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Lo scholapost: Erri De Luca

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Ho chiesto a Erri De Luca di poter pubblicare questo racconto, in questa mia rubrica dedicata al tema della scuola. Di recente l’ho letto insieme ai miei ragazzi al Liceo francese di Torino, dove insegno filosofia, e mi ha colpito il mondo (modo) in cui hanno reagito ai temi affrontati. Qui la sua risposta. effeffe
Ciao, nessun problema anzi grazie per far camminare quella storia fuori dallo scaffale offrendolo a chi è giovane ora, buona giornata,erri

Il pannello

di

Erri De Luca

Brano tratto dal volume In alto a sinistra, Feltrinelli 2007

Era stato staccato un pannello della cattedra per guardare le gambe della supplente. Eravamo una classe maschile, seconda liceo classico, sedicenni e diciassettenni del Sud, seduti d’inverno nei banchi con i cappotti addosso. La supplente era brava, anche bella e questo era un avvenimento. Aveva suscitato l’intero repertorio dell’ammirazione possibile in giovani acerbi: dal rossore al gesto sconcio. Portava gonne quasi corte per l’anno scolastico 1966-1967.
Si era accorta della manomissione solo dopo essersi seduta accavallando le gambe: aveva guardato la classe, la mira di molti occhi, era arrossita e poi fuggita via sbattendo la porta. Successe il putiferio. In quel severo istituto nessuno si era mai preso una simile licenza. Salì il preside, figura funesta che si mostrava solo in casi gravissimi. Nell’apnea totale dei presenti dichiarò che esigeva i colpevoli altrimenti avrebbe sospeso l’intera classe a scadenza indeterminata, compresi gli assenti di quel giorno. Significava in quei tempi perdere l’anno, le lezioni e i soldi di quanti si mantenevano agli studi superiori con sacrificio delle famiglie. Non esisteva il TAR, quel tribunale amministrativo cui oggi si sottopongono ricorsi per ristabilire diritti. Non c’erano diritti, le scuole superiori erano un privilegio. C’era la disciplina caporalesca degli insegnanti, legittima perché impersonale e a fin di bene. Il preside uscì, si ruppe quel gelido “attenti” che avevamo osservato. Non riuscimmo a sputare una parola.
Accadde una cosa impensabile: sottoposti all’alternativa di denunciare due nostri compagni o patire conseguenze gravi nello studio, quei ragazzi si zittirono a oltranza e nessuno riuscì a estorcere loro quei nomi. Nessuno parlò. Questo è il racconto del comportamento ostinato di un gruppo di studenti uniti solo dal fatto di essere iscritti alla sezione B, secondo anno di liceo, dell’Istituto Umberto I di Napoli nell’anno scolastico 19661967. Tranne una combriccola composta da ragazzi di agiata famiglia con residenza al centro, o un altro gruppo di ragazzi di pochi mezzi che si trovavano nel pomeriggio per studiare insieme, tranne qualche partita a pallone la domenica, niente univa quei ragazzi. Però è vero che niente ancora li divideva sanguinosamente, come sarebbe accaduto in pochi anni. Non ho più visto i compagni di quella classe, non fummo amici né soci, solo membri di un’età costretta a essere seme delle successive, inverno delle altre. Di colpo quei ragazzi spaventati si irrigidirono in un silenzio impenetrabile.
Quando il preside uscì non avevamo più freddo. Cominciava la tensione di un assedio ancora senza parole tra noi. Parlò il solo che si era opposto, quel mattino prima dell’inizio delle lezioni, allo svitamento del pannello. Era il più ligio di noi e spesso veniva preso in giro per quel suo impulso all’ordine. Quel mattino era stato zittito, ora recriminava perché aveva ragione e perché quel provvedimento contro tutta la classe era un’ingiustizia ai suoi occhi. Molti non erano ancora saliti in aula quando il pannello era stato tolto. Protestava accorato con voce che sbandava tra l’acuto e il grave come succede agli adolescenti. Stavolta non faceva ridere. Non so dire perché non si rivolse mai ai due colpevoli, non li additò alla classe che ancora ne ignorava i nomi, invece se la prendeva con noi, quei pochi presenti che non l’avevano aiutato a impedire quel gesto. Si sentì solo la sua voce in quell’intervallo. Ognuno cercava di rendersi conto delle conseguenze. Qualcuno aveva la famiglia povera che non gli avrebbe permesso di ripetere l’anno. Tutti temevamo la reazione che l’episodio indifendibile avrebbe prodotto in casa. C’era chi sarebbe stato promosso a occhi chiusi e che vedeva sfumare il diritto alla borsa di studio, chi aveva già fatto spendere soldi per le lezioni private. Ognuno aveva un grado nel pericolo. Eppure nessuno denunciò gli autori dello svitamento, neppure sotto la nobile causa di salvare gli altri. Nessuno chiese ai due compagni di denunciarsi. Questi si rimisero alla decisione della classe e la classe li coprì. Avrebbero altrimenti patito punizione esemplare, sarebbero stati espulsi da tutte le scuole. Questo sembra incredibile a chi conosce quello che è successo nelle aule d’Italia solo pochi anni dopo, eppure le cose stavano così: la scuola italiana un quarto d’ora prima di essere sovvertita dagli studenti era saldamente in mano alla gerarchia docente.
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Eravamo ancora zitti quando entrò il professore dell’ora successiva. Squadrandoci fieramente pretese di conoscere immediatamente i nomi dei colpevoli. Alzò la voce. Diede agli sconosciuti il titolo di vigliacchi e a noi che li coprivamo attribuì colpa ancora più grave, degna del più severo provvedimento. Richiese i nomi un’altra volta. Dopo il secondo silenzio applicò la rappresaglia: interrogò alcuni di noi che nella sua materia tentennavano, li confuse con domande difficili e atteggiamento sprezzante, li congedò annunciando, cosa mai prima accaduta, il pessimo voto riportato. Quella palese ingiustizia fece del bene a tutti. Era iniziato un assedio, ne andava della vita scolastica di ognuno, che era tutta la nostra vita pubblica di cittadini.
Sotto il duro ricatto di denunciare dei compagni o incorrere in provvedimenti disciplinari spuntò d’improvviso uno spirito di corpo. Ragazzi che avevano in comune la frequentazione di un’aula per alcune ore al giorno diventarono un organismo disposto a cadere tutto intero pur di non consegnare due suoi membri. Passò nelle fibre di uno scucito gruppo di coetanei una di quelle scariche elettriche che su scala più grande trasformano varie genti in un popolo, molte prudenze in un coraggio. C’è una soglia segreta di pazienza passata la quale ci si oppone di colpo alla disciplina quotidiana. Occasione è spesso un motivo all’apparenza insignificante. Anni dopo, partecipando a lotte operaie, avrei appreso con stupore che la lunga catena di scioperi spontanei e di aperte rivolte di fabbrica cominciarono alla FIAT, nel 1969, con richieste semplici come nuove tute da lavoro o la distribuzione di latte nelle lavorazioni tossiche. Piccole occasioni di rottura della pazienza quotidiana contengono grandi scosse: di colpo le strade si riempiono di scontento che sembra nato di pioggia come un fungo.
Non fu una rivolta, non chiedevamo niente, ma uno scatto di reazione contro chi voleva perquisirci dentro.
Fuori di scuola quel giorno si discusse. In mezzo all’assembramento notammo la strana presenza dei bidelli. Qualcuno di noi chiedeva almeno di sapere a chi doveva il rischio di rinunciare all’anno scolastico. Lì fuori venne zittito. Alla fine questa curiosità per vie traverse venne esaudita al nostro interno, ma in quel primo scambio di battute prevalse una spontanea disciplina. Il più ligio di noi trasferì il suo impulso all’ordine a servizio di quel silenzio. Qualcosa tra lui e la gerarchia scolastica si era guastato per sempre.
Quel giorno nelle nostre case si ripropose intero l’assedio. L’atmosfera fu inquisitoria come e più che a scuola. L’unico scampo: rifugiarsi nell’impossibilità di fare nomi di compagni senza esserne certi. Nessun retroterra familiare si mostrò comprensivo nei confronti della colpa, nessuno sostenne almeno un poco i diritti al silenzio di fronte al ricatto. Nessuno: tempi tutti d’un pezzo, non era solo a scuola il campo del dovere, esso si estendeva a tutta la piccola vita privata. Da adulto ho visto le famiglie difendere figli colpevoli di stupro e di linciaggio, un tempo invece stavano dalla parte dell’accusa. Se un ragazzo non si trova di colpo solo al mondo, mai cresce. Forse era difficile essere giovani in quei tempi anche se, per misericordia, non lo sapevamo. Molte più cose di oggi, in quegli anni erano considerate importanti, molto del futuro di ognuno si decideva sui banchi di quelle scuole.
Nei giorni successivi si ripeté in classe la richiesta di denunciare i colpevoli, fino al limite dell’ultimatum. Arrivarono al preside anche diverse lettere anonime coi nomi dei presunti responsabili, ma discordanti tra loro. La faccenda però non era più ferma ai colpevoli, si voleva rompere quell’inaudita ostinazione. Ma non ci fu verso di farci denunciare quei compagni. Penso che ci sentissimo tutti colpevoli, quelle gambe avevano emozionato ognuno. Fu perciò un po’ di immedesimazione verso quel gesto, anche se ce ne vergognavamo. La giusta linea di condotta proveniva da alcuni di noi che avevano già qualche relazione amorosa e trasmettevano agli altri un senso di superiorità da adulti nei confronti di quel gesto da guardoni nel buco della serratura. Ci piaceva credere di essere superiori agli scopi di quel sabotaggio, anche se non era così. Ma questo non contava più, stavamo andando dritti verso le conseguenze inevitabili. Ci eravamo irrigiditi dentro, pur mostrando all’esterno la costernazione dei malcapitati. Sotto quell’assedio eravamo diventati soldatini, imparando a difenderci tutti allo stesso modo.
C’era già in quegli anni una specie minore di solidarietà tra studenti che stava nel non farsi avanti a dare al professore una risposta che un altro non era stato in grado di fornire. Nessuno chiedeva di rispondere al posto del compagno. Forse era un comportamento legato al pudore di mostrami saputelli ed è troppo pretendere che fosse solidarietà. Questa era voce che si applicava a grandi cause come quelle dei terremotati, degli affamati e degli alluvionati. Però quel trattenersi dal dare la risposta era una pratica che insegnava a non mortificare il proprio compagno, a rivolgergli perciò un’attenzione non solo scolastica. Ovunque simili usanze sono sparite.
Prima dell’ora di scadenza dell’ultimatum entrò a fare la sua lezione il professore di greco e latino. Erano già passati alcuni giorni e non ci aveva detto una parola sulla faccenda, tranne al suo primo ingresso in aula dopo il putiferio. Era entrato, si era seduto, ma invece di aprire il registro ci aveva guardati tutti quanti a lungo, poi aveva giunto le enormi mani in preghiera e le aveva agitate in avanti e indietro, secondo quel gesticolare che sta per: “Cosa diavolo avete combinato?» Era un gesto semplice, temperato di sollecitudine, con un piccolo accento buffo mischiato al rimprovero muto. L’accogliemmo con gratitudine. Subito dopo diede inizio alla sua lezione. Bisogna ora che io nomini quest’uomo: Giovanni La Magna. Siciliana, completo conoscitore della lingua greca della quale aveva redatto una grammatica e un vocabolario, mostrava un corpo massiccio, dal passo pesante. Il volto era aperto, cordiale e i tratti gli si spianavano quando con la sua grave voce di basso compitava i versi greci e latini facendo cadere l’accento sulle sillabe con suono incalzante di zoccolo di cavallo sul selciato. Ci innamorò di Grecia antica perché ne era innamorato. Gli piaceva insegnare: questo verbo per lui si realizzava nell’accendere nei ragazzi la voglia di conoscere che sta in ognuno di loro e che aspetta a volte solo un invito sapiente. Era alla fine della sua carriera, mostrava anche più dei suoi sessanta. Aveva il gusto sicuro della battuta folgorante che detta dal suo faccione imperturbabile faceva esplodere la classe in una risata improvvisa, come un colpo di frusta. Non ne ha mai ripetuta una due volte, non le pescava da un repertorio, le inventava. Credo che nessuno abbia saputo raccontare i dialoghi tra Socrate e i suoi discepoli meglio di lui. Nemmeno Platone, che li scrisse, poteva essere così bravo.
Incitava a essere leali con lui: non teneva conto di una insufficiente preparazione se lo studente gliela dichiarava spontaneamente prima della lezione. A chi si avvicinava alla cattedra per bisbigliare le sue giustificazioni, prestava a volte ascolto con gesto scherzoso, appoggiando la mano all’orecchio e strabuzzando gli occhi per manifestare il suo stupore. Lo amavamo: di quel cupo Olimpo di numi da cattedra era il nostro buon Zeus. Quel giorno dell’ultimatum entrò nell’aula e togliendosi il cappotto annunciò che non avremmo parlato né di greco né di latino. Si sedette, accantonò il registro e ci parlò. Confido di non tradire il suo tono di voce e i suoi argomenti provando a ripeterli con le parole che ricordo: “Voi sapete che sono siciliano. Nella mia terra c’è un costume che vieta di denunciare i colpevoli di reati: si chiama omertà. Voglio parlarvene per stabilire i punti di contatto e quelli di differenza tra questo costume e lo spirito di solidarietà. L’omertà nasce dal bisogno di difendersi da un regime sociale di soprusi in cui la giustizia è applicata con parzialità e favoritismi, ma contrappone malauguratamente a questo un altro regime di soprusi: la mafia. L’omertà è un comportamento radicato in tutta la popolazione quando considera l’intero apparato statale un grande sbirro. La mafia che è nata da questa silenziosa protezione popolare, l’ha trasformata in legge di sangue sicché oggi l’omertà è frutto principale della paura. Essa non distingue tra chi si ribella a un sopruso e chi agisce da criminale, copre tutti, il povero cristo e il malfattore. L’omertà è diventata cieca ed è al servizio di un’altra prepotenza.
“Lo spirito di solidarietà è invece un sentimento che onora l’uomo. Non è una legge, come l’omertà, sorge di rado. Spunta di colpo tra persone che si trovano in difficoltà, comporta il sacrificio personale, non si nasconde dietro il mucchio formato da tutti gli altri. Nel vostro caso la solidarietà può essere quella di tutti per proteggere due, ma potrebbe anche essere quella di due che si fanno avanti per proteggere tutti gli altri. La solidarietà è opera preziosa di un’occasione, appena compiuto il suo dovere rompe le righe, lasciando in ognuno la coscienza tranquilla. Se siete d’accordo con me su queste differenze, allora potrete meglio conoscere quello che vi succede in questi giorni. Io non credo che gli svitatori di pannelli della seconda B abbiano intimorito tutti gli altri inducendoli a tacere. Credo invece che sia sorto tra voi in questi giorni uno spirito di squadra contro un provvedimento che ritenete ingiusto.
Pensate forse di stare subendo un sopruso: il ricatto di denunciare i vostri compagni oppure essere sospesi a tempo indeterminato. Ma non è stato un sopruso far arrossire di vergogna una donna che è entrata in quest’aula per insegnare e che, per poter accedere al privilegio di mostrare a voi le sue gambe, ha studiato per anni ed è appena giunta all’occasione che ha tanto aspettato? Un sopruso, una prepotenza di molti contro una donna, questo è accaduto qui dentro. Non siete. innocenti, nessuno qui è innocente. Il torto è spesso meglio distribuito di quanto ci piace credere.
“Io faccio parte di questo regime scolastico contro il quale avete fatto muro. Anzi sono il più vecchio insegnante di questa scuola. Noi siamo insegnanti, voi studenti, siamo per questo più forti di voi, possiamo bocciarvi, sospendervi tutti, compromettere i piani scolastici forse irrimediabilmente per alcuni di voi. Ma vogliamo farlo? Credete che vogliamo rovinarvi? Noi che siamo i più forti ci stiamo in verità difendendo da voi. Ritenete vostra facoltà levare un pannello di cattedra per vedere le gambe di un’insegnante? Presto riterrete vostra facoltà abbassarle la gonna per ammirarle intere. Perché non l’avete fatto con me? Perché sono un uomo o perché non sono un supplente? Noi ci stiamo difendendo da voi, voi da noi: così le aule diventeranno campi di battaglia, vincerà il più forte, ma la scuola sarà finita. È con profonda tristezza che vedo questo accadere. È contro tutto quello che ho fatto nei miei molti anni di insegnamento. Mi accorgo di non avere più un posto in un’aula ridotta a schieramento, di non poter fare più niente per voi. Mi state licenziando voi, i miei colleghi, tutti. Questo spirito di ostilità che scorgo in loro e in voi mi avvisa di tempi in cui non avrò parte.
“Non approvo un provvedimento così drastico nei vostri confronti, non lo farò applicare per quello che potrò, ma non so approvare nemmeno la vostra caparbietà. Ce l’ho con tutti voi: il vostro spirito di corpo è la cosa più preoccupante alla quale assisto da quando vivo nella scuola. Il vostro serrare i ranghi è il gesto più duro da intendere per uno come me che pensava di stare in una classe e si ritrova a visitare una barricata. Non credo che il vostro silenzio sia omertà, che stiate diventando una mafia. Però so che questo guaio può scaturire da ogni ostilità di parte. Se c’è ancora una lezione che posso permettermi di darvi è quella di insegnarvi a distinguere nella vostra vita l’omertà e la solidarietà. Siate pure oggi leali tra voi fino a sopportare il sacrificio di un duro provvedimento disciplinare, ma non imparate domani a proteggere l’ingiusto, il prepoténte, il vendicatore. Prima che siate sospesi in blocco dalle lezioni, propongo a voi di fare le più sentite e solenni scuse all’insegnante che avete offeso. Fate questo senza aspettarvi niente in cambio, fatelo solo perché è giusto. Fatelo prima che il vostro silenzio si indurisca troppo contro di noi, si avveleni di avversione, distrugga il mio lavoro con voi e la vostra possibilità di trarre profitto dalle ore trascorse insieme in queste aule”.
Mi perdoni, lì dove riposa, l’uomo al quale attribuisco queste parole e del quale provo a ricordare una lezione. Essa fu certamente più intensa ed efficace di quella che posso ricostruire. La sorreggeva una voce che rimaneva paterna anche nel tratto amaro, grave senza severità. Era voce di uomo che si spogliava della dignità della cattedra per parlare da pari ad altri pari. A una classe di sedicenni pieni di brufoli e di barbe ancora a chiazze sul viso, si rivolse come a un’assemblea, svolgendo un ordine del giorno. Ci sentimmo spaesati, ma più grandi, senza parole, certo, ma finalmente spogli del bisogno di difenderci. Quell’uomo ci trattò da uomini. Nessuno di noi lo era ancora, ma tutto dentro di noi in quei giorni spingeva a diventarlo. Ci fece provare la responsabilità di persone che intendono l’ora e il luogo in cui sono. Disfece con i suoi modi leali il rozzo campo di battaglia nel quale ci sentivamo rinchiusi. Non ci additò una scappatoia, sgomberò semplicemente l’assedio mostrando il male di quell’ostilità, addossandosene una parte. Accese in noi il desiderio di rispondere, come già altre volte aveva incitato il nostro desiderio di apprendere. Uno di noi si alzò, il più mite, e uno tra i più diligenti, disse a nome di tutti che le nostre scuse erano il passo minimo che ci sentivamo di fare e che l’avremmo già fatto se solo ne avessimo avuto la possibilità. Nessuno disse cosa contraria o diversa.
Le scuse vennero accettate. Le lezioni ripresero con la palese disapprovazione di alcuni insegnanti insoddisfatti della riparazione e contrari a quella composizione “a tarallucci e vino”. Il partito della fermezza contava i suoi effettivi in vista delle future prove. Noialtri ci considerammo scampati, rompemmo subito le righe piegando ancora di più il collo sui libri. Ancora per poco l’atteggiamento prevalente dei professori fu di rappresaglia, poi lo spirito dell’insegnamento prevalse e ritornò in vigore la bilancia dei meriti e dei profitti. Quell’anno fummo promossi in molti, compresi i due svitatori. Solo allora quella pagina di calendario fu per noi voltata del tutto.
L’anno seguente, stagione scolastica 1967-1968, avremmo affrontato la maturità. Prima di quell’appuntamento il professore Giovanni La Magna mancò a una lezione per la prima volta in tre anni. Si era rotto il cuore del nostro buon Zeus, fermate le mani enormi che ci avevano aperto le vie della Grecia classica, zittita la voce che aveva calcato per noi i versi più soavi della terra. Salimmo alla sua casa sulla collina del Vomero come un gregge disperso. Era disteso eppure sembrava ritto in piedi, manteneva anche così tutta la forza della sua presenza. Aveva le grandi mani intrecciate in grembo, gli occhi molto chiusi. Per la prima volta un ragazzo tra i tanti ebbe misura dello spreco insensato contenuto nella morte di un uomo. Tutta quella Grecia svisceratamente amata da un siciliano, tutta quella sapienza si perdeva, a nessuno poteva più trasmettersi. Ne trattenevamo frammenti lucenti da un vaso in frantumi, noi suoi allievi. Ma se tutti gli studenti che aveva avuto, avessero potuto mettere insieme i loro pezzetti, non avrebbero ricomposto l’interezza da lui posseduta. Le lacrime che ad alcuni di noi vennero agli occhi se le era guadagnate con quello che gronda dal cuore.
Morì in quei primi mesi dell’anno di subbuglio 1968, senza vedere le aule abbandonate sotto i colpi di una guerra che aveva intravisto e aveva scongiurato di evitare. La scuola finiva e non solo per i maturandi di quell’anno. Dopo di lui la Grecia tornò a essere la patria di una grammatica molto esigente. Ci sono uomini che morendo chiudono dietro di loro un mondo intero. A distanza di anni se ne accetta la perdita solo concedendo che in verità morirono in tempo.

