(prima della fiction americana c’è stata la serie tv britannica. E prima della serie ci sono stati i romanzi di Michael Dobbs. Fra pochi giorni esce il terzo e ultimo della serie, House of Cards 3 – Atto finale, traduzione di Stefano Tummolini e Giacomo Cuva. Qui di seguito un estratto regalato dalla casa editrice Fazi, che ringrazio. G.B.)
di Michael Dobbs
Il posto di un uomo nella storia non è nient’altro che questo: un posto, un singolo punto in un universo infinito, una gemma che, per quanto possa essere lucidata e fatta brillare, comunque si perderà in un mare di ricchezze.
Un granello di sabbia nella clessidra.
Per Urquhart quello era un luogo venerabile: lo scranno di pelle lucida graffiata dall’affondo di unghie ansiose, il casellario di bronzo e antico legno di Puriri levigato dal passaggio di migliaia di palmi sudati, travi e pilastri finemente decorati che, a un orecchio attento e allenato, rimandavano ancora gli echi delle grida dei grandi leader fatti a pezzi e trascinati verso l’oblio. Sembrava che ogni carriera politica dovesse finire in disfatta, il verdetto di quel tribunale gotico non cambiava mai. Colpevole. Condannato. Un luogo di arringhe, fugaci approvazioni ed esecuzioni inevitabili.
Ultimamente, ogni volta che si allontanava dalla ribalta, delle voci dall’ombra gli sussurravano che il giorno della sua caduta sarebbe arrivato, era solo questione di tempo. Mentre se ne stava seduto sullo scranno, i sussurri erano ricominciati, sempre più imperiosi, insolenti, quasi estenuanti. E in mezzo a quel brusio, sentì la voce di Thomas Makepeace.
«Il mio onorevole collega è consapevole», la finzione istituzionale dell’amicizia scivolò dalle labbra di Makepeace come fiele, «del fatto che la comunità greco cipriota residente in questo paese è profondamente turbata dall’esistenza di luoghi di sepoltura occultati dai tempi della guerra di liberazione, negli anni Cinquanta?».
Vecchi ricordi si ravvivarono come braci, guizzando e avvampando fino a che il crepitio delle fiamme non ebbe cancellato le parole con cui Makepeace stava chiedendo che il governo britannico aprisse i propri archivi, che rivelasse tutte le morti e le tombe non segnalate, «in modo che si possa finalmente mettere una pietra sopra le tragedie di quegli anni lontani?».
Per qualche istante, l’aula rimase a guardare l’insolito spettacolo del primo ministro rigidamente seduto al suo posto, apparentemente impassibile, impietrito, perso in un altro mondo, fin quando un brusio d’impazienza non lo riscosse. Si alzò con movimenti legnosi, come se l’età gli avesse saldato le giunture.
«Non mi risulta», cominciò a dire con inconsueta incertezza, «che vi siano elementi che lascino supporre l’esistenza di tombe occultate dai britannici…».
Makepeace protestava, agitando un foglio di carta che, urlò, proveniva dall’Archivio di Stato.
Altre voci gli fecero eco. Nella sua testa risuonavano battibecchi e confusione, discorsi su tombe, su segreti che sarebbero stati inevitabilmente riesumati insieme alle ossa, su faccende che dovevano restare sepolte per sempre.
Poi un’altra voce, più familiare. «Combatti!», gli intimò. «Non farti vedere vulnerabile. Menti, urla, dimenati, insulta, colpisci basso e dove fa più male: qualsiasi cosa, basta che combatti!». E che preghi, avrebbe potuto aggiungere quella voce. Francis Urquhart non sapeva pregare, ma Cristo se sapeva combattere.
«Credo sia estremamente pericoloso andare per armadi a curiosare, a infilare il naso in atmosfere ormai stantie e insalubri», cominciò a dire. «Dovremmo piuttosto guardare al futuro, con le grandi speranze che ci riserva, anziché rimuginare sul lontano passato. Qualsiasi cosa sia accaduta durante quella vecchissima, tragica guerra, lasciamola sepolta, insieme alle eventuali malvagità compiute, probabilmente da entrambe le parti. Concentriamoci sull’amicizia incontaminata che da allora abbiamo costruito insieme».
Makepeace stava cercando di ribattere, protestando ancora, aggrappato a quel suo foglio di carta. Urquhart lo mise a tacere col più spietato dei sorrisi.
«Naturalmente, se l’onorevole collega ha in mente qualcosa in particolare, oltre a fare irruzione in un archivio polveroso, mi darò pena di esaminare la questione per lui. Non dovrà far altro che scrivermi con tutte le specifiche del caso».
Makepeace si acquietò e, con estrema gratitudine, Urquhart sentì che lo Speaker stava annunciando il successivo punto all’ordine del giorno. Nella sua testa rimbombava un caos di voci, grida, esplosioni e proiettili che rimbalzavano. Non ci vedeva più, accecato dal ricordo del sole del Mediterraneo che si riflette sulla roccia antica, mentre le sue narici dilatate si riempivano dell’olezzo dolciastro della carne che brucia.
Francis Urquhart si sentì improvvisamente decrepito. La clessidra della storia si era capovolta.
suonava così nel tempio e mi trovavo lì
per starmene un po’in pace e per vedere come in altra
lingua si dicesse quel sapore
vivido
di mattina di maggio quando a fondo radendo
la barba un poco ci si rinnova la faccia e si
svuota
come se fosse bastato sapere
del paradiso
perché comune fosse il cammino
(ma non c’è cammino e quel che può essere comune
non riguarda il paradiso né qualcosa
che si possa progettare) e chi
l’avrebbe detto prima
che non c’era
niente da conquistare che il culmine
era tutto nell’inizio
chi l’avrebbe cercata lì
la gloria
dei cieli e della terra
quando cielo e terra erano solo oggetti
di previsione
come quando prima di partire si vuol sapere
del tempo e se il volo
avrà rinvii o per nebbia
dirottamenti
quando anche andando tutto
come previsto il massimo che ci è dato
è soddisfazione di chi
quotidianamente puntella
il suo stress
come se fosse qualcosa
e non invece
un nulla
fosse stato per me
non sarei mai divenuto: è atto quasi violento
il nuovo
che l’amore
impone e quando ci sei dentro
è arretrare continuo
(resterà nella memoria della figlia
la spiaggia
di Palma
la buca scavando
come da piccola
indaffarata e briosa)
fu allora nell’altrui gloria che vidi
la vita in parte
andata:
che vada!
dedicherò gli anni (se lo sono
e non mesi o minuti)
che avanzano ad addestrarmi
ad essere felice ed aperto
a meritare l’inizio di ciò
che continuamente comincia
(e pensare che uno crede che l’importante
viene dopo attenta riflessione che il destino
possibile
sia frutto
di elezione)
cancella cancella le tracce al tuo passaggio prima che il cuore si richiuda prima che normalmente ghiacci
e intanto a quanti
di energia a pacchetti
postali le stelle
senza fretta si parlano in radio
o in luce
si tengono strette
in scambio fitto
fitto di particelle o corde
e dentro questo flusso nella mescolanza
dei tempi infiniti arriva un tempo in cui l’arte
non ci concede più
di nasconderci
e richiede per sé ciò a cui da sempre crescendo
abbiamo temuto di dover rinunciare: non il verso
imperfetto – che la tecnica si fa quasi
presto ad imparare- ma il verso
gratuito quello già nato per essere ascoltato
tra cielo e terra
le diecimila creature
prima che il cuore si richiuda prima che normalmente ghiacci
tra cielo e terra
parlandosi in radio o in luce
in un continuo di radiazione
cancella le tracce al tuo passaggio
che consapevole sia la passione
prima che il cuore si richiuda
senza intenzione né progetto prima che lentezza sia ritardo
prima che resti solo il guscio
perché l’amore che ci metti
resta
e non si perde
(intonando) i cieli e la terra
l’amore che ci metti qualcuno o qualcosa (intonando) son pieni
tra cielo e terra qualcuno o qualcosa (intonando) i cieli e la terra
lo ritroverà
***
DOPO TRE ANNI (2001)
perché le parole non siano ancora solo parole
perché il tempo destinato ogni giorno non sia ancora il tempo
in cui sia poco il realizzato e perché cambino davvero
anche il modo e la motivazione di dirlo
perché dal risveglio alle prime avvisaglie del sonno una sola sia la naturale propensione
lo dicevo a giulia ieri
al cinese
quest’anno è passato leggero
leggero come vorrei
la morte fosse appunto
passaggio
ad altra leggerezza
quest’anno ha qualcosa del cielo
e dunque
al dunque si tratta
ancora della capacità
di amare
(e dimenticare)
e davvero non c’era nulla
da portare
sulla soglia
a dimostrazione che qualcosa c’era stato
o come si dice qualcosa
abbiamo fatto e costruito e non siamo
passati invano
l’inganno è in quell’intendere
il passare
(cosa passa cosa no quando poi
si sa che tutto ma proprio tutto
passa
se mai la domanda è chi
e come
e in mezzo a che
passa)
di più c’è consapevolezza
del male
(ma non ancora
accettazione)
perché gli atti bruciano
come carcasse
di passate intenzioni e cadono
giù
a ferraglia
si compie oggi ciò che un passato
lungo quanto l’occhio con disattenzione
e arroganza ha preparato
e non solo la personale cecità
che ha chiamato proprio
destino
la banale chiusura
del cuore
ma anche l’iscrizione
nel cuore
della cellula
di ciò che la specie e il gruppo
hanno costruito e distrutto nella paura
e nell’allucinazione
**
quest’anno ha qualcosa del cielo
e non perché sia stato volo
e luce
(come ieri che ero uscito
per prendere aria e sono rientrato
subito
per incidente sotto
casa e oggi
mi telefona sorella del motociclista
in coma
chiedendo se ho visto
di chi è la colpa)
si passa la vita a non pensare
che la vita finisce
e quel mancato pensiero
indurisce il cuore
e fa moltiplicare i codici
che separano ridicole
le cose
dalle parole
quest’anno ha qualcosa del cielo
(deve esserci peso
anche nell’aria
o anche terra che fa cielo
e luce dentro la terra)
(lo dicevo stretto stretto
via e-mail a giuliano: non si tratta
di assistere
al naufragio: è che i topi
sul vascello
non possono dare senso
alla storia
ma tenersi stretti
mentre rotolano nel buio
e nel fragore
passarsi un brivido da pelle
a lucida pelle
prima del tonfo
questo si, questo è per ognuno
possibile)
***
(dopo tre anni la voce
è ancora troppo grossa
e il blababla oscura
la mancata estromissione
di orgoglio
e vanagloria)
perché le parole non siano ancora solo parole
perché vi sia fervore e nell’ordinario devozione
e qui s’interrompe stesura di poesia
perché anche speranza vuole concretezza e la più alta
aspirazione per noi e per gli altri che conosciamo o che possiamo
solo immaginare in carne
e affanno
deve avere realismo
che non è volare basso ma aver mostrato
senza esibizione che la pace chiesta per gli altri
siano giorni
per sé
e non per esempio come ieri al parco
alla signora che si lamentava dell’ingratitudine
altrui senza gentilezza
dirle che sua disponibilità
ai casi altrui non era autentica
intanto parliamo per rassicurarci come diceva giulia
e si scrive anche una parola che non si è
o non si è ancora
e le si gira
intorno come se da parola venisse
significazione
e non da qualità dell’intenzione
come se da parola venisse significazione
e non da qualità dell’intenzione
perché le parole non siano ancora solo parole
perché vi sia fervore e nell’ordinario devozione
perché dal risveglio alle prime avvisaglie del sonno una sola
sia la naturale propensione
perché la voce si assottigli
perché le parole non siano ancora solo parole
continua la poesia continuala pure senza parole
Da Versi Nuovi, Oedipus Ed. 2004
[Annotazioni di lettura di Giuliano Mesa e Giulia Niccolai sono reperibili rispettivamente nel numero 20 e 26 de il Verri.
