(Alberto Giorgio Cassani ha scritto un libro complesso e affascinante – Figure del ponte: Simbolo e architettura, Pendragon, Bologna, 2014 – che sa spaziare, enciclopedico, dalla letteratura alla filosofia, dalla architettura alla storia, etc. Qui ci regala un testo inedito sull’argomento del suo saggio, e noi per questo lo ringraziamo. G.B.)
Simboli e metafore di una figura architettonica
di Alberto Giorgio Cassani
Creare ponti e non alzare muri. Questo è l’aforisma newtoniano – un altro segno dei cambiamenti epocali della Chiesa Cattolica? – lanciato al mondo da papa Francesco. E come sarebbe potuto non essere, venendo dal Ponti-fex Maximus, il costruttore di ponti? La società, invece, sta andando esattamente nella direzione opposta: i muri reali costruiti da Israele nei confronti dei Palestinesi, i muri virtuali che si levano alle frontiere per non far passare i migranti da un paese all’altro, i fondamentalismi di ogni genere che stanno fomentando gli odî fra i popoli. L’archetipo e la metafora del ponte come simbolo del collegare, del lanciarsi di là dall’ostacolo, nella volontà di unire e non dividere sembra sempre più un’immagine retorica e impopolare in questi tempi d’intolleranza, lacerazioni e paure.
Ma il ponte è davvero quella cosa che unisce due sponde opposte creando un legame che supera due polarità? O nel ponte si nascondono altri aspetti, celati nell’immagine apparentemente pacificante e di più scontata evidenza?

Nel 1893, Rudyard Kipling pubblicò un formidabile racconto dal titolo The Bridge-Builders, I costruttori di ponti . In quel testo sono contenute tutta la profondità e tutte le aporie che ruotano intorno alla figura di cui stiamo ragionando.
Il ponte, qui, è la rappresentazione della Tecnica dispiegata dell’Occidente che pretende di conquistare il mondo e davanti alla quale niente può resistere: religione, tradizioni, miti, leggende; in una parola, tutto ciò che ha a che fare con il “sacro”. Il rappresentante di questo Abendland è l’ingegnere Findlayson. Inglese, padrone della propria scienza, basa la sua visione del mondo sulla sicurezza dei calcoli matematici. Non ha fatto i conti, però, con il sacro, l’“irrazionale”. Kypling sa bene che le acque sono sacre e che i ponti sono sacrileghi. Certamente non poteva aver letto il meraviglioso libro di Anita Seppilli, di là da venire, dedicato proprio a questo tema: perché il ponte «non solo affonda i suoi piloni nel sottosuolo [come fanno tutte le costruzioni dell’uomo, tutte profananti l’intangibilità del sacro e tutte, perciò, richiedenti un sacrificio compensatorio, NdA], ma anche dissacra la corrente dei fiumi – delle acque, così cariche di valenze sacrali, e già esse stesse in comunicazione con l’oceano infero, col mondo dei morti – le varca, le aggioga, e persino penetra a volte nella profondità del loro alveo» .
È proprio ciò che fa il ponte di Findlayson (erede letterario dei tanti ponti che Isambard Kingdom Brunel costruì in Inghilterra nella prima metà del XIX secolo): ben ventisette piedritti di mattoni “profanano” le sacre acque del Gange, nel racconto chiamato Madre Gunga, e rappresentato, come animale totemico, dal Coccodrillo.
Findlayson, in questa sua opera creatrice, è come un dio: «con un sospiro di soddisfazione vide che la sua opera era buona» , con evidente rimando a Genesi I 10. Kypling, da grande scrittore, ci manda dei segnali inequivocabili: il ponte è «nudo e crudo come il peccato originale» , dunque ha commesso un sacrilegio che richiede un’espiazione e una vittima sacrificale. In una notte di tregenda, il sangue è proprio ciò che chiede Madre Gunga all’Assemblea degli dèi del pantheon Indù, riunita in seduta straordinaria. Dopo aver fatto ingrossare talmente le acque che persino il razionalista Fyndlayson si mette a pregare per la salvezza del suo ponte, Madre Gunga chiede infatti giustizia agli dèi suoi sodali per l’oltraggio subito. Krishna, alla fine di un’animata discussione, s’incarica di spiegare a tutti come andranno le cose con l’uomo bianco: «Troppo tardi, ormai. Avreste dovuto ammazzare all’inizio, quando gli uomini venuti di là dal mare non avevano insegnato nulla alla nostra gente. Ora che il mio popolo ha sotto gli occhi il loro operato, la cosa gli dà da pensare. E a tutto pensa meno che ai celesti. Pensa invece al carro di fuoco e alle altre cose che i costruttori di ponti hanno fatto, sicché, quando i vostri preti tendono la mano chiedendo l’elemosina, dà poco e a malincuore. Questo è solo l’inizio» .
Kypling non poteva immaginare che, un giorno, una parte del mondo non occidentale avrebbe rifiutato la Tecnica dispiegata – tranne quella della comunicazione mediatica – in nome di una Tradizione altrettanto pervasiva e massimalista, tagliando teste nel folle tentativo di ridisegnare il mondo secondo una lettura settaria del Corano. Kypling, ai suoi tempi, vedeva ancora (con quanto entusiasmo?) la vittoria dell’Occidente sui valori tradizionali del mondo orientale.
Ma Kypling non aveva inventato nulla. Nel testo che è all’origine della cultura occidentale, I persiani di Eschilo, il motivo della sconfitta di Serse contro i Greci è individuato unicamente nel peccato di arroganza (hybris) del Grande Re, come riconosce l’ombra del padre Dario: aver “aggiogato” con catene “da schiavo” il sacro Ellesponto: «E mio figlio, ignorando queste profezie, le ha portate a compimento per giovanile temerarietà [thrásos i.e. hybris]: lui che pensò di trattenere con legami lo scorrere del sacro Ellesponto, la divina corrente del Bosforo, quasi fosse uno schiavo, e tentò di trasformare lo stretto, e chiudendolo in ceppi forgiati col martello creò un’ampia strada per un ampio esercito. Pur essendo mortale gli dèi tutti, e in particolare Posidone, credette di dominare, con mente non retta: come potrebbe non essere una malattia dello spirito questa che si è impossessata di mio figlio?» . Il ferro, il metallo, frutto del lavoro “demoniaco” del Fabbro, con cui Serse forgia le catene, si sa, non può venire in alcun modo in contatto col sacro. Ecco perché il ponte Sublicio, l’unico collegamento per secoli tra le due rive del Tevere, era costruito unicamente con travi di legno (sublicæ) e chiodi di bronzo e la sua cura era riservata al Pontifex Maximus. Ma anche tale ponte esigeva sacrifici, di cui è chiaro segno l’antichissimo rituale del 14 (o 15) maggio, ricordato anche da Ovidio ne VI libro dei Fasti, in cui le Vestali gettavano nel fiume ventisette fantocci di giunchi, detti Argèi, con i piedi e le mani legate: un inequivocabile gesto di “sacrificio”, di là dal vero significato, a tutt’oggi discusso dagli storici.

