora di più gli scrittori, più in generale gli uomini d’arte ma forse soprattutto gli scrittori. Il nuovo libro di Javier Cercas ha un titolo esplicito e sfrontato che in qualche modo definisce la natura di questo corpo a corpo, o meglio la natura di colui che se ne fa palcoscenico, o ring, uomo o scrittore cambia poco: L’impostore (traduzione di Bruno Arpaia, Guanda) è un altro ponderoso tassello della ponderosa produzione letteraria di Cercas, e un libro in cui il narratore spagnolo si avvicina vertiginosamente alla ratio stessa della letteratura, alla sua ragion d’essere e al suo modo di essere e di essere pensata e agita.





– Credo ne abbia avuti a decine, e di razze diverse.