Si possono leggere anche qui . L’intero libro in formato pdf è scaricabile qui. B.C]
Nel celebre racconto di Borges La biblioteca di Babele, contenuto nella raccolta Finzioni, viene descritta una biblioteca forse infinita nella quale vengono esaurite tutte le possibili combinazioni di lettere, tutti i possibili linguaggi, tutte le possibili storie. In quella biblioteca sono contenute anche le parole che state leggendo in questo momento. La biblioteca è descritta da un bibliotecario che vi abita, e che nel descrivere i volumi, per la grandissima parte incomprensibili, dice che tra i migliori della zona di cui è responsabile ce n’è uno intitolato Axaxaxas mlö, titolo che in apparenza non ha nulla di interessante o comprensibile. Ma due circostanze rendono notevole questo titolo: la prima, interna al racconto, è che nei paragrafi precedenti il bibliotecario, nel descrivere i volumi della biblioteca, ha tenuto a precisare che “Il numero dei simboli ortografici è di venticinque”, e a questo punto un non meglio identificato editore annota a piè pagina che “il manoscritto originale non contiene cifre né maiuscole. La punteggiatura è limitata alla virgola e al punto. Questi due segni, lo spazio, e le ventidue lettere dell’alfabeto, sono i venticinque simboli sufficienti che enumera lo sconosciuto [Nota dell’editore]” (J. L. Borges, Finzioni, trad. it. Einaudi 1955, p. 71): com’è possibile dunque che uno dei libri della biblioteca contenga il carattere ö? E dato che si è ritenuto necessario introdurre la figura di un editore: come ha fatto il manoscritto del bibliotecario ad attraversare l’infinità della biblioteca per giungere nelle sue mani? La seconda circostanza bizzarra è che il lettore ha già incontrato le parole di quel titolo nel primo racconto della raccolta Finzioni, intitolato Tlön, Uqbar, Orbis Tertius. Non solo: il lettore di quel racconto sa benissimo cosa significhino quelle parole; nell’emisfero australe di Tlön, infatti, “Sorse la luna sul fiume si dice hlör u fang axaxaxas mlö, cioè, nell’ordine: verso su (upward) dietro semprefluire luneggiò” (Ivi: 14). La presenza della ö accanto alla nota dell’immaginario editore della Biblioteca di Babele serve proprio a fermare la nostra attenzione su quelle lettere, a chiederci perché tra tutte le possibili combinazioni il narratore abbia scelto di riportare proprio quella che potrebbe contraddire una delle presunte regole della biblioteca (a meno di non intenedere l’umlaut come un uso decisamente lasco del segno del punto fermo, ma l’editore si è addirittura premurato di dire che tra i simboli mancano le maiuscole…). Il fatto poi che quelle parole abbiano un significato nella lingua di un paese immaginario citato in un altro racconto può suscitare grosso modo due reazioni: la prima è dire, con modalità più o meno elaborate, qualcosa che bene o male si può riassumere in “Ma guarda un po’ Borges che si diverte a citare se stesso”; la seconda è chiedersi se la presenza nella biblioteca di Babele di un bibliotecario che comprende il linguaggio di Tlön possa avere un significato di tipo narrativo. Qui voglio provare a seguire questa seconda strada.
Avverto il lettore che la piena comprensione di quanto segue presuppone una conoscenza abbastanza puntuale della raccolta Finzioni.
Una prima ovvia considerazione sarà che, se il narratore del racconto cita Axaxaxas mlö come esempio di titolo dotato di un sia pur minimo senso, sarà perché conosce il linguaggio di Tlön. Altrettanto plausibile è l’ipotesi che il bibliotecario sia addirittura uno degli abitanti di Tlön. Questa seconda ipotesi viene confermata da numerosi indizi contenuti sia in Tlön, Uqbar, Orbis Tertius che nella Biblioteca di Babele.
Com’è noto, la descrizione della struttura architettonica della biblioteca di Babele nell’omonimo racconto di Borges è delle più confusionarie. Tra l’edizione del ’41 e quella del ’44, Borges ha introdotto delle varianti nel passo che contiene quella descrizione; queste varianti, aggravando le contraddizioni, fugano qualsiasi dubbio che possa essersi trattato di una svista.
Edizione del ’41: “L’universo […] si compone d’un numero indefinito, e forse infinito, di gallerie esagonali, con vasti pozzi di ventilazione nel mezzo […]. Venticinque scaffali, in ragione di cinque per lato, coprono tutti i lati meno uno […]. Il lato libero dà su un angusto corridoio che porta a un’altra galleria, identica alla prima e a tutte” (Ivi: 69)
Edizione del ’44: “L’universo […] si compone d’un numero indefinito, e forse infinito, di gallerie esagonali, con vasti pozzi di ventilazione nel mezzo […]. Venti scaffali, in ragione di cinque per lato, coprono tutti i lati meno due […]. Una delle facce libere dà su un angusto corridoio che porta a un’altra galleria, identica alla prima e a tutte” (traduco da J. L. Borges, Ficciones, Alianza Editorial, 1971, p. 89)
Come si vede, dal ’41 al ’44 Borges rende se possibile ancora più oscura e lacunosa una descrizione già di per sé sconcertante nella sua imprecisione. Se nella versione del ’41 la presenza di un unico lato libero per ogni esagono impediva di immaginare come la biblioteca potesse estendersi all’infinito in direzioni diverse da quella verticale, nella versione del ’44 ci sono sì due lati liberi (il che in ogni caso non sarebbe sufficiente per costruire una biblioteca che si sviluppi in tutte le direzioni), ma il narratore descrive solo uno di questi lati liberi: dove porta l’altro?
“L’intenzione di Borges, e a questo collabora la maniacale precisione della descrizione, voleva [sic] che noi decidessimo di non tentare affatto di vedere la biblioteca, se non come si vede alla fine di un sogno, svegliandosi al mattino, con gli occhi annebbiati e impastati” ( U. Eco, Les sémaphores sous la pluie (I), qui).
Sebbene la precisione sia tutt’altro che maniacale, è innegabile che l’effetto è di un qualcosa che lì per lì, a una prima lettura, “funziona”, ma che a ripensarci e a rileggere non “funziona” affatto: una di quelle descrizioni che ci fa provare, da svegli, l’abbaglio del sogno. Limitarsi a pensare che Borges abbia voluto dare una descrizione deliberatamente imprecisa per creare un particolare effetto psicologico è senz’altro legittimo, ma numerosi altri dettagli spingono a fare un’ipotesi più interessante; forse questa imprecisione, che come abbiamo visto è voluta e persino perfezionata tra un’edizione e l’altra del racconto, è l’indicazione per qualcosa d’altro, forse, per venire subito al punto, la sensazione straniante che proviamo di fronte alla biblioteca non è semplicemente frutto dell’abilità dello scrittore Borges, quanto effetto di un universo mentale e percettivo, quello del narratore bibliotecario di Babele, perfettamente estraneo al nostro. Viene in mente il celebre passo del naturalista Uexküll (1864 – 1944) sulla percezione del mondo in una zecca: per questo parassita l’intero universo si riduce a intermittenti emanazioni di acido butirrico che sono stimoli a lasciarsi cadere su corpi pieni di sangue. Descritto da una zecca, il nostro mondo sarebbe un universo completamente alieno, e a meno di non conoscere i modi percettivi della zecca, non ci potremmo mai rendere conto del fatto che si tratta, in realtà, dello stesso mondo in cui viviamo noi. Forse qualcosa di simile è accaduto per la Biblioteca di Babele, forse quel luogo ci sembra tanto strano e incoerente perché chi ce lo sta descrivendo fa parte di un paradigma percettivo radicalmente diverso dal nostro.
Nella sezione centrale di Tlön, Uqbar, Orbis Tertius Borges si sofferma appunto a spiegare le bizzarre caratteristiche mentali e percettive degli abitanti di Tlön: ciascuna di queste caratteristiche può rendere ragione delle aporie nella descrizione della biblioteca di Babele. Gli abitanti di Tlön faticano a concepire “che lo spaziale perduri nel tempo” (Borges, Finzioni 1955 cit., p. 15), e uno dei paradossi più incomprensibili a Tlön è quello dell’uomo che perde nove monete, sette delle quali nel corso di due giorni vengono raccolte da altri due uomini, cosicché alla fine l’uomo ritrova solo due delle monete che aveva perso. Ciò che su Tlön risulta alieno da ogni logica, è concepire che le varie monete raccolte siano le stesse che sono state perdute; questo fatto che per noi è normalissimo, su Tlön è considerato un paradosso di livello eleatico, e per renderne ragione si arrivano a concepire le spiegazioni più astruse: forse le nove monete sono in realtà la stessa moneta, i tre uomini lo stesso uomo… su Tlön l’uguaglianza e l’identità occupano un posto diverso e più incerto che tra noi.
Gli abitanti di Tlön non sono i soli a soffrire di questa confusione: Funes el memorioso è infastidito dal fatto che “il cane delle tre e quattordici (visto di profilo) avesse lo stesso nome del cane delle tre e un quarto (visto di fronte). Il suo proprio volto nello specchio, le sue proprie mani, lo sorprendevano ogni volta […]. Egli ricordava, infatti, non solo ogni foglia di ogni albero di ogni montagna, ma anche ognuna delle volte che l’aveva percepita o immaginata” (Ivi: 105); il detective Lönnrot, in La morte e la bussola, prima di raggiungere il luogo della sua morte passa “per gallerie e retrocucina uscì in cortili uguali, o più volte nello stesso cortile” (Ivi: 128); nello stesso racconto troviamo uno spunto fondamentale: “«La casa non è così grande, – pensò. – L’ingrandiscono la penombra, la simmetria, gli specchi, i molti anni, il mio straniamento, la solitudine»” (Ivi: 129). Forse anche la biblioteca di Babele non è poi così grande, e le stesse cose che hanno contribuito a rendere più vasta la casa in cui si trova Lönnrot, unite alle caratteristiche mentali di un abitante di Tlön, hanno reso infinita la biblioteca (noto per inciso che il nome Lönnrot è l’anagramma quasi perfetto di Tlön più hrön; la parola hrön indica una particolare categoria di oggetti di Tlön).
La geometria di Tlön è afflitta dagli stessi paradossi della sua ontologia: “Questa geometria ignora le parallele e dichiara che l’uomo che si sposta modifica le forme che lo circondano” (Ivi: 19). I matematici di Tlön, dal canto loro, hanno per base la nozione di numero indefinito e “affermano che l’operazione del contare modifica le quantità e le trasforma da indefinite in definite. Il fatto che vari individui, i quali calcolino una stessa quantità, giungano a risultati eguali, è per gli psicologi un esempio di associazione di idee o di buon esercizio della memoria” (Ibidem). Descritte da un uomo che vivesse in un simile cosmo mentale, anche le cose più banali o esatte ci apparirebbero di colpo come enigmi incomprensibili.
“La luce procede da frutti sferici che hanno il nome di lampade” (Ivi: 69): la sfacciata goffaggine di questa frase del bibliotecario di Babele, forse ancora più sconcertante della descrizione della biblioteca, lo è meno se si suppone che l’uomo che l’ha pronunciata provenga da un paese come Tlön, abitato da tigri trasparenti e torri di sangue (Ivi: 13); un uomo cui l’immagine di un frutto sferico che emana luce riesce più familiare di quella di una banale lampada, a quale figura potrebbe affidarsi per descrivere una biblioteca?
Insomma, al lettore della Biblioteca di Babele le caratteristiche mentali degli abitanti di Tlön appaiono tutte congegnate, nessuna esclusa, per spiegare ciascuna delle incongruenze e stranezze della descrizione della biblioteca. Da un abitante di Tlön, potremmo aspettarci di vedere una stessa cosa, una stessa persona, una stessa stanza esagonale moltiplicate infinite volte, quante sono gli istanti che quella cosa, quella persona, quella stanza, hanno attraversato nel tempo: non essendo in grado di concepire che lo spaziale perduri nel tempo (Ivi: 15), un abitante di Tlön potrebbe essere costretto a moltiplicare un certo corpo nello spazio per giustificarne la permanenza nel tempo; incapace di pensare a un unico esagono che attraversa infiniti istanti, preferirebbe concepire ogni istante popolato di infiniti esagoni. “Le cose, su Tlön, si duplicano” (Ivi: 22). Le quantità numeriche, posto che la matematica di Tlön si fonda sull’indefinito, sarebbero tanto più sospette quanto più fossero precise. La difficoltà a conciliare quantità indefinite e definite compare con nettezza anche alla fine del racconto: subito dopo aver chiarito che il numero dei volumi possibili è, per quanto immane, limitato, il narratore, commentando in nota una considerazione di Letizia Alvarez de Toledo, parla della possibilità di contenere i libri della biblioteca in un volume unico, “stampato in corpo nove o in corpo dieci”, con un numero infinito di pagine, passando poi ad enumerare le aporie di questo “serico vademecum” (Ivi: 78); ma, tanto per cominciare, se le pagine sono infinite a che serve preoccuparsi del corpo dei caratteri? e poi perché dovrebbero essere infinite, se il numero di libri possibili è limitato?
