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Oui, je suis Permunian

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PERMUNIAN-COUVERTUREdi Romano A. Fiocchi

Francesco Permunian, La Casa del Sollievo Mentale, Nutrimenti, 2011; La maison du soulagement mental, traduit de l’italien par Lise Chapuis, Éditions de l’Arbre Vengeur, 2015.

Peut-être est-ce le vent descendu impétueusement des Alpes il brouille les herbes des prairies et les humeurs féminines qui remue le sang et l’esprit de certaines femmes du lac de Garde. Lorsque tante Arpalice, par exemple, fut frappée de cette maudite apoplexie qui la cloua sur un fauteuil roulant, elle sembla tout à coup avoir été heurtée de plein fouet par le vent tourbillonnant et sournois de la folie. Privée désormais de retenue et de pudeur, elle commença par alterner des moments de prière avec d’interminables parlottes truffées de phrases à double sens. Après quoi, la situation s’aggravant, elle se mit à jurer comme un charretier du matin au soir, à la maison et au dehors, et finit par perturber les enfants du quartier avec ses expressions obscènes et ordurières”.

(Forse è il vento di primavera che scende impetuoso dalle Alpi – e scompiglia le erbe e dei prati e gli umori femminili – a rimescolare il sangue e la mente di certe donne del lago di Garda. Quando alla zia Arpalice, per esempio, capitò quel maledetto colpo apoplettico che la ridusse su una sedia a rotelle, tutto ad un tratto sembrò essere stata investita dal vento turbinoso e maligno della follia. Senza più freni né pudore, all’inizio cominciò ad alternare momenti di preghiera a interminabili sproloqui infarciti di frasi a doppio senso. Dopo di che, peggiorata la situazione, prese a sacramentare come un turco dalla mattina alla sera, in casa e fuori casa, finendo col turbare i bambini del quartiere con espressioni oscene e scurrili)

Così le prime parole di La maison du soulagement mental, uscito a gennaio in Francia nella traduzione di Lise Chapuis, storica traduttrice di autori italiani del calibro di Antonio Tabucchi. Grazie al cielo continuiamo ad esportare cultura a livelli di piccola editoria. Il che significa esportare non solo best seller di largo consumo ma anche Letteratura con la elle maiuscola. E per di più, in questo caso, verso una nazione che è restia a concedere spazio a tutto ciò che non sia prodotto nazionale. Non per nulla Permunian, come ho scritto nel luglio scorso, qui, è autore così singolare da fare della sua scrittura un genere letterario.

Ho letto dunque La Casa del Sollievo Mentale (2011) dopo aver letto Il gabinetto del dottor Kafka (2013). L’ho letto quasi d’un fiato, come se l’esercizio effettuato su quest’ultimo avesse rodato il mio motore di lettore di Permunian. E allora mi sono chiesto: qual è il segreto della sua scrittura? Voglio dire, come è costruita questa macchina complessa di personaggi grotteschi, di continue discese tra gli inferi, di alternanza di voci narranti, e di follie, certo, follie che in un modo o nell’altro contaminano tutti, protagonista compreso? (Discese tra gli inferi, ho detto bene, perché La Casa del Sollievo Mentale è una vera e propria cantica dantesca con tanto di rinvenimento della personificazione del male – alias Lucifero – nel gran finale con coda)

È stato così che ho deciso di smontarla, questa macchina letteraria. A cominciare dalla dichiarazione di responsabilità all’inizio del testo: “Tutti i personaggi del libro sono stati inventati dall’autore e vivono unicamente nei suoi sogni. Nei suoi incubi”. L’ho comparata con quella anteposta a Il gabinetto del dottor Kafka, dove le stesse parole giocano su sfumature diverse: “Tutti i personaggi del libro esistono o sono esistiti realmente. Anche quelli inventati dall’autore”. Dunque La Casa del Sollievo Mentale è popolata di fantasmi dei sogni di Permunian, Il gabinetto del dottor Kafka di personaggi esistiti realmente o di fantasmi divenuti reali. Ho preso allora i fantasmi della Casa e li ho messi da parte. In quanto fantasmi letterari, il solo elencarli ne fa già una narrazione nella narrazione, come a dire che ognuno di loro porta nel romanzo la sua propria storia che va ad incastrarsi in una macrostoria più generale. Eccoli qui, più o meno in ordine di apparizione:

Ludovico Toppi, bibliotecario folle (alter ego di Permunian); zia Arpalice, trasformata in ninfomane da una sorta di improvvisa demenza senile; Camillo Gruber, spietato nazista in incognito; il barone Alfonso Maria Manotazo, per gli amici don Alfonso o addirittura Alfonsino; il padre di lui, Ottone Manotazo, con la sua splendida ed esilarante rassegna di ritratti che adattano l’espressione a seconda dei reparti del manicomio in cui sono collocati; Madame Pompadour, ex “bomba sessuale” che con l’avanzare della vecchiaia si è convertita a esempio (esteriore) di devozione religiosa; Guido Ceronetti, proprio lui, il poeta “dall’impareggiabile volto clownesco”; lo psichiatra psicopatico Diomede Korea, che scrive un libro sulla seduzione dal titolo “Immobili come gechi” ovvero “Brevi raccomandazioni pratiche per corteggiare una dama nelle sale cinematografiche durante il periodo invernale”; don Tibaldo, cappellano del manicomio; il fidanzato dell’impazzita zia Arpalice, incendiario irriducibile; donna Maria Reginalda Manotazo, presidentessa delle Dame di San Vincenzo pronta a prostituirsi per la causa; Amalia Barroso, cognata di don Alfonso, ex ballerina ormai ridotta a rottame umano per abuso di alcol; le signorine Eburnea e Leocadia, Real Doll ovvero bambole a grandezza naturale che si muovono come automi intelligenti negli ambienti del romanzo; il signor Armando o Armandino, necroforo necrofilo e sfruttatore delle due bambole; il vicino di casa Osvaldo, prostatico impotente e assassino per corna, rinchiuso anche lui nella Casa del Sollievo Mentale; il vecchio e monomaniaco falegname Girolamo Toppi e moglie, genitori del protagonista, dediti all’agioterapia; Ninetta e Cristoforo, ambigui custodi dell’Albergo del Mutilato.

Nella mia opera di demolizione della macchina permuniana ho stilato altri elenchi. Quello delle voci narranti: Ludovico Toppi, in prima persona sino al cap. XXI; Camillo Gruber, in prima persona dal cap. XXII alla fine, con eccezione delle chiusure dei capitoli XXIV, XXV e l’intero capitolo XXVI, tutti in terza persona. Poi l’elenco delle ambientazioni: l’Imperial-Regia Casa del Sollievo Mentale, con annessa l’inquietante Villa dei Bambini (“Mi piacerebbe farne un museo dell’infanzia. Dell’infanzia perduta del Novecento” – dice il Korea in una drammatica anticipazione del finale); la casa del bibliotecario, con annessa scena del crimine dove il signor Osvaldo scatena la sua pazzia pluriomicida; l’Albergo del Mutilato, che si rivela un doppio della Casa del Sollievo Mentale.

Permunian_casa_sollievoPoi c’è l’elenco delle epigrafi in testa ai capitoli: dalla dedica a Benedetta Centovalli “che crede ancora nella letteratura”, ai brani tratti dall’introduzione di un libro di Bruno Schulz o da un saggio su Fogazzaro, a citazioni di Terenzio, Cioran, Prezzolini, Giovanni Macchia, György Konrad, sino alla lettera di Kokoschka alla signorina Moos con cui si apre il libro e della quale si scopre il senso solo a pagina 110: “Ultimamente mi sto appassionando alle lettere di Oscar Kokoschka indirizzate a Hermine Moos, un’artigiana di Stoccarda da lui incaricata di costruirgli una bambola di stoffa che fosse la copia esatta di Ala Mahler, da cui il pittore era stato piantato in asso. E al cui abbandono non si rassegnava”.

Altro elenco, quello degli oggetti: qui ne cito solo due, la sega elettrica a cui paròn Toppi dedica l’ossessiva manutenzione serale, e lo straordinario bastone di Antonin Artaud – vero o falso che sia – che il barone Alfonso Maria Manotazo trasforma in una “Colonna Traiana da passeggio” incidendovi un fregio a spirale di caratteri alfabetici con “la sintesi del pensiero ateo di tutto l’Occidente”.

Tolti tutti questi ingranaggi – personaggi, ambienti, oggetti, – cosa rimane della Casa del Sollievo Mentale? La potenza della scrittura di Permunian. Una lingua pulita e tagliente, ruvida e colta, quasi dantesca: intendo di quel Dante che passa con disinvoltura dalle più bieche parole attinte dal volgare ai termini colti delle citazioni latine ed ebraiche. Allo stesso modo Permunian non si scandalizza a spaziare dal doppio senso sarcastico del “gioco dell’usignolo” all’umorismo puro e raffinato di don Alfonso: “È un mio sacrosanto diritto di ateo, perdio!”, sino alla spassosa scenetta del festival di Mantova con cui Guido Ceronetti vuole farsi sostituire da una controfigura letteraria: “Ma ci vada lei al posto mio, caro don Alfonso, ci vada lei a incontrare il pubblico che mi aspetta! Tanto nessuno se ne accorgerà, glielo garantisco. Ci parli lei, per favore, a quella massa di imbecilli ammucchiati là sotto, uomini e donne che leggono con occhi di ciechi e hanno l’impudenza di ritenersi miei lettori! Analfabeti che corrono su e giù per l’Italia da un festival all’altro, tirando per la giacca ogni scrittore che incontrano… Idioti con la testa rintronata per i libri mai letti e convinti che il festival di Mantova sia un reality televisivo. Per queste ragioni, gentile amico, io le conferisco seduta stante la carica di mio sosia letterario con funzioni di rappresentanza su tutto il territorio nazionale e le rinnovo l’invito ad affrontare quei coglioni che poco fa l’hanno scambiata per il sottoscritto”. E via così sino all’opposto di questa verve, ossia gli stati di depressa ma poetica malinconia: “Umiliato dagli anni e dalla solitudine, sto invecchiando come un imbecille che non sa rassegnarsi al fallimento della sua vita e solo adesso, nell’ora del crepuscolo, mi accorgo di essere ricoperto della polvere dei sogni”. Oppure la scrittura rabbiosa di quando sputa veleno sugli psichiatri, “medici idioti che s’illudono di guarire la follia a suon di farmaci”.

