Home Blog Pagina 227

Todo modo: Rosaria Capacchione

6

orchestra

La nota stonata

di

Rosaria Capacchione

Siamo gente strana, noi giornalisti. Parliamo, discutiamo, prevediamo catastrofi che gli altri non riescono neppure a immaginare; puntiamo l’indice, noi illuminati, contro la retorica del mafioso buono che non c’è più, perché in effetti il mafioso buono è una categoria esistente solo nella vulgata, nel racconto delle gesta dei Beati Paoli che nessuno legge più da almeno cent’anni. Denunciamo, noi cantori del divenire della realtà, l’avvento della borghesia mafiosa che ha soppiantato i vecchi boss con la coppola storta e la lupara; e poi, quando ci scontriamo con un vero borghese mafioso, con un professionista prestato alla mafia (o, se vi pare, con un mafioso prestato alle professioni), non lo riconosciamo.

Lo abbiamo lì, davanti a noi, seduto in un’aula di tribunale, che osserva con un mezzo sorriso stampato sulle labbra strette e sottili le fasi finali del processo, ma per tributargli la patente di mafiosità vorremmo che fosse armato e che parlasse lo slang casalese. Scriviamo e diciamo che le mafie hanno cambiato veste ma in realtà ci piacerebbe che indossassero quella vecchia, così rassicurante con le sue macchie di sangue e il suo visibile potere di minaccia. E quando una sentenza condanna l’avvocato Michele Santonastaso e assolve due capiclan come Francesco Bidognetti e Antonio Iovine, ecco che la stessa appare distonica, stravagante, addirittura donabbondiesca se non proprio omissiva. E ci straccia le vesti per la giustizia negata.

Non so cosa il tribunale scriverà per motivare l’insolito dispositivo, che ha chiuso una vicenda giudiziaria iniziata quasi sette anni fa, alla vigilia della più tragica stagione dell’epopea casalese. Non lo so e sono molto curiosa di saperlo, se non altro perché quel processo riguarda anche me, giornalista e parte offesa, giornalista (ora prestata al Parlamento) e testimone di quei fatti terribili, diciotto morti e diciotto feriti in una manciata di mesi: tutti innocenti, tutti funzionali a una disperata strategia di sopravvivenza e a una visibile e rumorosa rivalsa contro gli ergastoli, il carcere duro, le confische che avevano affamato il clan e le famiglie degli affiliati. Dovevo esserci anche io nell’elenco delle vittime? Non lo so, so che non ci sono, probabilmente perché lo Stato decise di proteggermi. Lo fece all’indomani di quello stranissimo episodio che è stato oggetto del processo, chiuso il 10 novembre del 2014 nell’aula 116 del Tribunale di Napoli. Cioè, 2433 giorni dopo la lettura di una istantanea di remissione degli atti, una ricusazione fatta, durante un’udienza del processo al clan dei Casalesi che va sotto il nome di Spartacus, dall’avvocato Michele Santonastaso. Che, subito dopo, annunciò la rinuncia alla difesa del suo cliente più importante, Francesco Bidognetti. Lesse ottantuno pagine di veleno sfuso, poca tecnica e molte insinuazioni, accuse, calunnie. Fango, insomma, mascherato da atto processuale.

todo
Un capitolo era dedicato alle mie gesta di giornalista prezzolata dalla Procura: bontà sua, sempre meglio che essere prezzolati da una banda di assassini. Oggettivamente, un capitolo diffamante. Ma io, da giornalista, mi impressiono assai poco dinanzi a una diffamazione. Il fatto è che in quelle righe era raccontata un’altra storia, quella dell’indagine abortita (nel 2004) su un giudice della Corte di Assise di Appello di Napoli che aveva venduto un suo terreno a un camorrista di Casapesenna, che non si era astenuto dal giudicarlo, che lo aveva assolto ribaltando la sentenza di primo grado. La storia era proseguita due anni dopo, con lo stesso giudice che un’altra volta stava processando lo stesso imputato e che aveva dovuto rinunciare in seguito a una interrogazione parlamentare che ricapitolava l’intera vicenda. L’atto di sindacato ispettivo aveva come fondamento un articolo che avevo scritto, in beata solitudine, quando la prima vicenda era stata oggetto di una ispezione ministeriale. Neppure l’arrivo a Napoli della delegazione dei supervisori di via Arenula aveva convinto i miei prudentissimi colleghi della necessità di prestare un po’ di attenzione alle vicende e ai processi del clan dei Casalesi.

Il processo Spartacus, concluso in primo grado nel 2005, era destinato alla stessa sezione del giudice ispezionato, Pietro Lignola. La IV sezione. Proprio quella che poi l’ha trattato. Ma fu deciso, forse anche a causa delle polemiche, che venisse assegnato a un altro collegio. Anni dopo, a maggio del 2014 (sei mesi fa), un altro dei capi del cartello casalese, Antonio Iovine, ha iniziato a collaborare con la giustizia e ha raccontato di aver pagato l’avvocato Michele Santonastaso perché comprasse due sentenze favorevoli in altrettanti processi di omicidi da lui effettivamente commessi e per i quali era stato già condannato in primo grado. Le due sentenze di assoluzione effettivamente ci sono state e portano entrambe la firma del giudice Lignola. Che sia stato corrotto oppure no non è ancora cosa nota.

Quando lessi i riferimenti al giudice Lignola nelle righe della ricusazione ebbi davvero paura. Compresi che l’avvocato Santonastaso aveva scelto quella strada per indicare al mondo delle carceri i responsabili del mancato aggiustamento del processo Spartacus: Roberto Saviano aveva dato notorietà internazionale a un clan che prima era quasi sconosciuto; Federico Cafiero de Raho aveva tenacemente sostenuto la pubblica accusa e dato voce ai pentiti; Raffaele Cantone, che di Spartacus non si era mai occupato, aveva colpito al cuore alcune ramificazioni che sembravano invincibili e, soprattutto, aveva lavorato con successo nelle indagini sui consorzi di bacino dei rifiuti e sulle società miste infiltrate dal clan. Io ero quella che aveva costretto il garantista giudice Lignola a non occuparsi del processo più importante.
Mi aveva messo al muro, chiunque avrebbe potuto sparare.

Lo pensai quel giorno, il 13 marzo del 2008. Lo pensai per qualche settimana. Ma siccome non accadeva nulla iniziai a rassicurarmi. Certo, mi avevano dato la scorta, ma io rivolevo la libertà, che è un’altra cosa. Poi, a maggio, iniziò la stagione delle stragi.
Non mi chiesi, allora, se l’istanza di ricusazione fosse stata concordata con Francesco Bidognetti e Antonio Iovine, che l’avevano firmata. L’ho sempre considerata qualcosa di molto diverso da una minaccia: cioè, una sentenza irrevocabile Un’istanza utile al clan ma anche all’avvocato Michele Santonastaso, che magari aveva promesso molto più di quanto avrebbe potuto mantenere. E che lavorava in sinergia con i suoi clienti – nell’altro processo in cui è imputato di associazione mafiosa sono ricostruite decine di episodi che lo vedono nella veste di stratega del clan ma in funzione quasi autonoma, come se fosse il capo dell’ufficio legale del clan – ma senza svelare i trucchi del mestiere. Ha raccontato Antonio Iovine di non avergli mai chiesto a chi andassero i soldi necessari a comprare le sentenze di assoluzione perché non era affar suo: lui pagava un servizio acquistato da un professionista efficiente.

Ecco, il punto è questo. Non so se la sentenza di lunedì sia giusta o sbagliata, riduttiva o soltanto rigida. So, invece, che nel dispositivo ha centrato un obiettivo nuovo punendo solo e soltanto il colletto bianco, il professionista compartecipe delle finalità mafiose del clan ma non vincolato dall’obbligo di rendicontazione preventiva. Se così fosse, la decisione del giudice Aldo Esposito avrebbe una straordinaria portata innovativa, specchio reale degli strumenti delle nuove mafie. Se così fosse, come io l’ho vissuta.

Questo articolo prezioso per capire il contesto della sentenza di Napoli e comprenderla come esemplare per l’ascesa dei nuovi “professionisti della mafia”, Rosaria Capacchione l’ha scritto appositamente per Nazione Indiana. Ne siamo onorati e la ringraziamo con affetto.

Concordi a Kanop*

13

di Francesca Canobbio

 video e musica di Bob Quadrelli

https://www.youtube.com/watch?v=j4tLcyWgLfw&feature=youtu.be&list=PL38E5852AAB765058

Tu

Tu 

tacito tabù
trionfo triste su un tramonto tremante

travolgente, trasparente.

Sulla terra il tintinnio dei tuoi tacchi

Per Rosaria e Roberto

2

Minacciosità mafiosa (quasi) accidentale di un avvocato

La legge

Un tempo ormai lontano ci fu una celebre sentenza che certificò un “malore attivo” quale causa del volo accidentale fuori dalla finestra di un ferroviere anarchico mentre lo stavano interrogando alla questura di Milano.
Pochi giorni orsono un’altra sentenza controversa non decretava – per fortuna – che il malcapitato Stefano Cucchi era deceduto per autolesionismo e proprio rifiuto a alimentarsi, bensì mandava tutti assolti perché non ci sarebbero state prove sufficienti per stabilire le responsabilità personali dei tanti coimputati nella sua morte.
La sentenza di ieri per certi versi forse somiglia più a quella sul caso Pinelli. Contiene aspetti così stridenti non solo con il temibile buonsenso ma anche con la logica più elementare da farla apparire molto meno tragica di quella ma imparentata da un sentore di assurdo.