Su Tlön, le forme geometriche non sarebbero nient’altro che conseguenze del movimento. Per un abitante di Tlön sarebbe quindi del tutto naturale descrivere una biblioteca convenzionale sotto la specie di un improbabile e incoerente alveare di esagoni che si diffondono all’infinito e che, se fossimo noi a doverli descrivere, sarebbero semplicemente un solo esagono, un’unica stanza che il bibliotecario di Tlön ha moltiplicato per quante sono le volte che vi è entrato o uscito o vi ha ripensato o la ha vista riflessa nello specchio in fondo al corridoio, o la ha sognata. Sempre riguardo la geometria, c’è poi un passo in cui il bibliotecario tradisce, in modo che mi pare incontrovertibile, la sua appartenenza a un mondo mentale e percettivo che non ha nulla a che fare con il nostro; il passo ricorda molto, molto da vicino certe incapacità degli abitanti di Tlön di concepire cose che per noi sono banali, quotidiane: (i corsivi e i punti esclamativi/interrogativi sono miei) “Gli idealisti argomentano che le sale esagonali sono una forma necessaria dello spazio assoluto o, per lo meno, della nostra intuizione dello spazio. Ragionano che è inconcepibile una sala triangolare o pentagonale [!!??]. (I mistici pretendono di avere, nell’estasi, la rivelazione d’una camera circolare con un gran libro circolare dalla costola continua, che fa il giro completo delle pareti; ma la loro testimonianza è sospetta; le loro parole, oscure)” (Ivi: 70). La descrizione del libro circolare per noi non è affatto oscura: lo è per una persona che trova inconcepibile anche una sala pentagonale. Non è tanto che i bibliotecari di Babele conoscono solo ambienti esagonali (conoscono le latrine, gli stanzini, i corridoi, le scale a chiocciola, i frutti sferici che emanano luce…): è che la loro geometria, condizionata dal loro movimento nello spazio, è incapace di applicare una forma astratta a un oggetto concreto. Traviato dalla metafisica capricciosa del suo pianeta (“abbondano i sistemi incredibili” (Ivi: 16)), un bibliotecario di Tlön troverebbe del tutto normale sdoppiarsi in altrettanti bibliotecari quanti sono i diversi pensieri che ha fatto; dire che ciascun volume ha un preciso numero di pagine e di lettere, certe invariabili dimensioni geometriche, equivarrebbe per lui ad indicare, con la massima approssimazione, la diversità di ogni volume; per lui ogni corridoio sarebbe sempre due corridoi: quello in cui passa e quello in cui non si trova più: uno dei due viene sempre utilizzato, l’altro è sempre deserto, e questo è il motivo per cui il narratore non dice dove porta. Un solo scaffale di libri, persino una sola parola sarebbero sufficienti per fargli presumere (e con ciò stesso considerare una delle realtà da descrivere) la totalità dei significati possibili. “Nessuno può articolare una sillaba che non sia piena di tenerezze e di terrori; che non sia, in alcuno di quei linguaggi, il nome poderoso di un dio” (Ivi: 77).
L’avvertenza che segna il culmine del racconto: “Tu che mi leggi, sei sicuro d’intendere la mia lingua?” (Ivi: 77) sarà allora da intendere con la massima serietà, non tanto perché non in tutte le lingue “il simbolo biblioteca ammette la definizione corretta di sistema duraturo e ubiquitario di gallerie esagonali” (Ibidem), quanto perché una stessa definizione può dar luogo a rappresentazioni e realtà radicalmente differenti a seconda del sistema mentale e percettivo, prima ancora che linguistico, in cui venga collocata. Non è escluso insomma che se finalmente ci portassero nella biblioteca di Babele, ci troveremmo davanti una biblioteca come tutte le altre, e scopriremmo che gli altri bibliotecari sono in realtà sempre lo stesso bibliotecario narratore, incapace di pensare che quello che lui era il giorno prima, l’ora prima, l’istante prima, sia la stessa persona del presente (una delle scene finali del recente film Interstellar di Nolan, in cui una camera viene vista attraverso un buco nero, può dare un’idea – un po’ grossolana – di quello che intendo). Inversamente, se noi proponessimo al bibliotecario di Babele la descrizione di un uomo solitario che passa gli anni in un’unica biblioteca in cui volumi di varia dimensione sono costantemente, un giorno dopo l’altro, gli stessi, non c’è dubbio che egli riconoscerebbe in quest’immagine un artificio affascinante e paradossale, a tratti incoerente, infine inaccettabile.
In base a questa lettura, La biblioteca di Babele sarebbe allora un racconto proveniente da Tlön: insieme alla Encyclopaedia of Tlön, il reperto di un mondo immaginario destinato a contaminare irreparabilmente la nostra realtà: nel Poscritto al racconto Tlön, Uqbar, Orbis Tertius, Borges spiega infatti che la minuziosa creazione dell’Encyclopaedia of Tlön è il primo passo di una congiura dell’ingegno umano per eguagliare Dio nella capacità di creare un mondo. Il primo passo di questa congiura è la diffusione di oggetti provenienti da Tlön. Borges descrive due di questi oggetti, ma forse il racconto Labiblioteca di Babele è un terzo oggetto? Anche Borges, nonostante le sue dichiarazioni di estraneità alla cosa, è uno dei congiurati di questa “intrusione del mondo fantastico in quello reale”?
Qui l’analisi deve necessariamente fermarsi. Quello che mi premeva suggerire è che l’accostamento tra i racconti di Finzioni può generare almeno un ulteriore racconto, racconto il cui fascino estremo consiste nella sua costante assenza, nella necessità che il lettore cerchi (inutilmente) di catturarlo, una specie di labile vapore narrativo che aleggia sulla raccolta come una instabile nebulosa, ipotetica e nello stesso tempo innegabile, incerta e deliberatamente oscillante tra esistenza e non-esistenza, come tra la vita e la morte il gatto di Schrödinger.
Perché dare un significato narrativo alle stranezze e incoerenze di Finzioni? È Borges stesso, per bocca dell’amico Bioy Casares, a suggerire di avere un ruolo più creativo nella lettura; siamo, di nuovo, in Tlön, Uqbar, Orbis Tertius, all’inizio del racconto e di tutta la raccolta Finzioni: “Bioy Casares, che quella sera aveva cenato da noi, stava parlando d’un suo progetto di romanzo in prima persona, in cui il narratore, omettendo o deformando alcuni fatti, sarebbe incorso in varie contraddizioni, che avrebbero permesso ad alcuni lettori – a pochissimi lettori – di indovinare una realtà atroce o banale.” (Ivi: 7) Al lettore decidere se raccogliere o meno la sfida implicita lanciata da Borges.
Di fronte agli indizi che ho mostrato ci si trova, come ho detto all’inizio, di fronte a un bivio interpretativo. Una strada porta a mere considerazioni estetiche (“Borges si diverte citare se stesso”), l’altra conduce a un più complesso ordine di eventi…
Questo saggio fa parte di un intervento più lungo intitolato Innere Stimme, Innerer Roman, pubblicato nel volume edito dall’università di Trento nella collana labirinti a cura di W. Nardon e S. Carretta, intitolato “Comporre. L’arte del romanzo e la musica”.(qui ).
Zeus fra gli eterni glorioso, plurivoco, sempre possente,
principe della natura, che tutto a una legge assoggetti,
salve: è ben giusto che a te si volgano tutti i mortali.
Già, ché da te noi nascemmo e soli ottenemmo divina
forma, fra gli enti caduchi che vivono e strisciano in terra:
dunque ti loderò sempre e celebrerò la tua forza.
Sì, quest’intero universo che intorno alla terra si volge
dove lo guidi si piega a te, volentieri a te cede.
Tale strumento tu reggi con inesorabili mani,
duplice lingua di fuoco, il fulmine sempre vivente:
sotto il suo colpo si compie ogni opera della natura,
reggi per lui la ragione comune che tutti gli spazi
permea, mista com’è al più grande lume e ai minori:
tu grazie a lui dappertutto da sommo sovrano governi.
Opera senza di te non ha effetto, o iddio, sulla terra,
no, non sul polo divino dell’etere, no, non in mare,
tranne i delitti che i vili commettono, loro stoltezza.
Pure tu sai dare senso perfino alle cose più vane,
ordine imponi al disordine e grato è per te ciò ch’è ingrato.
Tanto ad un unico scopo col degno l’indegno compensi,
che si fa tutto una sola e sempre vivente ragione,
che fra i mortali i malvagi rifuggono nel trascurarla,
miseri, che rimpiangendo per sempre il possesso del bene,
legge comune di dio non vedono o sanno ascoltare,
cui obbedendo con senno vivrebbero vita felice.
Essi da un lato e dall’altro si volgono senza mai bene,
per opinione seguendo affanno d’amara contesa,
o rivolgendosi solo al guadagno senza criterio,
o alla rilassatezza e ai dolci piaceri dei sensi.
Solo sventure han sortito, si volgono a destra e a sinistra,
per affannarsi a uno scopo che pure è del tutto contrario.
Dono per tutti, Zeus nero di nuvole, candido lampo,
gli uomini salvali tu da lugubre dissennatezza,
padre, tu scacciala via dall’anima, fa’ che otteniamo
quella sapienza in cui tu confidi -e governi sul tutto-,
sì che onorati da te ricambiamo te con onore,
l’opera tua di continuo esaltando come conviene
faccia un mortale, ché premio più degno ai mortali non tocca,
non agli dèi, che lodare nel giusto la legge del cosmo.
Lunedì 2 marzo alle ore 21.00, presso la Libreria Popolare di via Tadino 18
Presentazione degli due ultimi numeri della rivista “il verri”
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Filippo Pennacchio presenta:
il verri n.55, giugno 2014
Eccessi dell’io
Contributi di:
Mariarosa Bricchi, Fulvio Carmagnola, Domenico Cipriani, Fausto Curi, Alessandro Dal Lago, Paolo Fabbri, Daniele Giglioli, Helena Janecsek, Giulia Niccolai, Sara Sullam, Ivan Schiamone
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Stefania Sini presenta:
il verri n.56, ottobre 2014
La mente in-diretta libera
Contributi di:
Dorrit Cohn, Monica Fludernik, Paolo Giovannetti, Marco Giovenale Fredric Jameson, Alan Palmer, Daniele Papuli, Cetta Petrollo, Gilles Philippe, Sara Sullam, Lisa Zunshine
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Intervengono Daniele Giglioli, Paolo Giovannetti, Milli Graffi, Sara Sullam, Paolo Zublena
Dio ci salvi dalle biografie di scrittori. Tutto ciò che abbiamo amato, odiato, capito, frainteso, tutto ciò su cui abbiamo rimuginato, speculato, ciò su cui ci siamo illusi, ciò in cui abbiamo trovato ragioni sufficienti per continuare a vivere, ciò che ci ha reso inequivocabilmente felici, o spaventati, o disperati, tutto ciò capitatoci nel momento di leggere un qualsiasi romanzo di un qualsiasi scrittore non ha nessun legame con la vita condotta da qualsiasi scrittore del pianeta in qualsiasi momento della storia. Né nessuna necessità di averne. La letteratura ha bisogno solo di se stessa, e di occhi e cervelli per essere letta.
Una premessa sulle premesse
La premessa obbligatoria di tutti gli interventi su questo tema è sempre uguale: non si vuole in alcun modo attenuare la colpa degli autori della strage; “ovviamente” la violenza e l’omicidio sono da condannare recisamente, fermamente, assolutamente; eccetera. Allevato alla scuola dell’”ho tanti amici omosessuali”, io sospetto di queste premesse obbligate.
Lettere senza risposta, Giorgio Manganelli, Viola Papetti, ritratti nottetempo, Roma 2015
(Un Manganelli inedito, che per lavorare bene ha bisogno di essere interrotto “con tenere molestie”, che si macera dolorosamente nell’attesa di una cartolina, e che inaspettatamente esperisce la supremazia della voce sulla parola scritta. Nottetempo raccoglie le lettere d’amore inedite di Giorgio alla sua Viola, Viola Papetti, “Viola infine, che altro posso dire, Viola”, scritte fra il 1966 e il 1973, e la corrispondenza della Papetti con Maria Corti, dal 1990 al 1996, dopo la morte di quello che resta, indubbiamente, uno dei maggiori autori italiani del Novecento. F.F.)
“Nulla per lui era indifferente, purché fosse vero; così i suoi discorsi erano singolari”
Lettere a Viola Papetti (1966-1973)
di Giorgio Manganelli
Roma, 26 luglio ’69
Viola, Viola carissima, carissima Viola, Viola infine, che altro posso dire, Viola,
ho ricevuto ora in data ventuno, e sono un altro uomo. Mi sei mancata, mi sei mancata, il tuo silenzio, il tuo ritardo mi hanno angustiato assai più di quello che tu possa immaginare. Ti scrivo subito, scendo subito a spedire, perché se non vieni domani, come spero con tutta l’anima, possa ricevere questa mia, lunedì. Voglio dirti che se ti ho salutato affettuosamente alla partenza, ti accoglierò al ritorno – la dirò quella parola amara e squisita, quella parola diffidente e fantastica, ti accoglierò con amore. Non amo questo telefono vedovo della tua voce. La tua voce blesa e inesatta, una adolescente Viola d’amore.