Esperimento di fuoriuscita

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Giulio Paolini, Apollo e Dafne, 1978
Giulio Paolini, Apollo e Dafne, 1978
Giulio Paolini, Apollo e Dafne, 1978

di: Alessandra Sarchi

Una mano mi ha aperto la testa. Ero appoggiata con l’orecchio sinistro sul piano di acciaio del tavolo e la mano ha sezionato il mio cranio in due calotte. Rumori viscidi di materiali organici molli, uva matura schiacciata tra i polpastrelli, ma non cola sangue.

Andata e Ritorno 2.0 ° Festival autunnale di poesia orale e musica digitale °

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a cura di Blare Out
in collaborazione con M.a.c.lab

Opening: venerdì 28 novembre ore 18:30
28-29 novembre 2014
Incubatore Herion – Venezia, Isola della Giudecca, 624/625

Amodio

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di Angela Bubba

Maurizio Fiorino, Amodio, Gallucci, 2014, 176 pagine.

amodioForse non poteva essere più spigliato l’esordio letterario di Maurizio Fiorino, giovane talento della fotografia italiana ma che per anni ha vissuto a New York. Amodio (Gallucci, pp. 176, 16,50 euro) narra infatti la storia d’amore tra Armando e il figlio di uno dei boss più temuti della ‘ndrangheta, l’immaginario Carlo Costa, il quale scoperta la relazione è costretto ad appellarsi alle leggi mafiose, spietate quanto necessarie, e la cui violazione può sancire una condanna a morte.

Andata/ritorno

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tech(prose da Oggettistica)

di Marco Giovenale

 

Vimeo è molto pulito.

Vimeo è molto più pulito.

Anche se i crampi e l’intermittenza.

Ma queste sono cose del corpo, che c’entra.

Bisogna scommettere il giusto e sulla tecnica giusta.

Un trucco è guardare i contorni.

Se non sfarfallano è meglio.

Heidegger andava in Grecia, si sedeva composto.

Mangiava un panino, gli dava sicurezza.

 

Un brusio di fondo – Giorgio da Genova e lo sterminio dei rom a Radio 24

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davide-racca        di Mariasole Ariot

La vita oscilla/tra il sublime e l’immondo/
con qualche propensione/per il secondo.
E. Montale

 Della parola come mangime

E’ sera. La rotellina della radio cerca una stazione, la montagna riduce i segnali, non la trova, ricerca. Poi d’improvviso le parole fuoriescono dalle casse come un rigurgito. Schizzano ovunque, non si piegano, restano nella direzione della lama. E’ una lama che ride, che dice il peggio con un ghigno. Mi fermo, raggelo.

– Qualcuno c’ha detto, qualcuno ha scritto, l’avete cassato, l’avete tolto, l’avete buttato via dalla trasmissione. Noi non lo facciamo questo, e ce lo abbiamo qui in carne e ossa, caro Parenzo: Giorgio da Genova. Io voglio capire da Giorgio da Genova se veramente vuol fare dei rom mangime per gli animali?

– Un campo di concentramento, un autocompattatore, da una parte entrano zingari, dall’altra esce mangime per maiali .
Il Mein Kampf se non sbaglio, dice: un animale se lo addestri cambia, uno zingaro non cambia.

Ho un conato, lo trattengo. La voce che domanda è di Giuseppe Cruciani. E’ radio24, La Zanzara: “l’attualità senza tabù, senza censura”.
I minuti passano. Cruciani e il compagno della radio cotinuano la scenetta con una gag che non ha nulla di ridicolo – piuttosto di pietoso e osceno, che appunto esonda, esce dalla scena inondandola: Parenzo l’indignato-che-resta indignato-ma-resta, Cruciani l’uomo delle spallucce, il “suvvia, tutti possono dire quello che vogliono”. E quella scena inondata diventa presto una sostanza vischiosa, umor acqueo in cui tutto si confonde.

Passano altri secondi. I conati non si arrestano, spengo la radio.

Uno può dire quello che vuole – ribadisce Cruciani.
La parola è libera, i filtri scemano, i no non sono ammessi : è la nuova formula del godere ad ogni costo. L’ascoltatore deve eccitarsi, deve accendersi in un focolaio, deve ascoltare per poi dire, deve dire per poter ascoltare, deve urlare. E ad urlo corrisponde urlo. Perché non è la direzione a contare, non la posizione, non il detto ma la forma di quel detto. I toni devono essere pieni, la violenza deve essere stereotipica, a tratti caricaturale, purché d’effetto e richiami altri effetti:

chivawa • 7 giorni fa (da Il Fatto Quotidiano)
la zanzara è uno specie di cloaca dove anche chi non è provvisto di cervello può parlare . da genova suggerirei un bel crematorio e mi raccomando infilatecelo da vivo. per gli altri soggetti della zanzara iniezione letale o sperimentazione di farmaci.

Un autocompattatore : da una parte entrano parole, dall’altra esce un rigolo di sangue, una bava, il resto di uno sputo. Le voci effettate di una presunta libertà di parola. Del resto c’è già stata un’altra Casa che della libertà faceva motto e bandiera, un uomo/casa che ci aveva rubato significanti buoni per restituirceli pervertiti e snaturati. Ci siamo abituati allo scempio, al tutto è concesso.
E’ possibile prendere ad esempio il Mein Kampf, è possibile dire il mangime dei maiali, è possibile dire quanto due culi vendano molto più che la parola di una donna, è possibile incitare la violenza degli stati di alterazione di Borghezio, è possibile parlare di

“sterminio completo di zingari, donne uomini e bambini”. (di nuovo, Giorgio da Genova)

La parola perde peso, si scarnifica, diventa pretesto di pretesto, un semplice passaggio di saliva che di bocca in bocca finisce col suggerire che sì : è possibile. Che il dire non ha a che fare con l’etica, che la libertà si confonde con il vuoto troppo pieno dell’urlo. Si chiedono megafoni, amplificatori del pensiero : perché non è mai abbastanza, non è ancora abbastanza.

***

Dire la parola/dare la parola

Nei giorni seguenti ho cercato in rete.
Scopro che questo dialoghetto è in realtà un secondo round : Giorgio da Genova era già intervenuto qualche giorno prima con le sue tesi sul genocidio.
Quelli de La Zanzara hanno (ovviamente) deciso di ricontattarlo.

Diventa così l’oltre della spettacolarizzazione : una manovra che coglie un fiammifero per appiccare l’incendio. Ma l’incendio non si muove, resta un dire che passa, un discorso da cinque minuti, due chiacchiere da bar, un tweet veloce. Parenzo l’indignato chiede il numero dell’ascoltatore per denunciarlo, Cruciani lo blocca, Giorgio chiede non tradirmi, un po’ si ride, un po’ no, un po’ si stride. L’importante è che tutto punti all’estremo, che l’estremo non resti una vetta ma un punto di partenza, un luogo dal quale muoversi per il gusto di muoversi. Nessuna concessione al limite, il limite non esiste, un velo non esiste. Anzi : va strappato. Non per moto di rabbia e indignazione, non per mettere a nudo l’invisibile ma per rendere visibile l’osceno che attrae. Lo sguardo e l’udito concentrati nel verso del piacere.