In dieci contro undici

0

di Lorenzo Mari

Che si tratti di memoria futbologica o meno, ci si deve chiedere, a un certo punto, se “si gioca meglio in dieci contro undici”; in campo cinematografico, poi, non si tratta di evocare La grande bellezza quanto, forse, L’uomo in più; Tradimento e perdono, infine: non per fischiettare la canzone di Venditti, ma per cogliere le tensioni contrastanti, nel parlare di “fuga”, da parte di chi ha scritto La caduta dei gravi. Roma, gli anni Novanta e, appunto, la fuga (Nerosubianco, 2014)…

La guerra alla guerra di Leonhard Frank

2

di Leonhard Frank

frank_cover_def_l'uomo è buono (1)_rid(con il gentile accordo dell’editore, pubblichiamo l’incipit de “I mutilati di guerra”, l’ultimo fortissimo racconto della raccolta “L’uomo è buono” (1917),  pubblicata ora da Del Vecchio assieme al racconto lungo “L’origine del male” (1915), il tutto nella traduzione di Paola del Zoppo)

La “cucina del macellaio” è un ambiente molto ampio, due volte più lungo che largo, e dal tetto così basso che il capitano medico, nel suo lungo camice operatorio irrigidito da tutto il sangue umano vecchio e nuovo, può toccare il soffitto con il palmo della mano.

“Un cinema non potevano mettercelo, qui. No, un cinema no”, continua a venirgli in mente. Perché, in fin dei conti, tutte le sue aspirazioni si concentrano nell’unico, inesauribile desiderio di potersi sedere di nuovo in pace in un cinema.

Sul pavimento di lastre di pietra, un pagliericcio accanto all’altro. Su ogni pagliericcio un uomo; su ogni pagliericcio, quello che di un uomo rimane, coperto fin su al mento.

Le mani segate via, le braccia, i piedi, le gambe, galleggiano nel sangue tra ovatta e pus, in una tinozza trasportabile che viene svuotata ogni sera, alta un metro e larga due, posta accanto alla porta nell’angolo. Ordine impeccabile. Non c’è una pagliuzza nelle corsie laterali larghe appena venti centimetri né nella corsia di mezzo. Cinque file di pagliericci.

Il tavolo operatorio coperto di latta zincata sta nella corsia di mezzo.

Si chiudono le finestre. E tre minuti dopo, la macelleria è di nuovo pregna di quel miasma greve e caldo di ferite purulente, cancrenose, di pus, di sangue rappreso, di sudore di morte, di esalazioni del dolore, di acido fenico e di lisoformio, così che a un uomo sano e forte, abituato all’aria fresca, entrando, dopo un minuto girano i colori davanti agli occhi e vacilla il terreno sotto i piedi. Nella cucina del macellaio, poco dietro il fronte, si prestano i primi soccorsi. Rapidamente. Non si perde un istante. Qui si amputa. Nella cucina del macellaio, direttamente dal campo di battaglia, vengono trasportati i feriti che necessitano amputazioni. L’attesa di un quarto d’ora può significare la morte.

Gli amputati che non sono svenuti non dormono, eppure giacciono immobili, completamente inerti e muti, due bulbi febbrili e lucenti nel volto, sono perduti, e già se ne vanno ondeggiando.

Gli altri urlano, si tirano su, si piegano e si contorcono, piangono come gattini appena nati, ridono nel delirio della febbre oppure muovono i corpi mutilati lentamente, ma senza interruzioni.

La vita dei più fortunati si compone di un continuo svenire e tornare in sé e svenire di nuovo. E la puzza stagnante contribuisce. Non c’è molta luce nella cucina del macellaio.

Il capitano medico, dopo una o al massimo due amputazioni deve uscire all’aria aperta perché la sega o il coltello non gli cadano di mano durante l’amputazione seguente.

Ogni giorno vengono portati fuori da quattro a sei morti. Paglia fresca, lenzuola fresche. Feriti freschi. Non una pagliuzza nelle corsie. Ordine. La tinozza nell’angolo si riempie. E la sera, alle sei, puntualmente, viene svuotata.

I pagliericci stanno perfettamente allineati uno accanto all’altro.

Il capitano medico sega.

Nella cucina del macellaio non entrano giornali. Lì si soffre. Lì non ci si interessa alle notizie di vittorie né alle notizie menzognere. Lì ci si interessa alla gamba segata che all’istante l’infermiere ha gettato nella tinozza. Si vuol riavere la propria gamba. Riprenderla in mano ancora una volta. Osservarla, osservarla con attenzione.

– La mia gamba! È la mia gamba. La mia! La mia gamba! – Prima grida che gli ridiano la gamba, poi implora: – Dammela. Per favore, dammela. Dalla a me.

. . .

. . .

 

Remarque, in “Niente di nuovo sul fronte occidentale” è sciroppo di lamponi in confronto a “L’uomo è buono”

                                                                                                                                                                         F. Glauser

 

In Europa ci sono due uomini, Barbusse e Frank, che provocano questo fenomeno, meraviglioso e terribile, di simpatia umana. Fanno sì che uomini e donne che vivono in luoghi molto differenti possano comprendersi nella distanza, perché si riconoscono uguali nello scrittore: uguali nei loro impulsi, nelle speranze, negli ideali.
                                                                                                                                                                            Roberto Arlt

 

(La breve biografia di Frank nel risvolto di copertina del volume, molto ben curato: “Nasce a Würzburg nel 1882 da una famiglia umile. Frequenta la severissima scuola evangelica, in una regione e una città di storia e cultura radicalmente cattoliche, e dopo il diploma di artigiano si iscrive all’Accademia di Belle Arti di Monaco per diventare pittore. Nel 1910 interrompe la propria formazione per recarsi a Berlino. Frank è una presenza costante nei Caffè e nei circoli artistici, ma non vuole essere parte di nessuna cerchia: ritiene che ogni sistema sia finalizzato al mantenimento del potere e che in ogni cerchia si rischino dinamiche di sopraffazione. Riconosciuta la propria vocazione, dopo alcuni brevi racconti, dà alle stampe il suo primo romanzo, che vince subito il Premio Fontane. “Pacifista della prima ora”, si rifugia in Svizzera durante la Prima Guerra Mondiale, dove stringe amicizia con Alvarez del Vayo e frequenta gli artisti del Dada e gli scrittori engagé. Tornato in Germania, è controllato dal regime nazionalsocialista e costretto di nuovo all’esilio. Nel 1933 si sposta in Inghilterra, poi in Francia, dove viene internato neicampi di lavoro, poi finalmente riesce a fuggire in America nel 1940. Si stabiliscea Hollywood, scrive per la Warner Bros. E frequenta Thomas Mann, Franz Werfel e gli intellettuali tedeschi ormai di casa in California. Infine si sposta a New York e poi torna in Germania, nel 1950. Ma l’accoglienza non è gloriosa quanto meriterebbe, e decide di spostarsi a Berlino Est, dove può contare sull’apprezzamento dell’amico Johannes Becher. Muore a Monaco nel 1961.”)

Dialoghi con Georges Corm

0

corms [Georges Corm è, oggi soprattutto, una lettura necessaria. Tra le poche in grado di abbinare visuale storica, analisi politica e centralità dei fattori sociali e economici nella comprensione di quella regione del mondo, il Medio e Vicino Oriente, che sembra intellegibile, nella rappresentazione dominante, solo attraverso categorie generiche e totalizzanti come la religione islamica, o caratteristiche di tipo etnico che trascenderebbero ogni temporalità storica. La necessità di leggere Corm nasce non solo dall’importanza di comprendere ciò che accade non troppo lontano dall’Europa, e che vede l’Europa, comunque, come uno dei fattori di condizionamento di quell’accadere, ma anche per vigilare contro i tentativi, nel nostro paese, di strumentalizzare una certa immagine del Medio e Vicino Oriente, per alimentare paura e odio nei confronti d’immigrati d’origine araba e di religione musulmana.

SCRITTORI (elenchi # 2)

21

di Giacomo Sartori

DSCN1039_rid

 

 

 

 

 

 

 

scrittori dimenticati

scrittori dimenticandi

scrittori da dimenticare

scrittori dimenticoni

cinéDIMANCHE #04 FRANK PERRY “Un uomo a nudo”

5


 

Cinevisioni

di

Francesco Pecoraro

Dell’uomo nudo di Cheever/Perry/Pollack la cosa che ci crea continuo disagio fino alla fine del film e oltre (non ho letto il racconto da cui è tratto) è esattamente il suo essere nudo e bagnato tra gente estranea e implacabilmente vestita, se si eccettua una ragazzina che lui cerca di coinvolgere, senza riuscirci, nella sua impresa dichiaratamente esplicitamente eccessivamente metaforica. Il film (è del 1968, ma in gran parte girato nel ‘66), in sé difficilissimo da fare, non è invecchiato bene, eppure conserva una forza misteriosa, un’aderenza al presente che fa male. Programmaticamente implausibile, manca di fluidità, ha evidenti difetti tecnici, salti di montaggio, recitazione quasi sempre talmente pessima (ho visto l’edizione doppiata, il che certamente non aiuta) che ti viene il dubbio sia intenzionalmente straniata. Insomma in certi momenti ti dici che forse è soltanto un film ambizioso e non riuscito. Ma quell’uomo che esce dal crollo totale della propria vita e si aggira per la contea, nudo per tutto il tempo, nell’indifferenza dei vicini (che sanno di lui più cose di quante ne verremo a sapere noi), quell’uomo sgusciato e umido, arreso e fuori di testa, che non ostante la prestanza fisica si torce nella polvere come un mollusco, sempre più umiliato, è figura potente e crudele, che ti stana come un incubo ricorrente. La violenza sorda della società americana dell’epoca, per niente dissimile dalla nostra contemporanea, si vede nel disprezzo progressivamente crescente che l’uomo nudo cumula attorno a sé, mentre il freddo e la solitudine si fanno più forti e comincia a piovere.

 

La chute

di

Francesco Forlani

« Ce qu’il y a de plus profond en l’homme,
c’est la peau. En tant qu’il se connaît ».