C’era una volta il cielo, con i suoi pianeti e il suo calendario prima lunare e poi solare. Insomma, la dea bianca sacerdotessa e poi l’eroe. O anche tutti e due, madre e pàredro, madre e pargolo, in varie forme. Servivano per varie cose: dal controllo delle nascite presso i cacciatori raccoglitori, alla misura dei cicli stagionali nel neolitico tardo e nell’età dei metalli, giù giù fino al tardo rinascimento. Più del sole e della luna, vicini all’uomo e alla terra e perciò umanizzabili o semidivini o dèi variamente incarnati sacrificati morenti e risorgenti, contavano i pianeti. I loro cicli e le loro orbite regolari li fecero apparire come dèi. Poi c’era anche tutto un corteggio di costellazioni di riferimento, da puntare con orologi di pietra sempre più imponenti e complessi: menhir, cromlech, piramidi, templi, tombe, cattedrali. Il tutto si inseriva in un sistema di atti psicomagici vòlti a costruire una tecnica del tempo e del controllo del tempo, in collegamento con la produzione e l’orientamento sul territorio (vie di canti, per mare e per terra, racconti degli aborigeni e odissee), o semplicemente con i tempi di attuazione delle tecniche elementari. Una rete di senso fatta di poesia, architettura, tecnologia, memoria, mappe del cielo e della terra, imperi universali (imperi di mezzo come la Cina) strutturati a volte su quattro direttrici e su quattro regioni (come l’impero tahuantisuyu degli Inca: “il regno delle quattro regioni prese insieme”, il dominio cosmico). La ierofania uranica declinata nelle sue varie forme, tende infine alla reductio ad unum. Gli dei sono ridotti ad angeli, il Dio degli dei (Elohim, Aton, Vishvadeva) ne assorbe le prerogative, in tutto o in parte. Anche quando il dio è plurale (Brahma Shiva Vishnu; Zeus Poseidon Hades, Tien, Tengri etc. etc.), le cose non sono mai così disseminate come sembra. Ovunque si impone, con diversi dialetti culturali locali, una forma di panteismo/pancosmismo, in cui si oppongono semplicemente il cielo “chiaro” (El) e la terra. Poi vengono le evoluzioni storiche: maestri ora mitologici ora reali, ma trasfigurati nel mito, da Mosè l’ariete a Cristo il pesce. Il dio è sempre lo stesso, le funzioni del suo mito cambiano nel tempo, ma i sacerdoti (non il dio), sono gelosi e non ammettono le vecchie versioni. Si mettono in politica, pretendono che il passato muoia d’autorità e se no gli si dà una mano ammazzando i fedeli del vecchio sistema di segni. L’universo/dio continua imperterrito a procedere sulle sciagure umane, sciagure umane rigorosamente autoprodotte dagli interessati. “Nate da noi le sciagure proclamano, mentre da soli,/ contro il destino, per loro follie, si procurano affanni”. L’universo/dio, ma potremmo ben parlare di natura/dea. La trinità alla fin dei conti (o meglio, all’inizio dei computi) è un’invenzione lunare. Forse è il caso di riflettere meglio sugli archetipi. Dopo aver fatto sparire dalla faccia della terra quelli troppo ignoranti per fermarsi a pensare un attimo, prima di premere il grilletto o lanciare scomuniche.
Per raggiungere i livelli alti del ponteggio Marco, uno dei responsabili del cantiere di restauro delle facciate, decide di farmi fare una deviazione sui tetti della Galleria. Da qui lo spettacolo è semplicemente incredibile. Guardare dall’estradosso della copertura vetrata le persone che passeggiano ignare sui mosaici, quaranta metri più sotto, toglie il fiato. È come stare dentro ad un film fantasmagorico, mi sento Hugo Cabret, m’aspetto da un momento all’altro Martin Scorsese che grida: “ciak, azione!”
Arriviamo ai piani alti dell’impalcatura, sul braccio sinistro della Galleria, e Marco mi racconta del portale semovibile che permette di pulire sezioni delle campate lasciando libero il resto delle braccia. Poi, finiti i lavori di pulitura, tutto viene trainato sui binari per ricominciare i lavori sulla sezione successiva. Anche questa impalcatura volante, a ben vedere, ha un che di favolistico. Marco mi espone con minuzia i lavori di restauro e io tocco, fremente, il capo di uno dei telamoni, o il cornicione in cemento decorativo. L’animo d’architetto che mi rugge dentro è felice come un bambino nel paese dei balocchi.
Uno sguardo di sotto
La storia di quest’opera titanica mi ha sempre affascinato. Da quando un giovane architetto, Giuseppe Mengoni, nel 1859 vinse il concorso del rifacimento della piazza del Duomo, sbaragliando 176 concorrenti, alle infinite traversie del cantiere, inaugurato ben tre volte, con gli scandali finanziari, i tracolli economici delle varie società appaltatrici, la deportazione forzata degli abitanti dell’area, le bustarelle a politici compiacenti, gli aumenti di volumetria in corso d’opera, insomma, tutto l’armamentario della più tipica, triviale storia italiana. Ma anche, altrettanto tipico del nostro paese, la voglia di edificare un monumento magistrale, capace di stupire chiunque passasse, per mettersi al pari con le altre nazioni avanzate dell’Occidente – noi, all’epoca nazione appena nata -, di rappresentare cioè un’epoca e i suoi sogni più arditi. Riuscendoci. Perché i milanesi perdonarono tutti gli scandali e adottarono da subito la Galleria trasformandola in uno dei luoghi deputati della loro identità cittadina. Non solo passeggio coperto, ma anche luogo dove scambiare opinioni, fare cultura, politica, socialità. Un posto dove stare, magari per consultare un libro, sorseggiare un caffè o bere un aperitivo. Il salotto buono di un’intera città.
Il salotto di tutti, però, non solo dei ricchi signori del centro. Ricordo che da bambino, quando abitavo a Quarto Oggiaro, mio padre diceva: “Vado in piazza” senza aggiungere nulla e tutti sapevamo dove. Lì, sotto la Galleria, in uno di quei capannelli di anziani che discutevano animatamente di tutto, dall’ultimo derby alle prossime elezioni amministrative. Milanisti o interisti, fascisti o comunisti, ogni scusa era buona per bisticciare. Erano anni senza internet o cellulari, ma se avevo bisogno di lui sapevo dove trovarlo: nel salotto di Milano, dove magari mi presentava orgoglioso ai suoi amici e poi mi portava a bere un caffé da Biffi.
Telamone (indiano!) in restauro
Cammino su una delle balconate e guardo la gente passare sotto di noi; vedo alcuni turisti fotografare compulsivamente tutto, compresa l’impalcatura dei restauri, quasi fosse un’imperdibile installazione di qualche designer postmodernista. Sorrido. I milanesi ci sono abituati alle impalcature in Galleria. Ci passeggiavano già fra i ponteggi eretti dopo la grandinata estiva del 1874 che distrusse la copertura, o quando ancora la facciata con l’arco trionfale sulla piazza era un cantiere bloccato dalle pastoie burocratiche. Hanno continuato a farlo dopo i bombardamenti della seconda guerra mondiale che scempiarono l’edificio, o fra le strutture provvisionali di rinforzo, quando si scavò in Piazza del Duomo per la nuova linea metropolitana. La rossa. Altro sogno modernista di una Milano un po’ vanesia che si sentiva capitale economica e “morale” di una nazione.
L’angolo restaurato e la navata ancora da restaurare
Un monumento non è solo un edificio, è un luogo carico di memoria. Questi muri trasudano storie. Lo so da architetto, lo so da scrittore. Ancora nel secolo scorso in questo dedalo di cortili, scale, palazzi e strade interne – talmente grande che fece dire a un ammirato Mark Twain che si potrebbe vivere tutta la vita qui senza mancare di nulla – abitavano maestri di scuola elementare, sartine della Scala, artisti bohémien. Qui due milanesissimi siciliani, Giovanni Verga e Luigi Capuana, potevano conversare dei loro progetti editoriali degustando un risotto da Savini, qui, come si può ammirare in un dipinto di Boccioni, potevano scatenarsi zuffe fra donne pronte ad accapigliarsi davanti alla bouvette del Campari, le stesse che poi magari andavano a comprarsi una borsa in cuoio da Prada, qui Salvatore Quasimodo di ritorno dal Genio Civile di Sondrio tirava tardi parlando d’arte e poesia con De Grada, Cantatore, Messina, qui nel ’68 i figli ribelli della borghesia meneghina manifestavano per Cuba nel nome di Mao Tse Tung.
Ho visto col nascere del millennio perdere l’abitudine dei milanesi a frequentare questo luogo. Capannelli di sfaccendati, come quelli che frequentava mio padre, non se ne vedono più e la cosa mi intristisce. Mi sembra d’essere il testimone di un perduto amore. Da questa posizione privilegiata vedo passare scolaresche, turisti cinesi che si fanno selfie selvaggi, gruppi sparsi di russi o americani che ruotano divertiti i talloni sui testicoli del toro, senza sapere esattamente perché. I milanesi passano di corsa ma non si fermano. Oggi la Galleria appartiene ad un immaginario globale, è ammirata in tutto il mondo, tappa obbligatoria per chiunque venga in città. Pare, mi racconta Marco, che un magnate del Qatar ne stia costruendo una identica a casa sua, tutta in marmo di Carrara. Chi lo sa, gli dico, forse questo restauro che sta dando una nuova vita ad un luogo così carico di storia è il nostro modo di dichiarare un nuovo amore per queste pietre. Un regalo fatto prima di tutti ai milanesi, che tornino a fare della Galleria casa loro.
ero lassù, come Mengoni
Era un freddo inverno quando Mengoni, il giorno precedente la consegna definitiva dei lavori, cadde dalle impalcature della cupola centrale perdendo la vita. Aveva la mia età. La leggenda dice che si suicidò per le troppe critiche ricevute e per l’affronto del Re a cui aveva dedicato la sua opera che non sarebbe stato presente al taglio del nastro. Le leggende non sono necessariamente vere, basta che siano belle.
Anche oggi è una fredda giornata invernale ma di buttarmi da questa impalcatura ovviamente non ne ho la minima intenzione. Non mi interessa entrare in alcuna leggenda. Invece ho voglia di scendere, di fermarmi sotto l’Ottagono, di comprare un libro, di discutere di politica con uno sconosciuto o di prendermi un aperitivo, come facevo con mio padre, quando si andava in piazza, senza specificare dove, che tanto poi ci si ritrovava sempre in questo luogo così familiare, così domestico. Il salotto buono di casa. Quello di tutti i milanesi e, ormai, del mondo intero.
(pubblicato su Vanity fair del 4 febbraio 2015. Le foto sono mie.)
di Marino Magliani, con illustrazioni di Marco D’Aponte (tratte dalla loro graphic novel “Sostiene Pereira”, Tunué, 2014)
Esistere con un passo indietro e l’altro che scalpita non perché si vuol andare chissà dove, ma perché fisicamente non si riesce a stare a lungo con un piede posato e l’altro per l’aria.
Ai fini di questa storia- che forse non vuol dire nulla, tranne che siamo tutti miserabili, nessuno escluso, buoni e cattivi, vittime e carnefici- il mio nome conta molto meno della mia occupazione. Sono un editor, cioè un redattore editoriale che, tra le altre sue mansioni, si occupa di tanto in tanto di leggere e valutare i dattiloscritti che giungono in casa editrice. Non ricordo come venni in possesso del libro di cui voglio parlare (oggigiorno poi quasi tutti inviano tramite e-mail), forse qualcuno l’aveva prelevato dalla portineria e l’aveva poggiato sulla mia scrivania per errore. A ogni modo si trattava del dattiloscritto di un ignoto, nessuna raccomandazione ne aveva preceduto l’arrivo.
Una lettera trascurabile scritta a biro- calligrafia dozzinale, senza dubbio maschile, un po’ incerta- accompagnava il plico. In calce, subito prima della firma dell’autore, campeggiavano due numeri telefonici: un fisso e un mobile. La vista di quei numeri m’irritò immediatamente, era un tentativo di farsi rintracciare che sembrava già una supplica. Sì, fu per la vista di quei numeri, credo. Afferrai il dattiloscritto, ne sfogliai qualche pagina distrattamente e poi sbuffando lo misi sotto a una pila di lavori più interessanti e urgenti. In quella posizione, cioè da ultimissimo, il manoscritto passò almeno un paio di mesi. Poi, del tutto casualmente, presi io la telefonata che il suo autore aveva osato fare alla casa editrice, ignorando la prassi che è quella di aspettare una risposta scritta che nella maggior parte dei casi suona più o meno così: “Abbiamo letto con vivo interesse il suo romanzo ma non rientra nella nostra linea editoriale…”.