Dunque c’è un dire la parola e un dare la parola.
E in quel dare Cruciani è salvo, tutti sono assolti. Non è lui ad aver detto, anzi, ha solo concesso il dispiegarsi di “un’opinione”. Si può passare ad altro. Ai culi che vendono di più, alla Boldrini, uno stacchetto musicale, una nuova alzata di toni.

Se il discorso razzista talvolta smette di essere discorso per diventare azione, anche dare la parola è un’azione. E’ passare il testimone, agire la scelta. Di quanto spazio dare, se darlo, quanto tempo, se c’è un tempo, se è necessario, se etico è darlo, se e quando – per sottrazione – mettere l’altro, su cui il discorso razzista agisce, nella posizione del silenzio : è il silencing.

Ma l’etica – che venga après coup o che stia a monte – ora vacilla. Se quando denuncia riceve l’accusa di moralismo, là dove tace, incassa il colpo e tace.
Quello che continua a parlare è un brusio di fondo, una zanzara, il fumo passivo di un discorso (mal)mediato che produce mostri e riproducendoli si ripara nella frase, ancor più debole e perversa della prima [uno può dire quello che vuole] e che sottovoce afferma : “suvvia, in fondo il mostro sta dentro ognuno di noi”.

 

* immagine : Ein Wort ohne Sinn di Davide Racca

Qualche link utile:

Trascrizione completa della seconda conversazione da Il Fatto Quotidiano

Il video completo, l’audio completo [ dal minuto 1:23 in poi ]

Sulle dichiarazioni di Cristiano Zuliani

Giorgio Pino – Discorso razzista e libertà di manifestazione del pensiero

In realtà, la poesia: critica da un blog

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Biagio-CepollaroKun2008

di Lorenzo Mari

.[L’intervento di Lorenzo Mari segue quello di Luigi Bosco a proposito della critica letteraria e consiste in uno sviluppo di quanto detto nella serata dedicata a questo tema nell’ambito della rassegna milanese  Tu se sai dire dillo 2014. Luigi Bosco, Davide Castiglione, Lorenzo Mari e Michele Ortore danno vita al blog di critica letteraria In realtà,la poesia. B.C.]

Parlando di In realtà, la poesia, mi interessa sottolineare, innanzitutto, l’esistenza di una particolare disponibilità materiale (lo spazio di un sito web), che trova la propria ragion d’essere in una particolare disposizione (o pre-disposizione) strategica.

Per quanto riguarda la disponibilità, è forse opportuno sgombrare il campo da un equivoco, che, di fatto, avevamo già tentato di arginare stilando l’elenco delle linee guida per l’invio di materiale al sito… Ebbene, In realtà, la poesia non è affiliato ad alcun esperimento di nuovo realismo o New Realism che dir si voglia (così come, ad esempio, Le parole e le cose non è un sito d’ispirazione foucaultiana…). Inoltre, In realtà, la poesia non risponde neppure all’esigenza di tornare alla realtà così com’è stata espressa in molta poesia, per così dire, “neolirica” di recente pubblicazione ed emersione critica…

Tutti questi approcci possono trovare spazio nel sito, accanto a posizioni diverse, anche di segno diametralmente opposto. La disponibilità materiale del sito, infatti, resta aperta verso ogni tipo di interpretazione e di posizione, purché sorretta da analisi testuali chiare e verificabili e dalla propensione al dibattito, in luogo della polemichetta in odore di troll o, come più spesso e tristemente accade, di narcisismo individuale.

Quanto al rapporto con la realtà, esso consente a chi vuole contribuire, cito dal sito, di “parlare della realtà rappresentata da un testo (p. es. l’arrivo delle truppe naziste in Primavera Hitleriana di Montale) o di quella che precede il testo (p. es. il contesto storico, sociale e biografico in cui il testo o l’opera sono stati composti) o ancora quella d’arrivo (p. es. nel contesto della ricezione: la rilevanza di un testo straniero nella situazione attuale italiana). Tutte queste scelte possono essere esclusive (ci si può concentrare su uno o sull’altro aspetto) o può esserci il tentativo di connetterle (p. es. ragionare sulla distanza tra il contesto di produzione, quello di ricezione e il mondo creato dal testo stesso), ancora una volta a discrezione del critico”.

Come si può facilmente osservare, la parola “realtà” allude a molti altri significati, tra i quali quello di “opera”, un dato che si impone sempre di più, a nostro avviso, a partire dall’esigenza di considerare i testi poetici non soltanto come ‘post’, all’interno di esperienze moltitudinarie ed effimere, ma anche e soprattutto come ‘opere’, qualora ne possiedano i crismi. Il primato del textus – incredibile a dirsi: vero, Zuckerberg? – sembra passare ancora da quelle parti…

Questo tipo specifico di disponibilità materiale trova origine in una specifica disposizione, o pre-disposizione, strategica, che è necessariamente multipla: nasce dai quattro approcci, spesso convergenti, ma non sempre collimanti, dei quattro fondatori del sito.

Aldilà dei posizionamenti individuali, la strategia comune parte da un interrogativo sulla lettura della poesia. Questa domanda precede e finisce allo stesso tempo per innervare l’esercizio della critica, dando così una nostra prima, parziale risposta alla domanda che Biagio Cepollaro, in linea con le sue Note per una critica futura di qualche anno fa, ha posto nelle tre giornate milanesi di “Tu se sai dire dillo” di quest’anno: “cosa vuol dire leggere un testo poetico?”.

Parlare di ‘critica futura’ significa, nell’ambito di In realtà, la poesia, impegnarsi in un lavoro che si potrebbe definire forse di ‘retroguardia’: tornare indietro, ai significati mossi dalla lettura di un testo poetico, per poi tentare il balzo in avanti, tornando a proporre forme di intervento critico.

Si tratta di una posizione che, per altri versi, si può definire “militante”, ma che, allo stesso tempo, muove i primi passi da alcune aporie individuate nella critica militante di oggi. Vi è certamente la consapevolezza che ogni esercizio critico propriamente detto costituisce “critica militante”, com’è stato ricordato anche nelle giornate milanesi. Tuttavia, le basi per un simile intervento – in un dibattito letterario che è più che altro uno scontro di posizioni mantenute in chiave di  ‘politica’ pseudo-partitica e non di ‘politica’ conflittuale – devono, a nostro avviso, essere rielaborate a partire da un esercizio, anche nascosto, di lettura e non – non soltanto – di post contenenti recensioni, testi magari neanche vagliati da una redazione web, eppure messi “in coda di pubblicazione”, oppure articoli sui supplementi culturali del sabato o della domenica…

Non è così facile, allo stato attuale delle cose, parlare di critica militante. A nostro avviso, è possibile declinare questa ed altre pratiche soltanto all’interno di quel movimento dialettico che è proprio della lettura di un testo, nel confronto tra testualità, inter-testualità ed extra-testualità, tra dimensione soggettiva e inter-soggettiva.

Una dialettica che può sussistere anche nel confronto tra reale e irreale suggerito da Luciano Mazziotta, ricordando questa splendida intervista di Loredana Magazzeni a Giuliano Mesa. Quell’intervista costituisce un punto di riferimento solido per il lavoro di In realtà, la poesia, anche quando entra apparentemente in conflitto con alcuni dei presupposti qui confusamente elencati:

“Intanto, direi che la poesia ha sempre bisogno di interrogarsi sul proprio rapporto col reale. La poesia dovrebbe sempre interrogarci sul nostro rapporto col reale, e può farlo soltanto interrogando sempre anche se stessa, il suo linguaggio, le sue forme. Dunque, non può che essere sempre nuova, poiché il reale muta costantemente. Che poi non muti “verso il meglio”, ebbene, ciò non attiene al concetto di nuovo inteso come proprio di un certo tempo storico in un certo luogo, bensì, e mettendolo in crisi, al nuovo inteso come “tappa di un progresso”. Invece, e per molti anni e ancora oggi, è stata  accolta come “ovvia” l’equazione “fine del progresso” –  “fine del nuovo”. Quel progresso, il procedere teleologico della storia umana verso la sua perfettibilità, se non perfezione, non è mai esistito: è stato, è ancora nella sua versione dominante – neoliberista, per intenderci -, ideologia. Ma  il nuovo inteso come mutamento dei linguaggi, delle forme dell’arte in rapporto col mutare delle condizioni non è finito, non può finire. Sarebbe inutile dirlo, dirne, non fosse che, invece, si va dicendo, con insistita ottusità, che, ad esempio, la poesia italiana è finita trenta e più anni fa, che poi non c’è stato altro che epigonismo postmoderno. Anche ammesso che sia così – e non è così – quell’epigonismo rappresenta comunque, nelle sue forme, il nuovo di fine secolo… Cerco di riannodare i fili: finché ci si interroga sull’ipotetica fine della storia, sull’ipotetica morte della poesia intendendo il nuovo come mera ed “eclatante” innovazione tecnico-formale, su intenzioni più o meno avanguardistiche, non del “rapporto col reale” ci si sta occupando bensì di ciò che esso potrebbe essere se… esercitazioni masturbatorie – irrelate – della teoresi sistematica, sistematizzante, che ha spesso perso la testa perché la realtà gliel’ha, impietosamente, tagliata… “?Adesso occorrerebbe mettere in corsivo la parola reale, che io di solito non uso perché presuppone un irreale. Mi limito a dire che se la poesia è un modo del pensare, del conoscere, dunque del “mettere in relazione”, è anche, nella concretezza delle  poesierealtà, oggetto che, nel suo esistere, o sussistere, è immediatamente e inevitabilmente in rapporto con altri oggetti: a partire da questa condizione, da questo prerequisito, se ne può forse considerare la capacità di interrogare… “

La metrica dopo la metrica

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La metrica dopo la metrica
Università degli studi di Padova
27-28 novembre 2014
aula delle edicole, Piazza capitaniato 3, Padova

Programma:

GIOVEDÌ 27 NOVEMBRE

PIER VINCENZO MENGALDO: Introduzione

PRIMA SESSIONE: LUCA ZULIANI
15.30-15.50 PAOLO GIOVANNETTI (IULM, Milano): “Tra Contini e Raboni: le costrizioni (storiche) del verso libero”
16.00-16.20 GIACOMO MORBIATO (Università di Padova): “Verso una metrica relazionale. Considerazioni di metodo a partire dalla Camera da letto di Bertolucci”

SECONDA SESSIONE: ANDREA AFRIBO
17.00-17.20 JACOPO GROSSER (Fondazione Ezio Franceschini, Firenze): “Inarcature e intonazione nella poesia del secondo Novecento”
17.30-17.50 DANIELE BARBIERI (ISIA, Urbino): “Il colloquiale e il cantabile: poliritmie tra endecasillabo e verso libero”

VENERDÌ 28 NOVEMBRE

PRIMA SESSIONE: SERGIO BOZZOLA
9.00-9.20 RAFFAELLA SCARPA (Università di Torino): “Problemi di metro sintassi nel secondo Novecento”
9.30-9.50 GIANFRANCA LAVEZZI (Università di Pavia): “La libertà delle forme chiuse. Per lo studio di un ossimoro metrico nel secondo Novecento”
10.00-10.20 STEFANO COLANGELO (Università di Bologna):  “Sovvertimenti. Linguaggi musicali e nuove metriche”

SECONDA SESSIONE: DAVIDE COLUSSI
11.00-11.20 ANTONIO LORETO (IULM, Milano): “Metrica e grafica. Iconismi nella poesia del secondo Novecento, da Pasolini a Zanzotto”
11.30-12.00 PAOLO ZUBLENA (Università di Milano-Bicocca): “La prosa nei libri di poesia (1950-1980)”

Ineguaglianza sociale, razzismo, neofascismo: sui fatti di Tor Sapienza

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di Andrea Inglese

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“Perché a chiunque ha sarà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha.” Così recita un passo del Vangelo di San Matteo. Nella sociologia statunitense si parla di Matthew effect, per designare quella legge sociale, verificata nell’ambito della ricerca scientifica o dell’apprendimento, per cui chi parte con un vantaggio non farà che cumularlo rispetto a dei soggetti concorrenti, che muovono invece da una posizione iniziale di svantaggio.

Sulla statua “Violata”. La lettera di Francesca Baleani al sindaco di Ancona

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27141_381662451949639_789925839_n Il 23 marzo 2013 viene inaugurata ad Ancona la statua Violata, monumento in ricordo “di tutte le donne vittime di violenza”, voluto e finanziato – senza alcun bando di concorso, ma accettando la proposta di una statua già realizzata in gesso dallo scultore Floriano Ippoliti – dalla Commissione Pari Opportunità della Regione Marche in accordo con alcuni altri enti e associazioni femminili locali. La statua, che rappresenta una donna con borsetta di ideale bellezza dalle vesti succinte e stracciate in modo da scoprirne, mettendoli in tutta evidenza, il seno e il sedere, suscita immediatamente incredulità e sdegno. Una rappresentazione che viene giudicata da troppi semplicistica e inopportuna, se non offensiva della dignità delle donne vittime di violenza. Ne derivano diverse lettere di protesta (consultabili qui: https://www.facebook.com/notes/c%C3%A8-da-spostare-una-statua/violata-le-lettere/418153478300536 ) inviate alle autorità locali in cui si spiegano puntualmente le ragioni culturali e simboliche profonde della mobilitazione e una petizione per richiedere la ricollocazione dell’opera e la sua sostituzione con un’altra scelta attraverso un concorso di idee trasparente e aperto al coinvolgimento della cittadinanza. La petizione raccoglie oltre 2600 firme, e viene sottoscritta inoltre da 64 centri e associazioni antiviolenza in tutta Italia, numerosi rappresentanti di organismi di parità e pari opportunità (tra cui intere commissioni PO regionali), centri studi di genere universitari, moltissimi intellettuali ed esponenti del mondo della cultura, dello spettacolo e dell’arte (qui l’elenco completo: https://www.facebook.com/notes/c%C3%A8-da-spostare-una-statua/istituzioni-associazioni-centri-antiviolenza-che-aderiscono-alla-petizione/418166531632564 ). E, soprattutto, da molte donne vittime di violenza e familiari di donne uccise per mano violenta.