Paul Valery

Ha ragione lo scrittore francese a dire che nulla v’è di più profondo nell’uomo della sua superficie, della pelle. C’è una contiguità formale tra le due espressioni francesi, à fleur de peau, a fior di pelle e  à fleur d’eau ovvero qualcosa che affiora in superficie, e tale appartenenza permette di legare concettualmente i tre diversi titoli dati allo stesso film di questa odierna puntata di cinéDIMANCHE: l’originale americano The swimmer, il francese Le plongeon (il tuffo) e l’italiano Un uomo a nudo; la superficie, la profondità e la pelle. Il film Un uomo a nudo (1968), diretto da Frank Perry, è tratto da un racconto di John Cheever, The swimmer pubblicato nel 1964 (The New Yorker ) dove si racconta di Ned Merrill, (interpretato da uno strepitoso Burt Lancaster) impresario teatrale, che dopo un incontro  in casa di amici decide di tornare a piedi e in costume da bagno alla sua villa, bagnandosi in tutte le piscine che incontrerà per strada.

Gli sembrava di vedere, con un occhio da cartografo, quella catena di piscine, quel corso d’acqua quasi sotterraneo che si snodava attraverso la contea. Aveva fatto una scoperta, aveva dato un contributo alla geografia moderna, e quel corso d’acqua l’avrebbe chiamato Lucinda, col nome di sua moglie. (…) Per primi venivano i Graham, gli Hammer, i Lear, gli Howland e i Crosscup. Poi avrebbe attraversato Ditmar Street fino alla casa dei Bunker, e da lì, dopo un breve trasbordo, sarebbe arrivato alle piscine dei Levy e dei Welcher, e alla piscina pubblica dei Lancaster. Seguivano poi le piscine degli Halloran, dei Sachs, dei Biswanger, e quelle di Shirley Adams, dei Gilmertin e dei Clyde. 
( The swimmer in The Stories of John Cheever. Traduzione di Marco Papi, Roma, Fandango, 2000 )

Non volendo anticipare la trama del film e così rivelare il suo dispositivo narrativo, mi limiterò a stilare una sorta di Abécédaire molto personale con la speranza che possa indurre a una qualche riflessione quanti già conoscono il film e  alla visione coloro che invece  avranno la fortuna di vederlo per la prima volta. Perchè si ama questo film? Probabilmente la risposta è nelle parole che la produzione  utilizzò nel trailer per il lancio dello stesso:

The famed John Cheever short story appeared in the New Yorker and people talked. Now there will be talk again. When you sense this man’s vibrations and share his colossal hang-up . . . will you see someone you know, or love? When you feel the body-blow power of his broken dreams, will it reach you deep inside, where it hurts? When you talk about “The Swimmer” will you talk about yourself?”.

Quando si parla di the swimmer in realtà si parla di noi stessi. I brani in italiano e in corsivo  fanno parte del racconto di Cheever citato in apertura.
 

A

Alcol
 
“Era una di quelle domeniche di mezza estate in cui tutti se ne stanno seduti e continuano a ripetere: “Ho bevuto troppo ieri sera.” Così cominciano il racconto e il film. Ad ogni nuova tappa la frase più ricorrente è “Su, vieni a bere qualcosa.” Quando per chiare ragioni non scatta l’invito è lo stesso Ned a prendere l’iniziativa. L’altra battuta del protagonista è “come with me” rivolta a ciascuna delle donne incontrate nel proprio assurdo viaggio e le sole in grado di dare una svolta alla storia.
 
“Dopo aver percorso a nuoto la vasca, prese un bicchiere e si versò da bere. Era il quarto o il quinto bicchiere che beveva, e aveva già percorso a nuoto quasi la metà del fiume Lucinda.”

 

C

Crawl
 
“Non era uno stile adatto alle lunghe distanze, ma la pratica domestica del nuoto aveva imposto a questo sport alcune consuetudini, e in quella parte del mondo era convenzionale quel tipo di crawl.”
 
Si ha notizia del crawl, da noi conosciuto come stile libero, dal 1844 a Londra, dov’era praticato dai nativi americani, più particolarmente dalla tribù indiana degli Anishinaabe. Burt Lancaster ha cinquantadue anni quando viene girato il film e pur avendo una grande esperienza sportiva non sapeva nuotare al momento della scrittura; fu costretto a prendere lezioni all’UCLA da Bob Horn, notissimo allenatore di nuoto.
 
To Crawl – in francese ramper [ʀɑ̃pe]
 
1. [animal, personne] strisciare . Ramper devant qqn (figuré) strisciare davanti a qn
 
2. [plante] arrampicarsi.
 
In italiano viene da pensare a rampante agg. e s. m. [part. pres. di rampare]. – In senso fig., riferito a persona ambiziosa, decisa ad affermarsi e a fare carriera: un giovane dirigente, un politico r.; usato assol., come sost.: è un r. (o una r.) capace ma senza scrupoli.

 

R

Rampa o scala
 
Ned Merrill: On a scale of one to ten, how good is he in bed?
 
Chiede Ned non senza curiosità alla ex amante.
 
“Si issò sul bordo opposto della piscina, lui che non usava mai la scaletta, e s’incamminò attraverso il prato.” La reiterazione dei due gesti, tuffo e uscita dalla vasca facendo leva sulle proprie braccia stabilisce un nesso profondo con il ruolo del personaggio nell’economia della scalata sociale e nell’ascesa al successo.
tumblr_l7reeul1MI1qz8zcro1_500
“Si tuffò nella piscina e l’attraversò a nuoto, ma quando tentò di issarsi sul bordo, si accorse che non aveva più forza nelle braccia e nelle spalle, e pian piano raggiunse la scaletta e la salì.”

 

O

Ombelico
 
Durante una sua incursione in una delle piscine di una coppia di amici scopre dalla moglie dell’operazione grave subita dal marito.
 
“Il suo sguardo si spostò dal volto di Eric al suo addome, dove vide tre pallide cicatrici suturate, due delle quali lunghe almeno una trentina di centimetri. L’ombelico era scomparso, e Neddy si domandò che sensazione avrebbe provato una mano nel toccare i propri attributi nel letto, alle tre del mattino, e nel sentire una pancia senza ombelico, senza legami con la nascita, un’interruzione nella successione della specie?”

 

M

Musica
 
Marvin Hamlisch che iniziò la sua carriera di compositore proprio con “The Swimmer” racconta di come avesse scelto il “tema” subito dopo aver letto il racconto.
 
The score was taking on a big, rather symphonic sound. So I wanted a massive tone. I wanted the audience to feel yearning and anguish, as each pool stop peels back part of the hero’s life, revealing him as a fraud and a failure. I called on the size and power of a symphony orchestra to convey this man’s pain.

 
La musica che sembra contenere all’inizio il punto di vista di Ned e quello del mondo, della natura che lo circonda, man mano che ci si addentra nel racconto è come se si distaccasse dalla soggettiva per relegare il protagonista in un mondo che dimora al di fuori della realtà.

 

N

Natura
 
Per tutta la durata del film la natura, verrebbe da dire il vero fiume rispetto a quello immaginato da Ned, fa da controcanto al flusso vitale del protagonista. I paesaggi, i rumori di fondo, determinano un vero e proprio piano sequenza parallelo e in competizione con quello interpretato e vissuto da Burt Lancaster.
223996.1020.A
Il fotogramma che più rappresenta questa contrapposizione è la corsa, sfida tentata e inevitabilmente persa con un cavallo lungo la staccionata.

 

S

Swimmer
 
Considerato da Burt Lancaster come il suo migliore film, The Swimmer è rimasto inedito in Francia per più di trent’anni. La prima uscita in sala è stata nel novembre del 2010. Il racconto di John Cheever, di circa una dozzina di pagine faceva parte di un manoscritto che ne conteneva all’origine ben 150. The swimmer, accolto assai tiepidamente dal pubblico e dalla critica al momento della sua uscita è oggi da molti considerato come un cult-movie. Celebre la battuta del protagonista: i’m swimming home

 

L

Lucinda
 
Ned Merrill: I’ll call it the Lucinda River, after my wife.
Peggy Forsburgh: That’s quite a tribute.

 
Lucinda, il nome del fiume di piscine immaginato dal protagonista.Tale nome venne creato nel 1605 da Miguel de Cervantes per un personaggio del suo Don Chisciotte della Mancia (cap XXIV).

 

N

Ned
 
Il nome Ned viene dal tedesco ed, beni, ricchezze, e ward, guardiano. Il viaggio di Ned è possibile interpretarlo come quello ben più famoso di Edmond Dantès, totalmente rovesciato.
 
If there is anything you want, anything at all. Come to me. I will be your guardian angel.

 

Q

Quotas
 
Kevin Gilmartin Jr.: What’s the – What’s the matter?
Ned Merrill: I thought you were gonna dive!
Kevin Gilmartin Jr.: You thought I was gonna dive? There’s no water in the pool!
Ned Merrill: Well… So long again.

*

Ned Merrill: You see, if you make believe hard enough that something is true, then it *is* true for *you*.

*

Donald Westerhazy: Where have you been keeping yourself?
Ned Merrill: Oh, here and there. Here and there.

*

Ned Merrill: We’re all gonna die, Shirley. That doesn’t make much sense, does it?
Shirley Abbott: Sometimes it does. Sometimes at three o’clock in the morning.

*

Mrs. Hammar: Who gave you permission to use the pool?
Ned Merrill: I’m Ned Merrill.

*

Ned Merrill: What did I do to you, Shirley? I’m sorry for whatever I did.
Shirley Abbott: [Cynically] You did the usual red-blooded married man thing. You took me out to lunch and gave me that lecture about the duties of a father and a husband. Oh, it’s considered a classic by now, isn’t it? Reprinted every year in the Reader’s Digest?
Ned Merrill: I don’t remember.

 

P

Pubblicità [Levi’s citazione]

 

 

cinéDIMANCHE
 

cdNella pausa delle domeniche, in pomeriggi verso il buio sempre più vicino, fra equinozi e solstizi, mentre avanza Autunno e verrà Inverno, poi “Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera“, riscoprire film rari, amati e importanti. Scelti di volta in volta da alcuni di noi, con criteri sempre diversi, trasversali e atemporali.