– Posso esserle utile?- domandai scocciato, appena collegai quel nome al dattiloscritto.
– Volevo solo sapere se avevate letto il mio libro.
– Non ancora, non ancora.
A quel punto l’autore prese un tono lamentoso che lo fece definitivamente approdare nella categoria degli scocciatori: – Ma sono già passati più di due mesi da quando ve l’ho spedito.
Attaccai e per un momento ebbi chiaro l’impulso di afferrare il manoscritto e buttarlo nel cestino che era proprio lì, a due passi dalle mie gambe distese sotto la scrivania. Mi trattenne solo uno stupido senso del dovere, stupido perché in cuor mio sapevo benissimo che per quel libro era finita, il suo autore con quell’atteggiamento respingente ne aveva decretato l’insindacabile morte prematura.
Richiamò una settimana dopo, chiedendo esplicitamente di me a chi gli aveva risposto, perché ero stato talmente ingenuo da dirgli come mi chiamavo.
– Ci siamo sentiti una settimana fa,- mi disse.
– Mi ricordo perfettamente di lei, ma deve capire che le tempistiche editoriali sono lunghe, molto lunghe.
– Potrò richiamarla quando crede, mi dica solo una data.
Deglutii a fatica, quasi spezzai il lapis che stringevo tra le dita: – Non funziona così, guardi. Le spiego: la casa editrice legge con i tempi e i modi che le sembrano più consoni, e poi invia una risposta scritta. E questo è tutto.
Credevo di essermi spiegato, erano cose semplici da capire, ci sarebbe voluto solo un po’ di buon senso, invece dopo una settimana esatta da quel discorsetto l’autore era di nuovo alla cornetta.
– Ha capito che cosa le ho detto la scorsa settimana?- domandai, ormai fuori di me.
– Sì,- ammise l’autore, e poi raddolcì la voce in modo davvero subdolo. – Volevo solo sapere se avevate iniziato a leggerlo, magari anche solo una sbirciatina alle prime pagine.
Disse proprio così: sbirciatina. Con tutto quello che avevo da fare- la ridda di incontri, autori e testi che mi frullavano per la testa-, lui aveva il dubbio che io avessi potuto dare una sbirciatina, così, di sfuggita, al suo libro. Lo ammetto, fui molto scortese e gli attaccai quasi il telefono in faccia. Una settimana dopo richiamava, per quello che ormai era diventato una specie di appuntamento fisso tra noi: si andava di lunedì in lunedì, e non c’era modo che sgarrasse, non ne saltava neanche uno.
– Ha letto?- mi diceva, con un intercalare atono, difficilmente attaccabile.
Rispondevo secco: – Non ancora.
Passato qualche mese i nostri rapporti settimanali presero una piega bizzarra. Attraverso le nostre brevi frasi di servizio capii che l’autore non voleva avere effettivamente un giudizio, ma si crogiolava nell’attesa. Quel supplizio in fondo era un limbo rassicurante, fatto di speranza, prima che un sì o un no giungesse a modificare la situazione in modo permanente.
– Neanche questa settimana siete riusciti a leggere il mio libro, vero?- chiedeva l’autore, sapendo perfettamente quale sarebbe stata la risposta.
Dal canto mio ormai avevo recuperato il controllo della situazione, aveva capito che quelle telefonate non erano frutto di un’insistenza, avevo compreso che avrei potuto anche non leggerlo mai, quel dannato libro.
– Purtroppo neanche questa settimana ce l’abbiamo fatta,- gli dicevo, con un rammarico un po’ sadico di cui avrei dovuto vergognarmi.
– Oh, che peccato- diceva l’autore. – Magari sarà per la settimana prossima, altri sette giorni d’attesa in fondo cosa mai potranno essere?
– Infatti,- rincaravo la dose io. – Un altro po’ di pazienza e poi forse sapremo…
Quanto durò? Sette, otto mesi. Poi le telefonate cessarono di colpo. Per un paio di settimane mi sentii sollevato, poi cominciai a preoccuparmi. Che l’autore si fosse stancato di quel giochino? Che alla fine avesse perso la pazienza prima di me? Che- ed era l’ipotesi peggiore, quella che mi faceva letteralmente impazzire- qualche altro editore gli avesse dato la risposta che attendeva? Il terzo lunedì senza chiamate recuperai la lettera d’accompagnamento, che era ancora dentro la busta insieme al dattiloscritto. Composi il numero del telefono fisso col cuore in subbuglio e le mani che mi tremavano.
– Pronto?- domandò l’autore.
– Non si è fatto più sentire,- lo incalzai.
– Mi scusi,- farfugliò lui, un po’ in difficoltà. – Sono stato occupato in altre faccende, ma non voglio annoiarla.
Altre faccende? Ma come si permetteva di lasciare in secondo piano la valutazione del suo dattiloscritto, la cosa più importante della sua vita (che immaginavo in fondo assai grama e priva di altre attrattive che non fossero quelle assai vaghe di aspirare a una qualche gloria letteraria)?
– Lei non deve più permettersi di saltare neanche un lunedì!- urlai. – Sono stato sufficientemente chiaro?
Mi disse che avrebbe senz’altro ripreso a chiamarmi eppure il lunedì successivo il telefono rimase muto. Provai a fregarmene, in fondo mi ero liberato di un peso, non sarei dovuto certo essere io a provare la sua mancanza, era lui che dipendeva da me, nella Sindrome di Stoccolma è la vittima che ama il carnefice! Strano a dirsi, ma resistetti solo un’altra settimana. Cercai di nuovo i suoi numeri. Non mi rispose né al fisso né al mobile. Non so per quanti minuti ascoltai quegli squilli, ma di certo un numero sufficiente per attestare uno squilibrio. Sulla busta che conteneva il dattiloscritto c’era anche l’indirizzo dell’autore. Mi ricordavo che abitavamo nella stessa città, così appena terminato il lavoro andai sotto casa sua. Mi attaccai al citofono come un disperato. Venne avanti la portinaia indispettita e allora chiesi di lui.
Fece una faccia greve: – Un cancro, signore.
– E’ morto?
– Gliel’ho detto, signore. E’ morto.
Mi precipitai in casa editrice a leggere, con le lacrime agli occhi.
Ho ripreso in mano Fortini, a vent’anni dalla scomparsa, non per celebrarne la figura: non ne possiederei le prerogative, dal momento che non sono né uno studioso della sua opera né ho pretesa, in ambito poetico, di continuarla in qualche forma, per prossimità di temi o di modi. Ma penso di poter testimoniare di un’eredità possibile proponendo, a partire da Fortini, una riflessione sul nesso poesia e minoranza.
Nel contesto storico attuale, in cui la stessa industria culturale novecentesca sembra avviata verso un’ulteriore crisi e trasformazione in senso ancora una volta monopolistico, guidata da imperativi di profitto sempre più assoluti, una scrittura come quella poetica oscilla tra lo stigma dell’obsolescente elitismo e quello della sventurata marginalità.
[Per gentile concessione dell’autore, pubblichiamo la postfazione al volume L’Europa dei territori. Etica economica e sviluppo sociale nella crisi a cura di Emanuele Leonardi e Stefano Lucarelli, Orthotes, 2014]
⇨ Hélène Châtelain, indimenticabile volto de ⇨ La Jetée di ⇨ Chris Marker, ricostruisce la vicenda della rivoluzione contadina di ⇨ Nestor Machno, ricordando e riabilitando la sua figura, a lungo dimenticata e travisata.
Sezione Culturale-Educativa dell’Esercito degli Insorti [Makhnovisti]
27 aprile 1920
1. Chi sono i makhnovisti e per che cosa si battono?
I Makhnovisti sono operai e contadini che insorsero fin dal 1918 contro la tirannia del potere della borghesia germano-magiara, austriaca e hetmanita in Ucraina. I Makhnovisti sono quei lavoratori che per primi innalzarono lo stendardo della lotta contro il governo di Denikin e tutte le altre forme di oppressione, di violenza e di menzogna, qualunque fosse la loro origine. I Makhnovisti sono quei lavoratori sulla cui fatica la borghesia in generale, ed ora quella sovietica in particolare, ha costruito il proprio benessere ed è divenuta grassa e potente.
2. Perché ci chiamiamo Makhnovisti?
Perché per la prima volta durante i giorni più oscuri della reazione in Ucraina, abbiamo visto tra noi un amico leale, Makhno, la cui voce di protesta contro ogni forma di oppressione dei lavoratori risuonò per tutta l’Ucraina, esortando alla lotta contro tutti i tiranni, i malfattori e i ciarlatani della politica che ci ingannavano, Makhno, che ora marcia deciso al nostro fianco verso la mèta finale, l’emancipazione del proletariato da ogni forma di oppressione.
3. Che cosa intendiamo per emancipazione?
Il rovesciamento dei governi monarchici, di coalizione, di repubblicani, socialdemocratici e del partito comunista bolscevico, cui deve sostituirsi un ordine indipendente di soviet dei lavoratori, senza più governanti né leggi arbitrarie. Perché il vero ordine dei soviet non è quello instaurato dal governo socialdemocratico-comunista bolscevico, che ora si definisce potere sovietico, ma una forma più alta di socialismo antiautoritario e antistatale, che si manifesta nell’organizzazione di una struttura libera, felice e indipendente della vita dei lavoratori, nella quale ciascun individuo, così come la società nel suo complesso, possa costruirsi da sé la propria felicità e il proprio benessere secondo i principî di solidarietà, di amicizia e di uguaglianza.
4. Come consideriamo il sistema dei soviet?
I lavoratori devono scegliersi da soli i propri soviet, che soddisferanno i desideri dei lavoratori – cioè, soviet amministrativi, non soviet di stato. La terra, le fabbriche, gli stabilimenti, le miniere, le ferrovie e le altre ricchezze popolari devono appartenere a coloro che vi lavorano, ovvero devono essere socializzate.
5. Attraverso quale via i Makhnovisti potranno realizzare i loro obiettivi?
Con una rivoluzione senza compromessi e una lotta diretta contro ogni arbitrio, menzogna ed oppressione, da qualunque fonte provengano; una lotta all’ultimo sangue, una lotta per la libertà di parola e per la giusta causa, una lotta con le armi in mano. Solo attraverso l’abolizione di tutti i governanti, distruggendo le fondamenta delle loro menzogne, negli affari di stato come in quelli economici, solo con la distruzione dello stato per mezzo della rivoluzione sociale potremo ottenere un vero ordine di soviet e giungere al socialismo.
Nella pausa delle domeniche, in pomeriggi verso il buio sempre più vicino, fra equinozi e solstizi, mentre avanza Autunno e verrà Inverno, poi “Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera“, riscoprire film rari, amati e importanti. Scelti di volta in volta da alcuni di noi, con criteri sempre diversi, trasversali e atemporali.
Uno dei lasciti più problematici di atti criminali come quello verificatosi lo scorso 7 gennaio nella redazione di Charlie Hebdo ha a che fare con il clima binario che tipicamente essi generano. “O di qua, o di là”, suonano sempre i primi commenti a caldo, e questo sembrava dire anche l’oceanica manifestazione tenutasi la domenica successiva al massacro, il cui slogan principale era “Je suis Charlie” (associato anche all’altro “Je suis Charlie, flic, juif”: “Sono Charlie, poliziotto, ebreo”). Buona parte delle analisi e delle ricostruzioni, come anche il vissuto (più o meno conscio e ammesso) del cittadino medio occidentale bianco, finiscono fatalmente per strutturarsi attorno alle ben note coppie antinomiche “bene/male”, “libertà/dispotismo”, “democrazia/teocrazia”, “lumi della ragione/tenebre oscurantiste”, “occidente/islam”, “civiltà/barbarie”, “Noi/Loro”… Lista che, va da sé, potrebbe continuare.
Vorrei tuttavia rassicurare il lettore. Quanto sta per leggere non contiene l’ennesima tiritera sulla falsariga di quelle che le prefiche liberal e progressiste amano intonare in riferimento ad accadimenti terribili come quello di rue Nicolas Appert: che il “vero” islam non ha niente a che fare con il fondamentalismo; che esso è anzi religione di pace e di tolleranza; che l’islam ha contribuito tantissimo allo sviluppo della civiltà umana sin dal Medioevo e via discorrendo.