A oltre un anno e mezzo dall’inizio della protesta, nessuna risposta concreta di merito è stata data dalle istituzioni locali alle obiezioni sollevate, se non l’immediato, fermo rifiuto a ricollocare l’opera da parte della Commissione PO delle Marche e una dichiarazione di due rappresentanti dell’attuale giunta di Ancona in cui si esprime una posizione per molti versi in linea con le istanze della mobilitazione, ma a cui non segue nessuna azione né si inizia, come sarebbe auspicabile e necessario, alcun percorso di dialogo e confronto sulla questione. Segue invece – mentre la protesta continua – un lungo, incomprensibile silenzio, soprattutto verso le donne vittime di violenza unite nella mobilitazione, alle quali non viene indirizzata, in oltre un anno e mezzo, una sola parola di vicinanza da parte delle istituzioni coinvolte.

Francesca Baleani è una di loro. Sopravvissuta a una terribile violenza nel 2006, da allora si batte con coraggio e dignità contro gli abusi sulle donne. Stanca del silenzio e dell’indifferenza, il 18 novembre ha inviato un’accorata lettera alla Sindaca di Ancona che Nazione Indiana accoglie, sostiene e pubblica di seguito integralmente. Grazie Francesca!

cinéDIMANCHE #06 JERZY SKOLIMOWSKI “The Shout / L’australiano” [1978]

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di Andrea Raos

Una delle accuse più ricorrenti di mia madre a mio padre era che per via del lavoro non passava tempo a sufficienza con i figli. Il compromesso raggiunto fu che quasi tutti i fine settimana lui ci portava al cinema. Quello che mia madre non sapeva o fingeva di ignorare è che non ci portava all’oratorio a vedere i film per bambini, che sarebbe stato per lui una tortura, ma nei cinema normali a vedere quelli che piacevano a lui.

Fu così che nel 1978, a dieci anni esatti, vidi in un cinema di Milano questo film di cui non capii molto.

So adesso che è tratto da un racconto di Robert Graves del 1929 che è ancora più spiazzante del film e che oggi vedo come uno dei momenti migliori nello sforzo europeo per fare i conti con l’esperienza coloniale e, soprattutto, con i presupposti filosofici di questa. Colonie e riti esotici usati per parlare del nemico interno.

Adesso so anche che le musiche del film sono di Tony Banks e Mike Rutherford (Genesis) e, me lo dice un commento su youtube, che il sintetizzatore usato dal protagonista del film è un raro EMS Synthi Sequencer 256 del 1971 – lo guardo con tenerezza perchè allora mi era sembrato di una bellezza infinita, una piccola cattedrale.

Ma la più importante è la prima impressione. Dunque, le poche cose che ricordo solo da allora sono: la musica sperimentale suonata da John Hurt, che a me sembrò magica e meravigliosa; quella che credo sia la scena più famosa, l’urlo che scuote le dune e le nuvole fondendo cielo e terra in un unico attimo di terrore comune, universale e assoluto; soprattutto, non ricordo in quale punto del film – ho deciso di non riguardarlo prima di scrivere queste righe – la danza dei folli sotto la pioggia, le risa disperate, i pianti, i gesti senza senso, i movimenti sconnessi e gli animali in fuga o indifferenti, tutti gli uomini e le donne vestiti di bianco, bianchi contro il verde dei prati, tutto questo incomprensibile che è tutto e non lascia fuori nient’altro, mai.

 

cinéDIMANCHE
 

cdNella pausa delle domeniche, in pomeriggi verso il buio sempre più vicino, fra equinozi e solstizi, mentre avanza Autunno e verrà Inverno, poi “Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera“, riscoprire film rari, amati e importanti. Scelti di volta in volta da alcuni di noi, con criteri sempre diversi, trasversali e atemporali.

 

GraffITI

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Fig. 1: Vista del lato est della palestra dell’I.T.I.S. con il graffito di Millo.
Vista lato est della palestra dell’I.T.I.S. con il graffito di Millo

Abbellire il Moderno?

di Alberto Giorgio Cassani

«La gente si arreda la casa in stile antico, si circonda di mobili che appartengono a un’epoca ormai sepolta da secoli che non le è per nulla congeniale, e questo basta a farla vivere nella menzogna, pensavo. In realtà la gente è talmente debole rispetto alla propria epoca che si sente costretta a circondarsi di mobili di un’epoca da tempo passata, da tempo scomparsa, da tempo morta e sepolta, e si può dire che lo fa per tenersi a galla, pensavo, ed è quindi segno di uno stato di orrenda debolezza quando la gente si arreda la casa con mobili di epoche passate e non con mobili della propria epoca, della quale non riesce a sopportare la durezza e la brutalità, pensavo. La gente si circonda di mollezza, la mollezza del passato da cui è scomparsa ogni contraddizione». Questa formidabile pagina di Thomas Bernhard, tratta da A colpi d’ascia  , con la sua lucida, feroce e tagliente scrittura, basterebbe da sola a far da commento alla recente querelle sui graffiti alla palestra dell’Istituto Tecnico Industriale Statale “Nullo Baldini” di Ravenna. Certamente i graffiti sono una manifestazione dell’arte contemporanea e non hanno in apparenza nulla a che vedere con l’antico, ma sono stati motivati come un “abbellimento” di due scarne, dure e brutali pareti di cemento.

Particolare del graffito di Millo
Particolare del graffito di Millo
Smithdon High School di Hunstanton (Norfolk, Gran Bretagna), architetti Alison e Peter Smithson, 1949-1954, foto d’epoca

Il termine “brutalità”, utilizzato da Bernhard, ben di addice, fra l’altro, a definire un tipo di architettura come quella dell’I.T.I.S., edificio progettato, tra il 1959 e il 1961, dagli architetti Gino Gamberini, Antonino Manzone e Danilo Naglia in quello stile definito, appunto, brutalista, iniziato da Le Corbusier con i suoi edifici indiani (Ahmedabad e Chandigarh), ma compiutamente realizzato soltanto con l’opera degli architetti inglesi Alison e Peter Smithson nei progetti della Smithdon High School di Hunstanton (Norfolk, Gran Bretagna, 1949-1954)  e nel non realizzato, ma ancor più “brutalista”, progetto per la Sheffield University (concorso del 1955), come ha ben scritto un grande storico dell’architettura contemporanea come Reyner Banham (The New Brutalism, in «Architectural Review», dicembre 1955). In Italia, un precedente dell’I.T.I.S. fu l’Istituto Marchiondi Spagliardi a Baggio (1954-1957), ideato da Vittoriano Viganò (con Franz Graf e Letizia Tedeschi), oggi senza utilizzo.

Istituto Marchiondi Spagliardi, Baggio (Milano), architetti Vittoriano Viganò, Franz Graf e Letizia Tedeschi, 1954-1957. Foto di Emanuele Piccardo
Istituto Marchiondi Spagliardi, Baggio (Milano), architetti Vittoriano Viganò, Franz Graf e Letizia Tedeschi, 1954-1957. Foto di Emanuele Piccardo

Ecco quanto scriveva, a proposito del progetto dell’I.T.I.S., lo stesso Manzone: «Perché inventare ogni volta l’ombrello? Perché non utilizzare i prodotti verificati? Ha senso il “segno personalizzato” quando nessuno ha più tempo di guardare? Ormai contano i fatti macroscopici, le grandi masse, i grandi motivi, le grandi stesure cromatiche. Non ha più senso un’architettura da contemplare. Solo pochi intellettuali nostalgici di un mondo ormai superato s’interessano al particolare raffinato, all’oggetto individualizzato. Siamo sottoposti a troppe sollecitazioni visive. Ogni forma è sottoposta a un consumo così rapido da risultare, alla fine, esteticamente neutra. Diciamolo francamente: giocare con ideuzze formali è, ormai, delittuoso» .

Dunque ancora oggi, l’architettura moderna – permettetemi di utilizzare quest’aggettivo in senso comprensivo, escludendo soltanto, da un lato, gli inizi del Novecento, caratterizzati dallo Jugendstil, altrimenti detto Art Nouveau, Liberty, Floreale, Modernismo catalano, secondo le diverse declinazioni proprie alle varie regioni europee, e, dall’altro, il cosiddetto Postmoderno (che pure a quel Moderno, almeno nel nome, fa riferimento, seppur e contrario) – non viene accettata in sé e per sé; come accade in tanti altri casi: per l’Avanguardia artistica (ancora qualcuno ritiene che Picasso non sapesse dipingere) o per l’avanguardia musicale (il Pierrot lunaire di Schönberg è ancora ostico alle orecchie di molti) e potremmo continuare a lungo. Di tutte queste espressioni artistiche non si riesce ancora a sopportarne, a reggerne, la «durezza e la brutalità». Forse è colpa del Moderno e dell’Avanguardia? Forse sono mancati e mancano tuttora gli strumenti per educare a questi linguaggi “anti-classici”? Come che sia, è ritenuto lecito addolcire la pillola attraverso decorazioni e abbellimenti, in questo caso ricorrendo al graffitismo. Ma la Street Art non era nata come un pugno allo stomaco per lo sguardo “borghese e perbenista” del cittadino? E non era un’arte clandestina? Non è perlomeno curioso che ora si concedano legalmente superfici della città per quest’espressione artistica? Dov’è andata la critica, dov’è finita la protesta? E perché proprio il Moderno ha bisogno di essere abbellito? Perché una parete nuda, bianca o grigia, provoca ancora un senso di horror vacui?

Vista parziale del lato ovest dell’I.T.I.S., architetti Gino Gamberini, Antonino Manzone e Danilo Naglia, progetto 1959-1961, inaugurazione a.s. 1963-1964
Vista parziale del lato ovest dell’I.T.I.S., architetti Gino Gamberini, Antonino Manzone e Danilo Naglia, progetto 1959-1961, inaugurazione a.s. 1963-1964

Venendo al caso dei “graffITI”, forse era opportuno, com’è stato già evidenziato da qualcuno, essendo vivo e vegeto (e in gran forma di spirito) uno dei progettisti dell’edificio scolastico più bello di Ravenna  (assieme al Polo per l’infanzia “Lama Sud” di Giancarlo De Carlo e Associati), sentire il suo parere. So che l’architetto non ha diritti sulla sua opera, una volta che questa è terminata (solo Santiago Calatrava ha provato a intentare una causa di questo genere a Bilbao per il suo ponte pedonale, perdendola), e che Le Corbusier, a fronte dei cambiamenti apportati dagli abitanti alla sua cité Frugès a Pessac (1924-1926, Gironda), aveva esclamato: «la vie […] a raison, et l’architecte […] a tort»; ma sarebbe stato un gesto veramente unico e degno di una città capitale europea della Cultura, farlo per la prima volta.

Queste riflessioni non vogliono essere contro qualcuno e soprattutto contro la Street Art. Tra l’altro, uno dei due artisti, Millo, ha svolto studi di architettura e si vede, perché il suo graffito si lega molto di più con il volume della palestra di quanto fa, invece, il lavoro di SeaCreative (alias Fabrizio Sarti), per il quale la parete è una pura superficie.

Vista del lato nord della palestra con il graffito di SeaCreative
Vista del lato nord della palestra con il graffito di SeaCreative

Se “tatuare” gli edifici non deve più essere considerato da “degenerati”, come sosteneva, all’inizio del secolo scorso, l’architetto Adolf Loos (Ornamento e delitto, 1908) , forse occorre lasciare “liberi” i writers di scegliere su quali muri e su quali architetture compiere tale azione. Ricordando però loro che l’architettura non è solo superficie, ma soprattutto volume, materia, texture, luce ed ombra, «le jeu, savant, correct et magnifique des volumes sous la lumière» (Le Corbusier, Vers une architecture, 1923). Una cosa viva, non morta, che forse non ha così tanto bisogno di essere “abbellita”.

Il discount delle sirene

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lampeggiante

Ma a quante cose servono le Sirene?
Appunti per giornalisti (e per i loro direttori)

di Gigi Spina

Sono più di dieci anni che mi occupo di Sirene e non riesco a smettere, e non so perché. “E ci mancherebbe”, mi obietterete, “il loro fascino è proprio questo: attirarti, prenderti e non mollarti più, fino alla consunzione”. Messa così, non fa una piega ma, visto che l’esperto sono io, mi permetterete, anonimi obiettori, di condurre il gioco.
E quindi partirò da una domanda, come si dice facesse l’imperatore Tiberio (14-37 d.C.) quando chiedeva ai professori del tempo: “Che cosa cantavano di solito le Sirene?”. La mia domanda sarà un’altra, quella del titolo: a quante cose servono le Sirene? Per la risposta, però, lasciamo da parte il mito e l’antichità classica, meglio non rischiare, visto che si è appena celebrato a Torino, il 14 novembre, un processo al liceo classico, in cui pare che i migliori accusatori siano stati proprio i difensori (un po’ come quando segna un terzino).

Veniamo all’oggi, invece: ai giornali (e ai loro direttori).
Non c’è giorno che sui quotidiani non si parli di una Sirena (Sirene) ‘di’ qualcosa o qualcuno. Gli esempi non si contano, ormai, ne ha raccolto un certo numero Innocenzo Mazzini, a p. 70 di un interessante volumetto intitolato La mitologia che parliamo. Personaggi ed episodi mitologici dell’italiano contemporaneo, Macerata 2014. Non voglio però elencarli, ma analizzarne la struttura e la funzione.
In genere si dà la qualifica di Sirena a un qualche elemento o personaggio che sembra promettere qualcosa di positivo, tale da attirare e convincere della sua bontà, ma che invece va tenuto lontano, va evitato, perché da quella illusoria bontà nascerà sicuramente un pericolo, un danno esiziale. Per questo, i giornalisti si danno da fare per individuare, nelle diverse situazioni politiche, nazionali e internazionali, chi fa da Sirena e chi da incauto marinaio, al quale si consiglia di non cedere a quella Sirena particolare (oppure si denunzia il fatto che ha già ceduto). Le Sirene così definite attraversano tutti gli schieramenti politici, sociali, economici, senza differenza di genere, di etnia, di religione: insomma, sono figure assolutamente prive di ideologia e di connotazione fisse; le assumono solo quando un giornalista costruisce la scena su cui disegna una Sirena e un incauto marinaio: di lì comincia la sfida.