 

Ballata a due voci

6

Di Maria Concetta Petrollo (C) e Daniele Ventre (D)

 

A Carla Pinto

C. Nasconditi tacendo a mosca cieca
che dalle mie non ti potrai sbrogliare
parole che si fermano in trovare
deliziami scappando a mosca cieca

D. E forse la delizia del tacere,
non fosse la delizia della voce
avrebbe senso, si potesse avere
qualche spugna d’aceto a pel di croce,
o se non altro ci restasse cieca
la fiducia nel tu che sulla via
ti chiama con un fischio e poi ti avvia
di corsa al bivio d’una strada cieca.

C. Che se non parli io ti corrispondo
con piana lingua che di te si impingua
rabdomante di te per suono sondo
segno che sogno o verità distingua
al fischio che mi spinge in danza cieca
per senso e per odore che mi guida
per ritmo che mi preme e che mi affida
a morra a taglio a sasso in acqua cieca

D. E se non fosse poi altro che un gioco,
questo che qui per verso ti rimando,
questo che adesso in verso ti rigioco,
questo che verso, questo che qui spando
come la forma della forma cieca
in cui torno misura per misura
con l’ovvia eco del tempo che si oscura
oltre la strada della fuga cieca…

C. Ma se il silenzio ha il suono del respiro
e il passo quello del mio fiato muto
l’ansito del cercare è ciò che aspiro
e il tuo tacere è specchio a un grido acuto
e se ti mostri è in una morte cieca
né risorgi se non in passo breve
il vapore del fiato è seme e neve
che feconda il mio ventre in terra cieca.

D. Il suono del respiro nel silenzio
ritorna nel rimosso del sussurro,
se il buono del calore e dell’assenzio
è l’assenso del buio in cui sussurro
la mia preghiera nell’attesa cieca
adesso che non so che piega il tempo,
adesso che la notte nel frattempo
chiude al sonno la sua ragione cieca.

C. Sussurrami dei tuoi silenzi esperti
che esperienza di vuoto batte forte
e il pieno di mia vita è ciò che avverti
così ch’io tasti a un sapore di morte
il tuo smarrirti nella psiche cieca
e se mi chiedi dove il tempo pieghi
ti dirò che rincorre ciò che neghi
che per amor di te fui fatta cieca.

Muro di Berlino, materiali per la comprensione di un crollo

4

[ Materiali per la comprensione di un crollo:
1) Un articolo di Alessandro Leogrande (2009, da uno speciale di Rassegna) sul dissenso nell’Europa Orientale. A metà degli anni settanta, dopo la repressione della Primavera di Praga e del ’68 polacco, prese forma sempre più radicalmente l’idea secondo cui non può esserci un “totalitarismo dal volto umano”. L’esperienza fondamentale del dissenso in Polonia.

VISIONI in TRALICE [VIII] «… dimenticanze, e lunghi oblii.»

28

di Orsola Puecher

ballerine
Le ho sempre tenuto le mani. Che belle carezze… che mani calde hai… Le scaldo le mani. Belle e morbide dei port de bras aggraziati.
– Portami un ago.
– Un ago?
– E del filo… molto filo…
– Che cosa devi cucire?
– Dobbiamo cucire, vieni, tutta questa tela bianca…
   La vedi quanta tela…
   Dobbiamo cucirla.
   Tutta.
   Aiutami a infilare l’ago…

 
Poi in questa visione di candore e di punti vicini e regolari si è assopita e se ne andata.

 

[ dove sei? ]


“L’Orfeo: favola in musica da Claudio Monteverdi” [1607]
III Sinfonia “Possente spirto e formidabil nume” Scena I
III Sinfonia “Ei dorme, e la mia cetra” Scena I

Da Lete

Meraviglia geotermica
Iceland – Blue Lagoon [via Google Translate]
 
Una visita al centro geotermica è una parte importante di vostro soggiorno. Gli ospiti rinnovare il loro rapporto con la natura, godersi la bellezza del paesaggio e godere di respirare l’aria pulita e fresca mentre vi rilassate in acqua di mare calda geotermica. La temperatura dell’acqua è 37-39 ° C / 98-102 ° F. La laguna contiene sei milioni di litri di acqua di mare geotermici, che si rinnova ogni 40 ore. Campionamento regolare dimostra che “comuni” i batteri non prosperano in questo ecosistema, così detergenti aggiuntivi come il cloro non sono necessari. Acqua di mare geotermica è una parte di un Ecocycle in cui il lavoro e la scienza della natura in armonia. L’acqua del mare ha origine meter/6562 2000 m sotto terra dove viene riscaldata dalle forze naturali della Terra. A questa profondità la temperatura è 240 ° C/464 ° C e la pressione è di 36 volte la pressione sulla superficie terrestre.

canto-sesto

Dell’Eneide di Vergilio
del commendatore Annibal Caro
LIBRO VI

ronzio etimo-pecchia

 
ape [s. f.] μέλισσα, -ας, ἡ [melissa]

 

Porfirio [Πορφύριος Tiro 233-234 d.C. – Roma 305 d.C.]
 
L’Antro delle Ninfe
 
XVIII
Sorgenti e fonti convengono allo stesso tempo alle Ninfe delle acque, e ancora più, alle Ninfe-anime che gli antichi chiamavano con nome specifico api, quali operatrici di piacere. Onde Sofocle poté senza sconvenienza dire delle anime:

Lo sciame dei morti ronza e ascende.

Gli antichi erano soliti chiamare api anche le sacerdotesse di Demeter, preposte come dee terrene alle iniziazioni, e la stessa Kore, Mellita. E ape chiamavano la Luna, quale protettrice della generazione, anche perché per altro aspetto la Luna è Toro, e esaltazione della Luna avviene [nel] Toro, e, in più, le api nascono dai buoi. E nate da buoi [chiamavano] le anime giunte nella generazione, e ladro di buoi il dio che ode nel secreto il divenire.
Già [in passato] è stato fatto del miele un simbolo della morte, – e perciò sacrificavano alle divinità sotterranee libagioni di miele, e del fiele quello della vita. Volendo certo dire che la vita [razionale] dell’anima viene a morte per il piacere, mentre rivive per l’amarezza: donde i sacrifici di fiele agli dèi; oppure che la morte libera dalle cure, mentre la vita in questo luogo è faticosa e amara.


 

rompighiaccio


Un viaggio con Norröna è una festa mobile. Vela con una delle navi più recenti nel Nord Atlantico.
Dal ponte di M / S Norröna si ottiene una vista incredibile oltre l’orizzonte – le onde, il mare e il cielo.
Il viaggio vi offre una buona opportunità per osservare gli uccelli, e forse vedrete un balena o due.
All’interno Norröna ha molto da offrire ai propri ospiti, e soprattutto in termini di esperienze gastronomiche.
Inoltre, ci sono molte attività diverse per voi come passeggero a bordo.

 
inferno 32
 

orsi

dicere udi’ mi: “Guarda come passi:
va sì, che tu non calchi con le piante
le teste de’ fratei miseri lassi”. 21
 
Per ch’io mi volsi, e vidimi davante
e sotto i piedi un lago che per gelo
avea di vetro e non d’acqua sembiante.24
          Dante Alighieri Inferno XXXII

 


 

hakarl

 
A bordo di piaceri gastronomici avait ogni passeggero. È possibile scegliere tra una vasta selezione di pasti leggeri nella caffetteria. O si può godere di una serata piena di specialità del Nord Atlantico nel nostro delizioso ristorante Norröna Buffet. Se si preferisce prelibatezze gastronomiche si prega di visitare il nostro ‘à la carte’ ristorante, Simmer Dim, e godere di una serata di buon cibo e vini deliziosi.

mito di ER

[621a]Dopoché anche gli altri erano passati, tutti si dirigevano verso la pianura del Lete in una tremenda calura e afa. Era una pianura priva d’alberi e di qualunque prodotto della terra. Al calare della sera, essi si accampavano sulla sponda del fiume Amelete, la cui acqua non può essere contenuta da vaso alcuno. E tutti erano obbligati a berne una certa misura, ma chi non era frenato dall’intelligenza ne beveva[621b]di piú della misura. Via via che uno beveva, si scordava di tutto. Poi s’erano addormentati, quando, a mezzanotte, era scoppiato un tuono e s’era prodotto un terremoto: e d’improvviso, chi di qua, chi di là, eccoli portati in su a nascere, ratti filando come stelle cadenti.

Platone Opere vol. II Laterza Bari [1967]
Repubblica “IL MITO DI ER”


4butho   2butho
3butho   4butho

J.S. Bach Canone 1 a 2 [ inverso * ]
da Offerta musicale BWV 1079 [1747]

 

dimenticare

 
L’acqua di mare geotermica viene a contatto con il raffreddamento intrusioni magmatiche e cattura minerali della terra, con conseguente questa fonte naturale unico noto per il suo potere di guarigione e attivi. La composizione di minerali in acqua è molto particolare ed ha un alto livello di silice.
Il suo ambiente è caratterizzato da alte temperature e salinità del 2,5% che è 1/3 del livello di salinità dell’oceano.
Ecosistema è unico al mondo, in realtà uno dei laboratori di Madre Natura, mettendoci in contatto con le forze della natura. Attraverso la natura e la scienza trattamenti termali e massaggi vi fornirà l’energia dell’acqua di mare geotermiche e e dei suoi principi attivi: sali minerali, silice e alghe.
Godetevi galleggiante nel acque ricche di minerali, in prossimità di straordinario ambiente. I trattamenti vengono effettuati nella laguna stessa, all’aria aperta.
In acqua trattamenti termali si svolgono su una panca di legno appositamente progettato. I massaggi vengono eseguiti su una stuoia galleggiante nella laguna.
La zona termale esterna è spaziosa e più di un trattamento può aver luogo simultaneamente, rendendo possibile per le coppie di avere un trattamento allo stesso tempo.
Coperte speciali sono utilizzati per tenere gli ospiti calda.
Galleggianti in acque ricche di minerali, in prossimità di straordinario circondato dagli elementi naturali e pura aria, è un’esperienza unica per il corpo e la mente.