Scrittura potente, dicevo, che sfoggia tutta la sua forza espressiva quando i temi si fanno crudeli, quando i fantasmi non sono più – o meglio, non sono solamente – fantasmi del suo mondo interiore ma rispecchiano il mondo al di fuori, la parte violenta e drammatica della vita. E allora Permunian passa dalla descrizione spietata dell’alienazione mentale a quella evocativa e più terribile del male, di quell’umanità che fa del male con la consapevolezza di farlo e con l’assurda ignoranza di non comprenderne la gravità. Male che si concretizza nell’infierire sui deboli, soprattutto bambini, nel negare loro la facoltà di vivere una vita, come appunto è successo nei campi di concentramento. Il male è lui, Camillo Gruber. Ex nazista che come tanti gerarchi responsabili dei genocidi si è riciclato nel nuovo mondo. Plastica facciale, una cattedra a livello universitario e la possibilità di continuare, anche se non con la stessa libertà, gli esperimenti più atroci. Sì, perché Gruber ha appunto a che fare con l’inquietante Villa dei Bambini, con le stragi di Treblinka, di Terezín, di Auschwitz. In un continuo evocare i bimbi uccisi, vero e proprio esercito ai suoi comandi, il vecchio Gruber è in realtà un evocatore di fantasmi. Sembra quasi non si renda conto dell’orrore compiuto (anche se usa espressioni come: “Ancora oggi mi dolgono i polsi, tanti ne ho strozzati”), e in questo sta la sua malvagità più raccapricciante. Esalta il massacro e la pedofilia, le camere a gas e quelle ad acido cianidrico, la sua “macchina prediletta”, il tutto in una visione deformata della realtà che confonde esseri esistiti con fantasmi inventati.

Follia criminale da un lato, follia creativa dall’altro. In fondo anche la letteratura è follia, una follia benefica. “La scrittura è illusione”, dice Permunian, “una ridicola farsa”. Ma è grazie ad essa, alla possibilità di creare mondi paralleli a quello reale, che lo scrittore si salva. Scrive Permunian: “Senza la mia dolce e lucida follia, sarei già morto da un pezzo”.

Leggere i romanzi

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di Giuseppe Zucco

legge

Lei allora leggeva a lui un estratto del suo nuovo romanzo
Lei allora leggeva il proprio estratto, e nell’estratto c’era un uomo, un uomo seduto a un tavolino, un uomo seduto a un tavolino di un bar, fuori, all’aperto, in mezzo a altri tavolini vuoti, tavolini e sedie di alluminio su cui la luce si smaterializzava in puntini e bagliori, mentre aspettava che il cameriere arrivasse con il suo caffè.

Giochi di potere

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hoc3(prima della fiction americana c’è stata la serie tv britannica. E prima della serie ci sono stati i romanzi di Michael Dobbs. Fra pochi giorni esce il terzo e ultimo della serie, House of Cards 3 – Atto finale, traduzione di Stefano Tummolini e Giacomo Cuva. Qui di seguito un estratto regalato dalla casa editrice Fazi, che ringrazio. G.B.)

di Michael Dobbs

Il posto di un uomo nella storia non è nient’altro che questo: un posto, un singolo punto in un universo infinito, una gemma che, per quanto possa essere lucidata e fatta brillare, comunque si perderà in un mare di ricchezze.

Un granello di sabbia nella clessidra.

Per Urquhart quello era un luogo venerabile: lo scranno di pelle lucida graffiata dall’affondo di unghie ansiose, il casellario di bronzo e antico legno di Puriri levigato dal passaggio di migliaia di palmi sudati, travi e pilastri finemente decorati che, a un orecchio attento e allenato, rimandavano ancora gli echi delle grida dei grandi leader fatti a pezzi e trascinati verso l’oblio. Sembrava che ogni carriera politica dovesse finire in disfatta, il verdetto di quel tribunale gotico non cambiava mai. Colpevole. Condannato. Un luogo di arringhe, fugaci approvazioni ed esecuzioni inevitabili.

Ultimamente, ogni volta che si allontanava dalla ribalta, delle voci dall’ombra gli sussurravano che il giorno della sua caduta sarebbe arrivato, era solo questione di tempo. Mentre se ne stava seduto sullo scranno, i sussurri erano ricominciati, sempre più imperiosi, insolenti, quasi estenuanti. E in mezzo a quel brusio, sentì la voce di Thomas Makepeace.

«Il mio onorevole collega è consapevole», la finzione istituzionale dell’amicizia scivolò dalle labbra di Makepeace come fiele, «del fatto che la comunità greco cipriota residente in questo paese è profondamente turbata dall’esistenza di luoghi di sepoltura occultati dai tempi della guerra di liberazione, negli anni Cinquanta?».

Vecchi ricordi si ravvivarono come braci, guizzando e avvampando fino a che il crepitio delle fiamme non ebbe cancellato le parole con cui Makepeace stava chiedendo che il governo britannico aprisse i propri archivi, che rivelasse tutte le morti e le tombe non segnalate, «in modo che si possa finalmente mettere una pietra sopra le tragedie di quegli anni lontani?».

Per qualche istante, l’aula rimase a guardare l’insolito spettacolo del primo ministro rigidamente seduto al suo posto, apparentemente impassibile, impietrito, perso in un altro mondo, fin quando un brusio d’impazienza non lo riscosse. Si alzò con movimenti legnosi, come se l’età gli avesse saldato le giunture.

«Non mi risulta», cominciò a dire con inconsueta incertezza, «che vi siano elementi che lascino supporre l’esistenza di tombe occultate dai britannici…».

Makepeace protestava, agitando un foglio di carta che, urlò, proveniva dall’Archivio di Stato.

Altre voci gli fecero eco. Nella sua testa risuonavano battibecchi e confusione, discorsi su tombe, su segreti che sarebbero stati inevitabilmente riesumati insieme alle ossa, su faccende che dovevano restare sepolte per sempre.

Poi un’altra voce, più familiare. «Combatti!», gli intimò. «Non farti vedere vulnerabile. Menti, urla, dimenati, insulta, colpisci basso e dove fa più male: qualsiasi cosa, basta che combatti!». E che preghi, avrebbe potuto aggiungere quella voce. Francis Urquhart non sapeva pregare, ma Cristo se sapeva combattere.

«Credo sia estremamente pericoloso andare per armadi a curiosare, a infilare il naso in atmosfere ormai stantie e insalubri», cominciò a dire. «Dovremmo piuttosto guardare al futuro, con le grandi speranze che ci riserva, anziché rimuginare sul lontano passato. Qualsiasi cosa sia accaduta durante quella vecchissima, tragica guerra, lasciamola sepolta, insieme alle eventuali malvagità compiute, probabilmente da entrambe le parti. Concentriamoci sull’amicizia incontaminata che da allora abbiamo costruito insieme».

Makepeace stava cercando di ribattere, protestando ancora, aggrappato a quel suo foglio di carta. Urquhart lo mise a tacere col più spietato dei sorrisi.

«Naturalmente, se l’onorevole collega ha in mente qualcosa in particolare, oltre a fare irruzione in un archivio polveroso, mi darò pena di esaminare la questione per lui. Non dovrà far altro che scrivermi con tutte le specifiche del caso».

Makepeace si acquietò e, con estrema gratitudine, Urquhart sentì che lo Speaker stava annunciando il successivo punto all’ordine del giorno. Nella sua testa rimbombava un caos di voci, grida, esplosioni e proiettili che rimbalzavano. Non ci vedeva più, accecato dal ricordo del sole del Mediterraneo che si riflette sulla roccia antica, mentre le sue narici dilatate si riempivano dell’olezzo dolciastro della carne che brucia.

Francis Urquhart si sentì improvvisamente decrepito. La clessidra della storia si era capovolta.

Da Versi Nuovi (2004). Seconda parte

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di Biagio Cepollaro

Biagio Cepollaro,Kan-2008
DOPO DUE ANNI (2000)

i cieli e la terra sono pieni della tua gloria

suonava così nel tempio e mi trovavo lì
per starmene un po’in pace e per vedere come in altra
lingua si dicesse quel sapore
vivido
di mattina di maggio quando a fondo radendo
la barba un poco ci si rinnova la faccia e si
svuota

come se fosse bastato sapere
del paradiso
perché comune fosse il cammino
(ma non c’è cammino e quel che può essere comune
non riguarda il paradiso né qualcosa
che si possa progettare) e chi
l’avrebbe detto prima
che non c’era
niente da conquistare che il culmine
era tutto nell’inizio

chi l’avrebbe cercata lì
la gloria
dei cieli e della terra
quando cielo e terra erano solo oggetti
di previsione
come quando prima di partire si vuol sapere
del tempo e se il volo
avrà rinvii o per nebbia
dirottamenti
quando anche andando tutto
come previsto il massimo che ci è dato
è soddisfazione di chi
quotidianamente puntella
il suo stress
come se fosse qualcosa
e non invece
un nulla

fosse stato per me
non sarei mai divenuto: è atto quasi violento
il nuovo
che l’amore
impone e quando ci sei dentro
è arretrare continuo

(resterà nella memoria della figlia
la spiaggia
di Palma
la buca scavando
come da piccola
indaffarata e briosa)

fu allora nell’altrui gloria che vidi
la vita in parte
andata:
che vada!
dedicherò gli anni (se lo sono
e non mesi o minuti)
che avanzano ad addestrarmi
ad essere felice ed aperto
a meritare l’inizio di ciò
che continuamente comincia

(e pensare che uno crede che l’importante
viene dopo attenta riflessione che il destino
possibile
sia frutto
di elezione)

cancella cancella le tracce
al tuo passaggio
prima che il cuore si richiuda
prima che normalmente ghiacci

e intanto a quanti
di energia a pacchetti
postali le stelle
senza fretta si parlano in radio
o in luce
si tengono strette
in scambio fitto
fitto di particelle o corde
e dentro questo flusso nella mescolanza
dei tempi infiniti arriva un tempo in cui l’arte
non ci concede più
di nasconderci
e richiede per sé ciò a cui da sempre crescendo
abbiamo temuto di dover rinunciare: non il verso
imperfetto – che la tecnica si fa quasi
presto ad imparare- ma il verso
gratuito quello già nato per essere ascoltato

tra cielo e terra
le diecimila creature

prima che il cuore si richiuda
prima che normalmente ghiacci

tra cielo e terra
parlandosi in radio o in luce
in un continuo di radiazione

cancella le tracce al tuo passaggio

che consapevole sia la passione

prima che il cuore si richiuda

senza intenzione né progetto prima che lentezza sia ritardo

prima che resti solo il guscio

perché l’amore che ci metti
resta
e non si perde

(intonando) i cieli e la terra

l’amore che ci metti qualcuno o qualcosa
(intonando) son pieni

tra cielo e terra qualcuno o qualcosa
(intonando) i cieli e la terra

lo ritroverà

 

  ***

 