Ora, quando si maneggiano i miti, bisogna fare un po’ di attenzione, perché i miti sono sempre più complicati di quello a cui vengono ridotti. Faccio un solo esempio: il re Mida, mitico/storico re di Frigia. Quante volte, anche sui giornali, ma non solo, avrete sentito dire di uno che è un re Mida, nel senso che trasforma in oro tutto quello che tocca. L’impressione che se ne ha è che si parli sempre (magari con un po’ di invidia) di qualcuno molto bravo, anche spregiudicato, affarista nato, che sa intraprendere bene. Perfetto. E però la storia di Mida non è così lineare: intanto ce ne sono due, di storie legate a Mida. Una riguarda un giudizio non richiesto, quando Mida volle indicare come vincitore di una gara di canto fra Apollo e Pan quest’ultimo e non il dio. Il quale subito gli fece spuntare delle orecchie d’asino. Ora, è vero che nel nostro immaginario Pinocchio assorbe tutte le possibili orecchie d’asino della narrativa; ed è anche vero che dire a un giurato del festival di Sanremo o di una qualsiasi gara canora che ha giudicato come un re Mida costituirebbe un messaggio difficile da capire; ma anche la faccenda del tocco d’oro, cioè della richiesta che Mida fece a un dio di ricevere questo dono, non si ferma qui. Noi usiamo, in realtà, solo la prima metà del racconto, forse perché le conseguenze del tocco d’oro ci spaventano. Mida non riuscì più a mangiare e a bere, perché qualsiasi cosa toccasse si trasformava in oro, perfino una figlia, che fu aggiunta al mito da un narratore dell’Ottocento, Nathaniel Hawthorne. Per questo, lo ‘sfortunato’ re chiese al dio di perdere quello che gli era sembrato un potere perfetto. Complicazioni del mito, certo, ma da tenere presenti quando le si vuole usare nella comunicazione quotidiana.

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E allora torniamo alle Sirene. Come molti ricorderanno, per superare l’ostacolo delle Sirene, ma senza ignorarlo del tutto, Ulisse è costretto a ricorrere a un doppio stratagemma, rivelatogli da Circe, la maga che avrebbe voluto trattenerlo presso di sé (anche lei, come le Sirene). I marinai avrebbero visto l’isola delle Sirene, ma non udito il loro canto, perché Ulisse avrebbe ricoperto le loro orecchie di cera; Ulisse avrebbe udito, ma non avrebbe potuto muoversi, perché i marinai lo avrebbero preventivamente legato all’albero della nave. Non è, dunque, così facile rifiutare il fascino delle Sirene, che in fin dei conti promettono cose credibili e davvero allettanti: la conoscenza, secondo Omero, come giustamente notava Cicerone, oppure il sesso, secondo l’interpretazione cristiana – sempre la stessa ossessione! Bisogna avere le contromisure giuste, o i consiglieri giusti per sconfiggere il loro fascino, che sembra partire da promesse realistiche.

Quello che mi sentirei di consigliare ai giornalisti (e ai loro direttori) è, dunque, una maggiore articolazione nell’uso delle Sirene, un uso che le faccia comunque servire ad approfondire l’oggetto del loro fascino e delle loro promesse e i mezzi plausibili con cui evitarle. Servirà a tutti, a quelli che vogliono ignorarle e a quelli che, incuranti del pericolo, vorranno andare fino in fondo nella loro conoscenza.
E per fare questo, mi permetto di indicare due testi e due scrittori che, pur a distanza di qualche secolo, avevano individuato una funzione originale per le Sirene. Il primo, purtroppo, è solo un titolo (l’autore è anonimo), il Liber monstrorum, il libro delle mostruosità, dell’extra-umano, potremmo dire. Risale all’VIII/IX secolo ed è il primo testo che, nel descrivere le Sirene, le definisca donne fino all’ombelico e pesci nella parte inferiore, mentre fino ad allora, almeno a nostra conoscenza – e volendo essere sintetici – le Sirene erano state descritte e raffigurate come donne con ali e corpo d’uccello. La configurazione di donna-pesce è quella più riconoscibile e familiare, almeno dopo la favola di Andersen e la trasposizione cinematografica nel cartone animato disneyano. Ebbene, questa configurazione sembra cominciare col Liber monstrorum e c’è chi studia ancora questo problema per capirne tutti gli aspetti. Ora, nel prologo di questa enciclopedia delle mostruosità, l’autore sfrutta la forma ibrida della Sirena (che descriverà nella sesta sezione) per definire il carattere stesso della sua opera e della sua narrazione, quasi la stessa struttura del suo liber. Sa che alcuni dei suoi racconti potranno risultare incredibili e falsi; per questo, dice, inizierà dai racconti credibili, che rappresentano la parte superiore, la testa del suo volume (sto parafrasando), prima di addentrarsi nei meandri della parte seguente, quella più oscura, che, come la parte inferiore del corpo di una Sirena, è costituita da zone ispide e piene di squame.

La Sirena, per l’anonimo del Liber, non è, dunque, solo uno dei monstra che descriverà, è la forma che assume un’indagine, un reportage sulla realtà complessa fatta di parti umane e parti mostruose, si comincia dalla superficie, dalla zona umana, per scendere fino negli abissi della vita che ci circonda.
Tre secoli più tardi, all’incirca, Eustazio, arcivescovo di Tessalonica (1115-1195/97), raffinato intellettuale e retore, lavorava a un monumentale commento erudito dei poemi omerici. Anche Eustazio non si accontentava di spiegare minuziosamente i versi del XII libro dell’Odissea nel quale appaiono le Sirene, ma faceva di quelle creature dal misterioso fascino una metafora della sua impresa letteraria. In premessa al commento dell’Iliade, infatti, scriveva così: “Dalle Sirene di Omero sarebbe forse bene star lontani proprio dall’inizio, o ungendosi le orecchie di cera o scegliendo un’altra direzione per sfuggirne l’incantesimo. Se, invece, non si riesce a star lontani, anzi si vuole attraversare quel canto, allora penso che non ci si possa allontanare facilmente, neppure se protetti da molti legami, e d’altra parte, se anche si riuscisse ad allontanarsi, non sarebbe poi così piacevole”.

Il fascino di Omero è come quello delle sue Sirene, accostarsi alla sua opera rappresenta un pericolo, quello di non potersene staccare più. Non serviranno allora cera o corde: anzi, ed è l’affermazione più forte di Eustazio, allontanarsene non sarà motivo di gioia.
Ecco, dunque, la sostanza del mio consiglio. In ogni Sirena ‘di’, della quale a cuor leggero parlano i giornalisti, si cela un problema, una prospettiva reale, i cui pericoli devono essere attentamente vagliati, anche perché non sappiamo se per caso non ci vengano prospettati da chi (come Circe) magari vuole ingannarci al posto delle Sirene. È una sfida, insomma, in cui contano volontà, esperienza, chiarezza di idee e determinazione nell’affrontare i pericoli. I giornalisti, e i loro direttori, farebbero bene a informarci meglio, con cognizione di causa, sulle prospettive e sulle eventuali conseguenze dannose – questo, mi sembra, dovrebbe essere ancora l’essenza del loro mestiere –, dandoci tutti gli elementi per una scelta, che sarà sempre personale, affidata alla nostra responsabilità.

E a proposito di giornalisti, ricordate il mio inizio, con gli anonimi obiettori (“E ci mancherebbe”, mi obietterete …)? Verso la fine di ottobre, sul Corriere della Sera, un giornalista provava ad analizzare il modo di comunicare di Matteo Renzi, che usa spesso l’obiettore anonimo nei suoi discorsi. Solo che questa tecnica retorica non si può definire parlare di sé in terza persona (o autopassaggio, neoconio del giornalista). Il parlare di sé in terza persona si avrebbe se Renzi dicesse: “Il Presidente del Consiglio pensa” ecc. Quando, invece, ci si immagina e si introduce nel proprio discorso un interlocutore fittizio che fa delle obiezioni, tipo: “Matteo, come tu l’hai presa larga quest’anno” o cose del genere, allora si tratta di una figura retorica: la sermocinatio, troppo difficile, o il dialogismo, un po’ più facile; poi, a voler proprio essere precisi, anche parlare di sé in terza persona è una figura retorica: l’enallage, una figura di sostituzione (non sono più io a parlare ma è un anonimo obiettore, io gli presto la voce).
Insomma, direttori di giornale e giornalisti hanno un gran lavoro da fare, e non solo sulle Sirene, se vogliono informare come meritiamo.

L’idea di funzione #1

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di Antonio Sparzani
funzioni1

La parola funzione fa parte del linguaggio parlato. Che cosa significa, di preciso? Per capire un’idea occorre soppesarla a lungo, bisogna guardarla da tutti i lati possibili, aprirla, provare a usarla e infine essere in grado di criticarla. In ultimo bisogna arrivare a mangiarla, così cantava Giorgio Gaber vari anni fa.
Ora io voglio raccontarvi, in quattro passi – no, non nel delirio – la storia della formazione di questo concetto, ormai onnipervasivo non solo nelle matematiche e nelle scienze in generale, perché credo che seguendone la storia inevitabilmente si capisca meglio cosa c’è dentro adesso.
E quel che c’è dentro adesso è emerso un po’ alla volta: è il risultato di una serie di slittamenti di significato – cui anche la matematica ha contribuito – e che parte dal verbo latino fungor, che originariamente indica l’adempiere un dovere, una mansione: consulatu fungi nel latino classico significa “esercitare il consolato”.

A. Primo passo: una conseguenza di questa prima accezione è che si può usare la parola per dire che si esercita una mansione di un altro, se ne ricopre il ruolo: tipicamente, sempre nel latino classico, fungi maternis vicibus significa “far le veci della madre”. Da questa direzione di significati deriva l’italiano fungere che incorpora già ‘le veci’: “fungere da sostegno” sta per “fare quello che fa un sostegno”, anche se lo scopo originario non era quello, “fungere da madre” significa esercitare le mansioni della madre pur non essendo la madre, si può equivalentemente anche dire “fare la funzione di un sostegno”, o “della madre”, rispettivamente. Dunque la parola funzione indica qui un passaggio di azione da una cosa ad un’altra, o da una persona ad un’altra, una sostituzione, un prender su di sé la figura di qualcos’altro. Secondo la Costituzione italiana nel caso di impedimento del capo dello stato, il presidente del Senato ne assume le funzioni: vuol dire che egli, pur non essendo il capo dello stato eletto, ne assume il ruolo, prende su di sé l’onere – e l’onore – della carica.

B. Secondo passo: a questo punto si è verificato un nuovo interessante spostamento di significato all’interno della storia della matematica, fin dagli ultimi decenni del secolo XVII.
In una prima fase, che si può far simbolicamente coincidere con l’opera di Isaac Newton (i suoi Principia sono del 1687), l’idea che una qualche grandezza possa dipendere da un’altra, possa cioè variare al variare di un’altra, è limitata al caso in cui quest’ultima grandezza sia il tempo; Newton non usa ancora la parola funzione, ma usa la parola latina fluentes per indicare queste entità che hanno la caratteristica di cambiare col tempo. La parola funzione, o per meglio dire la sua versione latina functio (pur presente nel latino classico), appare per la prima volta nella storia della matematica in un manoscritto di Gottfried von Leibniz del 1673 intitolato Methodus tangentium inversa, seu de functionibus, nel quale ancora si parla del calcolo di certe speciali caratteristiche di una curva piana, quali la sottotangente, la sottonormale e altre (poco importa qui la loro definizione precisa), che rivestono un certo ruolo nell’andamento della curva e dunque ancora la parola rimane nell’alveo del significato di ‘ruolo’.
Leibniz si serve invece, per indicare la dipendenza dell’ordinata di un punto della curva dalla sua ascissa, della parola relatio, ‘relazione’. Ma nel prosieguo del manoscritto, ecco che l’autore si serve della parola functio per indicare appunto in generale queste varie caratteristiche della curva al loro variare lungo di essa, in quanto il suo scopo, nel manoscritto, è quello di risalire dal variare di queste caratteristiche alla forma della curva – di ricavare dalle functiones la relatio; nello stesso senso allargato Leibniz continuerà ad usare la parola in altri lavori del 1692 e del 1694.

C. Terzo passo. Occorre guardare a un personaggio chiave immediatamente successivo a Leibniz, il matematico e fisico svizzero Johann Bernoulli (1667-1748). È a lui che si deve la prima definizione formale di che cosa sia una funzione in quanto quantità composta di grandezze variabili:

“Definizione. Si chiama funzione di una grandezza variabile una quantità composta in una maniera qualsiasi a partire da questa grandezza variabile e da costanti”.
[On appelle fonction d’une grandeur variable une quantité composée de quelque manière que ce soit de cette grandeur variable et de constants]

L’aspetto interessante di questa definizione, oltre a quello di essere un primo tentativo di formalizzare la parola funzione all’interno delle matematiche, è quello di identificare una funzione con una espressione formale. Ad esempio
x−1; x^2 ; 3x^5 − x^2 ecc.
Dunque, in questa prima fase della ricerca di cosa sia funzione, si adotta un atteggiamento tipicamente connotativo, intensivo: per assegnare una funzione occorre che sia data una espressione che permetta di calcolarla. Essa non è però certamente unica, ad esempio le espressioni (x − 1)(x + 1) e x^2 – 1 chiaramente diverse in quanto espressioni, danno luogo agli stessi valori: per x = 2 forniscono entrambe il valore 3, per x = −1 danno entrambe il valore 0 e lo stesso accade per qualsiasi altro valore attribuito alla x; e quindi appare un aspetto poco soddisfacente: secondo la definizione di Bernoulli esse sono funzioni diverse, in quanto composizioni di simboli diverse; tuttavia si vorrebbe in maniera naturale identificarle in quanto portano appunto agli stessi numeri a partire dagli stessi numeri. Questo spinge ad adottare una definizione di funzione che badi non tanto alla sua espressione formale, ma al risultato che si ottiene per ogni valore della variabile.
Come vedrete nella prossima puntata.

Il leprotto marino

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da: Nei boschi. Poesie dalle fiabe dei Grimm (Edizioni SUI, 2014).