Di capire se il messaggio del Corano sia o meno un messaggio di pace e tolleranza confesso infatti, mea culpa, che non me ne importa granché, e d’altro lato dubito che abbia molto senso un simile esercizio, considerato come il testo sacro dei musulmani, al pari della Bibbia cristiana e della Torah ebraica, sia un libro dal contenuto spesso simbolico, evocativo e contraddittorio, non un saggio fresco di stampa dal quale si possano pretendere una coerenza interna e una weltanschauung organica. Un prodottostorico, oltretutto, che non può non risentire, in termini di valori e mentalità sottostanti, delle caratteristiche della realtà sociale e culturale che lo ha espresso.
Quanto alla presunta esistenza di un “vero” islam da contrapporre al fondamentalismo islamista, facilmente liquidato come “falsa” impostura, ritengo si sia ben espresso nei giorni immediatamente successivi alla carneficina parigina Tariq Ali: “Ci sono diverse versioni dell’islam […]; è insensato parlare in nome del ‘vero’ islam. La storia dell’islam, sin dai primordi, è stracolma di conflitti fra fazioni diverse. […] Differenze di questo tipo esistono ancora oggi”.
Ovvero: proprio perché stiamo parlando di un fenomeno storico multiforme non ha molto senso andare alla ricerca di un’essenza “vera”, né distinguere aristotelicamente fra sostanza e accidente; d’altro lato e per lo stesso motivo, come è stato giustamente osservato, non ha neanche senso pretendere assurdi atti pubblici di dissociazione da parte di quella maggioranza di musulmani che non è mai stata sfiorata dall’idea di fare visita alla redazione di un giornale imbracciando un AK-47. È chiaro che il fenomeno social-religioso che chiamiamo islam ha assunto anche, particolarmente nel corso degli ultimi tre o quattro decenni, le sembianze del fondamentalismo islamista. Che in ciò abbiano avuto un ruolo importantissimo l’eclissi di un’opzione anticolonialista laica, diversamente marxisteggiante e socialisteggiante, e gli interessi delle nazioni capitalistiche occidentali che oggi dichiarano guerra al fondamentalismo in nome della libertà e della democrazia, e che tale situazione perduri tuttora, non cambia la sostanza: l’islam (analogamente alle altre due religioni del libro) ha anche un volto fondamentalista e lo ha oggi, per ragioni storiche precise, in misura maggiore degli altri due monoteismi, la cui forma attuale è il risultato di un lungo e per nulla pacifico processo di secolarizzazione.
Insomma e per farla breve: non penso che le tristi generalizzazioni richiamate all’inizio possano essere contrastate col piagnisteo intriso di senso di colpa tipico del liberal occidentale che mette le mani avanti esclamando contrito di fronte all’islamofobo di turno “Loro non sono così!”. Una parte (minoritaria) di “Loro”, in realtà, è anche così. Può esserlo e può diventarlo. Il problema vero nasce tuttavia nel momento stesso in cui, quando ancora riecheggiano i colpi dei kalashnikov, lo scenario del “Noi” e del “Loro”, questi fastidiosi fantasmi, viene posto in essere o nella maggior parte dei casi riattivato dopo un periodo più o meno lungo di stand-by.
Scenari e fantasmi: eccoli, i frutti avvelenati del massacro, quegli stessi che il jihadismo (al pari del lepenismo e del “salvinismo”) si propone consapevolmente di alimentare. Sono il Noi e il Loro ad avere la meglio su tutto il resto, a divorarlo. Non si è più lavoratori, colleghi, vicini di casa, compagni di scuola o di università. Si è innanzitutto arabi e musulmani, europei, bianchi e “cristiani” (che magari hanno messo piede in chiesa l’ultima volta al matrimonio dell’amico).
Questa lente deformante, sempre lì pronta ad essere utilizzata, dopo eventi come quello del 7 gennaio tende a diventare lo strumento privilegiato tramite il quale osservare il mondo. La questione che qui vorrei affrontare è quindi la seguente: in che misura la “sinistra reale”, ovvero la sinistra tardoriformista non-più-comunista-né-marxista odierna, disancorata com’è da una lettura di classe della realtà storico sociale e dimentica della nozione di imperialismo, ha finito per indossare anch’essa quelle lenti nei giorni successivi alla strage di rue Nicolas Appert? Di sinistra vorrei parlare, nelle righe che seguono, non tanto di Charlie, specificando preventivamente che non faccio rientrare all’interna di questa categoria la famiglia socialdemocratica tradizionale (che di sinistra non ha più nulla da decenni) e che mi riferisco invece a ciò che si muove “alla sinistra”, per l’appunto, del Pse. Per fare ciò, tuttavia, dovrò necessariamente parlare di Charlie.
Ridi, rivoluzione!
Nei giorni a cavallo fra la fine del 2010 e l’inizio del 2011 gli scenari e i fantasmi che da circa un decennio turbavano i sonni dei cittadini europei e americani subivano un duro ridimensionamento. Prima a Tunisi e poi al Cairo centinaia di migliaia di persone scendevano in piazza non per inneggiare ad Allah o chiedere di censurare qualche vignetta ma per ottenere democrazia, lavoro e la fine di regimi repressivi e corrotti. Meglio: il loro gridare, talvolta, “Allah akbar” non gli impediva di battersi per un futuro di democrazia e di diritti. Le immagini televisive delle strade di Tunisi lasciavano intravedere, oltre alle numerose bandiere nazionali, anche qualche bandiera rossa con l’effigie di Che Guevara e dopo le prime manifestazioni spontanee un ruolo importante veniva giocato nella convocazione dei successivi appuntamenti dall’Ugtt, la centrale sindacale del paese nordafricano. L’onda, cominciata ad ingrossarsi subito dopo il sacrificio dell’ambulante tunisino Mohamed Bouazizi, in poche settimane spazzava via due regimi decennali come quelli di Zine El-Abidine Ben Ali e Hosni Mubarak.
Nell’estate successiva a quegli eventi mi trovavo al Cairo con alcuni amici. Era Ramadan e, nella sede di un piccolo partito di estrema sinistra da poco emerso dall’illegalità, guardavo con uno stupore destinato a dissolversi nel giro di qualche giorno alcuni militanti di quell’organizzazione (non tutti) che osservavano il tradizionale digiuno. Ricordo bene come, nel corso di una riunione su questioni sindacali (l’Egitto postrivoluzionario vedeva allora la nascita di nuove confederazioni indipendenti contrapposte a quella ufficiale legata a doppio filo al passato regime), una donna velata prendesse la parola per fare un intervento quanto mai combattivo a sostegno delle nuove esperienze e contro l’Etuf, il sindacato governativo corrotto e colluso con la dittatura. Era una leader operaia nella sua fabbrica, mi venne detto dalla persona che si era offerta gentilmente di farmi da interprete. Se fosse anche una militante socialista non lo riuscii a capire, quel che è certo è che stava tenendo un comizio dentro la sede di un partito che si definiva socialista rivoluzionario. Lì per lì, mi tornarono in mente le parole del ritornello della canzone che avevo sentito qualche sera prima in piazza Tahrir: Idhaki Ya Thawra (letteralmente “Ridi, rivoluzione!”), un motivo composto e suonato durante le oceaniche manifestazioni di febbraio dal giovane cantautore autodidatta Ramy Essam, al quale la folla rispondeva immancabilmente con un fragoroso e liberatorio “Ah! Ah! Ah!”.
Voglio dire: cos’è una donna velata? Se a prevalere sono gli scenari e i fantasmi, il Noi-Loro, sarà inevitabilmente una donna sottomessa, o tutt’al più una bigotta felice di esserlo. Non nego che il velo sia in ultima analisi un segno di sottomissione, un’imposizione determinata fondamentalmente dallo sguardo dell’uomo-padre-fratello-marito che si posa sul corpo femminile. Contesto tuttavia che il concreto soggetto di sesso femminile che porta il velo debba essere privato, una volta immerso nello scenario del Noi-Loro, di una sua personale elaborazione riguardante il fatto di portarlo, vale a dire del suo status stesso di soggetto, e del diritto di non vedere ridotta la complessità della propria vita ed esperienza al fatto di essere una “portatrice-di-velo”. È un processo tipico della dinamica della vittimizzazione, del resto: alla vittima è assegnato il ruolo di passivo-abusato e nulla più e, in quest’ottica, non rimane che aspettare la Femen di turno in grado di spezzarne le catene (augurando alla forsennata in topless di spezzare magari un giorno anche le proprie).
Al contrario, una donna velata può essere mille cose: una lavoratrice incazzata, una bigotta, tutte e due le cose insieme, una lavoratrice tendente al bigotto ma non troppo, una vignettista di un quotidiano laico e progressista accusata di blasfemia dal governo dei Fratelli Musulmani, una per la quale il velo ha soprattutto un valore estetico e va ben abbinato alle scarpe, una donna che il velo non vorrebbe portarlo affatto ma che deve farlo perché glielo impone la famiglia (o lo Stato, o entrambi), una fondamentalista convinta e ideologizzata, una che vede il velo innanzitutto come simbolo di un’identità e di radici che ritiene importante rivendicare nella società occidentale in cui vive, eccetera. Da questo punto di vista, le differenze fra “Noi” e “Loro”, che pure possono esserci, sono senz’altro riconducibili a un più marcato processo di secolarizzazione che ha investito le nostre società, ma è altrettanto vero che la nostra realtà non è l’unica ad essere (stata) conflittuale e che non disponiamo del copyright della contraddittorietà. Tutto ciò senza tralasciare il fatto che un certo riflusso di tipo religioso e tradizionalista che ha caratterizzato diverse società mediorientali negli ultimi decenni ha cause politiche e geopolitiche: in fin de conti, nell’Egitto di Nasser le donne andavano al mare in bikini…
Per fortuna, sprazzi di tale complessità possono arrivare fino a noi, ad esempio quando le masse di paesi musulmani come la Tunisia e l’Egitto decidono di darci una lezione di dignità e democrazia rovesciando regimi basati sulla repressione poliziesca e la tortura (ridendoci poi anche su: “Ah! Ah! Ah!”), oppure (avviene sempre più spesso fra le giovani generazioni) quando la prossimità con “Loro” riesce a fare da contrappeso a scenari e fantasmi. Ciononostante, il Mar Rosso dei fantasmi fa presto a richiudersi al di sopra della complessità, soprattutto dopo fatti come quelli di Parigi.
Per venire quindi al “Je suis Charlie”: certo che lo sono, se lo slogan sta a significare l’orrore verso un atto barbaro e la difesa della sacrosanta libertà di offendere qualsiasi religione. Il punto però è che la versione del “Je suis Charlie” vista all’opera domenica 11 gennaio ammiccava troppo, veramente troppo, a scenari e fantasmi. Non solo a sfilare era un Noi assolutamente contraddittorio (bastava dare un’occhiata alle prime file del corteo) ma era anche un Noi che si presupponeva come al solito immacolato, privo di scheletri nell’armadio e scevro da responsabilità in relazione al sorgere del jihadismo. Era, nello specifico contesto francese, il Noi della République dal passato coloniale che ben conosciamo, il Noi di una laicità di Stato troppo spesso usata come strumento di controllo e di discriminazione nei confronti di milioni di musulmani residenti in Francia.
Dunque, la sinistra. Può accettare di sfilare con Hollande, Netanyahu &Co una sinistra in grado di distinguere e di mantenere alcuni punti fermi, tipo che la responsabilità principale del sorgere del jihadismo è dell’imperialismo e che i palestinesi hanno diritto a una vita decente nella loro terra senza essere occupati militarmente? Può scendere in strada al fianco delle istituzioni della République, quella stessa République che ha ridotto in catene mezza Africa e che penalizza in diversi modi i propri cittadini di fede musulmana collocati ai gradini più bassi della scala sociale, una sinistra che aspiri realmente a cambiare il mondo rendendo protagonista di tale cambiamento chi per vivere deve lavorare (quando il lavoro lo trova) e non ha patrimoni accumulati né santi in paradiso?
Sta di fatto che la quasi totalità delle sigle della sinistra politica e sindacale transalpina hanno partecipato a quella marcia senza batter ciglio. Lo ha fatto ad esempio il Front de Gauche di Jean-Luc Mélenchon (che comprende anche il Partito Comunista Francese) e lo hanno fatto diversi sindacati, dalla Cgt al radicale Solidaires-Sud (qualcosa di simile ai nostri Cobas). Uniche eccezioni il Nuovo Partito Anticapitalista (erede della Ligue Communiste Révolutionnaire di Alain Krivine e Daniel Bensaïd) e Lutte Ouvrière. Di questa “sinistra reale”, il minimo che si possa dire è che è subalterna alla retorica ufficiale della laïcité e restia ad agire sulle contraddizioni di classe, come anche a guardare in faccia il passato coloniale del proprio paese.
Charlie razzista?