DOPO TRE ANNI (2001)

perché le parole non siano ancora
solo parole

perché il tempo destinato ogni giorno
non sia ancora il tempo

in cui sia poco
il realizzato e perché cambino davvero

anche il modo e la motivazione
di dirlo

perché dal risveglio alle prime avvisaglie
del sonno una sola sia
la naturale propensione

lo dicevo a giulia ieri
al cinese
quest’anno è passato leggero
leggero come vorrei
la morte fosse appunto

passaggio

ad altra leggerezza

quest’anno ha qualcosa del cielo

e dunque
al dunque si tratta
ancora della capacità
di amare

(e dimenticare)

e davvero non c’era nulla
da portare
sulla soglia
a dimostrazione che qualcosa c’era stato
o come si dice qualcosa
abbiamo fatto e costruito e non siamo
passati invano

l’inganno è in quell’intendere
il passare
(cosa passa cosa no quando poi
si sa che tutto ma proprio tutto
passa
se mai la domanda è chi
e come
e in mezzo a che
passa)

di più c’è consapevolezza
del male
(ma non ancora
accettazione)

perché gli atti bruciano
come carcasse
di passate intenzioni e cadono
giù
a ferraglia

si compie oggi ciò che un passato
lungo quanto l’occhio con disattenzione
e arroganza ha preparato
e non solo la personale cecità
che ha chiamato proprio
destino
la banale chiusura
del cuore
ma anche l’iscrizione
nel cuore
della cellula
di ciò che la specie e il gruppo
hanno costruito e distrutto nella paura
e nell’allucinazione

**

quest’anno ha qualcosa del cielo
e non perché sia stato volo
e luce

(come ieri che ero uscito
per prendere aria e sono rientrato
subito
per incidente sotto
casa e oggi
mi telefona sorella del motociclista
in coma
chiedendo se ho visto
di chi è la colpa)

si passa la vita a non pensare
che la vita finisce

e quel mancato pensiero
indurisce il cuore
e fa moltiplicare i codici
che separano ridicole
le cose
dalle parole

quest’anno ha qualcosa del cielo

(deve esserci peso
anche nell’aria
o anche terra che fa cielo
e luce dentro la terra)

(lo dicevo stretto stretto
via e-mail a giuliano: non si tratta
di assistere
al naufragio: è che i topi
sul vascello
non possono dare senso
alla storia
ma tenersi stretti
mentre rotolano nel buio
e nel fragore
passarsi un brivido da pelle
a lucida pelle
prima del tonfo
questo si, questo è per ognuno
possibile)

***

(dopo tre anni la voce
è ancora troppo grossa

e il blababla oscura
la mancata estromissione

di orgoglio
e vanagloria)

perché le parole non siano ancora
solo parole

perché vi sia fervore
e nell’ordinario devozione

e qui s’interrompe stesura di poesia
perché anche speranza vuole concretezza e la più alta
aspirazione per noi e per gli altri che conosciamo o che possiamo
solo immaginare in carne
e affanno
deve avere realismo

che non è volare basso ma aver mostrato
senza esibizione che la pace chiesta per gli altri
siano giorni
per sé
e non per esempio come ieri al parco
alla signora che si lamentava dell’ingratitudine
altrui senza gentilezza
dirle che sua disponibilità
ai casi altrui non era autentica

intanto parliamo per rassicurarci come diceva giulia
e si scrive anche una parola che non si è
o non si è ancora

e le si gira
intorno come se da parola venisse
significazione

e non da qualità dell’intenzione

come se da parola venisse
significazione

e non da qualità
dell’intenzione

perché le parole non siano ancora
solo parole

perché vi sia fervore
e nell’ordinario devozione

perché dal risveglio alle prime avvisaglie
del sonno una sola

sia la naturale propensione

perché la voce si assottigli

perché le parole non siano ancora
solo parole

continua la poesia
continuala pure
senza parole

 

Da Versi Nuovi, Oedipus Ed. 2004

[Annotazioni di lettura di Giuliano Mesa e Giulia Niccolai sono reperibili rispettivamente nel numero 20 e 26 de il Verri.

Si possono leggere anche qui . L’intero libro in formato pdf è scaricabile qui. B.C]

 

 

 

Un Borges piccolo piccolo

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Borges copia

Tlön, Babele, Borges

di

Carlo Cenini

 

Nel celebre racconto di Borges La biblioteca di Babele, contenuto nella raccolta Finzioni, viene descritta una biblioteca forse infinita nella quale vengono esaurite tutte le possibili combinazioni di lettere, tutti i possibili linguaggi, tutte le possibili storie. In quella biblioteca sono contenute anche le parole che state leggendo in questo momento. La biblioteca è descritta da un bibliotecario che vi abita, e che nel descrivere i volumi, per la grandissima parte incomprensibili, dice che tra i migliori della zona di cui è responsabile ce n’è uno intitolato Axaxaxas mlö, titolo che in apparenza non ha nulla di interessante o comprensibile. Ma due circostanze rendono notevole questo titolo: la prima, interna al racconto, è che nei paragrafi precedenti il bibliotecario, nel descrivere i volumi della biblioteca, ha tenuto a precisare che “Il numero dei simboli ortografici è di venticinque”, e a questo punto un non meglio identificato editore annota a piè pagina che “il manoscritto originale non contiene cifre né maiuscole. La punteggiatura è limitata alla virgola e al punto. Questi due segni, lo spazio, e le ventidue lettere dell’alfabeto, sono i venticinque simboli sufficienti che enumera lo sconosciuto [Nota dell’editore]” (J. L. Borges, Finzioni, trad. it. Einaudi 1955, p. 71): com’è possibile dunque che uno dei libri della biblioteca contenga il carattere ö? E dato che si è ritenuto necessario introdurre la figura di un editore: come ha fatto il manoscritto del bibliotecario ad attraversare l’infinità della biblioteca per giungere nelle sue mani? La seconda circostanza bizzarra è che il lettore ha già incontrato le parole di quel titolo nel primo racconto della raccolta Finzioni, intitolato Tlön, Uqbar, Orbis Tertius. Non solo: il lettore di quel racconto sa benissimo cosa significhino quelle parole; nell’emisfero australe di Tlön, infatti, “Sorse la luna sul fiume si dice hlör u fang axaxaxas mlö, cioè, nell’ordine: verso su (upward) dietro semprefluire luneggiò” (Ivi: 14). La presenza della ö accanto alla nota dell’immaginario editore della Biblioteca di Babele serve proprio a fermare la nostra attenzione su quelle lettere, a chiederci perché tra tutte le possibili combinazioni il narratore abbia scelto di riportare proprio quella che potrebbe contraddire una delle presunte regole della biblioteca (a meno di non intenedere l’umlaut come un uso decisamente lasco del segno del punto fermo, ma l’editore si è addirittura premurato di dire che tra i simboli mancano le maiuscole…). Il fatto poi che quelle parole abbiano un significato nella lingua di un paese immaginario citato in un altro racconto può suscitare grosso modo due reazioni: la prima è dire, con modalità più o meno elaborate, qualcosa che bene o male si può riassumere in “Ma guarda un po’ Borges che si diverte a citare se stesso”; la seconda è chiedersi se la presenza nella biblioteca di Babele di un bibliotecario che comprende il linguaggio di Tlön possa avere un significato di tipo narrativo. Qui voglio provare a seguire questa seconda strada.

 

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Avverto il lettore che la piena comprensione di quanto segue presuppone una conoscenza abbastanza puntuale della raccolta Finzioni.

 

Una prima ovvia considerazione sarà che, se il narratore del racconto cita Axaxaxas mlö come esempio di titolo dotato di un sia pur minimo senso, sarà perché conosce il linguaggio di Tlön. Altrettanto plausibile è l’ipotesi che il bibliotecario sia addirittura uno degli abitanti di Tlön. Questa seconda ipotesi viene confermata da numerosi indizi contenuti sia in Tlön, Uqbar, Orbis Tertius che nella Biblioteca di Babele.

Com’è noto, la descrizione della struttura architettonica della biblioteca di Babele nell’omonimo racconto di Borges è delle più confusionarie. Tra l’edizione del ’41 e quella del ’44, Borges ha introdotto delle varianti nel passo che contiene quella descrizione; queste varianti, aggravando le contraddizioni, fugano qualsiasi dubbio che possa essersi trattato di una svista.

Edizione del ’41: “L’universo […] si compone d’un numero indefinito, e forse infinito, di gallerie esagonali, con vasti pozzi di ventilazione nel mezzo […]. Venticinque scaffali, in ragione di cinque per lato, coprono tutti i lati meno uno […]. Il lato libero dà su un angusto corridoio che porta a un’altra galleria, identica alla prima e a tutte” (Ivi: 69)

Edizione del ’44: “L’universo […] si compone d’un numero indefinito, e forse infinito, di gallerie esagonali, con vasti pozzi di ventilazione nel mezzo […]. Venti scaffali, in ragione di cinque per lato, coprono tutti i lati meno due […]. Una delle facce libere dà su un angusto corridoio che porta a un’altra galleria, identica alla prima e a tutte” (traduco da J. L. Borges, Ficciones, Alianza Editorial, 1971, p. 89)

Come si vede, dal ’41 al ’44 Borges rende se possibile ancora più oscura e lacunosa una descrizione già di per sé sconcertante nella sua imprecisione. Se nella versione del ’41 la presenza di un unico lato libero per ogni esagono impediva di immaginare come la biblioteca potesse estendersi all’infinito in direzioni diverse da quella verticale, nella versione del ’44 ci sono sì due lati liberi (il che in ogni caso non sarebbe sufficiente per costruire una biblioteca che si sviluppi in tutte le direzioni), ma il narratore descrive solo uno di questi lati liberi: dove porta l’altro?

“L’intenzione di Borges, e a questo collabora la maniacale precisione della descrizione, voleva [sic] che noi decidessimo di non tentare affatto di vedere la biblioteca, se non come si vede alla fine di un sogno, svegliandosi al mattino, con gli occhi annebbiati e impastati” ( U. Eco, Les sémaphores sous la pluie (I), qui).

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Sebbene la precisione sia tutt’altro che maniacale, è innegabile che l’effetto è di un qualcosa che lì per lì, a una prima lettura, “funziona”, ma che a ripensarci e a rileggere non “funziona” affatto: una di quelle descrizioni che ci fa provare, da svegli, l’abbaglio del sogno. Limitarsi a pensare che Borges abbia voluto dare una descrizione deliberatamente imprecisa per creare un particolare effetto psicologico è senz’altro legittimo, ma numerosi altri dettagli spingono a fare un’ipotesi più interessante; forse questa imprecisione, che come abbiamo visto è voluta e persino perfezionata tra un’edizione e l’altra del racconto, è l’indicazione per qualcosa d’altro, forse, per venire subito al punto, la sensazione straniante che proviamo di fronte alla biblioteca non è semplicemente frutto dell’abilità dello scrittore Borges, quanto effetto di un universo mentale e percettivo, quello del narratore bibliotecario di Babele, perfettamente estraneo al nostro. Viene in mente il celebre passo del naturalista Uexküll (1864 – 1944) sulla percezione del mondo in una zecca: per questo parassita l’intero universo si riduce a intermittenti emanazioni di acido butirrico che sono stimoli a lasciarsi cadere su corpi pieni di sangue. Descritto da una zecca, il nostro mondo sarebbe un universo completamente alieno, e a meno di non conoscere i modi percettivi della zecca, non ci potremmo mai rendere conto del fatto che si tratta, in realtà, dello stesso mondo in cui viviamo noi. Forse qualcosa di simile è accaduto per la Biblioteca di Babele, forse quel luogo ci sembra tanto strano e incoerente perché chi ce lo sta descrivendo fa parte di un paradigma percettivo radicalmente diverso dal nostro.