A cura di Elisa Biagini

LEPROTTO MARINO (Iacopo)  copia allegg, copiaImmaginate una principessa che proprio non ne vuole sapere di prendere marito, a meno che non sia tanto abile da arrivare a lei senza farsi scoprire.
Penserete che sia una sfida facile e all’altezza di qualsiasi cavaliere degno di questo nome. Invece no perché la principessa vive in un castello che è provvisto di dodici finestre da cui può vedere tutto ciò che accade nei dintorni e se dalla prima può vedere alcune cose, dalla seconda ne vede ancora di più e via, via, via fino a dodici.
Novantasette cavalieri hanno già provato e novantasette pali con novantasette teste circondano il castello.
Un giorno compaiono alla porta tre fratelli ma solo il terzo riuscirà nella sfida e solo perché troverà un aiuto prezioso in un leprotto di mare.
È proprio un leprotto, credetemi, ma senza orecchie, perché nel mare non ha bisogno di ascoltare. È generoso con gli amici e ama infilarsi nei capelli di fanciulle tanto orgogliose quanto vanitose.
Ma cosa c’entrerà mai un leprotto di mare con la storia di una principessa malvagia e i suoi spasimanti?
Silenzio adesso e lo scoprirete, ma solo se resterete con le orecchie ritte e gli occhi ben aperti.

 

Eternit: i tempi dell’aggiustizia

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(Quando la pratica del diritto e il senso di giustizia divergono in maniera così clamorosa come nel caso dell’annullamento della sentenza eternit da parte della corte di cassazione, la società soffre una ferita non rimarginabile. Sempre di più appare chiaro che uno dei caratteri fondamentali del nostro tempo è l’affermarsi di una élite nazionale e transnazionale che sta al di sopra di ogni legge. Abbiamo chiesto a Rosalba Altopiedi ricercatrice all’università di Torino, esperta di criminalità d’impresa e consulente per la pubblica accusa al processo Eternit di commentare la vicenda. la redazione)

di Rosalba Altopiedi*

In questi momenti sono innumerevoli i commenti al pronunciamento della Cassazione che ha sancito la ‘fine’ al processo per disastro doloso a carico dei responsabili della multinazionale Eternit per le morti e le malattie causate dalla lavorazione dell’amianto in diversi stabilimenti del nostro paese.

Idiosincrasia dell’inadeguatezza: Zerocalcare, c’est moi

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di Giulia Scuro

Zerocalcare dichiara di aver scelto la propria firma per caso. Il fumettista Michele Rech, noto a un pubblico in costante aumento, utilizza lo pseudonimo suggeritogli da uno slogan pubblicitario. Per questo motivo, e poiché l’autore di Dimentica il mio nome dedica proprio ai nomi il suo ultimo graphic novel, in libreria dal mese di ottobre, ho deciso di ripensare al suo lavoro attribuendo un peso specifico allo zero e al calcare, efficaci chiavi di lettura che compongono lo pseudonimo e sulle quali si fonda, a mio parere, anche la sua poetica.
Dimentica il mio nome è un’opera in parte autobiografica. L’autore stesso ha ribadito più volte quanto gli sia costato lavorare sulla propria famiglia, e cosa abbia significato per lui, ma questo non ha meravigliato i lettori abituali perché Zerocalcare è solito prendere spunto dalla propria vita, sia nelle tavole che hanno iniziato a comporre il suo blog nel 2011, sia nelle opere pubblicate in precedenza. In quest’ultimo lavoro si può dire che Zero raggiunge l’acme della sua verve autobiografica, toccando le corde del romanzo di formazione: la retrospettiva dei ricordi di infanzia, attraverso la morte della nonna, rende il lutto l’evento “zero” da cui ripartire per considerare le tappe e i significati della staffetta generazionale matrilineare che hanno caratterizzato la Weltanschauung del protagonista.
La maternità occupa in questo fumetto di formazione un ruolo fondamentale e quasi sostituisce la cinica ineffabilità dell’abituale, onnipresente armadillo, prodotto subcosciente che stimola nell’autore l’auto-indulgenza alla sottrazione sociale. In questo fumetto assistiamo alla nascita dell’animale-spalla di ZC e risulta evidente quanto l’armadillo e la madre siano personaggi antitetici: rispetto al primo, la madre è il simulacro della costruzione e della protezione disinteressata; baluardo della crescita per il giovane Zero, nonché spauracchio del suo complesso generazionale, è lei a insegnargli, nelle tavole conclusive dell’opera, che il nome anagrafico può essere dimenticato e che a volte la ricerca dell’identità personale trae giovamento proprio dal superamento delle etichette imposte, il che valorizza la scelta di un nome d’arte.
Lo pseudonimo fortuito che sovrappone l’autore al personaggio – utilizzato sia in forma assoluta, sia come nome e cognome, a seconda che lo si chiami Zero, Calcare, Calcà, Zé, Sig. Calcare o per intero – racchiude le principali strategie dialettiche dell’artista. Innanzitutto, vale la pena soffermarsi sul “calcare”: i grandi temi di ZC sono caratterizzati dall’essenzialità del residuo e argomentano ciò che si incrosta nei lunghi minuti della giornata; non a caso le ore serali o notturne, quelle dell’inadempienza, occupano molte tavole, mentre altre, numerose, sono dedicate agli interstizi temporali, come i viaggi in treno, le attese in aeroporto o le telefonate. In Un polpo alla gola il momento più importante nella vita scolastica del piccolo Zero è l’intervallo: è quello lo spazio in cui hanno luogo gli eventi decisivi.
Zerocalcare fonda in questo modo una filosofia dell’interstizio, del calcare che si deposita nel fondo del quotidiano. S’impone un’attitudine alla serialità, alla rappresentazione autobiografica di ciò che è incondizionato, che assomiglia a un grado Zero di barthesiana memoria del genere fumettistico. La scrittura calcarea è a latere, la stessa formazione di Calcare avviene a uno stadio “zero”; sia chiaro che non si parla di una mancanza di positività o negatività legate a una qualsiasi chiave di merito o demerito, ma piuttosto di una predisposizione idiosincratica alle curve, agli alti e ai bassi, per cui i rilievi possono essere solo quelli minimi e polverosi del deposito inerte.
La cultura di gruppo è quella che permette al protagonista di non soccombere all’interno del suo quartiere, Rebibbia, dove la singolarità è duramente punita. Rebibbia, territorio predisposto al controllo perché ospita uno dei carceri più grandi d’Europa, ha un valore simbolico per l’autore, che non perde occasione di parlarne: essendo un capolinea della metro B di Roma, è un luogo in cui, se si arriva, si resta – a volte anche contro la propria volontà, come in carcere; non è un luogo di passaggio interstiziale, ma di partenza o di arrivo. Questo posizionamento nella cinta romana è spesso sottolineato da Zero e probabilmente è il principale tra i requisiti che rendono Rebibbia capace di creare in lui quel sentimento di appartenenza per il quale gli è difficoltoso qualsiasi spostamento.
Ma come si risolve il paradosso per cui i due principali coefficienti nello pseudonimo si annullano? La soluzione è proprio nella convivenza di due tensioni volitive: la gioventù raccontata dall’autore/personaggio è quella intrappolata tra il raggiungimento di standard impossibili e la dipendenza da droghe facili e accessibili come videogiochi e serie tv. Zero ritrae un profilo in genere sommerso, quello della idiosincrasia dell’inadeguatezza: sintesi per cui si teme l’inadeguatezza più di ogni altra cosa ma, al contempo, è la stessa inadeguatezza a fungere da schermo e a mantenere giovani. L’élan giovanile è mediato da una serie continua di POSTICIPA simili a quelli proposti dalla sveglia del cellulare e a cui Zero fa riferimento in Dimentica il mio nome; lo stesso carcere diventa per l’autore una “fabbrica d’attesa”.
Il blog condiziona la percezione della vita reale del fumettista, consentendo al lettore l’immedesimazione. ZC assume il grado zero del trentenne: ambizioso ma modesto, pigro ma impegnato, socievole ma solitario. E così facendo capovolge la dimensione fumettistica: se le storiche strisce dei quotidiani rappresentavano l’evasione dalla realtà, ora, all’interno dell’iperspazio informativo di Internet, in cui non ci sono certezze né mezzobusto 2.0, la quotidianità zerocalcarea è più che mai realistica e mette in luce quelle piccole, segrete, talvolta inconfessabili debolezze e malignità che ognuno cova dentro di sé.
Zerocalcare, c’est moi! L’ipersoggettivismo che nei fumetti è solitamente posto in secondo piano rispetto alla mimesi supereroica diventa con ZC il presupposto per raccontare un nuovo modello formativo. Sarà per questo che in Dimentica il mio nome i riferimenti puramente fumettistici (vedi le volpi e i fantasmi del passato) sono solo l’escamotage dell’autore per non rendere troppo espliciti i misteri familiari. Al lettore è lasciato lo spazio di riempire i buchi nella memoria del personaggio: anche se inizialmente questi hanno impedito a Zero di crescere, è nella necessità di colmarli che va ricercata la fonte della sua immaginazione e di un – adesso sì – personale e privato percorso identitario.

[disegno d’apertura per gentile concessione dell’autore]

Miti Moderni/3: catturare l’attenzione

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Henri Cartier-Bresson, “Gestapo Informer”, Dessau, Germany, April 1945

di: Francesca Fiorletta

L’attenzione non si cattura, non si suscita, non si solletica, l’attenzione è un concetto innaturale, transitorio, pieghevole, un organismo fluido, un lento dipanar, l’attenzione, non si solidifica, non si incancrenisce, non salta di palo in frasca, non si abbevera alla fonte, non segue necessariamente un percorso espositivo, l’attenzione, non è di preferenza un’attitudine oppositiva, l’attenzione, tanto spesso, non c’è.

L’attenzione al suolo pubblico, al tessuto urbano, l’attenzione alla raccolta differenziata, agli odori della plastica bagnata dalla pioggia, dai residuati bellici del cibo in scatola, precotto, la plastica delle televendite della terza ora del pomeriggio, quando l’allerta volge alla quarta, e poi alla quinta, ora, della tua attenzione non importa niente a nessuno, di quell’attenzione che vaga s’inalbera, s’incunea sotto i cuscini piumati del divano, e palmata sparisce di polvere, all’ora del tè. 

Genealogie del presente

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gdpdi Elia Verzegnassi

Può essere scontato dire che talvolta mancano le parole, e magari si pensa a qualche film romantico in cui i protagonisti dichiarano l’impossibilità di esprimere il proprio amore l’uno per l’altro. Ma cosa vuol dire quando mancano le parole in campo politico? Forse percepire come esse sfuggono e non si lasciano catturare. Forse avvertire come i termini disponibili siano già pesantemente ricoperti da significati ormai stratificati che non li rendono facilmente fruibili per un uso differente, fuori dalla fisionomia divenuta abituale. Questi strati non pervertono o insozzano parole altrimenti pure: piuttosto pare estremamente difficile strappare un determinato significante alla costellazione di significati al quale è stato lungamente vincolato. Consegnate tanto all’uso comune quanto all’uso ufficiale, ordinate e spesso immobilizzate, quello che non è permesso sembra essere esattamente pervertire e compromettere le parole, nel senso di piegarle in altre direzioni, verso altri significati.

In questo senso, il recente Genealogie del presente. Lessico politico per tempi interessanti a cura di Federico Zappino, Lorenzo Coccoli e Marco Tabacchini (Mimesis, pp. 275, euro 22) è un libro corale che riunisce diciotto autori e autrici impegnati in un lavoro genealogico (e al contempo decostruttivo) attorno a diciotto diversi termini che scandiscono la nostra quotidianità. L’obiettivo è quello di esplorare queste parole, di sovvertirle e di torcerle fino a renderle irriconoscibili rispetto ai modi in cui esse circolano nell’ordine del discorso ufficiale. Ne emerge un lessico politico di lemmi ritenuti necessari ad attraversare questi nostri tempi interessanti, questi tempi «caotici, mutevoli, sfuggenti», come scrivono i tre curatori nel Preludio, in cui «gli antichi dei sono fuggiti e quelli nuovi ancora tardano a fare il loro ingresso» (p. 9). Se da un lato è dubbia l’esistenza di periodi storici totalmente privi di queste caratteristiche, dall’altro non si può non rilevare quanto il nostro sia un tempo interessante contraddistinto da un vuoto, da una mancanza di parole – e non tanto perché queste non siano presenti, quanto perché appaiano strettamente incanalate, sottraendosi a usi alternativi o declinazioni critiche. E da qui la necessità di un lessico che si prenda carico e non abbandoni quei termini che più di altri risultano decisivi proprio perché chiavi del funzionamento della retorica del dominio, e quindi capaci di diventare fertili spazi di lotta e resistenza alla presa biopolitica e al governo del linguaggio.

Non si tratta di cercare e immettere termini nuovi e antagonisti da contrapporre, in un muro di parole d’ordine, ai termini del discorso ufficiale, quanto sottrarre a questo i termini utilizzati – o meglio, scardinare tanto il monopolio della dicibilità delle singole parole da parte del discorso ufficiale quanto l’esclusiva sul loro orizzonte di senso. E piuttosto che una riappropriazione, come se si potesse davvero strappare una parola e portarla da una supposta propria parte, il tentativo è volto a restituire la parola a se stessa, alla sua propria complessità. Il Lessico non ospita parole nuove, bensì mette in movimento le parole ascoltate ogni giorno, cristallizzate in costellazioni strategiche e funzionali. «Oltre che un processo di mirata risemantizzazione», le parole pronunciate dalla retorica ufficiale subiscono anche «un costante processo di degradazione» (p. 15), e in questo caso non si può non pensare al termine rivoluzione, mai come ora invocato costantemente e mai così lontano da ciò che ha significato per generazioni. E se il termine rivoluzione non è presente, gli altri lemmi non possono che risuonare: Bene Comune e Beni Comuni di M.R. Marella, Costituzione di G. Amendola, Crisi di F. Zappino, Democrazia di L.Bazzicalupo, Destra/Sinistra di F. Remotti, Eccellenza di F. Giardini, Eguaglianza di G. Zanetti, Governabilità di S. Chignola, Legalità di U. Mattei e M. Spanò, Movimento di M. Tabacchini, Popolo di P. Amato, Povertà di L. Coccoli, Precarietà di C. Morini, Responsabilità di B. Giacomini, Sacrificio di M. Esposito, Società di M. Ricciardi, Trasparenza di V. Pinto, Futuro di L. Bernini.

Per costruire questo Lessico, il metodo proposto dai curatori e accolto dai singoli autori e autrici è quello genealogico, così come tracciato dal Foucault interprete di Nietzsche in Microfisica del potere. Una genealogia del presente a partire dai termini caratterizzanti il nostro tempo elimina definitivamente il dubbio che il progetto consista nel tentativo di avvicinarsi a parole pure, annidate in un’intoccabile origine, eliminandone le impurità che le ricoprono. A questa ricerca dell’origine si predilige piuttosto la riflessione sulla provenienza e sull’emergenza, sia dei singoli termini sia del nostro presente. Si tratta allora di reperire gli scarti e i salti, le molteplici deviazioni e discontinuità che per vie impreviste hanno portato al presente, non per fissarlo in una nuova definizione chiarificatrice, ma per scuoterlo, perché «la genealogia non fonda, al contrario: inquieta quel che si percepiva immobile».