Il ponte non è dunque quella semplice «strada fatta sopra dell’acqua» come lo definisce il pur grande Palladio, o quella linea che mira al suo scopo, con riferimento al Washington Bridge di New York, dell’altrettanto grande Ludwig Mies van der Rohe .
È molto di più. Se ne era accorto, alle soglie del XIX secolo, il “rivoluzionario” architetto Claude-Nicolas Ledoux che, in una tavola illustrante il progetto dell’École rurale de Meillant , aveva inquadrato quest’ultima attraverso l’arcata di un ponte progettato lì accanto. Un unico grande arco ribassato, vagamente ellittico, simile ad un occhio – diviso da colonne doriche a formare una grande finestra termale – inquadra il paesaggio e l’École. Il ponte di Ledoux sembra l’anticipazione, oltre un secolo prima, della figura (Heidegger scrive propriamente: «das Ding») filosofica del Brücke di cui parlerà Martin Heidegger: il ponte come riunione della Quadratura ; Cielo, Terra, Divini e Mortali sono qui ricongiunti dal ponte. In verità, nell’immagine di Ledoux non vediamo gli dèi; ma, essi sono presenti nella celebre planche 33 del suo trattato (1804) , e, dunque, è lecito presupporli nascosti da qualche parte.

Sono invece presenti le altre tre componenti della Quadratura: Cielo, Terra e Mortali. Il Cielo, in parte inquadrato dall’arco del ponte e in parte sullo sfondo al di sopra di esso, è esaltato dalla presenza di un arcobaleno, ponte celeste esso stesso e simbolo, in molte culture, dell’unione tra Cielo e Terra. L’arco del ponte scavalca il piccolo fiume, ma ben dodici piloni s’infiggono nella sua corrente. Nonostante questo, la Terra non pare essere perturbata dal “sacrilegio”: le acque del ruscello scorrono tranquille e, sullo sfondo, un paesaggio fatto di lievi colline, di arbusti e di verde rende quasi l’immagine di un piccolo idillio, di un locus amœnus. E i Mortali cosa fanno? Utilizzano il ponte in tutte le sue parti: una carrozza lo attraversa, senza notare nulla di ciò che accade sotto il ponte: che alcuni cavalieri portano ad abbeverare i loro cavalli lungo la riva del fiume; che delle donne lavano i panni nella corrente; che un barcaiolo attraversa lentamente il fiume; che, sullo sfondo, ci sono figure di donne con bambini. Il punto di vista ribassato, scelto da Ledoux, non fa altro che enfatizzare questa visione di ciò che accade sotto il ponte (e sappiamo quanta viva vissuta sotto i ponti sfugga ai nostri occhi che i ponti li usiamo solo per attraversarli). In verità c’è un altro personaggio un po’ eccentrico rispetto a questo quadro quasi di genere: è un giovane, fermo sul ponte, apparentemente agitato perché un colpo di vento gli ha fatto volare il cappello a larghe tese. Un unico momento di pathos, all’interno della perfetta Quadratura. Sappiamo che i ponti sono i luoghi prediletti per i suicidi-sacrifici.