Nella sezione centrale di Tlön, Uqbar, Orbis Tertius Borges si sofferma appunto a spiegare le bizzarre caratteristiche mentali e percettive degli abitanti di Tlön: ciascuna di queste caratteristiche può rendere ragione delle aporie nella descrizione della biblioteca di Babele. Gli abitanti di Tlön faticano a concepire “che lo spaziale perduri nel tempo” (Borges, Finzioni 1955 cit., p. 15), e uno dei paradossi più incomprensibili a Tlön è quello dell’uomo che perde nove monete, sette delle quali nel corso di due giorni vengono raccolte da altri due uomini, cosicché alla fine l’uomo ritrova solo due delle monete che aveva perso. Ciò che su Tlön risulta alieno da ogni logica, è concepire che le varie monete raccolte siano le stesse che sono state perdute; questo fatto che per noi è normalissimo, su Tlön è considerato un paradosso di livello eleatico, e per renderne ragione si arrivano a concepire le spiegazioni più astruse: forse le nove monete sono in realtà la stessa moneta, i tre uomini lo stesso uomo… su Tlön l’uguaglianza e l’identità occupano un posto diverso e più incerto che tra noi.

Gli abitanti di Tlön non sono i soli a soffrire di questa confusione: Funes el memorioso è infastidito dal fatto che “il cane delle tre e quattordici (visto di profilo) avesse lo stesso nome del cane delle tre e un quarto (visto di fronte). Il suo proprio volto nello specchio, le sue proprie mani, lo sorprendevano ogni volta […]. Egli ricordava, infatti, non solo ogni foglia di ogni albero di ogni montagna, ma anche ognuna delle volte che l’aveva percepita o immaginata” (Ivi: 105); il detective Lönnrot, in La morte e la bussola, prima di raggiungere il luogo della sua morte passa “per gallerie e retrocucina uscì in cortili uguali, o più volte nello stesso cortile” (Ivi: 128); nello stesso racconto troviamo uno spunto fondamentale: “«La casa non è così grande, – pensò. – L’ingrandiscono la penombra, la simmetria, gli specchi, i molti anni, il mio straniamento, la solitudine»” (Ivi: 129). Forse anche la biblioteca di Babele non è poi così grande, e le stesse cose che hanno contribuito a rendere più vasta la casa in cui si trova Lönnrot, unite alle caratteristiche mentali di un abitante di Tlön, hanno reso infinita la biblioteca (noto per inciso che il nome Lönnrot è l’anagramma quasi perfetto di Tlön più hrön; la parola hrön indica una particolare categoria di oggetti di Tlön).

La geometria di Tlön è afflitta dagli stessi paradossi della sua ontologia: “Questa geometria ignora le parallele e dichiara che l’uomo che si sposta modifica le forme che lo circondano” (Ivi: 19). I matematici di Tlön, dal canto loro, hanno per base la nozione di numero indefinito e “affermano che l’operazione del contare modifica le quantità e le trasforma da indefinite in definite. Il fatto che vari individui, i quali calcolino una stessa quantità, giungano a risultati eguali, è per gli psicologi un esempio di associazione di idee o di buon esercizio della memoria” (Ibidem). Descritte da un uomo che vivesse in un simile cosmo mentale, anche le cose più banali o esatte ci apparirebbero di colpo come enigmi incomprensibili.

“La luce procede da frutti sferici che hanno il nome di lampade” (Ivi: 69): la sfacciata goffaggine di questa frase del bibliotecario di Babele, forse ancora più sconcertante della descrizione della biblioteca, lo è meno se si suppone che l’uomo che l’ha pronunciata provenga da un paese come Tlön, abitato da tigri trasparenti e torri di sangue (Ivi: 13); un uomo cui l’immagine di un frutto sferico che emana luce riesce più familiare di quella di una banale lampada, a quale figura potrebbe affidarsi per descrivere una biblioteca?

Insomma, al lettore della Biblioteca di Babele le caratteristiche mentali degli abitanti di Tlön appaiono tutte congegnate, nessuna esclusa, per spiegare ciascuna delle incongruenze e stranezze della descrizione della biblioteca. Da un abitante di Tlön, potremmo aspettarci di vedere una stessa cosa, una stessa persona, una stessa stanza esagonale moltiplicate infinite volte, quante sono gli istanti che quella cosa, quella persona, quella stanza, hanno attraversato nel tempo: non essendo in grado di concepire che lo spaziale perduri nel tempo (Ivi: 15), un abitante di Tlön potrebbe essere costretto a moltiplicare un certo corpo nello spazio per giustificarne la permanenza nel tempo; incapace di pensare a un unico esagono che attraversa infiniti istanti, preferirebbe concepire ogni istante popolato di infiniti esagoni. “Le cose, su Tlön, si duplicano” (Ivi: 22). Le quantità numeriche, posto che la matematica di Tlön si fonda sull’indefinito, sarebbero tanto più sospette quanto più fossero precise. La difficoltà a conciliare quantità indefinite e definite compare con nettezza anche alla fine del racconto: subito dopo aver chiarito che il numero dei volumi possibili è, per quanto immane, limitato, il narratore, commentando in nota una considerazione di Letizia Alvarez de Toledo, parla della possibilità di contenere i libri della biblioteca in un volume unico, “stampato in corpo nove o in corpo dieci”, con un numero infinito di pagine, passando poi ad enumerare le aporie di questo “serico vademecum” (Ivi: 78); ma, tanto per cominciare, se le pagine sono infinite a che serve preoccuparsi del corpo dei caratteri? e poi perché dovrebbero essere infinite, se il numero di libri possibili è limitato?

Su Tlön, le forme geometriche non sarebbero nient’altro che conseguenze del movimento. Per un abitante di Tlön sarebbe quindi del tutto naturale descrivere una biblioteca convenzionale sotto la specie di un improbabile e incoerente alveare di esagoni che si diffondono all’infinito e che, se fossimo noi a doverli descrivere, sarebbero semplicemente un solo esagono, un’unica stanza che il bibliotecario di Tlön ha moltiplicato per quante sono le volte che vi è entrato o uscito o vi ha ripensato o la ha vista riflessa nello specchio in fondo al corridoio, o la ha sognata. Sempre riguardo la geometria, c’è poi un passo in cui il bibliotecario tradisce, in modo che mi pare incontrovertibile, la sua appartenenza a un mondo mentale e percettivo che non ha nulla a che fare con il nostro; il passo ricorda molto, molto da vicino certe incapacità degli abitanti di Tlön di concepire cose che per noi sono banali, quotidiane: (i corsivi e i punti esclamativi/interrogativi sono miei) “Gli idealisti argomentano che le sale esagonali sono una forma necessaria dello spazio assoluto o, per lo meno, della nostra intuizione dello spazio. Ragionano che è inconcepibile una sala triangolare o pentagonale [!!??]. (I mistici pretendono di avere, nell’estasi, la rivelazione d’una camera circolare con un gran libro circolare dalla costola continua, che fa il giro completo delle pareti; ma la loro testimonianza è sospetta; le loro parole, oscure)” (Ivi: 70). La descrizione del libro circolare per noi non è affatto oscura: lo è per una persona che trova inconcepibile anche una sala pentagonale. Non è tanto che i bibliotecari di Babele conoscono solo ambienti esagonali (conoscono le latrine, gli stanzini, i corridoi, le scale a chiocciola, i frutti sferici che emanano luce…): è che la loro geometria, condizionata dal loro movimento nello spazio, è incapace di applicare una forma astratta a un oggetto concreto. Traviato dalla metafisica capricciosa del suo pianeta (“abbondano i sistemi incredibili” (Ivi: 16)), un bibliotecario di Tlön troverebbe del tutto normale sdoppiarsi in altrettanti bibliotecari quanti sono i diversi pensieri che ha fatto; dire che ciascun volume ha un preciso numero di pagine e di lettere, certe invariabili dimensioni geometriche, equivarrebbe per lui ad indicare, con la massima approssimazione, la diversità di ogni volume; per lui ogni corridoio sarebbe sempre due corridoi: quello in cui passa e quello in cui non si trova più: uno dei due viene sempre utilizzato, l’altro è sempre deserto, e questo è il motivo per cui il narratore non dice dove porta. Un solo scaffale di libri, persino una sola parola sarebbero sufficienti per fargli presumere (e con ciò stesso considerare una delle realtà da descrivere) la totalità dei significati possibili. “Nessuno può articolare una sillaba che non sia piena di tenerezze e di terrori; che non sia, in alcuno di quei linguaggi, il nome poderoso di un dio” (Ivi: 77).

L’avvertenza che segna il culmine del racconto: “Tu che mi leggi, sei sicuro d’intendere la mia lingua?” (Ivi: 77) sarà allora da intendere con la massima serietà, non tanto perché non in tutte le lingue “il simbolo biblioteca ammette la definizione corretta di sistema duraturo e ubiquitario di gallerie esagonali” (Ibidem), quanto perché una stessa definizione può dar luogo a rappresentazioni e realtà radicalmente differenti a seconda del sistema mentale e percettivo, prima ancora che linguistico, in cui venga collocata. Non è escluso insomma che se finalmente ci portassero nella biblioteca di Babele, ci troveremmo davanti una biblioteca come tutte le altre, e scopriremmo che gli altri bibliotecari sono in realtà sempre lo stesso bibliotecario narratore, incapace di pensare che quello che lui era il giorno prima, l’ora prima, l’istante prima, sia la stessa persona del presente (una delle scene finali del recente film Interstellar di Nolan, in cui una camera viene vista attraverso un buco nero, può dare un’idea – un po’ grossolana – di quello che intendo). Inversamente, se noi proponessimo al bibliotecario di Babele la descrizione di un uomo solitario che passa gli anni in un’unica biblioteca in cui volumi di varia dimensione sono costantemente, un giorno dopo l’altro, gli stessi, non c’è dubbio che egli riconoscerebbe in quest’immagine un artificio affascinante e paradossale, a tratti incoerente, infine inaccettabile.