Tempi interessanti perché «costitutivamente ambigui» (p. 10) affermano i curatori, interessanti anche perché si intravede, tra le pieghe delle retoriche dominanti, la possibilità di restituire i termini alla loro intrinseca complessità, confiscata da dispositivi linguistici che ne restituiscono un volto neutralizzato e pacificato, privato della propria densità. Ecco che allora il metodo genealogico funziona per mettere in movimento i termini e farne esplodere le ambiguità, i significati altri e latenti, offuscati e zittiti. La voce Crisi, elaborata da Federico Zappino, oltre a essere il termine che più di altri scandisce i «tempi interessanti» e percorre l’intero volume, è un chiaro esempio di quest’operazione. Partendo da un’analisi della retorica della crisi come instrumentum regni contemporaneo che impone decisioni necessarie, eccezionali e urgenti, riprendendo tanto alcuni passaggi biblici quanto le immagini della polis greca, l’autore fa emergere una lettura diversa dello stesso termine, luogo di possibilità e di agitazione.

Se si accetta la presenza di un uso ideologico e quotidiano dei lemmi confluiti nel Lessico e una loro costante degradazione come perdita del grado di complessità, la messa in movimento che effettua il lessico è ripiegata sulla parola stessa, volta a restituirne la carica conflittuale. La voce Popolo curata da Pierandrea Amato mostra proprio questo aspetto, cercando di sottrarre questo termine al monopolio degli usi statuali. Partendo da Deleuze e rileggendo la plebe foucaultiana e Il disaccordo di Rancière, Amato porta alla luce la crepa costitutiva all’interno di questo spinoso termine, autentico «architrave» della politica moderna. La tensione all’interno dello stesso termine in conflitto con se stesso, – luogo della «frattura biopolitica fondamentale», scrive Agamben in Homo Sacer – rivela un’eccedenza del popolo rispetto allo stesso termine, un suo non confluire completamente nel disegno dello Stato.

Tentare una genealogia del presente così come è stato fatto in questo volume vuol dire allora dichiarare il lessico luogo di presa e di cattura, ma anche di lotta e di resistenza. Mettere in movimento i termini politici, restituendo loro la complessità disciolta nella monotonia dei flussi dei discorsi ufficiali, significa riportare il conflitto proprio a ogni parola politica in uno spazio che era stato neutralizzato e pacificato. I termini incontrano il loro rimosso, e si ripropongono con inediti lineamenti e inaspettate sembianze, ritornando sulla scena che aveva preteso inquadrarli in una certa posa una volta per tutte.

Documentare la vita che fugge

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documentazione

 

di Andrea Inglese

 

… s’instaura comme une fallite de ma mémoire: je me mis à avoir peur d’oublier, comme si, à moins de tout noter, je n’allais rien pouvoir retenir de la vie qui s’enfuyait.

Georges Perec

Non so Perec, ma io non ci sono riuscito, anche se la sindrome è la stessa, e il metodo è quello, il migliore, schietto e intransigente, la documentazione neutra, burocratica, da segugio dei servizi segreti, quelli che frugano nel pattume per ricostruire il tuo stile di vita, le frequentazioni, i saliscendi emotivi, gli orientamenti politici, e si basano su scontrini, confezioni vuote, indumenti lacerati, residui di cibo, lampadine andate in pezzi, io non ce l’ho fatta, ho finito per scrivere qualsiasi cosa nei miei quaderni, ma da rapsodo, da radiolina fuori frequenza, i documenti sono scarsi, disordinati, e mancano le date, la topografia è vaga, le cifre sono discordanti, la descrizione di un incubo non si distingue dalla cronaca di una riunione di lavoro, interi passi di Pessoa sono presentati come trascrizioni di recensioni cinematografiche, un’analisi intimista può essere confusa con l’esegesi di un’installazione contemporanea, perché io non è che scriva in modo metodico e freddo, scrivo a sprazzi, per scalmane, copiando e riassumendo, interpolando e deformando, come se dovessi far convergere in una data frase, in un piccolo paragrafo scritto sul seggiolino ribaltabile del metrò, nel tratto che mi porta da Nation a Père Lachaise, tutta la mia circoscrizione umana più vasta, il dentro e il fuori, l’osso e l’anima, la paranoia privata e l’allucinazione di massa, la scarpa slacciata e la metafisica dei costumi, l’alone sulla lente degli occhiali e lo scoppio della caldaia nel bilocale di periferia.

Da un quaderno senza data, Clairefontaine, copertina rosso scozzese, “douceur de l’écriture”, Made in France, paragrafo su: “Soggetti di conversazione al ristorante a mezzogiorno”.

“Vicini di casa, vicini rumorosi, vicini con cane, un’anziana come vicina che si sveglia alle quattro di mattina e mette la radio a tutto volume, colleghi di lavoro, colleghi nuovi, colleghi morti, colleghi che si stanno separando, colleghi che mettono bastoni tra le ruote, colleghi che vanno dribblati, ignorati, sconfitti, colleghi più anziani che non sanno fare il loro lavoro, tutto il lavoro che si è costretti a fare e che non spetterebbe a colui che racconta, colleghi che scrivono troppe mail, colleghi che non riescono a telefonare al responsabile vendite quando è necessario, colleghi che parlano male l’inglese, datori di lavoro e capi, descrizione fisica e difetti di pronuncia, stile dell’abbigliamento, tipologia di automobile dei datori di lavoro, e proprietà immobiliari secondarie se conosciute, quanto sono efficaci i capi e quanta fiducia dimostrano in colui che racconta, la carta bianca, il margine d’iniziativa, la grossa responsabilità che gli forniscono, quanto sono imbelli i responsabili, i direttori, i vertici dell’azienda, i capi e i vertici vanno sempre contro il muro, sono incredibilmente ciechi, sono sostanzialmente sprovveduti, mancano di qualsiasi chiaroveggenza, non hanno una idea che sia una, sono davvero delle belle intelligenze, perché hanno capito il lavoro indispensabile fatto da colui che racconta, senza colui che parla i capi e la loro azienda avrebbero i mesi contati, i sottoposti non sanno lavorare, tutti i nuovi assunti non hanno mai capito come si lavora, cosa si deve fare in ufficio, come ci si comporta in azienda, i sottoposti semplicemente non dovrebbero esistere, i nuovi assunti non dovrebbero essere assunti, l’importanza dell’esperienza, la celebrazione dell’esperienza, l’esperienza vale qualsiasi formazione, qualsiasi titolo di studio, qualsiasi statuto professionale, quale telefonino e soprattutto quale abbonamento fare, comparazione e analisi, le potenzialità del nuovo smartphone, siti che presentano esperienze concrete d’uso di smartphone, gli sperimentatori di smartphone, l’intramontabile problema della memoria ram, e di come si possa espanderla, il back up, con i dischi duri esterni, che può essere molto o poco aggiornato, la perdita di dati, ma anche la perdita del telefonino, la morte del disco duro, il recupero dei documenti persi con la morte del disco duro, i videogiochi legati all’ultima serie televisiva americana, l’evoluzione incontrollata dei videogiochi e la loro stimolazione cognitiva assodata, i progetti d’insegnamento attraverso consolle e videogiochi: umanistici e scientifici, il crescente effetto di realtà dei videogiochi di guerra e di strage, la Playstation come passione solitaria o gregaria, i raduni reali a periodicità mensile dei giocatori virtuali, l’adolescente giapponese che non è più uscito dalla camera per tre anni, perché impegnato in un gioco di ruolo obsoleto, vantaggi e svantaggi di agende, tavolette e lettori elettronici, la salvaguardia dei figli dal consumismo elettronico o dagli eccessi della tecnologia, il pericolo di emarginazione sociale di figli sprovvisti di wi fi, limiti d’orario quotidiano nella visione di cartoni animati Disney, propensione all’acquisto di videogiochi per tutta la famiglia del tipo rompicapo o sportivo manageriale, la persona con cui si sta uscendo, caratteristiche psicologiche e profilo sentimentale, i trascorsi affettivi della persona appena conosciuta, e i problemi derivanti dal suo tenore di vita o dalle cerchie amicali o dagli impegni professionali, i luoghi dove è possibile conoscere gente nuova, gli incontri programmati a casa di amici, come gestire la vita a due dopo una sconfitta sentimentale, come ricostruire una sessualità vivace dopo anni di routine, come annunciare il capolinea di un rapporto, se si debba o meno amare la persona con cui si va a letto, cosa rispondere a un certo tipo di sms, numero di sms giornalieri che non è patologico inviare al proprio partner, non farsi troppe illusioni sulla persone più giovani o più vecchie che si potrebbero incontrare, il poco tempo che lui mette a disposizione, le pretese eccessive di lei, l’importanza della riservatezza, la necessità di dire le cose, normalità o meno di chi tiene spesso il telefonino spento, l’attaccamento alla propria ex, dubbi sull’uso perenne del telefonino anche a tavola, anche di domenica…”

A volte, quando vado in giro, qualsiasi parola che sento dire, mi fa impazzire. Non sono le parole, in realtà, sono le frasi. Ci sono certe frasi che non sopporto. A volte quasi tutte le frasi dette nello spazio pubblico, nella grande rete viaria europea, mi sembrano insopportabili, e mi producono come un disturbo mentale. In questi casi, le frasi più disturbanti mi sembrano quelle formulate in italiano, e in particolare modo da italofoni che parlano con qualcun altro al telefono. Se poi questi italofoni sono degli uomini del terziario avanzato, se sono all’incirca dei professionisti di qualcosa, e parlano in italiano dentro un telefono cellulare, con o senza auricolare, seduti in un vagone di un treno Frecciarossa o Frecciabianca, o nel corridoio stretto di una carlinga di aeroplano prima o dopo il decollo, io impazzisco. In quei momenti, anche se è loro diritto, anche se non per forza urlano o si vantano o sono grossolani o dicono frasi fatte o esprimono opinioni marce sul mondo, in quei momenti è come se io dormissi dopo una pesante giornata di lavoro, e dormissi in un letto caldo, in una camera al riparo dalle intemperie, con le persiane chiuse per garantire un’oscurità ottimale, e di colpo quei signori venissero da me, al mio orecchio, a parlare delle loro cose, a dire le loro frasi, non per forza fatte, magari sono completamente senza costrutto, oppure originalissime, ma è come se me le urlassero nelle orecchie, che poi non stanno neppure urlando, parlano semplicemente, ma parlano con un’insana disinvoltura, seduti a pochi centimetri da me, dalla mia testa posata sul guanciale, e quindi mi svegliano nel pieno della notte, e non mi lasciano più riaddormentare, perché la loro conversazione non è telegrafica, fatta di grandi silenzi, e non è nemmeno pragmatica, secca ed efficace come ci si aspetterebbe da professionisti come loro, la tirano in lungo, intorno a una mail non ricevuta, o poco chiara, costruiscono tutta una storia, una saga islandese, una narrazione torrenziale. Ma è chiaro che la colpa è mia, non è loro, e che nella rete viaria europea, nel multiforme spazio pubblico mondiale, non si può imputare a gente sui treni, sugli aerei, alle poste, nei corridoi della metropolitana, di parlare al telefono, e di parlare di questioni urgenti di lavoro, o che a loro paiono urgenti, e non si può stabilire un tassametro, una specie di controllo sulla lunghezza di queste conversazioni e sul numero massimo di parole – proferite ad alta voce – che dovrebbero includere. Spesso, questo è innegabile, di parole, negli spazi pubblici, soprattutto dentro i telefoni cellulari, se ne dicono troppe, e soprattutto su questioni professionali, che se il capitalismo non fila liscio, se c’è questo problema della crescita che non cresce e della ripresa che non riprende, è probabilmente anche per colpa di queste spiegazioni eccessivamente circostanziate, queste insistenze, su concetti base e chiarissimi, come se si trattasse invece di aforismi di Eraclito che si vorrebbero rendere pienamente intelligibili. Gli uomini che fanno gli affari, e quelli che aiutano questi uomini a fare gli affari, anche se dicono che il tempo è denaro, e se proclamano che gli affari sono affari, e sempre si muovono in modo deciso e scattante, con cartelline sotto il braccio, o agende elettroniche, o valigette di pelle, questi uomini e gli uomini di questi uomini, tanto sono tonici e rapidi sul piano motorio, tanto sono prolissi e ridondanti sul piano verbale. Qualcuno dovrebbe esaminare spassionatamente il fenomeno e portarlo all’attenzione dei nostri migliori opinionisti.
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Questa cosa, però, che dipende esclusivamente da me, da mie predisposizioni fisiologiche o genetiche, chissà, non mi capita spesso. Più spesso mi capita una cosa diversa, e in qualche modo opposta. Soprattutto se mi trovo a pranzare, nella pausa del lavoro o dello studio, in qualche ristorante parigino, di quelli piccoli ed economici, magari giapponesi o cinesi, dove devi infilarti a sedere dietro uno stretto tavolino, con i gomiti che sfiorano quelli dell’avventore accanto, ebbene lì, pranzando da solo, mi è possibile non solo sintonizzarmi sulle conversazioni in corso, quelle più facilmente percepibili nei tavoli vicini, ma da queste conversazioni la mia mente è completamente risucchiata, il mio stesso carattere, mi verrebbe da dire, ne è parassitato, non solo io ascolto, e ascolto con una straordinaria attenzione, come si ascolta la parola di un morente, l’ultima e solenne, di augurio o malaugurio, rischiando – come spesso accade – che se ne esca biascicata e indecifrabile un attimo prima del decesso. Così io ascolto tutto, e con elettrizzata attenzione, senza alcuna forma di discernimento, di selezione o filtro argomentativo, e dopo l’ascolto, o già nella continuazione di esso, comincio a elaborare in proprio, a fare mie certe preoccupazioni, certi giri di frase, un determinato vocabolario, e per alcune ore questi brandelli di conversazione altrui, amplificati e manierati, occupano il mio spirito, come succedeva, probabilmente, ad Ezechiele, con le parole divine, che non bastava memorizzare alla lettera, ma che si dovevano far scendere profondamente dentro di sé, perché in ogni organo e capillare, in ogni pensiero futuro e ricordo passato, governassero incontrastate.