Charlie Hebdo, settimanale “ateo” fatto da ex sessantottini e da gauchisti anticlericali impegnati nella battaglia in difesa della laicità, risentiva non poco di questa impostazione. Nei giorni successivi all’attentato ho faticato parecchio, complici anche la distanza e il fatto di non essere francese, a chiarirmi le idee su quale fosse la vera natura del giornale. Estremizzazioni di segno opposto corrispondenti in parte a fasi successive di “digestione mediatica” dell’evento non mi sono state affatto di aiuto.
L’iniziale coro unanime attorno al “Je suis Charlie” e l’invito ossessivo rivolto a singoli e testate a ripubblicare vignette delle quali il minimo che si può dire è che possono non piacere ha in un primo momento offuscato un fatto. Stiamo parlando di un giornale che ospitava sì anche editoriali e articoli “seri”, firmati talvolta da personalità di spessore intellettuale come l’economista Bernard Maris, anche lui barbaramente assassinato il giorno della strage. Ciò non toglie, tuttavia, che le pagine più espressamente satiriche fossero per lo più animate dal gusto goliardico della battuta da spogliatoio e dell’oltrepassamento dei limiti fine a se stesso, conducendo non di rado sull’orlo della demenzialità nichilista. Nulla di male, per carità, senonché, nelle prime ore dopo il massacro, il processo di santificazione delle vittime della mattanza ha rapidamente raggiunto livelli di guardia, seguendo modalità che esse stesse avrebbero verosimilmente aborrito, fossero state ancora in vita. Non a caso il disegnatore Luz, uno dei superstiti, ha espresso in quei giorni il proprio smarrimento affermando in un’intervista: “Oggi tutti ci guardano, siamo diventati dei simboli, ma quelle che sono state uccise erano semplicemente delle persone che disegnavano pupazzetti”. Un’affermazione che lascia l’amaro in bocca, che comunica tutta l’insensatezza del gesto omicida, ma che è ciononostante tragicamente vera.
D’altro lato, nel giro di qualche giorno sono cominciate a fioccare, oltre alle analisi dietrologiche e complottistiche, le accuse di “razzismo” rivolte a Charlie (in realtà già al centro di polemiche passate, fra cui quella sollevata dall’ex redattore del giornale Olivier Cyran). Va detto che sono stati soprattutto autori e testate del mondo anglofono a indulgere a questo tipo di rappresentazione del lavoro di Charb e compagni, senza dubbio anche sotto l’influsso e del modello multiculturalista che vige negli Usa e in Gran Bretagna e dell’idea, peculiarmente statunitense, di una totale libertà di espressione, quella prevista dal Primo Emendamento, debitamente “calmierata” dall’osservanza del politically correct e delle leggi contro gli hate speech.
La tendenza a parlare di “razzismo” tout court ha inoltre contagiato nelle settimane passate la stragrande maggioranza delle realtà politiche e culturali di sinistra e di estrema sinistra inglesi e statunitensi, in una sorta di rovesciamento di quanto avvenuto in Francia. Se, come si è visto, la gauche e l’extreme gauche hanno dimostrato in questa circostanza di avere serie difficoltà a sottrarsi alla retorica laico-repubblicana e al clima da union sacrée, i vari partitini “extraparlamentari” della sinistra anglosassone (a partire dal britannico Socialist Workers Party) si mostravano subito inclini nelle loro prese di posizione pubbliche a calcare la mano contro Charlie Hebdo, menzionando solo di sfuggita l’attentato. Jacobin Magazine, la bella rivista creata da alcuni giovani leftists statunitensi che da qualche anno è ormai sulla cresta dell’onda, ha pubblicato lo stesso giorno dell’attentato un articolo firmato dall’intellettuale marxista Richard Seymour che definiva Charlie “a racist publication”, rimandando coloro che non ne fossero ancora convinti alla lettura di Edward Said.
Confesso di non aver letto Said, e cercherò di rimediare. Tuttavia, ritengo che l’uso di una categoria così fortemente connotata come quella del razzismo non aiuti molto a comprendere la vera natura di Charlie e ciò che in essa dovrebbe risultare problematico per una sinistra degna del nome. A tal fine, è necessaria un’analisi accurata del contenuto delle pagine del giornale, cosa che personalmente ho cercato per quanto possibile di fare (mentre c’è chi ostenta volentieri la propria ignoranza in materia dopo aver dispensato giudizi apodittici). La conclusione a cui sono giunto è che le accuse di razzismo non tengono, se per razzismo intendiamo un atteggiamento coscientemente volto a stigmatizzare un gruppo sociale e a sostenerne l’inferiorità in rapporto al resto della società, vale a dire un’intenzione razzista. Vignette fra le più controverse, come quella che ritrae la ministra francese Christiane Taubira nei panni di una scimmia o quella sulle ragazze nigeriane rapite da Boko Haram, sono state spesso citate da diversi organi di informazione di lingua inglese come prova del razzismo di Charlie. In realtà, per quanto personalmente le consideri detestabili e niente affatto divertenti, credo vadano viste in relazione al contesto che le ha prodotte e, per l’appunto, all’intenzione sottostante.
La “caricatura” della ministra venne ad esempio pubblicata in risposta alla sortita di un membro del Front National che aveva, lui, paragonato Taubira, originaria della Guiana francese, a una scimmia, ed aveva come obiettivo polemico innanzitutto lo stesso partito di Marine Le Pen (peraltro preso spesso di mira da Charlie). Scelta editoriale discutibilissima, va da sé, ma non direttamente equiparabile alla pubblicazione di una caricatura a sfondo razzista da parte del settimanale nazista Der Stürmer o di una rivista satirica letta dagli americani wasp negli Stati Uniti del Sud all’epoca delle segregazione razziale. Lo stesso dicasi per la copertina con le schiave sessuali di Boko Haram che gridano, gravide in seguito alle violenze subite (!), “Non toccate i nostri sussidi!”: la trovo francamente disgustosa, ma mi sembra abbastanza chiaro che è più che altro volta ad ironizzare sulla paranoia destrorsa che vede in qualsiasi donna di colore con figli una potenziale “welfare queen”, una “regina del welfare” che vivrebbe alle spalle dello Stato francese.
Detto ciò è altrettanto chiaro che ci troviamo di fronte a un esercizio dell’ironia che procede su una china pericolosa e che, nel suo disprezzo integralista per il politically correct, se pure non risponde a intenzioni esplicitamente razziste finisce di fatto per rinforzare pregiudizi e stereotipi razzisti. A conferma di ciò si potrebbero citare anche altre chicche su “negri”eaffini che appaiono francamente raggelanti, tanto più se consideriamo che sono state pubblicate da un giornale “di sinistra” in un paese che ha il passato coloniale che sappiamo.
Anni fa, quando insieme a un caro amico conducevo un programma satirico su una radio locale romana, ebbi modo di confrontarmi in prima persona con i problemi etici connessi col mestiere di far ridere la gente. Una specie di rassegna stampa settimanale ci offriva il pretesto per ironie varie, tormentoni e battute. Eravamo ben lungi dall’essere dei professionisti, lo stile era casareccio, la preparazione prima di andare in onda minima e spesso limitata alla scelta dei materiali e degli interludi musicali, eppure ricordo perfettamente come più di una volta mi dovetti porre il problema del messaggio che avrei veicolato facendo una certa battuta. Non solo: in maniera anche più radicale, dovetti interrogarmi su quanto fosse lecito o meno ironizzare in assoluto su determinati argomenti. Con buona pace di Charlie, penso ancora oggi che fare satira comporti una responsabilità e che il fatto di sparare a zero indifferentemente su tutti non sia sufficiente, di per sé, ad eliminare il problema.
Immagine di Albert Dubout
Veniamo quindi proprio all’idea per cui i redattori del giornale sarebbero stati degli equal opportunity offenders, equanimemente schierati contro tutte le religioni e soprattutto contro le loro manifestazioni più integraliste. Non credo si allontani troppo dalla verità, almeno per quanto riguarda cristianesimo, ebraismo e islam, tutti e tre presi di mira dal giornale. Com’è pure abbastanza vero che, se limitiamo lo sguardo alle vignette, la tendenza che emerge in linea di massima è quella a prendere per i fondelli le religioni in quanto tali più che i gruppi sociali associabili alla tal fede religiosa. La distinzione non è di poco conto: c’è differenza fra prendersela con Maometto pubblicando le famose vignette e prendersela con i musulmani (soprattutto se nel paese in cui usciamo in edicola quest’ultimi sono una minoranza che non se la passa poi benissimo), ed è diverso usare la caricatura di un barbuto dai tratti mediorientali e il naso adunco per significare un fondamentalista (cosa che si evince in genere dal testo e dal contesto) o per veicolare semplicemente lo stereotipo del musulmano.
Anche qui, tuttavia, il rischio di scivolare nella stigmatizzazione e nell’alimentazione del pregiudizio è sempre dietro l’angolo, come dimostrano alcune immagini che stereotipate lo sono eccome, basti pensare a quelle delle donne musulmane velate sottomesse e sgobbone in balia di un marito fannullone e maschilista (scenari e fantasmi, dicevamo…), o altre che suggeriscono un’associazione automatica fra islam/barbuti da un lato e spose bambine o mogli in saldo dall’altro. Perché non rappresentare allora l’Italiano con la coppola e la lupara, il mandolino e i baffi neri, la canottiera macchiata di sugo e la moglie vestita di nero che lava i piatti sullo sfondo? E perché non tratteggiare la figura dell’Ebreo con tanto di naso adunco e barbetta, intento a maneggiare soldi o a manovrare nell’ombra le sue pedine collocate nel sistema politico, mediatico e giudiziario?
Ateismo e guerra al terrore
In realtà, Charlie Hebdo ha mostrato di aver ben chiaro il concetto di stereotipo quando si è trattato di licenziare su due piedi Siné, lo storico collaboratore del giornale accusato di aver scritto un articolo in cui la presunta conversione all’ebraismo del figlio dell’allora presidente Nicolas Sarkozy, da poco convolato a nozze con la ricca ereditiera ebrea Jessica Sebaoun-Darty, veniva commentata con le parole “Farà strada, il ragazzo!”. “L’iter giudiziario” ha scritto su questo sito Jamila Mascat “avrebbe scagionato Siné e condannato Charlie a risarcirlo cospicuamente, ma intanto un gesto del genere, da parte di un giornale che si è sempre vantato di cantarle a tutti e non risparmiarle a nessuno, avrebbe suscitato più di qualche reazione sgomenta in redazione e fuori”. La decisione di silurare Siné venne presa dal direttore dell’epoca, Philippe Val, in seguito nominato da Sarkozy al vertice di France Inter, una delle maggiori radio pubbliche francesi.
Val (che da direttore dell’emittente avrebbe poi accusato Edward Snowden, la “talpa” dello scandalo Nsa, di essere un traditore della democrazia) rimase alla guida di Charlie Hebdo dal 1992 al 2009, ed è a lui che si deve la deriva parzialmente islamofoba del giornale verificatasi negli anni Duemila. Poiché da più parti si contesta l’uso di tale concetto sostenendo che è privo di significato o, peggio, indice di un atteggiamento pregiudizialmente favorevole all’islam (o anche paternalisticamente incline a risparmiarlo da ogni critica in quanto “religione degli oppressi”), tenderei a definirlo nel seguente modo: l’“islamofobia” è la costruzione sistematica dello spauracchio dell’islam prestantesi al clima da scontro di civiltà seguito all’11 settembre 2001 e funzionale alle campagne militari imperialiste successive. Esempio abbastanza paradigmatico di un atteggiamento islamofobo originato da un’attenzione esclusiva al tema della laicità nel quadro di un ateismo astratto è ad esempio quello di Christopher Hitchens, l’intellettuale britannico esponente del movimento dei new atheists deceduto nel 2011 e già sostenitore, in nome della critica antireligiosa, delle imprese militari di Bush jr. in Afghanistan e in Iraq. Con riferimento all’Italia si potrebbe invece citare il caso di Oriana Fallaci che, se pure arrivò a definirsi nell’ultima parte della sua vita un’“atea-cristiana” e un’ammiratrice di Benedetto XVI proprio in funzione filoccidentale e anti-islam, seguì una traiettoria simile a quella di Hitchens dopo l’11 settembre.