In base a questa lettura, La biblioteca di Babele sarebbe allora un racconto proveniente da Tlön: insieme alla Encyclopaedia of Tlön, il reperto di un mondo immaginario destinato a contaminare irreparabilmente la nostra realtà: nel Poscritto al racconto Tlön, Uqbar, Orbis Tertius, Borges spiega infatti che la minuziosa creazione dell’Encyclopaedia of Tlön è il primo passo di una congiura dell’ingegno umano per eguagliare Dio nella capacità di creare un mondo. Il primo passo di questa congiura è la diffusione di oggetti provenienti da Tlön. Borges descrive due di questi oggetti, ma forse il racconto La biblioteca di Babele è un terzo oggetto? Anche Borges, nonostante le sue dichiarazioni di estraneità alla cosa, è uno dei congiurati di questa “intrusione del mondo fantastico in quello reale”?

Qui l’analisi deve necessariamente fermarsi. Quello che mi premeva suggerire è che l’accostamento tra i racconti di Finzioni può generare almeno un ulteriore racconto, racconto il cui fascino estremo consiste nella sua costante assenza, nella necessità che il lettore cerchi (inutilmente) di catturarlo, una specie di labile vapore narrativo che aleggia sulla raccolta come una instabile nebulosa, ipotetica e nello stesso tempo innegabile, incerta e deliberatamente oscillante tra esistenza e non-esistenza, come tra la vita e la morte il gatto di Schrödinger.

Perché dare un significato narrativo alle stranezze e incoerenze di Finzioni? È Borges stesso, per bocca dell’amico Bioy Casares, a suggerire di avere un ruolo più creativo nella lettura; siamo, di nuovo, in Tlön, Uqbar, Orbis Tertius, all’inizio del racconto e di tutta la raccolta Finzioni: “Bioy Casares, che quella sera aveva cenato da noi, stava parlando d’un suo progetto di romanzo in prima persona, in cui il narratore, omettendo o deformando alcuni fatti, sarebbe incorso in varie contraddizioni, che avrebbero permesso ad alcuni lettori – a pochissimi lettori – di indovinare una realtà atroce o banale.” (Ivi: 7) Al lettore decidere se raccogliere o meno la sfida implicita lanciata da Borges.

 

Di fronte agli indizi che ho mostrato ci si trova, come ho detto all’inizio, di fronte a un bivio interpretativo. Una strada porta a mere considerazioni estetiche (“Borges si diverte citare se stesso”), l’altra conduce a un più complesso ordine di eventi…

“Lequel prendrez-vous donc?” (Pascal, Pensées, 233).

 

 

Questo saggio fa parte di un intervento più lungo intitolato Innere Stimme, Innerer Roman, pubblicato nel volume edito dall’università di Trento nella collana labirinti a cura di W. Nardon e S. Carretta, intitolato “Comporre. L’arte del romanzo e la musica”.(qui ).

 

Il Verri: doppia presentazione a Milano

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Lunedì 2 marzo alle ore 21.00, presso la Libreria Popolare di via Tadino 18

Presentazione degli due ultimi numeri della rivista “il verri”

Filippo Pennacchio presenta:

il verri n.55, giugno 2014

Eccessi dell’io

eccessi

Contributi di:
Mariarosa Bricchi, Fulvio Carmagnola, Domenico Cipriani, Fausto Curi, Alessandro Dal Lago, Paolo Fabbri, Daniele Giglioli, Helena Janecsek, Giulia Niccolai, Sara Sullam, Ivan Schiamone

Stefania Sini presenta:

il verri n.56, ottobre 2014

La mente in-diretta libera

la mente

Contributi di:
Dorrit Cohn, Monica Fludernik, Paolo Giovannetti, Marco Giovenale Fredric Jameson, Alan Palmer, Daniele Papuli, Cetta Petrollo, Gilles Philippe, Sara Sullam, Lisa Zunshine

Intervengono Daniele Giglioli, Paolo Giovannetti, Milli Graffi, Sara Sullam, Paolo Zublena

www.ilverri.it

White Spiders / Ragni bianchi

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Gli angeli custodi delle cave di marmo di Carrara

un film di Luca Galassi

Roth scatenato

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Philip RRothdi Giovanni Dozzini

Dio ci salvi dalle biografie di scrittori. Tutto ciò che abbiamo amato, odiato, capito, frainteso, tutto ciò su cui abbiamo rimuginato, speculato, ciò su cui ci siamo illusi, ciò in cui abbiamo trovato ragioni sufficienti per continuare a vivere, ciò che ci ha reso inequivocabilmente felici, o spaventati, o disperati, tutto ciò capitatoci nel momento di leggere un qualsiasi romanzo di un qualsiasi scrittore non ha nessun legame con la vita condotta da qualsiasi scrittore del pianeta in qualsiasi momento della storia. Né nessuna necessità di averne. La letteratura ha bisogno solo di se stessa, e di occhi e cervelli per essere letta.

Un dramma europeo

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di Tommaso Giartosio

Una premessa sulle premesse
La premessa obbligatoria di tutti gli interventi su questo tema è sempre uguale: non si vuole in alcun modo attenuare la colpa degli autori della strage; “ovviamente” la violenza e l’omicidio sono da condannare recisamente, fermamente, assolutamente; eccetera. Allevato alla scuola dell’”ho tanti amici omosessuali”, io sospetto di queste premesse obbligate.

Giorgio Manganelli, Lettere senza risposta

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Lettere senza risposta, Giorgio Manganelli, Viola Papetti, ritratti nottetempo, Roma 2015
Lettere senza risposta, Giorgio Manganelli, Viola Papetti, ritratti nottetempo, Roma 2015

(Un Manganelli inedito, che per lavorare bene ha bisogno di essere interrotto “con tenere molestie”, che si macera dolorosamente nell’attesa di una cartolina, e che inaspettatamente esperisce la supremazia della voce sulla parola scritta. Nottetempo raccoglie le lettere d’amore inedite di Giorgio alla sua Viola, Viola Papetti, “Viola infine, che altro posso dire, Viola”, scritte fra il 1966 e il 1973, e la corrispondenza della Papetti con Maria Corti, dal 1990 al 1996, dopo la morte di quello che resta, indubbiamente, uno dei maggiori autori italiani del Novecento. F.F.)

“Nulla per lui era indifferente, purché fosse vero; così i suoi discorsi erano singolari”

Lettere a Viola Papetti (1966-1973)

di Giorgio Manganelli

Roma, 26 luglio ’69

Viola, Viola carissima, carissima Viola, Viola infine, che altro posso dire, Viola,
ho ricevuto ora in data ventuno, e sono un altro uomo. Mi sei mancata, mi sei mancata, il tuo silenzio, il tuo ritardo mi hanno angustiato assai più di quello che tu possa immaginare. Ti scrivo subito, scendo subito a spedire, perché se non vieni domani, come spero con tutta l’anima, possa ricevere questa mia, lunedì. Voglio dirti che se ti ho salutato affettuosamente alla partenza, ti accoglierò al ritorno – la dirò quella parola amara e squisita, quella parola diffidente e fantastica, ti accoglierò con amore. Non amo questo telefono vedovo della tua voce. La tua voce blesa e inesatta, una adolescente Viola d’amore.

Piccola storia di Dio

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di Daniele Ventre

C’era una volta il cielo, con i suoi pianeti e il suo calendario prima lunare e poi solare. Insomma, la dea bianca sacerdotessa e poi l’eroe. O anche tutti e due, madre e pàredro, madre e pargolo, in varie forme. Servivano per varie cose: dal controllo delle nascite presso i cacciatori raccoglitori, alla misura dei cicli stagionali nel neolitico tardo e nell’età dei metalli, giù giù fino al tardo rinascimento. Più del sole e della luna, vicini all’uomo e alla terra e perciò umanizzabili o semidivini o dèi variamente incarnati sacrificati morenti e risorgenti, contavano i pianeti. I loro cicli e le loro orbite regolari li fecero apparire come dèi. Poi c’era anche tutto un corteggio di costellazioni di riferimento, da puntare con orologi di pietra sempre più imponenti e complessi: menhir, cromlech, piramidi, templi, tombe, cattedrali. Il tutto si inseriva in un sistema di atti psicomagici vòlti a costruire una tecnica del tempo e del controllo del tempo, in collegamento con la produzione e l’orientamento sul territorio (vie di canti, per mare e per terra, racconti degli aborigeni e odissee), o semplicemente con i tempi di attuazione delle tecniche elementari. Una rete di senso fatta di poesia, architettura, tecnologia, memoria, mappe del cielo e della terra, imperi universali (imperi di mezzo come la Cina) strutturati a volte su quattro direttrici e su quattro regioni (come l’impero tahuantisuyu degli Inca: “il regno delle quattro regioni prese insieme”, il dominio cosmico). La ierofania uranica declinata nelle sue varie forme, tende infine alla reductio ad unum. Gli dei sono ridotti ad angeli, il Dio degli dei (Elohim, Aton, Vishvadeva) ne assorbe le prerogative, in tutto o in parte. Anche quando il dio è plurale (Brahma Shiva Vishnu; Zeus Poseidon Hades, Tien, Tengri etc. etc.), le cose non sono mai così disseminate come sembra. Ovunque si impone, con diversi dialetti culturali locali, una forma di panteismo/pancosmismo, in cui si oppongono semplicemente il cielo “chiaro” (El) e la terra. Poi vengono le evoluzioni storiche: maestri ora mitologici ora reali, ma trasfigurati nel mito, da Mosè l’ariete a Cristo il pesce. Il dio è sempre lo stesso, le funzioni del suo mito cambiano nel tempo, ma i sacerdoti (non il dio), sono gelosi e non ammettono le vecchie versioni. Si mettono in politica, pretendono che il passato muoia d’autorità e se no gli si dà una mano ammazzando i fedeli del vecchio sistema di segni. L’universo/dio continua imperterrito a procedere sulle sciagure umane, sciagure umane rigorosamente autoprodotte dagli interessati. “Nate da noi le sciagure proclamano, mentre da soli,/ contro il destino, per loro follie, si procurano affanni”. L’universo/dio, ma potremmo ben parlare di natura/dea. La trinità alla fin dei conti (o meglio, all’inizio dei computi) è un’invenzione lunare. Forse è il caso di riflettere meglio sugli archetipi. Dopo aver fatto sparire dalla faccia della terra quelli troppo ignoranti per fermarsi a pensare un attimo, prima di premere il grilletto o lanciare scomuniche.

Da Versi Nuovi (2004). Prima parte.