 

___________ ,\\’ ___________

 

 
VISIONI in TRALICE [I] I can’t hide you the rock cried out
VISIONI in TRALICE [II] But doth suffer a sea-change…
VISIONI in TRALICE [III] … e abito sempre nel mio sogno…
VISIONI in TRALICE [IV] Cum dederit dilectis suis somnum
VISIONI in TRALICE [V] Lascia ch’io pianga

VISIONI in TRALICE [VI] di perle e rospi
VISIONI in TRALICE [VII] di metafore [e altro]
 

Essendo il dentro un fuori infinito #3

18

di Mariasole Ariot

In una casa hanno tutti la febbre. “Ici c’est les malades
qui soignent les malades”, mi disse una donna
.
Vincent Van Gogh

20140320_123105

Lei cura la febbre da venti giorni, è morta da sette, spreme le limacce coi canini, le cola sul mento una bava.
Lei non è mai nata, lei ha l’azzurro negli occhi, lei  mangia le sigarette che non fuma. Era la coricata delle fiale e delle provette : reparto superiore, angolo a destra, Genetica Molecolare.

Ero una di loro

Con l’indice indica il quarto: le vetrate aperte s’intravedono dalla prima scogliera. Noi siamo qui e remiamo :  tutto è un sottofondo, un brusio, un deserto senza bocca. Era una di loro, l’hanno resa pietra per non fuggire, per rinunciare ai corpi e all’essenziale dei riflessi, per fare del custodito una riscossa.
In francese si chiamerebbe Florence.

****

L’unica stanza libera è un corridoio : Fiore sfonda le lettere alfabetiche, si accascia origliando nella catena della notte. Poi dicono il si dice : dicono distrugga le porte, dicono strappi i capelli, dicono che i deboli non hanno disgrazie ma rogne, dicono i deboli non sono deboli ma fingono, dicono che il padre a cui scrive è un amico morto. Dicono : lei ha le molecole nel culo.

Ma non è qui di passaggio. E’ un passaggio e  la conoscono bene, è un lamento che richiama all’ordine, un intreccio di braccia come serpi  fuoriuscite dalla teca : ci disordina la vista, è un passaggio e noi passiamo.

Fiorenza lava i denti col sapone e rifiuta le carezze : non è un cagnolino :  ha i seni i fianchi i seni, il latte amaro del dopoguerra, Fiorenza proietta un lungometraggio alla parete del fondo, Fiorenza parla tre lingue ma esige silenzio. Il lungometraggio non conosce la parola fine:
mortuaria sale e scende, attraversa i confini che sconfina. E’ una veste, una camicia bianca, una contenzione.

Testa Sognante Ostinata. Le alghe s’intrecciano al cordone, tolgono ossigeno. Fiore
se non silenzia grida.

***

Siamo qui da tre giorni e sono passati decenni. Saliamo al secondo piano nel luogo delle lucertole dove il sole scalda e ci brucia, e lei sbatte le ali, e le sacche di pelle traboccano dalla cinta. L’edera ci avvolge, strangola i colli, ci prende per amanti e si sbaglia.

Mineraria sogno l’aperto:
questo inverno
dove sono immobile.

I salici
smettono di cadere : è l’estate chiara,
un chiaro d’uovo scende.

****
E’  la malattia giovane dei millenni. Un carico di crepuscolo e lamento tocca il naso con la lingua. Fiore sfiora le soppraciglia e le pulisce come i gatti : un animale tra le gabbie, infila un braccio tra la prima e la seconda, tocca e non toccare – dice il cartello che porta al collo : tocca e non toccare.
Fiore mastica i pezzi di guscio incastrati nei denti, Fiore sanguina parole che non ha ferito.

Ma i veleni sono queste bevute, l’orgiastico dei monili che titinnano ancora, e di nuovo, e quasi accadono, e dove non cade, il vento muore : ascolta : senti questo dondolìo. Non sono scheletri, sono campane – sembrano scheletri e sono campane.

***

Poi decide per il silenzio. Nella stanza del fumo muove le mani nell’aria e disegna una lingua.
tu se precipiti è una casa
= tu, se precipiti, è una casa?

Precipitiamo nel fondo : il prosciugato è una madre che origlia dal buco e s’incupisce.
Dove un’orma ha ormai trovato tempo, da tempo
anch’io ho un centro vuoto, da tempo non ho un tempo. I nostri passati si accumulano sulla schiena e non è un coprispalla e non è un ventaglio e non è acqua che rinfresca e non è calda e non è roccia e non è vile e non dispèra. E’ questa massa molle, questo cielo nero che non ruota, che delira l’incubo delle montagne – ci sono i vitelli, gli appena nati e i minatori. Fiorenza ha occhi blu che precipitano fiori : dove, madre, dov’è questo fuori di scena? Questo fuori di :
niente.


Lei si siede, stanno arrivando, l’allarme non è musicale.
E’ la pratica delle sanguisughe, mi dice.
Si distende in fretta.  Gli animaletti corrono sul profilo, le tappano la bocca, si dimena, le sanguisughe si aggrappano a ogni ovunque, suggono dalle mammelle, prelevano la linfa : bradicardica, datele del detersivo. Calcolatela.
Esecuzione di un calcolo

Poi cadiamo nel sogno e ti accompagno.
Tu hai uno strumento ed io le corde: ci accordiamo. E’ lo sciopero della misura, dell’ossessione, del ripetere il focolaio delle ombre. Trovi una nota e poi la perdi. Eppure, Fiore, noi ridiamo : tu porti il nome delle luminose, porti l’impertinenza, tu porti l’aleph che credevano di averti sottratto.
Tu scrivi, Fiorenza , tu scrivi a un padre che non è mai esistito.
Ma tu : scrivi

****

Caro Noah,

ti ho conosciuta da bambina quando vivevo nell’uovo. Ricordi i ricordi della mamma? Ricordi
la lettera arrivata oggi?
Papa Noah io non conosco gli alfabeti, non conosco la posizione dell’h e non ho accenti: sono aspirata, qui dentro tutti inspirano e io mi dissolvo.

Hai visto le campanelle del giardino? Le ho piantate ieri per le piccole casse dei morti : prima stava la frutta, poi è marcita. E’ il mio lavoro: sono qui per ritrovare la carne che ho lasciato l’ultima volta, sono qui per un errore collettivo.
Mi hanno detto che era Natale, che i legacci erano nastri, ho bevuto la cioccolata calda. Dicono che non esisti, che sono figlia di nn. Io sono nessuno, papà. Ma io conosco i miei diritti. Trattamento sanitario obbligatorio, non rattristarti.

Milly ieri mi ha portato un anello : le ho sputato in viso. Gli altri credono sia per vendetta. Non è così, papà : Milly soffre di ragni. Theraposidae. Ho soffiato perché fuggissero.

Tra poco arriverà il carrello della cena ma io ho fatto sciopero di parole e non le mangio.
Io sono un pesce, Noah. Io ti sto nuotando all’infinito per tutte le vasche che non mi hai mai dato. Ti sto cercando ovunque. Ti ho inventato perché tu potessi venire a prendermi.

 

“Previsioni e lapsus”: tre estratti e una nota di lettura

7

 Luciano Mazziotta

tre estratti >

da maturità berlinese III. fine della città

*che dire? di cosa parlare se non di meteo, oroscopi e cose? a berlino, di ora in ora, cambia il tempo e la stagione, per questo il luogo dell’appuntamento non è dicibile, nonostante la lingua, fino a pochi minuti dall’incontro. è lingua, spazio e atto meteorologico o funzione dello stesso insieme. sulla weserstrasse, per dire, raccontava l’ispanica di una rivoluzione lontana che era impossibile non partecipare. e che, se la lingua è universale, e con lei la città che vivevamo, avremmo dovuto cospargere il suolo di voci, spargere la voce come chicchi di noi, che un pollicino, sedotto, avrebbe raccolto e ci avrebbe raggiunto. che tutti gli oggetti, diceva, di cui impariamo il nome, non sono che apparizioni e fantasmi che utilizziamo per costrizione indiretta. e se l’ascoltavo e imparavo la sua lingua madre, era perché volevo sedurla, che poi l’ho anche fatto, a berlino, a luglio e ad agosto, ma prima di adesso, se non l’ho detto, è perché la lingua era impedita dalla colpa di averlo fatto con il divieto di dirlo. e lei continuava, dicendo, che berlino era un balocco e che tutto sarebbe rimasto in quella città, che non avremmo potuto dirlo a nessuno se non agli specchi e un riflesso che parla non fa una realtà. che non volevo parlare perché, se avessi detto, l’avrei interrotta e avrei chiesto: ti ho mai parlato della felicità?

 

La disperazione di Adamo. Su Malcolm Lowry

1

lowry

di Andrea Caterini

Quanto potrebbe cambiare la nostra percezione dell’opera di Malcolm Lowry se solo venisse finalmente tradotto il suo epistolario? Cosa potremmo scoprire di quel privato che Lowry maschera e reinventa in tutte le pagine dei suoi libri?

Quanta iva dare agli ebook? E gli ebook sono davvero libri?

12

di Fabrizio Venerandi

La campagna/hashtag dell’AIE, #unlibroèunlibro ha come fine il sensibilizzare sulla differente tassazione che vige oggi tra libro di carta e ebook. Il libro paga il 4% di IVA, mentre l’ebook paga il 22%: il primo è un libro il secondo è un servizio.
Apparentemente la richiesta è pacifica: se la tassazione al 4% è destinata ai prodotti culturali, perché Guerra e Pace cartaceo paga il 4% di iva e lo stesso identico testo in ebook paga il 22%?