Tra Otto e Novecento, la figura del ponte assume la sua piena consistenza “filosofica”, arricchendosi via via di nuove caratteristiche: dalla sua presenza come figura centrale nella filosofia nietzschiana – il ponte come figura di transito: «L’uomo è un cavo teso tra la bestia e il superuomo – un cavo al di sopra dell’abisso. Un passaggio periglioso, un periglioso essere in cammino, un periglioso guardarsi indietro e un periglioso rabbrividire e fermarsi. La grandezza dell’uomo è di essere un ponte e non uno scopo: nell’uomo si può amare che egli sia una transizione e un tramonto. Io amo coloro che non sanno vivere se non tramontando, poiché essi sono una transizione» . Senza dimenticare, però, gli “esili ponti” che il filosofo di Röcken utilizza come immagine degli antichi valori che la corrente del fiume travolge e distrugge ; alla fondamentale riflessione di Georg Simmel, nel mai troppo ricordato saggio Brücke und Tür del 1909, in cui, per la prima volta, accanto alla funzione del collegare appare quella, inscindibile con essa, del separare: «Astraendo due cose dalla imperturbata situazione della natura, per designarle come “separate”, noi le abbiamo già nella nostra coscienza riferite l’una all’altra, le abbiamo distinte entrambe, insieme, nei confronti di tutto ciò che sta loro in mezzo. E viceversa: noi sentiamo come collegato, soltanto ciò che abbiamo in precedenza e in qualche modo isolato. Le cose devono essere prima divise l’una dall’altra, per essere poi unite. Dal punto di vista pratico come da quello logico, sarebbe senza senso legare ciò che non era diviso, ancor più: ciò che in qualche modo non rimane ancora diviso» ; alla già citata visione heideggeriana del ponte come quella cosa che «riunisce la Quadratura», e che crea un «luogo»: «Il luogo – infatti, per il filosofo di Meßkirch – non esiste già prima del ponte. Certo, anche prima che il ponte ci sia, esistono lungo il fiume numerosi spazi (Stellen) che possono essere occupati da qualcosa. Uno di essi diventa a un certo punto un luogo, e ciò in virtù del ponte. Sicché il ponte non viene a porsi in un luogo che c’è già, ma il luogo si origina solo a partire dal ponte» .

Ma, a distruggere parzialmente quest’idea così “pacificante” del ponte, aveva pensato nel 1916 un racconto di Kafka intitolato semplicemente Die Brücke: anche qui, all’inizio, il ponte sembra apprestarsi a svolgere il suo compito storico di condurre di là dell’abisso lo sconosciuto che lo attraversa: «Stenditi, ponte, mettiti all’ordine, trave senza spalletta, sorreggi colui che ti è affidato. Compensa insensibilmente l’incertezza del suo passo, ma se poi vacilla, fatti conoscere e lancialo sulla terra come un Dio montano» . Ma costui infligge inspiegabili torture al ponte con un bastone dalla punta acuminata e il ponte, dimenticando la sua rigidità strutturale, si volta sorpreso per vedere in viso lo sconosciuto, sancendo, in tal modo, la sua fine. Infatti, «una volta gettato, un ponte non può smettere di essere ponte senza precipitare» .
Il ponte Moderno è compreso tra questi quattro momenti: in una complessità di aspetti che include, insieme, la molteplicità delle forme dei ponti, dall’antichità ad oggi. Come non rimanerne “sommersi” ermeneuticamente? Come cercare un filo conduttore in mezzo a tante, apparentemente infinite, figure di ponti? Simmel ce ne ha fornito la prima, decisiva, traccia: un ponte collega ma, al tempo stesso, separa-divide. È necessario proseguire sulle orme del grande filosofo e sociologo berlinese. Il ponte unisce e divide, dunque, ma è anche sospeso – e, in tal caso, snon sacrilego, come afferma l’assistente di Findlayson, l’indigeno Peroo: «A me piacciono i ponti so-spe-si, che volano da una sponda all’altra, con un solo grande balzo, come una plancia. Allora non c’è acqua che può far danni» –; è isolato e abitato; può crollare, o solo fingere il crollo (come il ponte berniniano di palazzo Barberini a Roma, o la Teufelsbrücke di Friedrich Ludwig Persius a Potsdam (1838) ; può infine, addirittura, muoversi (come i viadotti di Paul Klee nel loro tentativo di Revolution (1937).