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di Biagio Cepollaro

Biagio Cepollaro,Sun,2008

L’HO VISTA ANCORA  (1998)

l’ho vista ancora distesa la linea bella e dritta

del mare e lo stupore pensando al vivo e non

ostante confusione immessa dall’odio dall’olio nostro

bisogna solo dimenticare               staccare d’un colpo

la spina

vent’anni a mettere mattoni a credere edificare fosse aggiungere

sommità                        vent’anni dentro

l’idea

dell’alto e del basso         a misurare il fatto col da fare

cosa faccio con linea dritta che sfodera onde apre

e chiude

pagine

apre

e chiude

questo denso di tenere molecole che s’affinano affinano fino ad essere più

leggere

dell’aria

così immagino un abbraccio       e dico bisogna stabilizzare questa intensità

di ioni farne una splendida abitudine come la calda quiete del nucleo

della terra tutto fuoco e metallo tutta lentezza di rotazione  perché sopra

ci sia erba ed acqua e noi a chiederci ancora se quello che c’è sopra la terra

sia cosa buona

 

vent’anni a mettere mattoni a credere edificare fosse aggiungere

non diminuire

vent’anni perso nell’attuale a simulare storia l’intreccio di miserie

senza presente che chiamano attività intellettuale li vedi anche tu

con in faccia

scritto il terrore di sparire e l’illusion di farcela a scampare per sola

malignità

e non dovrebbe non dovrebbe esserci ancora tanta rabbia

che ogni rottura fa lo sgambetto al flusso

di comprensione        cosa ottunde cosa occlude in troppe

sere è come tornare a zero

il gatto che sul ramo avanti

e indietro non si fida

a saltare        il millepiedi che ci pensa al prima

e al dopo

e non fa più un passo

la volontà non c’entra e non cresce

alla fine

sarà come un riflesso distratto anche per noi

il bene

e quello che invece si chiedeva da loro – da noi – era

aver attraversato

una volta per tutte deciso di scendere come l’acqua fa

per il pendio

verso il basso

non di star a galla comunque

chi s’aggrappa alla carcassa dell’ala

chi alla tavola che una volta fu nel salone delle feste      piace così

tanto l’idea del naufragio

che parla di loro – di noi – in un giorno qualsiasi fermi al semaforo

tornando dal lavoro la chiglia immensa e ribaltata le luci all’incontrario

malconci poggiati su quello che una volta era il soffitto

ma poi s’ingrana e il mare torna a stare sotto

come un affare

d’agenzia

di viaggio

e si tratta di diminuire

farsi sorgente    lasciar perdere           andare

per tornare e smuovere      acqua

tutta quell’acqua che non cresce e non si perde e vuole

abbattersi farsi muro e schiuma per poi calma

mente farsi indietro    infinitamente   ritirarsi

 

***

 

IL PICCOLO E IL GRANDE (1999)

(tra Carlo, il padre e Carlo, il figlio)

 

il piccolo chiede perché c’è buio e perché

luce

il grande risponde che la terra tutti noi giriamo

e lentamente

girando

viene buio e luce e poi luce e buio

che non scompare che ogni cosa luminosa ritorna

e varia

più cupa più pioggia e anche

allarme

dell’auto taglia notte e tuono

chiede abbraccio

poi infermiere strattonarono il corpo in una deposizione

senza pietà

mento penzolante

sul petto

pigiama

freschissimo

in fretta senza riguardo che proprio a loro

toccava il turno

dell’ora più calda di giugno in fretta a sistemare

il morto

a raccogliere lenzuola e fasce

da bruciare

altrove

 

non bisognerebbe chiedere alle cose

di parlare tra loro: sono lì

a graffiare per solo attimo il cielo e l’insieme

non dice più

delle linee della mano: foglia erba tronco tromba

d’aria

 

prima gli disse che poteva chiudere

in pace

il conto

che buono era stato

il passaggio

visto da fuori c’era stato di tutto

per una vita

media degli anni

sessanta

dall’ebete

giovinezza alle bombe

il paese fatto colonia comprato prima con pane

di grano e poi in sviluppo e progressione

con frigorifero ascensore auto

e televisione

 

la storia è cornice troppo grande

e sfilacciata l’omino neanche si vede

nel paesaggio e poi la cornice non è

che un altro quadro l’unico che c’è

fermo

sulla parete

il resto tutto il resto è apparso e sparso

 

però

che vuol dire visto

da fuori e media vita

non c’è fuori che tiene ma qualcosa uno

deve pur dire

nell’ultimo commiato: ti sei fatto già piccolo sei già

labile

ricordo

te ne vai

al tuo minimo termine

che un altro

anno

non avrebbe cambiato ma lui diversa

se l’era immaginata

non così oppressa da minuzie la credeva

solenne e per sola volta

immune

 

non bisognerebbe chiedere alle cose

di arredare le nostre attese e anzi

non bisognerebbe attendersi niente

dalle cose (calcolando le orbite

delle comete quando vaganti

montagne e città e le infinite

interazioni  le magnetiche

passioni della terra)

 

se anche ora volesse leggergliela lei non avrebbe tempo

e riposo non avrebbe aria

libera

è così difficile pane guadagnarsi quotidiano o è un’altra

l’ansia

del tutto pieno

prende contegno il panico una misura e forse

sarà davvero sbucata su di una via

più sua

lui neanche ci prova

ora che tra i due interpone

un grande

vuoto

 

non bisognerebbe chiedere alle cose

di restare

né puntare ogni porta

che si apre

non bisognerebbe stare dove nulla

è stato

non è monumento: ecco è questa

la vecchia

abitudine della pietra

ad insistere

con pietra e carta, appunto,

si tratta solo di un momento

intanto

si sente uno che è scampato

col suo panino in sorte buona o saggia

ma poi non è importante che sappia

(non arriva mai

diretta

la vicinanza)

solo che è strano: è come essere ai lati

opposti

della terra

ognuno con ciò che chiama

buio

ognuno con ciò che chiama

luce.

 

Da Versi Nuovi, Oedipus Ed. 2004

 

[Annotazioni di lettura di Giuliano Mesa e Giulia Niccolai sono reperibili rispettivamente nel numero 20 e 26 de il Verri.

Si possono leggere anche qui . L’intero libro in formato pdf è scaricabile qui. B.C.]

Vado in Piazza

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sui tetti della Galleria
sui tetti della Galleria

di Gianni Biondillo

Per raggiungere i livelli alti del ponteggio Marco, uno dei responsabili del cantiere di restauro delle facciate, decide di farmi fare una deviazione sui tetti della Galleria. Da qui lo spettacolo è semplicemente incredibile. Guardare dall’estradosso della copertura vetrata le persone che passeggiano ignare sui mosaici, quaranta metri più sotto, toglie il fiato. È come stare dentro ad un film fantasmagorico, mi sento Hugo Cabret, m’aspetto da un momento all’altro Martin Scorsese che grida: “ciak, azione!”

Arriviamo ai piani alti dell’impalcatura, sul braccio sinistro della Galleria, e Marco mi racconta del portale semovibile che permette di pulire sezioni delle campate lasciando libero il resto delle braccia. Poi, finiti i lavori di pulitura, tutto viene trainato sui binari per ricominciare i lavori sulla sezione successiva. Anche questa impalcatura volante, a ben vedere, ha un che di favolistico. Marco mi espone con minuzia i lavori di restauro e io tocco, fremente, il capo di uno dei telamoni, o il cornicione in cemento decorativo. L’animo d’architetto che mi rugge dentro è felice come un bambino nel paese dei balocchi.

Uno suardo di sotto
Uno sguardo di sotto

La storia di quest’opera titanica mi ha sempre affascinato. Da quando un giovane architetto, Giuseppe Mengoni, nel 1859 vinse il concorso del rifacimento della piazza del Duomo, sbaragliando 176 concorrenti, alle infinite traversie del cantiere, inaugurato ben tre volte, con gli scandali finanziari, i tracolli economici delle varie società appaltatrici, la deportazione forzata degli abitanti dell’area, le bustarelle a politici compiacenti, gli aumenti di volumetria in corso d’opera, insomma, tutto l’armamentario della più tipica, triviale storia italiana. Ma anche, altrettanto tipico del nostro paese, la voglia di edificare un monumento magistrale, capace di stupire chiunque passasse, per mettersi al pari con le altre nazioni avanzate dell’Occidente – noi, all’epoca nazione appena nata -, di rappresentare cioè un’epoca e i suoi sogni più arditi. Riuscendoci. Perché i milanesi perdonarono tutti gli scandali e adottarono da subito la Galleria trasformandola in uno dei luoghi deputati della loro identità cittadina. Non solo passeggio coperto, ma anche luogo dove scambiare opinioni, fare cultura, politica, socialità. Un posto dove stare, magari per consultare un libro, sorseggiare un caffè o bere un aperitivo. Il salotto buono di un’intera città.

Il salotto di tutti, però, non solo dei ricchi signori del centro. Ricordo che da bambino, quando abitavo a Quarto Oggiaro, mio padre diceva: “Vado in piazza” senza aggiungere nulla e tutti sapevamo dove. Lì, sotto la Galleria, in uno di quei capannelli di anziani che discutevano animatamente di tutto, dall’ultimo derby alle prossime elezioni amministrative. Milanisti o interisti, fascisti o comunisti, ogni scusa era buona per bisticciare. Erano anni senza internet o cellulari, ma se avevo bisogno di lui sapevo dove trovarlo: nel salotto di Milano, dove magari mi presentava orgoglioso ai suoi amici e poi mi portava a bere un caffé da Biffi.

Telamone (indiano!) in restauro
Telamone (indiano!) in restauro

Cammino su una delle balconate e guardo la gente passare sotto di noi; vedo alcuni turisti fotografare compulsivamente tutto, compresa l’impalcatura dei restauri, quasi fosse un’imperdibile installazione di qualche designer postmodernista. Sorrido. I milanesi ci sono abituati alle impalcature in Galleria. Ci passeggiavano già fra i ponteggi eretti dopo la grandinata estiva del 1874 che distrusse la copertura, o quando ancora la facciata con l’arco trionfale sulla piazza era un cantiere bloccato dalle pastoie burocratiche. Hanno continuato a farlo dopo i bombardamenti della seconda guerra mondiale che scempiarono l’edificio, o fra le strutture provvisionali di rinforzo, quando si scavò in Piazza del Duomo per la nuova linea metropolitana. La rossa. Altro sogno modernista di una Milano un po’ vanesia che si sentiva capitale economica e “morale” di una nazione.