Ne è nato un vivace dibattito in rete di cui cerco di circoscrivere alcuni punti di discussione per Nazione Indiana.

  1. Il primo punto è storico: davvero l’IVA dei libri è al 4% perché sono oggetti culturali? Vale forse la pena leggere un post di ben quattro anni fa di Mario Guaraldi dal quale si desume che l’IVA al 4% non ha a che fare con la pretesa culturalità dell’oggetto libro, quanto piuttosto a problemi legati al processo di vendita del prodotto libro. D’altronde se l’IVA fosse davvero legata alla culturalità del contenuto che si vuole vendere, dovrebbe variare appunto a seconda del peso specifico intellettuale del testo stesso. Come scherzava qualcuno su Facebook: compri Sanguineti? Paghi il 4% di IVA. Compri Fabio Volo? L’IVA sale al 25%. È evidente la improbabilità di un processo del genere, che – in ogni caso – rimarca che il prodotto culturale vive in numerosi media, e non è esclusiva dell’oggetto libro, anzi. Perché le barzellette di Totti stampate su carta dovrebbero beneficiare del 4% di IVA e il Don Giovanni di Mozart in CD pagare il 22%?
  2. Il secondo punto lo troviamo esposto da Giulio Mozzi, quando afferma che no, l’ebook non è un libro, specie per quel che riguarda i diritti del lettore. L’idea che mi pare voglia far passare il post di Mozzi è che con l’ebook ci siano meno possibilità d’uso rispetto al libro: un ebook non puoi prestarlo, rivenderlo, fotocopiarlo. È una tesi, quella di Mozzi, che trovo poco convincente. Se è vero che un ebook non può essere prestato, è vero che un libro non può essere backuppato, modificato o ampliato. Si tratta solo parzialmente di diritti, quanto di caratteristiche implicite al mezzo e al suo metodo di distribuzione. E la critica di Mozzi ha altri punti che appaiono fuori fuoco: non esiste una licenza d’uso universale per gli ebook. Se gli ebook che Mozzi compra hanno scritto che può leggerli solo lui è colpa di Mozzi e degli editori da cui ha acquistato che hanno scelto quella licenza d’uso. Senza contare che i libri puoi fotocopiarli mentre gli ebook no è una dichiarazione ugualmente impropria: il libro puoi fotocopiarlo con le restrizioni che vigono sul copyright, così come l’ebook, a seconda della licenza d’uso. Un ebook protetto da creative commons può essere molto più manipolabile di un libro di carta.
  3. Del terzo punto hanno twittato alcuni addetti ai lavori, tra cui il sottoscritto: un ebook non è un libro di carta. Tutti i formati per fare ebook sono basati su specifiche nate per fare pagine web. Anche guardando verso il futuro, gli strumenti dei possibili nuovi standard e dei nuovi strumenti di authoring per la creazione di testi digitali non provengono se non in minima parte dal libro, ma sono invece figli di internet, del web, della rete. Se oggi la stragrande maggioranza degli ebook è fatta di libri pensati per la carta e poi digitalizzati in un formato ebook, è lecito pensare che gradatamente aumenterà la percentuale di titoli in cui la fonte non sarà più il libro di carta, ma che saranno nativi digitali: ebook, siti, app, web-app. Non si tratta peraltro di un gioco al risparmio: fare ebook costa. È un fenomeno che crescerà disordinatamente, che toccherà alcuni ambiti prima di altri (scolastica, informazione, entertainment, infanzia), ma di cui già oggi si vedono alcune concreti avamposti, anche in ambiti lontani dal new-tech. A proposito, avete notato che Tirature di Spinazzola dal 2014 esiste solo in ebook?

Quindi? Un libro è un libro? Oggi, in Italia, per un lettore occasionale un ebook assomiglia abbastanza ad un libro da non percepirne la specificità e aderire all’idea che un ebook possa avere la stessa IVA del sancta sanctorum cartaceo. A livello maggiormente pragmatico, l’IVA al 4% serve oggi principalmente a noi editori, per vari motivi, il più importante è che l’editoria tradizionale è in crisi. Nera. Stampare libri come se non ci fosse un domani non è una grande idea in questo momento. Progetti, anche storici, che rischiano di morire, potrebbero invece traghettare ad un digitale culturalmente consapevole. E sostenibile. La seconda, collegata strettamente alla prima, è che il mercato ebook in Italia viaggia ancora a percentuali trascurabili. Si vendono pochi ebook, e questi pochi si vendono spesso tramite soggetti transnazionali: come Amazon che l’IVA (al 3%) la paga al Lussemburgo. È un mercato che ha grosse prospettive di sviluppo e che sarebbe intelligente non soffocare con politiche fiscali vessatorie, perché il rischio è che l’arrosto rimanga crudo, nascosto in mezzo a un grande fumo nero.

In ultimo, la campagna dell’AIE ha il merito di sdoganare l’oggetto ebook, facendolo uscire dal ripostiglio della folkloristica stranezza e mostrando che dietro all’ebook e dietro al libro ci sono ugualmente storie, informazioni, emozioni, analisi. Visti gli ultimi dati sulla lettura in Italia, è passaggio di non secondaria importanza.

Antonio Moresco, 21 preghierine per una nuova vita

9

21-preghierine-per-una-nuova-vita-ed-speciale-ebook-d435di: Francesca Fiorletta

Esce per le edizioni Nottetempo, con una tiratura limitata e numerata di 230 copie, nella collana di poesia digitale poeti.com, questo libro di Antonio Moresco che è davvero un piccolo gioiello: 21 preghierine per una nuova vita, illustrate da Giuliano della Casa.
Di lui dice il nostro autore, nella Nota introduttiva:
“Giuliano è un pittore che dipinge con la sapienza di un maestro antico e con lo scatto e l’ingenuità di un bambino. Nelle sue immagini c’è sempre qualcosa che sorprende e che spiazza ed è per me una gioia vedere cosa riesce a combinare ogni volta con un pennello e un po’ d’acqua sporca.”
E poi aggiunge:
“Siamo molto diversi l’uno dall’altro ed è forse proprio per questo che ogni tanto ci viene voglia di incrociare le nostre strade”.
Io non lo so quanto sia effettiva, questa diversità che Moresco sente, perché a leggere i 21 testi che compongono il libro, si ha esattamente l’impressione di trovarsi davanti alla sapienza calma di un maestro antico che, quando vuole, sa far presto a lanciarsi in certi notevoli scatti di pretesa ingenuità bambinesca, tanto commovente quanto affilata.

Il bonifico degli editori

53

gerard

Quando leditoria diventa una questione di pancia

di

Carlo Baghetti

Con unintervista a Christian Raimo 

 

Tra il 10 ottobre e il 14 ottobre sono apparsi on-line due articoli che parlano grosso modo dello stesso tema, anche se da prospettive molto diverse: la crisi dell’editoria. Il primo pezzo è un’intervista fatta da Tim Small a Martina Testa, attualmente traduttrice freelance ma che in passato ha lavorato per minimum fax; il secondo articolo è di Simone Cosimi dai toni più accesi della polemica, comparso sul sito di Wired.

I due articoli sono collegati, perché l’articolo di Cosimi prende lo spunto da alcune frasi riportate da Small, che servono al giornalista di Wired per sostanziare la sua tesi: se l’editoria è in crisi, la colpa è degli editori, i quali non hanno saputo fare bene il loro lavoro durante gli ultimi anni e le conseguenze della loro reiterata inettitudine è che oggi la maggior parte dei creativi che gravitano nell’universo editoriale, come ad esempio Federico Di Vita, sono costretti a lavorare gratis.

La frase di Martina Testa incriminata e riportata interamente da Cosimi è la seguente:

“Intorno a quegli anni abbiamo iniziato effettivamente a parlare di soldi, di vendite, di copie, a chiederci se un libro avrebbe ripagato le spese. Forse anche per imperizia, per scarsa competenza, professionalità, quel che vuoi, ma erano cose fatte con passione più che in maniera studiata, seria. Certi discorsi non li affrontavamo proprio. Ma il fatto che non li affrontassimo era anche sintomo del fatto che forse non era necessario affrontarli. Il modo di campare – nessuno è mai diventato ricco – si trovava. Anche senza un’attenzione alla parte commerciale, anche se non sapevamo bene come si facesse, i libri, in qualche maniera, si vendevano. Forse anche da soli. Nei primi anni non parlavamo mai di questo”.

E dopo aver riportato la frase, il giornalista di Wired conclude il suo pensiero sommando le cifre, facendo il bel segno dell’uguale e dicendo: siete degli incapaci. Basta giustificazioni.

La questione, posta così, è risolta: noi bravi e preparati non veniamo pagati (si percepisce in filigrana il risentimento personale), voi incapaci continuate a posare nei salotti in cui non siamo ammessi; vi odiamo tutti, siete cattivi.

Sto esagerando, ma il discorso di Cosimi è uno sfogo che rischia di essere infantile, nulla di più. Non ha alcuna sostanza critica, proprio come il fenomeno dei #coglioniNo che giustamente il giornalista cita. Detto ciò, appoggio la protesta di Di Vita – del quale ho apprezzato il testo uscito anni fa per Effequ – e sono contento di vedere che il problema del ritardo dei pagamenti e la crisi del mondo editoriale venga dibattuto pubblicamente, così da attivare la mente di tutti alla ricerca di soluzioni pratiche e teoriche.

Nessuna necessità di grida, di appendere sulla croce i colpevoli, di mettere alla gogna editori, di insultarli pubblicamente; questo è solo un metodo scandalistico che allevia il sintomo e non cura il problema, unico metodo che in Italia ha un successo clamoroso da vari anni.