Ed è proprio alla Fallaci che rendeva omaggio nel 2002 dalle colonne di Charlie il filosofo Robert Misrahi. Erano gli anni immediatamente successivi alla carneficina delle torri gemelle, anni che videro almeno una parte della redazione del settimanale, a partire dal direttore e da alcune firme di punta come la giornalista Caroline Fourest, spostarsi su posizioni sempre più inclini ad accettare l’idea dello scontro di civiltà, così essenziale alla legittimazione ideologica della war on terror che muoveva allora i suoi primi passi. Diversi esempi di tale deriva potrebbero essere citati, tutti ricavabili dalle prese di posizione serie del giornale: dal furioso attacco di Val a Noam Chomsky, colpevole di essere “un americano che odia l’America”, alla pubblicazione, in piene campagne militari d’Iraq e Afghanistan, del Manifesto dei dodici, firmato da Val insieme a Bernard-Henri Lévy e Ayaan Irsi Ali e diretto contro la “nuova minaccia globale di tipo totalitario” rappresentata dall’islamismo, per finire con editoriali come quello vergato dal direttore nel 2006, nei giorni dell’offensiva israeliana in Libano: “Se prendiamo in mano una carta geografica del mondo e ci spostiamo verso est, osserviamo che al di là delle frontiere dell’Europa, e cioè della Grecia, il mondo democratico finisce. Troviamo solo un piccolo coriandolo nel Medio Oriente: lo stato di Israele. Dopo di che, più nulla fino al Giappone. […] Fra Tel Aviv e Tokyo regnano poteri arbitrari che hanno un unico modo per rimanere a galla, quello di tenere in vita, fra popolazioni all’80% analfabete, un odio selvaggio nei confronti dell’Occidente, per via del fatto che esso si compone di democrazie”.
Insomma, il problema non sono le vignette su Maometto o sull’islam. Lo sono forse un po’ di più quelle che, consapevolmente o no, finiscono per veicolare fastidiosi stereotipi. Ciò che dovrebbe invece realmente fare difficoltà, soprattutto a sinistra, è l’aver sacrificato sull’altare della laicità tutto il resto, trasformando così la battaglia atea e anticlericale in una linea politica “permeabile al sionismo” (l’espressione è di Jean-Patrick Clech), orfana di un’analisi di classe, totalmente dimentica della nozione di imperialismo e in ultima analisi incline a far propria l’idea di uno scontro in atto fra “civiltà” e barbarie. Il tutto è avvenuto all’ombra delle credenziali gauchiste del giornale, considerate come immunizzanti rispetto a qualsiasi tipo di critica, una sorta di lasciapassare utilizzabile all’occorrenza. In realtà, che alcuni dei membri della redazione di Charlie Hebdo fossero vicini a organizzazioni politiche della sinistra radicale francese (ai funerali di Charb l’orazione funebre è stata tenuta da Mélenchon in persona) non significa granché. Anzi, come si è già detto, suona piuttosto come una conferma dell’orizzonte “tricolore” e repubblicano entro il quale si muoveva da più di un decennio il giornale.
Drapeau Rouge di Bernard Yslaire
Le belle bandiere
Noi-Loro. Fantasmi. O anche “totem”, come ha scritto recentemente Alain Badiou. In quella che il filosofo definisce una guerra delle identità “la Francia tenta di distinguersi tramite un totem di sua invenzione: la ‘Repubblica democratica e laica’, o ‘il patto repubblicano’”. Tale totem serve a valorizzare, secondo Badiou, l’“ordine costituito parlamentare francese”, avendo svolto questa funzione sin dal momento della sua fondazione: “il massacro di 20.000 operai nelle strade di Parigi avvenuto nel 1871 ad opera degli Adolphe Thiers, dei Jules Ferry, dei Jules Favre e di altre star della sinistra ‘repubblicana’”.
“Questo ‘patto repubblicano’, al quale hanno aderito anche alcuni ex gauchisti, fra i quali quelli di Charlie Hebdo, ha sempre sospettato che si tramassero cose spaventose nei quartieri popolari, nelle fabbriche e negli oscuri bistrot di periferia”. “La Repubblica”, prosegue il filosofo “ha sempre riempito le proprie prigioni di giovani sospetti che in quei quartieri abitavano, utilizzando a tal fine i pretesti più vari. Si è anche, la Repubblica, resa autrice di diversi massacri e dell’istituzione di nuove forme di schiavitù necessarie al mantenimento dell’ordine nell’impero coloniale. […] Si dà il caso che attualmente una gran quantità di giovani che abitano in periferia, oltre ad essere dediti ad attività losche e ad essere poco istruiti, abbiano dei genitori proletari di origine africana, o siano essi stessi venuti dall’Africa per poter sopravvivere e che, conseguentemente, siano spesso di religione musulmana. Sono quindi ad un tempo proletari e colonizzati. Due motivi per guardarli con sospetto e per renderli oggetto di serie misure repressive”.
A partire dal 1905, anno di introduzione nell’ordinamento francese della loi de séparation des Églises et de l’État, il totem repubblicano individua nella laicità delle istituzioni pubbliche uno dei suoi elementi costitutivi. Nulla di sbagliato, anzi, ma l’uso che della laicità fa da qualche decennio a questa parte la République appare quanto meno intrecciato con le contraddizioni sociali innescate nella madre patria dalla smobilitazione dell’impero coloniale e dai flussi migratori ad essa connessi. Contraddizioni che arrivano a piena maturazione negli anni Ottanta e di cui le prime rivolte delle banlieues, che vedono protagonista un’intera generazione di giovani musulmani nati in Francia e cresciuti da apolidi de facto, sono la spia allarmante. È la generazione che, come il protagonista di Arabico, il fumetto del disegnatore franco-algerino Halim Mahmoudi, si pone domande circa la propria identità senza riuscire a darsi una risposta: “arabi” in Francia (anche quando formalmente cittadini francesi) e stranieri nel proprio paese di origine. In tale contesto, il confine fra la giusta applicazione del principio di laicità e la sua strumentalizzazione da parte dello Stato francese nel quadro della guerra delle identità di cui parla Badiou si fa sempre più labile.
La vicenda della legge contro i simboli religiosi nelle scuole pubbliche approvata dall’Assemblea Nazionale nel 2004 è da questo punto di vista paradigmatica. Non è certo un mistero il fatto che l’idea di una simile normativa, formalmente rivolta contro tutti i simboli religiosi appariscenti, sia nata in realtà soprattutto con la finalità di proibire l’uso del velo da parte delle allieve di religione islamica. Sostenuta a destra e a sinistra (compattamente dal Partito Socialista e con qualche mal di pancia in più dal Pcf) in quanto legge “femminista” e volta a scoraggiare derive identitarie e comunitariste, a più di dieci anni dalla sua introduzione la sua efficacia in tal senso è ancora fortemente in discussione. Più plausibile è che essa abbia invece contribuito ad esasperare la polarizzazione identitaria, verosimilmente anche nelle ragazze che ha inteso liberare e che, piaccia o no, oltre che donne si sentono magari anche musulmane e membri della propria comunità di origine.
Che anche la sinistra di matrice socialista e comunista abbia, con buona pace di Élisabeth Badinter che afferma il contrario, perso la bussola fuorviata dal proprio lealismo nei confronti delle istituzioni laico-repubblicane dovrebbe far riflettere. In realtà, già quasi trent’anni prima di quel 1871 in cui le strade di Parigi si macchiavano del rosso del sangue dei comunardi, il Marx della Questione ebraica faceva notare come la religione non costituisse “il fondamento”, ma “soltanto il fenomeno della limitatezza mondana”. “Per questo” proseguiva il giovane pensatore, “noi spieghiamo il pregiudizio religioso dei liberi cittadini con il loro pregiudizio mondano. Non riteniamo che essi debbano sopprimere la loro limitatezza religiosa, per poter sopprimere i loro limiti mondani. Affermiamo che essi sopprimeranno la loro limitatezza religiosa non appena avranno soppresso i loro limiti mondani”. Nel polemizzare quindi con Bauer e con la sua idea di Stato laico figlia di una critica astratta della religione incapace di spingersi oltre il terreno non pratico delle idee, Marx era senz’altro disposto a concedere che “nella sua forma, nel modo proprio della sua essenza, in quanto Stato, lo Stato si emancipa dalla religione emancipandosi dalla religione di Stato, cioè quando lo Stato come Stato non professa religione alcuna, quando lo Stato riconosce piuttosto se stesso come Stato”, ma aggiungeva anche: “L’emancipazione politica dalla religione non è l’emancipazione compiuta, senza contraddizioni, dalla religione, perché l’emancipazione politica non è il modo compiuto, senza contraddizioni, dell’emancipazione umana”. O anche: “La questione del rapporto tra l’emancipazione politica e la religione, diviene per noi la questione del rapporto tra l’emancipazione politica e l’emancipazione umana”.
Quindi: che fare? Può il patrimonio di idee della sinistra e del movimento operaio esserci d’aiuto al fine di liberarci da scenari e fantasmi o siamo invece destinati a soccombere ad essi? L’emancipazione politica che si dà entro lo Stato democratico-borghese, anche uno Stato più avanzato del nostro come quello francese, è un punto d’arrivo finale e indiscutibile o va piuttosto considerata un punto di partenza, immersa com’è in un universo di rapporti sociali nel quale l’“emancipazione umana” di cui parla Marx è di là da venire? Una cosa è certa: se vogliamo porci seriamente queste domande dobbiamo anche cominciare a fare lo sforzo di distinguere, cercando di capire sotto quali bandiere vogliamo sfilare. “C’era un tempo” scrive sempre Badiou, “nel quale in Francia si tenevano due tipi di manifestazioni: quelle con le bandiere rosse e quelle con le bandiere tricolore. Credetemi: anche al fine di annientare le bande fasciste e assassine, tanto quelle che si rifanno alle versioni più settarie della religione musulmana quanto quelle che invocano l’identità nazionale francese o la superiorità dell’Occidente, non sarà il tricolore, imposto e utilizzato dai nostri padroni, ad esserci d’aiuto. Sono le bandiere rosse, piuttosto, a dover tornare”. Scegliendo con discernimento in che piazze stare e accanto a chi lottare potremo senz’altro anche dedicarci alla critica della religione, tenendo sempre presente che essa è “in germe, la critica della valle di lacrime, di cui la religione è l’aureola”.
Installazione | Performance | Suoni | Visioni
Site specific | Rialto Sant’Ambrogio, Roma | 22/02/2015 – dalle ore 19
a cura di Fabio Orecchini
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di casa in casa, a stanare a far mambassa hanno mannaie
e tubi col gas, per amnesie ordinarie, manuali di rito ortodossi al
martirio di anime hanno l’anima, l’anonimato li preserva
sono abili, abilitati al male pre-ordinato, sono morfine mordono
i polsi le caviglie vene in combustione sono muta di cani
leccano i crani ancora aperti, le ferite dei colpevoli
parti adunche sbavando di sorrisi e suppliche
un, enzima del tempo rovinando decortica
[donando nuova vita
proprio ora che mi sbrani]
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L’atto poetico come funzione_finzione rammemorante, oscillazione e scarto che apre al senso del presente, contagiato_ricontamina il passato, nella forma aporetica del dialogo mancante -inutile dire, inutile non dire- omesso il vero, il verso: come porsi nell’abisso_l’epicentro, tracciare un nesso, col mondo della realtà superstite, la memoria estromessa: tenere a mente non occorre, cosa occorre ? ricucire la frattura, lo iato tra rimozione e rigenerazione, tra scrittura e storia, la faglia emersa della gola: spalancare la bocca, seppur l’ultima, inseppellibile che slarga, rantola, si fagocita nel dirsi: sondare i buchi con l’orecchio, le porte di legno, toccare con mano la ferita, che rimargina e riapre, essere un tramite tremante, voce trapassata, che trapassa, occultata traccia del remoto, della terra il moto : l’Aquila estinta, la città che sprofonda nel giorno, infinito tendere e tenere di mani, con mani, questo scavare, continuo come di cani, in un infinito presente.
Il Rialto immaginato come paesaggio/passaggio [ visivo/semantico/sonoro ] di rimemorazione che sedimenta_si dimentica, sequenza di bocche per voci mancanti, allegoria dell’odierno luogo “comune”: il nostro tempo, che non da scampo, e come un forcipe attrae_sottrae vita, verità e vita. (fo)
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Artisti coinvolti : Fabio Orecchini/poeta, ideazione e cura | Kate Louise Samuels/performer | Pane/musiche e voce Marco Vitale/video | Alessandro Morino/artista
Claudio Orlandi/voce Vito Andrea Arcomano/chitarra acustica Claudio Madaudo/flauto traverso
Pane, folk impregnato di radici jazz, colta, etnica e palpabili impronte progressive. Un folk-rock prima del rock, acustico ma scosso da un’energia che presagisce elettricità, il lirismo che si nutre di inquietudini antiche come base e sfondo di una crisi contemporanea; ogni brano un atto di questa tragicommedia umana troppo umana appesa al filo della voce vibrante e stentorea di Claudio Orlandi, interprete dalla vasta e furibonda sensibilità che diresti discendere in qualche modo dalle evoluzioni terrigne e febbricitanti d’un Demetrio Stratos e di Tim Buckley.