L'angolo restaurato e la navata ancora da restaurare
L’angolo restaurato e la navata ancora da restaurare

Un monumento non è solo un edificio, è un luogo carico di memoria. Questi muri trasudano storie. Lo so da architetto, lo so da scrittore. Ancora nel secolo scorso in questo dedalo di cortili, scale, palazzi e strade interne – talmente grande che fece dire a un ammirato Mark Twain che si potrebbe vivere tutta la vita qui senza mancare di nulla – abitavano maestri di scuola elementare, sartine della Scala, artisti bohémien. Qui due milanesissimi siciliani, Giovanni Verga e Luigi Capuana, potevano conversare dei loro progetti editoriali degustando un risotto da Savini, qui, come si può ammirare in un dipinto di Boccioni, potevano scatenarsi zuffe fra donne pronte ad accapigliarsi davanti alla bouvette del Campari, le stesse che poi magari andavano a comprarsi una borsa in cuoio da Prada, qui Salvatore Quasimodo di ritorno dal Genio Civile di Sondrio tirava tardi parlando d’arte e poesia con De Grada, Cantatore, Messina, qui nel ’68 i figli ribelli della borghesia meneghina manifestavano per Cuba nel nome di Mao Tse Tung.

Ho visto col nascere del millennio perdere l’abitudine dei milanesi a frequentare questo luogo. Capannelli di sfaccendati, come quelli che frequentava mio padre, non se ne vedono più e la cosa mi intristisce. Mi sembra d’essere il testimone di un perduto amore. Da questa posizione privilegiata vedo passare scolaresche, turisti cinesi che si fanno selfie selvaggi, gruppi sparsi di russi o americani che ruotano divertiti i talloni sui testicoli del toro, senza sapere esattamente perché. I milanesi passano di corsa ma non si fermano. Oggi la Galleria appartiene ad un immaginario globale, è ammirata in tutto il mondo, tappa obbligatoria per chiunque venga in città. Pare, mi racconta Marco, che un magnate del Qatar ne stia costruendo una identica a casa sua, tutta in marmo di Carrara. Chi lo sa, gli dico, forse questo restauro che sta dando una nuova vita ad un luogo così carico di storia è il nostro modo di dichiarare un nuovo amore per queste pietre. Un regalo fatto prima di tutti ai milanesi, che tornino a fare della Galleria casa loro.

ero lassù, come Mengoni
ero lassù, come Mengoni

Era un freddo inverno quando Mengoni, il giorno precedente la consegna definitiva dei lavori, cadde dalle impalcature della cupola centrale perdendo la vita. Aveva la mia età. La leggenda dice che si suicidò per le troppe critiche ricevute e per l’affronto del Re a cui aveva dedicato la sua opera che non sarebbe stato presente al taglio del nastro. Le leggende non sono necessariamente vere, basta che siano belle.

Anche oggi è una fredda giornata invernale ma di buttarmi da questa impalcatura ovviamente non ne ho la minima intenzione. Non mi interessa entrare in alcuna leggenda. Invece ho voglia di scendere, di fermarmi sotto l’Ottagono, di comprare un libro, di discutere di politica con uno sconosciuto o di prendermi un aperitivo, come facevo con mio padre, quando si andava in piazza, senza specificare dove, che tanto poi ci si ritrovava sempre in questo luogo così familiare, così domestico. Il salotto buono di casa. Quello di tutti i milanesi e, ormai, del mondo intero.

(pubblicato su Vanity fair del 4 febbraio 2015. Le foto sono mie.)

Sostiene Pereira

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di Marino Magliani, con illustrazioni di Marco D’Aponte (tratte dalla loro graphic novel “Sostiene Pereira”, Tunué, 2014)

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Esistere con un passo indietro e l’altro che scalpita non perché si vuol andare chissà dove, ma perché fisicamente non si riesce a stare a lungo con un piede posato e l’altro per l’aria.

In articulo mortis

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Opera di John Singer Sargent

 

Il dattiloscritto rifiutato

 di

 Luca Ricci

Ai fini di questa storia- che forse non vuol dire nulla, tranne che siamo tutti miserabili, nessuno escluso, buoni e cattivi, vittime e carnefici- il mio nome conta molto meno della mia occupazione. Sono un editor, cioè un redattore editoriale che, tra le altre sue mansioni, si occupa di tanto in tanto di leggere e valutare i dattiloscritti che giungono in casa editrice. Non ricordo come venni in possesso del libro di cui voglio parlare (oggigiorno poi quasi tutti inviano tramite e-mail), forse qualcuno l’aveva prelevato dalla portineria e l’aveva poggiato sulla mia scrivania per errore. A ogni modo si trattava del dattiloscritto di un ignoto, nessuna raccomandazione ne aveva preceduto l’arrivo.

Una lettera trascurabile scritta a biro- calligrafia dozzinale, senza dubbio maschile, un po’ incerta- accompagnava il plico. In calce, subito prima della firma dell’autore, campeggiavano due numeri telefonici: un fisso e un mobile. La vista di quei numeri m’irritò immediatamente, era un tentativo di farsi rintracciare che sembrava già una supplica. Sì, fu per la vista di quei numeri, credo. Afferrai il dattiloscritto, ne sfogliai qualche pagina distrattamente e poi sbuffando lo misi sotto a una pila di lavori più interessanti e urgenti. In quella posizione, cioè da ultimissimo, il manoscritto passò almeno un paio di mesi. Poi, del tutto casualmente, presi io la telefonata che il suo autore aveva osato fare alla casa editrice, ignorando la prassi che è quella di aspettare una risposta scritta che nella maggior parte dei casi suona più o meno così: “Abbiamo letto con vivo interesse il suo romanzo ma non rientra nella nostra linea editoriale…”.

– Posso esserle utile?- domandai scocciato, appena collegai quel nome al dattiloscritto.

– Volevo solo sapere se avevate letto il mio libro.

– Non ancora, non ancora.

A quel punto l’autore prese un tono lamentoso che lo fece definitivamente approdare nella categoria degli scocciatori: – Ma sono già passati più di due mesi da quando ve l’ho spedito.

Attaccai e per un momento ebbi chiaro l’impulso di afferrare il manoscritto e buttarlo nel cestino che era proprio lì, a due passi dalle mie gambe distese sotto la scrivania. Mi trattenne solo uno stupido senso del dovere, stupido perché in cuor mio sapevo benissimo che per quel libro era finita, il suo autore con quell’atteggiamento respingente ne aveva decretato l’insindacabile morte prematura.

Richiamò una settimana dopo, chiedendo esplicitamente di me a chi gli aveva risposto, perché ero stato talmente ingenuo da dirgli come mi chiamavo.

– Ci siamo sentiti una settimana fa,- mi disse.

– Mi ricordo perfettamente di lei, ma deve capire che le tempistiche editoriali sono lunghe, molto lunghe.

– Potrò richiamarla quando crede, mi dica solo una data.

Deglutii a fatica, quasi spezzai il lapis che stringevo tra le dita: – Non funziona così, guardi. Le spiego: la casa editrice legge con i tempi e i modi che le sembrano più consoni, e poi invia una risposta scritta. E questo è tutto.

Credevo di essermi spiegato, erano cose semplici da capire, ci sarebbe voluto solo un po’ di buon senso, invece dopo una settimana esatta da quel discorsetto l’autore era di nuovo alla cornetta.

– Ha capito che cosa le ho detto la scorsa settimana?- domandai, ormai fuori di me.

– Sì,- ammise l’autore, e poi raddolcì la voce in modo davvero subdolo. – Volevo solo sapere se avevate iniziato a leggerlo, magari anche solo una sbirciatina alle prime pagine.

Disse proprio così: sbirciatina. Con tutto quello che avevo da fare- la ridda di incontri, autori e testi che mi frullavano per la testa-, lui aveva il dubbio che io avessi potuto dare una sbirciatina, così, di sfuggita, al suo libro. Lo ammetto, fui molto scortese e gli attaccai quasi il telefono in faccia. Una settimana dopo richiamava, per quello che ormai era diventato una specie di appuntamento fisso tra noi: si andava di lunedì in lunedì, e non c’era modo che sgarrasse, non ne saltava neanche uno.

– Ha letto?- mi diceva, con un intercalare atono, difficilmente attaccabile.

Rispondevo secco: – Non ancora.

Passato qualche mese i nostri rapporti settimanali presero una piega bizzarra. Attraverso le nostre brevi frasi di servizio capii che l’autore non voleva avere effettivamente un giudizio, ma si crogiolava nell’attesa. Quel supplizio in fondo era un limbo rassicurante, fatto di speranza, prima che un sì o un no giungesse a modificare la situazione in modo permanente.

– Neanche questa settimana siete riusciti a leggere il mio libro, vero?- chiedeva l’autore, sapendo perfettamente quale sarebbe stata la risposta.

Dal canto mio ormai avevo recuperato il controllo della situazione, aveva capito che quelle telefonate non erano frutto di un’insistenza, avevo compreso che avrei potuto anche non leggerlo mai, quel dannato libro.

– Purtroppo neanche questa settimana ce l’abbiamo fatta,- gli dicevo, con un rammarico un po’ sadico di cui avrei dovuto vergognarmi.

– Oh, che peccato- diceva l’autore. – Magari sarà per la settimana prossima, altri sette giorni d’attesa in fondo cosa mai potranno essere?

– Infatti,- rincaravo la dose io. – Un altro po’ di pazienza e poi forse sapremo…

Quanto durò? Sette, otto mesi. Poi le telefonate cessarono di colpo. Per un paio di settimane mi sentii sollevato, poi cominciai a preoccuparmi. Che l’autore si fosse stancato di quel giochino? Che alla fine avesse perso la pazienza prima di me? Che- ed era l’ipotesi peggiore, quella che mi faceva letteralmente impazzire- qualche altro editore gli avesse dato la risposta che attendeva? Il terzo lunedì senza chiamate recuperai la lettera d’accompagnamento, che era ancora dentro la busta insieme al dattiloscritto. Composi il numero del telefono fisso col cuore in subbuglio e le mani che mi tremavano.

– Pronto?- domandò l’autore.

– Non si è fatto più sentire,- lo incalzai.

– Mi scusi,- farfugliò lui, un po’ in difficoltà. – Sono stato occupato in altre faccende, ma non voglio annoiarla.

Altre faccende? Ma come si permetteva di lasciare in secondo piano la valutazione del suo dattiloscritto, la cosa più importante della sua vita (che immaginavo in fondo assai grama e priva di altre attrattive che non fossero quelle assai vaghe di aspirare a una qualche gloria letteraria)?

– Lei non deve più permettersi di saltare neanche un lunedì!- urlai. – Sono stato sufficientemente chiaro?

Mi disse che avrebbe senz’altro ripreso a chiamarmi eppure il lunedì successivo il telefono rimase muto. Provai a fregarmene, in fondo mi ero liberato di un peso, non sarei dovuto certo essere io a provare la sua mancanza, era lui che dipendeva da me, nella Sindrome di Stoccolma è la vittima che ama il carnefice! Strano a dirsi, ma resistetti solo un’altra settimana. Cercai di nuovo i suoi numeri. Non mi rispose né al fisso né al mobile. Non so per quanti minuti ascoltai quegli squilli, ma di certo un numero sufficiente per attestare uno squilibrio. Sulla busta che conteneva il dattiloscritto c’era anche l’indirizzo dell’autore. Mi ricordavo che abitavamo nella stessa città, così appena terminato il lavoro andai sotto casa sua. Mi attaccai al citofono come un disperato. Venne avanti la portinaia indispettita e allora chiesi di lui.