A star cambiando è il modo di fruire le storie da parte del pubblico, non mi riferisco unicamente alla rivalità cartaceo vs digitale, che oggi appare sempre più una scelta obbligata, ma parlo proprio del contenitore nel quale il “narrativo” è trasportato. La necessità di ascoltare storie, di viverle, è sempre nell’uomo molto forte (nessuna mutazione genetica, state tranquilli!), solo che ad essere cambiata è l’espressione, il mezzo. Il libro, mi riferisco qui al romanzo di fiction, è diventato da veicolo incontrastato di storie un mezzo tra i tanti, e anche dalle scarse potenzialità. Se ci pensiamo bene, il libro in sé è un oggetto alquanto vintage, non ha neanche un dizionario incorporato, per esplorare come si deve il linguaggio di un autore è necessario avere a portata di mano un mattone di tremila pagine (il dizionario, cioè) o un bloc-notes in cui appuntare continuamente parole; con il libro cartaceo non si possono fare verifiche in tempo reale su eventi citati da un autore (cosa che capita più spesso con i saggi che con i romanzi, ma provate a leggere Eco o Genna senza aver voglia di andare a vedere se tale personaggio o talaltro è veramente esistito); e via dicendo. La passione per il libro cartaceo sembra una questione per feticisti.

Oltre i limiti fisici del libro cartaceo ce ne sono altri, strutturali, e meno gravi, perché pertengono al gusto personale dei consumatori: il romanzo è linguistico nel primo senso della parola, è attraverso il linguaggio che io esploro le immagini, intreccio le storie, vivo le narrazioni; altri tipi di narrazione allargano il senso di “linguistico” attraverso l’impiego di immagini e suoni (è il caso di alcune serie tv che raggiungono livelli narrativi di altissimo livello, in maniera molto più strutturata del lungometraggio), oppure attraverso complessi meccanismi tecnici che permettono al consumatore di creare da sé una storia (questa frase scritta trentacinque anni fa forse avrebbe fatto pensare solo a Rayuela di Cortázar, oggi si riferisce ai videogame).

La “narratività” ha raggiunto oggi una tale stabilità che può passare attraverso moltissimi materiali senza problemi, libri certo, ma anche serie tv e videogame. Siamo circondati da storie, si sono continuamente moltiplicate in vario modo, con la conseguenza però di stravolgere il panorama che abbiamo contemplato finora: il mondo editoriale, per forza di cose, subirà una nettissima restrizione, e i primi segnali di questo violento passaggio sono, ahimè, i #coglioniNo, in particolare quelli che bazzicano il campo editoriale. Oltre questo passaggio culturale influiscono anche fattori economici di grande portata, come chiarisce meglio l’intervista a Christian Raimo.

Aspetto, questo dell’ affacciarsi di nuovi potenti mezzi di trasmissibilità del narrativo, che Cosimi non prende per nulla in considerazione, seppure offerti bellamente da Martina Testa che limpidamente afferma: “E devo ammettere che se quando avevo 18 anni ci fosse stata la PlayStation3 con giochi come The Last Of Us, e la sua suspense, francamente col cazzo che avrei passato tutto quel tempo a leggermi Baricco”.

La questione sembra piuttosto essere questa: gli editori hanno risposto con molta lentezza al cambio di paradigma culturale, operando scelte sbagliate e svuotando le sacche di ricchezza presenti nel paese, ma questo non vuol dire che debbano cedere e lasciarsi inglobare da armi di distruzione culturale e appiattimento generale dell’umanità come Amazon o Google, solo perché sono “più abili” nella gestione economica dell’editoria. Il narrativo, quello che passa attraverso la forma romanzo, ha ancora un buon numero di estimatori e delle grandi potenzialità di crescita, anche se il bacino economico è nettamente inferiore rispetto a quello da cui attingeva anni fa, ovvero negli anni in cui deteneva il monopolio della narrazione.

140112_corde

Intervista a Christian Raimo
Hai letto l’articolo apparso su wired.it “Cari editori, non può essere sempre colpa della crisi” scritto da Cosimi? Cosa ne pensi?
Monnezza.
Nel senso?
Nel senso che riporta la fenomenologia della questione senza andare ad indagare le cause. La difficoltà delle aziende editoriali, oggi, è un dato di fatto. Dire che questa questione è solo responsabilità degli editori, per me, è fare del grillismo, non rendersi conto di quale sia il contesto sociale politico economico nel quale operano gli editori d’oggi. Quando si dànno delle colpe personali e non delle colpe legislative, sociali, economiche, non si arriva da nessuna parte. È vero, ci sono degli editori che si sono comportati male, che si comportano male, e sarebbe anche giusto fare i nomi; ci sono vari editori che non pagano o che hanno tali ritardi nei pagamenti che è come se non pagassero.
Cosimi non centra il punto della questione, ma qual è il vero punto della questione dal tuo punto di vista?
Ci sono tanti livelli del problema, diversi. Il migliore libro italiano sulla questione editoriale è un testo da me curato, non perché l’abbia curato io, ovviamente, si chiama Come finisce il libro dello scrittore Alessandro Gazoia. C’è un problema di passaggio di paradigma storico rispetto alla cultura: stiamo passando da un paradigma storico in cui c’è l’industria culturale e, poi, un’utenza, ad uno in cui c’è un’industria culturale diffusa. Questo è innegabile: oggi gli editori sono Google, Apple, Amazon. In realtà, la distribuzione ha assunto un ruolo di agenzia culturale: questo è un passaggio fondamentale. Amazon sta creando un sistema proprietario, dove la distribuzione si è reinventata come edizione, stravolgendo la funzione della lettura come agenzia educativa, agenzia critica, facendola diventare una mera industria legata semplicemente al mercato.
Martina Testa parla del concetto e del ruolo dell’intrattenimento, cosa ne pensi?
La questione fondamentale è capire come il libro si lega, da una parte, alla tradizione del libro – ed è quindi fondamentale per lo sviluppo della nostra civiltà -, dall’altra, analizzare lo sviluppo che ha avuto l’industria editoriale nella formazione civile delle società attuali. Se tutto questo viene ridotto semplicemente al funzionamento dell’industria culturale, per me, viene meno una grossa parte della politica e della civiltà di un paese. Per quanto Amazon sia iper-funzionante, non ha quel ruolo di agente culturale che deve avere un’industria culturale.
Come si fa, secondo te, per restituire un ruolo di guida all’industria culturale?
Con delle leggi, anche solo un paio, tassando chi ha dei regimi di monopolio. Ad esempio, Amazon paga le tasse in Lussemburgo, per dirne una, quindi non reinveste in Italia, nell’educazione alla lettura. Amazon crea reddito per gli azionisti, per i dividendi. Bisogna investire, con aiuti di Stato, nell’editoria di qualità. Non capisco come è possibile che la Fiat non vendendo le auto è sopravvissuta per decenni con aiuti di Stato e aziende che hanno avuto un ruolo centrale nell’educazione degli italiani non abbiano questo diritto.
Sono cresciuto in una cultura in cui il dibattito pubblico era alimentato da testi critici, saggistica, editoriali, commenti; questo è il modo in cui io ho imparato a fare cultura. Mi sembra un modo centrale di fare cultura: una posizione critica nei confronti della società, che si rinnova, che crea cittadini consapevoli. È una cultura del libro nata in àmbito umanistico, a cui mi rifaccio. Questo è indipendente dai supporti che si usano, può avvenire con la carta o con il digitale. Se penso all’eventualità che le fictions sostituiscano i libri, che Facebook rimpiazzi il romanzo: no, per me non è così. Sono forme di intrattenimento competitive, ma come dice Martina Testa, dedichiamo al libro una minore quantità di tempo. Per questo, vorrei dedicarmi a libri che meritano veramente.
Non pensi che la “narratività” si stia trasferendo su altri supporti che la accolgono molto bene? Penso a Breaking Bad, a True Detective, a House of Cards, che hanno solidissimi impianti narrativi; non credi che questo vada a prendere un posto che fino ad allora era occupato quasi esclusivamente dal romanzo di fiction?
Penso che per il romanzo questa sia una sfida ancora più interessante. Penso sia ovvio che cercheremo nella qualità di un romanzo qualcosa di competitivo con Breaking Bad. Breaking Bad è scritta da Dio, è ovvio che mi faccia appassionare. Recentemente sono andato a vedere uno spettacolo di Lucia Calamaro, che possiede una delle scritture migliori in Italia, e uscendo da lì, ho pensato che la drammaturgia italiana non sia in perdita rispetto a Breaking Bad. Ovviamente Lucia Calamaro non è una persona che ha letto solo Lacan o Proust, ma ha visto anche Breaking Bad, quindi ha pensato un teatro che sia competitivo anche con quello. Ho letto recentemente bei libri che non prescindono dall’esistenza di Breaking Bad o The Wire. Wallace ha scritto il Re Pallido dopo aver visto The Wire.
La mia domanda era piuttosto su chi avesse un ruolo preminente nel trasmettere narrazioni…
Quando eravamo piccoli, ci fu l’invasione dei cartoni animati giapponesi. Si credeva che questi cartoni togliessero completamente ai ragazzi la possibilità di leggere libri. Io passavo moltissimo tempo guardare la televisione, ma questo mi ha insegnato a leggere in maniera diversa i romanzi, a chiedere delle formule narrative altre. Dopo aver visto Breaking Bad, se trovo un noir scritto male, mi annoio. E magari mi guardo un’altra serie. Ma se trovo un romanzo che concilia la qualità della trama con una scrittura eccelsa, me lo “ciuccio da morire”. Limonov non è concorrente con Les revenantes sebbene siano scritti dallo stesso autore: sono due opere complesse e meravigliose, scritte da un autore che cerca di fare il meglio, sia come scenarista che come romanziere.
Nonostante il cambiamento di paradigma pensi che il romanzo conservi il suo posto preminente e…
…Si deve sempre reinventare. “Romanzo” vuol dire tutto e non vuole dire niente, possiede una grande plasticità: se pensiamo il romanzo… è Don Chisciotte, è Proust, ma anche Margaret Mazzantini e Daria Bignardi. Il romanzo si reinventa, rinasce dalle proprie ceneri, qualcosa di talmente classico che non morirà. Negli ultimi anni sono usciti romanzi bellissimi e la gente ha continuato a leggerli. Breaking Bad non sarebbe stato possibile senza i Demoni di Dostoevskij.
Il romanzo come simbolo di una classe sociale è definitivamente finito?
Questo non è vero. Anche le serie tv sono simbolo di una classe sociale. Pensa che 3,5 milioni di persone vedono le fiction di Raiuno e in confronto coloro che vedono Breaking Bad sono una minoranza.
Che classe sociale?
Secondo me, c’è un grande “classismo dell’intelligenza”, nel senso che la possibilità di accesso alle piattaforme più costose o la possibilità di codificare meccanismi di significato più complessi, come Breaking Bad, divide la società in maniera classista: persone intelligenti e persone non intelligenti. Tutto questo è una nuova forma di classe sociale. Noi parliamo di Breaking Bad che rivoluziona il romanzo. Ma quanta gente guarda Breaking Bad? Noi guardiamo Breaking Bad! Se vai in qualunque paese di provincia, se vai in un liceo qualunque, la gente non guarda Breaking Bad. I ragazzi stanno di fronte alla televisione, guardando una tv generalista che fa schifo. Ci sono consumi culturali per fasce alte e consumi culturali per fasce basse.
Pensi che un diciassettenne iscritto ad un istituto tecnico nella provincia di Varese non abbia visto Breaking Bad?
Penso che la percentuale sia molto limitata. Ci sono statistiche che dicono che gli under 18 del sud non hanno mai visto un film al cinema, non hanno mai fatto sport, non hanno un computer e non hanno mai letto un libro. Io insegno in un liceo “bene” e anche in un liceo “bene” l’accesso a prodotti culturali alti è una cosa che la maggior parte dei ragazzi non fa. La tv generalista, per il 95% delle persone, è la principale fonte di accesso all’informazione. Ci sono tassi di analfabetismo funzionale. L’ultima fiction della Rai, Nuova vita, ha avuto 9 milioni di persone di audience. Ogni fiction che vada bene, in Italia, ottiene tra 6 e 9 milioni di spettatori. Breaking Bad, in Italia, se lo hanno visto 100.000 persone, è grasso che cola.
Ultima domanda: secondo te la nostra esperienza esistenziale è ancora “narrativizzabile”? Il romanzo ha ancora la capacità di contenere le nostre esperienze sempre più frammentarie?
Mi sono laureato su Ricoeur, il quale pensa che le esistenze si strutturino come storie e, in questo senso, penso che ci sia un eccesso di storytelling. Oggi tutto è storia. Storia la morte, storia la malattia: c’è un eccesso di storytelling e un difetto di critica. Ovviamente, lo storytelling si adatta a varie ristrutturazioni. Oggi il romanzo deve considerare una grande quantità di sub-plot, perché non solo le nostre esistenze sono più frammentarie e meno prevedibili, ma è aumentata anche la nostra capacità di tenere insieme più livelli narrativi. Se vedi oggi una puntata di Magnum P.I. appare terribilmente noiosa con una sola linea narrativa. Una qualunque serie di oggi presenta sei o sette linee narrative e si riesce a seguirle in maniera tranquilla. Questo dipende dalla nostra percezione, che sta cambiando; è in corso la trasformazione di un’area del cervello, che si chiama “Area di Brodmann”, incaricata della funzione di multitasking, che sviluppiamo fin da piccoli giocando ai videogiochi e guardando la tv.