È quanto ho cercato di fare col libro Figure del ponte: Simbolo e architettura. Mantenendo intatta la complessità e singolarità di ciascun ponte, vedere quale aspetto predominasse, attraverso le griglie interpretative sopra ricordate. Scoprendo, naturalmente che uno stesso ponte può unire, ma anche dividere o tentare un (impossibile?) movimento, come il puente de la Mujer a Puerto Madero di Santiago Calatrava, col suo pilone inclinato come un ballerino di tango sulla sua tanguera.
«Allora io capisco […] – scriveva il grande Alberto Savinio – perché d’altra parte tanto amore io sento per il mondo ‘di là dal ponte’» .



























Con la carovana del Circo della Luna è arrivata V
rivede bambina quando, con tutt’altro sentimento rispetto a Viola, lascia i luoghi conosciuti per andare a vivere in campagna. L’affido temporaneo della madre ai nonni è un modo di nascondere l’abbandono: dal volto corrucciato di Mamette esplodono le paure e le delusioni dovute agli adulti, ma anche la caparbietà di chi non può fare a meno di pretendere il suo posto tra gli affetti. Mamette è piccola, sembra un folletto brusco, non comprende il quotidiano duro e semplice dei suoi parenti e tuttavia impara a trasformare il trauma in una lezione di vita. L’espressività del disegno soccorre proprio tutti i momenti in cui da bambini si ascolta, non si capisce, ci si sente straniti al confronto con gli adulti e nel silenzio si forgia la propria memoria come una resistenza. È più facile allora far amicizia con un animale, una capretta ad esempio, che non verrà mai meno, non tradirà la nostra speranza. Alla fine del primo albo la bambina fugge nel buio. È il buio di tutto il futuro che si raccoglie nel sonno notturno della Mamette da vecchia, la quale al risveglio forse non sa più se ha sognato, se il passato va davvero a dimorare da qualche parte, se davvero ci allontaniamo nel tempo e come ci separiamo dal corpo che abbiamo avuto molti anni fa. Di nuovo l’autore non ci dice questo espressamente, ma lo si legge sopra occhiali della protagonista con la nostalgia perfino del dolore.
niamento. Cosa succede quando da bambini ci sorprende una realtà ostile dove il vero si ribalta nell’orrendo e l’interiorità nell’unica dimensione abitabile? I giganti che Barbara deve sconfiggere di cosa sono fatti? La loro materia è il trauma di chi cresce prendendo consapevolezza della morte di coloro che amiamo; è la società che non accoglie il bizzarro, il diverso, inteso qui come chi esige le sue parole, la sua narrazione di fatti altrimenti sconvolgenti. Gigantesca è la conformità che cancella d’un colpo la sofferenza come l’amore. Gigantesca onda che ci travolge, aumentando nelle vignette. Gigantesca è la pazzia con cui si cerca una via di fuga, bambine di ogni età dentro la perdita, e se fuggire significa farsi travolgere, può pure andar bene. Ma poi c’è il momento in cui una presenza amica, un affetto, toglie il velo e la fantasia torna a poggiare sul suolo, si fa strumento per accettare il male e attraversarlo. Allora il martello di Koveleski compie la sua magia: è una madre morente al piano di sopra che va guardata e lasciata trascorrere nel proprio cuore; è una sorellanza familiare che si estende oltre i confini parentali, per raggiungere pochi, forse, ma che non tradiranno. Fino alla fine ricordare che è tutto vero – e che un gigante per essere domato, va prima di tutto compreso.
una distesa quieta, immersa nella luce degli astri. La fiaba di Simona Binni riecheggia di tutte le voci acquatiche del folklore europeo, che indossano sia un abito animale che uno umano e cercano di essere amate in questa doppia natura che le rende misteriose e affascinanti. La lezione che ogni volta si apprende ci dice che trattenere qualcuno in una forma che non gli appartiene significa ucciderlo o perderlo per sempre. Nella tavole vediamo Amina che vuole sapere, che si impaurisce, che riconosce un serpente marino il cui tocco non la stritola, ma è gentile, le svela il segreto della sua persona. Tutto questo avviene in un paesaggio marino ancora incontaminato, dove roccia e acqua del mare meravigliano e insieme ammoniscono lo spettatore umano, gli chiedono di tornare umile e saper aspettare che la vita abbia il suo corso, triste e gioioso assieme. Il vulcano sopito dell’isola mediterranea è una leggenda antica che rivive nelle cure dei nonni e poi nella bambina che va incontro alla sua maturità emotiva espressa nel cambiamento favoloso del suo corpo, dove l’umano e l’animalità, il domestico e il selvaggio infine si uniscono.