Quindi io non trovo, nei miei quaderni, documenti come si converrebbe a un archivio dell’esistenza fuggente, non trovo riflessioni personali sulla morte dell’Occidente, sulle guerre del petrolio o su i miei riti masturbatori, né vi leggo descrizione degli arredi del ristorantino dove sono attavolato, con tutti i dettagli del menù, piatti e prezzi, e magari le neutre ma sempre pertinenti notazioni meteorologiche, no, vi abbondano invece conversazioni altrui malamente stenografate, senza nemmeno caratterizzazione psicologica dei loro autori, o ritratto ottocentesco degli abiti, delle capigliature, movimento degli occhi, pieghe del viso, grassezza o nodosità delle dita.

“Lui, il suo problema, è l’ego.”

“I migliori dj in questo momento si trovano a Londra o a Berlino, anzi ad Amsterdam.”

“È una tipa della mia età, che non è obesa, è carina invece, molto carina, è un po’ grossa, ma non obesa…”

“Gliel’ho ripetuto: non spendo prima di avere soldi, quando avrò i soldi va bene, andiamo assieme, guardiamo le tende, i rivestimenti del bagno, guardiamo anche il frigorifero, benissimo, lo prendiamo nuovo, io tiro fuori i soldi e compriamo, andiamo a Darty, non so, ma devi farmeli avere, lui invece vuole che io spenda, che io compri, senza avere i soldi, perché tanto dice arrivano, io gli dico: no, non arrivano, devono esserci, devo averli già, e quando li ho li spendo, e ci occupiamo del frigo, se ti mette in ansia il frigo, e del bagno, se non riesci più a farti la doccia con calma…”

“È un egocentrico, non egoista. È uno che ti invita fuori, davvero, ti offre il pranzo, è così, ma parla lui, parla solo lui, in genere dei suoi successi sul lavoro, di come riesce a mettere in difficoltà il suo capo, e poi ti parla dei lavori che ha fatto in passato, di come erano bene pagati, ma di come questo è pagato ancora meglio, e lui sa che può mettere in difficoltà il capo, a te non ti ascolta, non ti lascia parlare, ma t’interroga sulle ordinazioni, vuole sapere che cosa prendi come antipasto, e perché non bevi vino, ma poi ritorna subito a bomba: i clienti, tutti i clienti che lui è riuscito a procurare alla ditta, per quello il capo sta zitto, per quello si lascia mettere in difficoltà, a volta deve andarsene prima di bere il caffè, mi ordina il caffè anche se non lo bevo, mi saluta calorosamente, va a pagare, e corre fuori.”

“Non fa le diete, su questo è decisa, ha fatto troppe diete, dice, e poi ritorna sempre al punto di prima, ha un po’ ragione io credo, e non è che sia obesa, il volto poi è molto carino, è una persona briosa, magari sì, a volte sbaglia a mettersi le gonne, quando porta gonne troppo corte, non dico che debba portare sempre quei gonnoni che si mettono le donne che hanno le gambe orrende, che per altro lei non le ha orrende, sono grosse, più che grasse sono proprio grosse, basta una gonna al ginocchio, e l’effetto è già diverso, ma tu come la dici una cosa così? Glielo puoi dire?”

“Io sono d’accordo con lui: vuoi comprare? Compriamo! Ma i soldi li dobbiamo avere, li dobbiamo avere prima di comprare, e lui s’impunta, su questo insiste, e dice che non è vero, che questa è una mia fissazione, che i soldi arrivano, e uno non deve essere ossessionato dai soldi, ma lui è ossessionato dallo spenderli i soldi, deve spendere i soldi che arriveranno, ma quando? Gli dico io… Quando arriveranno i soldi che hai già speso!”

“Oggi i migliori locali sono a Berlino e ad Amsterdam. A Parigi non c’è più niente, è tutto finito. E più in generale è finita la musica dal vivo, la gente che sale sul palco, infila il jack nella chitarra e si mette a fare gli accordi agitando la testa. Nessuno ci crede più, nessuno ha più voglia di passare una sera a guardare un tizio, sul palco, che si agita, e che solo perché produce da sé la musica diffusa in sala vorrebbe che tutti lo guardassero, e lo guardassero beati, come se stesse realizzando un miracolo, quando invece suona e basta, è un tizio che sa suonare, come ne è pieno il mondo, oggi la gente va in un locale per essere lei il tizio importante, lei vestita in un certo modo e che balla in un certo modo, è una storia vecchia, certo, ma oggi ha preso il sopravvento, c’è il dj in un angolo della sala, è un tipo simpatico il dj, non produce lui la musica, lui si limita a captarla, c’è un sacco di musica nel mondo, sempre disponibile, su mille supporti, per mille canali, e lui ne prende un po’ è la spara in sala, e in sala quella musica diventa la musica di chi la balla, e la balla con i suoi vestiti e le sue maniere, il tizio che sale sul palco come fosse un piccolo dio e dev’essere venerato perché prende un microfono in mano e ci urla dentro, questo è finito per sempre, siamo tutti miscredenti, tutti atei, ognuno è il suo dio, e basta.”

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Il gesto critico

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di Luigi Bosco 

[L’intervento di Luigi Bosco sviluppa in parte in forma di appunti la sua comunicazione alla serata dedicata alla critica letteraria nell’ambito della rassegna Tu se sai dire dillo 2014. B.C.] “Tu se sai dire, dillo”: un invito – aperto, generoso, accogliente; ma anche una preghiera – una supplica, quasi una implorazione. Comunque lo si interpreti – invito o preghiera – questo verso – tra i più intensi e significativi di Mesa e, in generale, della poesia contemporanea italiana più recente -sintetizza in poche ma lucidissime parole la centrale intuizione mesiana della verità etica come orizzonte della scrittura poetica, quel luogo cioè “dove le parole, non potendo attingere alla verità, cercano la precisione, la sincerità” (1), poiché “l’ostacolo principale al dialogo non è la diversità di opinioni ma il “comportamento” (l’etica, appunto)”  . (2) È in tal senso, dunque, che il linguaggio -quando è poetico (3) – smette di essere una questione di comunicazione e comincia ad essere una questione di coscienza, cioè di ricerca di nuovi modi di dire per fondare nuovi modi dell’agire. L’azione fondante del linguaggio (poetico) avviene nella pronuncia, ovvero nell’atto dell’ interlocuzione che, pur nell’impossibilità di raggiungere una verità, individua la irrefutabile immanenza di un suo preciso momento dialettico: quello sacrificale (4) del dono, cioè il suo darsi nella contingenza della costruzione del senso. Mesa scrive: “tu se sai dire, dillo”, e poi – all’interno dello stesso verso, come se non fosse possibile pronunciarlo separatamente – aggiunge “dillo a qualcuno”. L’importanza di questo qualcuno è triplice:

  1. innanzitutto, la presenza di qualcuno sposta l’asse del dire dal piano del discorso– dove il linguaggio è finzione, cioè funzione di una socialità e di un senso da esso mediati e originati altrove, al piano del dialogo – dove il linguaggio è reale nella misura in cui esso è misura e genesi del senso e vincolo della socialità che in esso e per esso si produce;
  2. riportando il linguaggio alla dimensione che gli appartiene – e cioè al dialogo come luogo in cui la socialità si produce – la presenza di qualcuno contribuisce a demitizzare il senso (o la sua assenza), restituendolo alla contingenza della natura collettiva e perennemente in fieri che lo caratterizza;
  3. in ultimo, la presenza di qualcuno introduce un elemento di apertura che, impedendo alla speculare circolarità del binomio io-tu di intrappolarlo nel suo tautologismo, garantisce al senso la tridimensionalità di un orizzonte storico – cioè: prospettiva e tradizione.

È così – e solo così – che la verità come aspetto storico del nulla può passare in secondo piano e senza crolli a fare da sfondo al perenne susseguirsi di piccole effimere contingenze che, attraverso il linguaggio, si installano in una durata che è la loro narrazione.Dice Mesa “pur nell’incertezza assoluta sul senso delle parole, dovremmo almeno, ancora, cercare di pronunciarle come se un senso, ad esse, volessimo attribuirlo, cioè trasferirlo, nell’interlocuzione, affinché un dialogo possibile non si spenga subito nella vacuità di parole soltanto fàtiche … È come se, nell’interlocuzione, delle parole fosse rimasto soltanto l’involucro, il valore di scambio … ”.  Dunque, l’impegno del linguaggio poetico consiste anche nel recupero del valore d’uso delle parole, perché in esso possa compiersi l’atto fondativo del senso, cioè la sua epifania. Scrivere e leggere, allora, diventano atti speculari di una stessa umana necessità: comprendere. In tutto ciò è legittimo chiedersi che posto occupi la critica. In sé, il discorso critico, così come parlare, scrivere poesie, fare figli o visitare posti esotici, è un palese atto di irresponsabile arroganza, un far finta di non conoscere la propria infima e malcelata condizione umana. Volendo però approfondire, parto dalla domanda posta da Biagio Cepollaro durante l’incontro dello scorso 19 settembre: cosa significa leggere un testo poetico?La risposta a questa domanda potrebbe essere: farne esperienza – letteralmente. Quando si legge – soprattutto se si tratta di un testo scritto con il linguaggio poetico mesianamente inteso – succede sempre qualcosa, anche se si è soli, seduti in una stanza vuota. Quel qualcosa che succede durante la lettura – un’intuizione, una scossa, un impercettibile cambio delle proprie sinapsi – è l’esperienza del testo, cioè la sua fenomenologia. Non si tratta più, infatti, di scovare messaggi cifrati, essendo ogni tentativo di decifrazione una nuova cifratura: il senso dell’esperienza del testo ha acquisito priorità rispetto al significato della sua espressione. Di conseguenza, la critica ad un testo è, anche e tra le altre numerose cose, la traduzione (o, meglio, trasduzione) in termini nuovamente linguistici della esperienza, avvenuta su altri livelli, della sua lettura. In altre parole, il testo è il fatto e la critica il suo racconto (5) .Ora, così come qualunque prodotto del linguaggio, ogni discorso critico è, naturalmente e per definizione, anche politico – e perciò ético oltre che estetico. Ciò è vero non per l’equivoca corrispondenza tra bello buono e giusto. È invece la presenza dell’altro a caricare di responsabilità la sua natura pubblica, oltre al fatto che il linguaggio, come qualunque altro fenomeno, accade, conserva cioè un’empiricità che si manifesta nel suo essere causa di conseguenze di cui è direttamente responsabile.In tal senso, gli appunti di Mesa sul“Dire il vero” (6) sono validi anche – e a maggior ragione – per il discorso critico: poiché non esiste una verità ma solo una sua versione, esso pone le proprie basi sulla restaurazione del perduto rapporto dialettico tra il testo, chi lo ha scritto e chi lo ha letto. Solo attraverso il recupero della dialettica, cioè la non elusione del problema attraverso l’eliminazione di una delle sue parti, è ancora possibile garantire una produzione di senso, cioè una verità – quella etica, piena di conseguenze, della contingenza del divenire.

La responsabilità del discorso critico ricade inevitabilmente su chi lo formula, e la dimensione dei suoi obblighi è direttamente proporzionale alla portata dei suoi effetti, a loro volta determinati dal ruolo che chi lo pronuncia ricopre nella società che lo ascolta. Nel caso specifico, la responsabilità del discorso critico degli intellettuali ha una portata potenzialmente enorme, che è di natura economica oltre che politica – dunque ética ed estetica. In un certo senso, infatti, dire il vero è il lavoro degli intellettuali che la società paga, così come (molto riduttivamente) gli intellettuali e la società pagano perché gli autobus funzionino. La dimensione economica del dire il vero in ambito critico trasforma così il suo discorso in un campo di battaglia dove responsabilità ed interessi degli esiti si scontrano. In fondo, dal punto di vista culturale, l’intero Novecento – soprattutto nella sua seconda metà – è consistito per la gran parte nella spettacolarizzazione mediatica di questa lotta secolare di cui tutti conosciamo ad oggi gli esiti.

La perdita di appeal degli intellettuali – così come dei politici – sulla società è in parte e tra le altre numerose cose dovuta al non aver detto (mesianamente) il vero. Ciò ha prodotto due risultati importanti: da un lato, la responsabilità del discorso critico è stata trasferita direttamente all’opera, che si è caricata così di colpe che, non appartenendogli, la costringono più o meno implícitamente all’interno di un conformismo castrante o di un anticonformismo ludico che non portano da nessuna parte; dall’altro lato, il non dire il vero del discorso critico è scaturito in una mancata presa di posizione che, lasciata libera – anzi, vuota – non ha potuto impedire lo sviluppo incontrollato del fenomeno dell’autodidattismo e del DIY (7)  in ambito culturale. Fenomeno che, si badi bene, non è un male di per sé, ma non è nemmeno un dire il vero; a ciò va inoltre aggiunto il fatto che l’altro come elemento attivo del dialogo scompare mentre tutto rientra nella speculare e tautológica circolarità del binomio io-tu dove il do ut des è la regola che evita lo spreco di energie nella battaglia tra responsabilità ed interessi – a favore degli interessi. In altre parole: un gran vociare dove nessuno sa dire più nulla a nessuno e alla fine non succede mai niente.

La cosa più interessante del concetto di verità ética formulato da Mesa è la forza attraverso cui questa espressione esige di riconoscere, ammettendolo nel momento stesso della sua pronuncia, la natura tangibile di un concetto tendenzialmente relegato all’ambito metafisico. In tal senso, e con gli stessi fini, mi piacerebbe cominciare a parlare di gesto critico piuttosto che semplicemente di critica, affinché il concetto di critica includa con forza e indissolubilmente anche il suo movimento, la sua fatticità. Perché discutere di lirici ed antilirici è importante e conoscere la pronuncia fonética esatta di Camus non ha prezzo. Però, perdio, c’è bisogno che accada qualcosa, che possa finalmente accadere davvero qualcosa.

Note

(1) Ad esempio. La scoperta della poesia

(2) Tre lemmi

(3) E’ importante sottolineare il fatto che si stia parlando di linguaggio poetico e non di poesia. Un dettaglio forse sottile, ma che manifesta la secondarietà del discorso sui generi letterari.

(4) Nel senso di sacrum facere, rendere sacro

(5) Il racconto di un fatto, cioè la sua narrazione, è ciò che garantisce una durata all’effimero riscattandolo dal divenire e consegnandolo alla storia. È, cioè, il processo produttivo del senso.

(6) Dire il vero. Appunti

(7) Do It Yourself