Fece una faccia greve: – Un cancro, signore.

– E’ morto?

– Gliel’ho detto, signore. E’ morto.

Mi precipitai in casa editrice a leggere, con le lacrime agli occhi.

Fortini e la poesia come pratica di minoranza

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di Andrea Inglese

Ho ripreso in mano Fortini, a vent’anni dalla scomparsa, non per celebrarne la figura: non ne possiederei le prerogative, dal momento che non sono né uno studioso della sua opera né ho pretesa, in ambito poetico, di continuarla in qualche forma, per prossimità di temi o di modi. Ma penso di poter testimoniare di un’eredità possibile proponendo, a partire da Fortini, una riflessione sul nesso poesia e minoranza.

Nel contesto storico attuale, in cui la stessa industria culturale novecentesca sembra avviata verso un’ulteriore crisi e trasformazione in senso ancora una volta monopolistico, guidata da imperativi di profitto sempre più assoluti, una scrittura come quella poetica oscilla tra lo stigma dell’obsolescente elitismo e quello della sventurata marginalità.

se muoio prima io

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di Giacomo Sartori

se muoio prima io

solo pettegolezzi

e niente fiori recisi

e cazzatine da sgranocchiare

unte e un po’ letali

(per restare in tema)

poi pasta e fagioli

e vini laziali sinceri

I luoghi dell’etica economica

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[Per gentile concessione dell’autore, pubblichiamo la postfazione al volume L’Europa dei territori. Etica economica e sviluppo sociale nella crisi a cura di Emanuele Leonardi e Stefano Lucarelli, Orthotes, 2014]

di Stefano Lucarelli

I poeti appartati: Antonella Bukovaz

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Dalla luce del mio sepolcro

canto la parola armata

di Antonella Bukovaz

 

dedicato a Hanna Preuss

 

 

Soltanto solo,/sperduto,/muto, a piedi/riesco a riconoscere le cose.

Pier Paolo Pasolini

 

 

(voci fuori scena – inglese, sloveno, italiano)

Ho sognato che ero un uomo

un uomo perso nella terra

ho fatto un sogno che mi perdeva nella terra

ero un uomo

dovevo andare andare

attraversare la montagna

raggiungere… nel sogno, sono un uomo

raggiungere arrivare – andare andare…

Vani, scavati nella roccia

sono umidi e bui, entro

esco, per entrare in altri cunicoli

più piccoli più grandi… sono solo

perso

nella terra

… sono uomo

(Antigona)

guardami

sono lo specchio del corpo insepolto

riflessa, capovolta

la legge divina dimora e scorre

mentre viva, sepolta, mi divora

nel corpo acceso

sua dimora

guardami

tu sei in me

non per fusione ma per riduzione

ridotto a me

dico di me e di te

del tradimento e della legge

dico che sono sola

integra, incarnata

sola con te dentro di me

ora nasco alla storia

aspettavo da molto tempo

sola nella violenza del silenzio

in questo vuoto

in bilico

tra amore e conoscenza

 

 

(voci fuori scena – inglese, sloveno, italiano)

Ho sognato che ero un uomo

un uomo perso nella terra

ho fatto un sogno che mi perdeva nella terra

ero un uomo…

sono un uomo che parla alla terra

con la voce della terra… ho sognato… sono perso…

un uomo nel sogno… nella terra…

Quali parole? Dov’è la mia parola… la mia voce…

la parola di superficie

non corrisponde ai luoghi dentro la terra

non conosco i miei passi… le mie mani…

i miei occhi vedono ciò che non riconosco…

ma sono certo della prossima luce

stupito! del buio dopo altro buio

mai uguale ma altro e altro ancora…

guardami

qui dove ho posato il mio cuore, nasco

nasco dalla legge prima

dal diritto alla pietà, alla solidarietà

sono il diritto alla morte

sono la debolezza

la carezza del dolore

guardami

sono il tempo della resistenza

sono tutti gli antenati

e tutta la discendenza

la carne

innestata alla carne

un lupo affamato è il peccato di mio padre

in me, riflesso capovolto

che veglio sul dio disarmato

guardami

io dico che l’aria aperta dal flusso del cuore

porta in sé una forma di rivoluzione

degli spazi

può rivoltare i margini una corrente così

porta venti che arrossano

le nuvole all’orizzonte, disorienta

gli occhi dei tronchi dei faggi

 

 

(voci fuori scena – inglese, sloveno italiano)

Qualcuno mi aspetta e io sono un uomo, un uomo

perso nelle viscere della terra

un uomo, un uomo calmo e smarrito

di cunicolo in cunicolo… abito nel passaggio

nella frattura, nella frana…

Io partorisco qui il mio seme

lo rilascio intero alla terra e alla pietra

all’aria ai muschi al buio

alla corrente e al tempo.

guardami

muove verso la soglia la vita

non c’è luogo migliore per la rivolta

e sarà amore per l’ultima parola

e sarà parola-fondamento

sarà amore che genera metamorfosi

sarà civiltà, sarà diritto

parlerà la legge della creazione

intrecciata all’ultimo mio respiro

e tu? per chi? ricopri di splendore

il tuo potere cieco

dalla luce del mio sepolcro

canto la parola armata

nella sfida ti sfido e creo

sto nella cerimonia

col mio canto ti tengo, proteggo

tra le braccia della mia debolezza

la tua parola è muro senza salvezza

solo sangue senza rito

che uomini dopo di te tradiranno

moriranno i tuoi figli

io alzo la polvere – ricopro la pena

tra le mie dita scorre l’acqua

rigenera la vita, dà vita alla terra

saranno poi uomini nuovi

saranno donne con le figlie sulle spalle

i figli al fianco

 

 

(voci fuori scena – inglese, sloveno, italiano)

… nel buio della terra

nella commozione dell’ascesa

nelle braccia e nella forza

nell’oscurità

ho ancora mani per cercare il pane

dalla voragine apertasi alla mia ombra, risalgo

aggrappandomi ai sassi e alle radici che viscide

il vuoto della terra ha scoperte

mi aggrappo e risalgo intero, colmo, roteando, rilascio

odori di marcescenza e in questo, la vita

risuono e sono in me

spargo la mia voce nel tutto

e nel niente della storia

del buio trasudo la vita

seguo dentro me il dio sconosciuto

e non temo memoria

rallento, risalgo al fondo

mi attende un ritorno

lungo i sentieri della montagna

m’incammino con il pensiero ancora dentro

dove mi ero quasi perso l’animo

e nel buio dopo altro buio

mai uguale ma altro e altro ancora

che appartiene anche alla superficie

qualcuno mi aspetta e io sono l’uomo

l’uomo

e torno

“e nevi e piogge cadono su lei che si dissolve goccia a goccia”

 

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cinéDIMANCHE #16 HÉLÈN CHÂTELEIN Nestor Machno, un paysan d’Ukraine [1995]

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Hélène Châtelain, indimenticabile volto de ⇨ La Jetée di ⇨ Chris Marker, ricostruisce la vicenda della rivoluzione contadina di ⇨ Nestor Machno, ricordando e riabilitando la sua figura, a lungo dimenticata e travisata.
 

Sezione Culturale-Educativa dell’Esercito degli Insorti [Makhnovisti]
27 aprile 1920

1. Chi sono i makhnovisti e per che cosa si battono?
 
I Makhnovisti sono operai e contadini che insorsero fin dal 1918 contro la tirannia del potere della borghesia germano-magiara, austriaca e hetmanita in Ucraina. I Makhnovisti sono quei lavoratori che per primi innalzarono lo stendardo della lotta contro il governo di Denikin e tutte le altre forme di oppressione, di violenza e di menzogna, qualunque fosse la loro origine. I Makhnovisti sono quei lavoratori sulla cui fatica la borghesia in generale, ed ora quella sovietica in particolare, ha costruito il proprio benessere ed è divenuta grassa e potente.
 
2. Perché ci chiamiamo Makhnovisti?
 
Perché per la prima volta durante i giorni più oscuri della reazione in Ucraina, abbiamo visto tra noi un amico leale, Makhno, la cui voce di protesta contro ogni forma di oppressione dei lavoratori risuonò per tutta l’Ucraina, esortando alla lotta contro tutti i tiranni, i malfattori e i ciarlatani della politica che ci ingannavano, Makhno, che ora marcia deciso al nostro fianco verso la mèta finale, l’emancipazione del proletariato da ogni forma di oppressione.
 
3. Che cosa intendiamo per emancipazione?
 
Il rovesciamento dei governi monarchici, di coalizione, di repubblicani, socialdemocratici e del partito comunista bolscevico, cui deve sostituirsi un ordine indipendente di soviet dei lavoratori, senza più governanti né leggi arbitrarie. Perché il vero ordine dei soviet non è quello instaurato dal governo socialdemocratico-comunista bolscevico, che ora si definisce potere sovietico, ma una forma più alta di socialismo antiautoritario e antistatale, che si manifesta nell’organizzazione di una struttura libera, felice e indipendente della vita dei lavoratori, nella quale ciascun individuo, così come la società nel suo complesso, possa costruirsi da sé la propria felicità e il proprio benessere secondo i principî di solidarietà, di amicizia e di uguaglianza.
 
4. Come consideriamo il sistema dei soviet?
 
I lavoratori devono scegliersi da soli i propri soviet, che soddisferanno i desideri dei lavoratori – cioè, soviet amministrativi, non soviet di stato. La terra, le fabbriche, gli stabilimenti, le miniere, le ferrovie e le altre ricchezze popolari devono appartenere a coloro che vi lavorano, ovvero devono essere socializzate.
 
5. Attraverso quale via i Makhnovisti potranno realizzare i loro obiettivi?
 
Con una rivoluzione senza compromessi e una lotta diretta contro ogni arbitrio, menzogna ed oppressione, da qualunque fonte provengano; una lotta all’ultimo sangue, una lotta per la libertà di parola e per la giusta causa, una lotta con le armi in mano. Solo attraverso l’abolizione di tutti i governanti, distruggendo le fondamenta delle loro menzogne, negli affari di stato come in quelli economici, solo con la distruzione dello stato per mezzo della rivoluzione sociale potremo ottenere un vero ordine di soviet e giungere al socialismo.
 

cinéDIMANCHE
 

cdNella pausa delle domeniche, in pomeriggi verso il buio sempre più vicino, fra equinozi e solstizi, mentre avanza Autunno e verrà Inverno, poi “Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera“, riscoprire film rari, amati e importanti. Scelti di volta in volta da alcuni di noi, con criteri sempre diversi, trasversali e atemporali.