 

 

 

Sei lui e ti credi te*: la vita conclusa di Tommaso Boni Menato.

0

di Carlo Carlucci

La notte della vita è infinitamente lunga e incredibilmente breve.
Jack Kerouac

Per l’anagrafe è stato Bonaventura Menato e la sua buona ventura ha voluto, fin dai primi vagiti, privarlo della madre, col padre inconsolabile che ogni tanto, giunta l’età del comprendonio, gli ripeteva: ‘Tua madre è morta a causa tua’. Non fu che l’inizio di un progressivo, radicale estraniamento dal cosiddetto mondo, un privarsi o l’essere privato poco a poco dei saldi ancoraggi della nostra vita (i quali poi e sempre si rivelano effimeri, inconsulti), ancoraggi che mutano, rimanendo sostanzialmente gli stessi, di epoca in epoca, di volto in volto, di clima in clima, di religione in religione.

Figurarsi come dovevano rivelarsi effimere e inconsulte sbarre l’educazione catto-veneta (era nato in quel di Padova), la scuola (nel prestigioso collegio di preti). Educazione, scuola non potevano non rivelarsi sbarre a questo bisogno estremo di sapere, cioè (etimologicamente) di dare sapore, finanche odore a un’esistenza altrimenti insipida, definitivamente senza senso. A buona ragione Leopardi, per suo uso e consumo, utilizzava ad hoc, il termine assuefazione. Tommaso Boni aveva sempre, in ogni circostanza cercato di essere un dis-assuefatto a quanto gli propinava il cosiddetto mondo.

E’ questo il progresso, questa immobile
mobilità, questo nascere sempre altri
da noi, eppure noi, in statica corsa
verso questo punto fermo….

Così scriveva in vesti di poeta, in Wstawac, una poesia della raccolta Indegno, mistero delle cose (Leopardi ancora e sempre), il libro del ri-conoscere, del ri-conoscersi progressivamente, attonito, dentro l’estraneità del mondo. Wstawac! era del resto la sferzante sveglia mattutina della Auschwitz polacca:

oh questo universo – Wstawac! –
dove ammassati annaspiamo
in un brulicante lagher di spettri….

E la visita ad Auschwitz fu, per Tommaso Boni, il punto di non ritorno, l’esperienza apocalittica, cioè rivelatrice. Proprio di fronte al muro dove venivano fucilati a migliaia quegli internati rei di nulla, di fronte a quel muro più che di fronte ai forni crematori, ai reticolati, il testimone, lo scriptor ebbe lo svelarsi, la percezione improvvisa, assoluta, lacerante che vittime e carnefici erano tutt’uno, tutt’uno le pecore e i feroci, freddi, insensibili lupi. La Storia… Ma facciamoci soccorrere dalle parole stesse dello scrittore nel suo romanzo Tucò delle isole: “La qual Storia, per lo meno quale ci è tramandata dalle documentazioni e dai libri, non esaurisce per certo la vicenda (nella fattispecie, di Tucò), è a sua volta sospinta o frenata da correnti di forza o da blocchi d’inerzia sfuggenti a ogni indagine di cause, concause ed effetti.

Il macabro rituale contemporaneo mediaticamente diffuso del boia dell’Is, del suo coltello, dei veli neri che solo lasciano la fessura degli occhi, la vittima inginocchiata in veste arancione, sono ancora una limitata, parziale immagine di quanto abissalmente rappresentato ad Auschwitz. Nel rituale macabro diffuso dall’Is, nel nero carnefice in piedi si potrebbe anche riconoscere Kali, la Madre Nera… colei che toglie per dare, che uccide per generare, che maledice per benedire… la genitrice della nostra epoca oscura… Due opposti volti, uno visibile, quello della vittima sacrificale e velato quello di Kali… La citazione è tratta da Le splendide città (edit. Full Color Sound 2002, Roma), sorta di percorso autobiografico, in forma di racconti, un contare letteralmente, specularmente quelle che sono state le tappe fondamentali della propria formazione, e quindi del progressivo, conseguente, necessario estraniarsi da questo mondo, a partire da quella martellante pietà parentale (povero figliolo senza la mamma…) da lui sentita come sorta di pietà religiosamente e socialmente imposta. Poi il collegio, altra sofferta costrizione per conseguire che cosa? Le buone maniere, la buona educazione, la Cultura? Altre baggianate, altre corbellerie compulsive, imposte e perduranti.

Tramite una ninfa egeria che l’aveva preso in molta simpatia, ninfa già famosa allora e ininterrottamente sulla breccia per più di mezzo secolo (Maria Luisa Spaziani), si trovò a presenziare nel ’61 al Premio Strega (bisogna conoscere e farsi conoscere…..). Sentendosi soffocare, senza dar nell’occhio sgattaiolò da una porta di servizio dello Strega (e della Letteratura).

Poi l’immersione a Budapest con una borsa di studio, in realtà per conoscere de visu la vita in un paese del comunismo reale (….a vedersela lì, alla frontiera, la Cortina di Ferro faceva impressione, era come varcare le sbarre di una prigione, o di un manicomio, dietro le quali un ex bella donna si fosse da se stessa rinchiusa per sfuggire al confronto col mondo. Un mondo che in buona parte continuava a non volerne vedere le laide rughe e il trucco maldestro. Poi l’ incontro con Lukàcs, favorito da una lettera di presentazione di Cases, conclusosi con l’amara e paradossale confessione del Maestro: …Eh, quando ero giovane come lei, pensavo che nel giro di pochi anni il mondo sarebbe cambiato. Invece, vede, ci vuole pazienza, molta pazienza. La storia è più lenta delle nostre aspirazion, delle nostre analisi…
Allora nessun ideale politico (e tantomeno religioso) era dunque in grado di mutare il corso del cosiddetto reale. E dunque?
A partire da questa consapevolezza, Tommaso Boni Menato inizia la lenta, faticosa, ed esaltante ricerca che lo porta, viaggiatore instancabile e curioso (nel senso profondo) in svariate parti d’Europa e del mondo, fino a quell’India dove una certa Mére, vista in foto a Roma nella casa dell’amico Davide Montemurri, chiedeva sommessamente: the world is preparing to a big change, will you help?. Mére chiedeva aiuto ne più ne meno, nell’impresa sua e di Sri Aurobindo di cambiare lo stato delle cose (del mondo e di questa così assurda vita). Era il richiamo tanto atteso.

Appare tuttavia una vana pretesa consegnare a un sommario excursus un’esistenza oltremodo appassionata e infinitamente distaccata. Il suo Abbecedario tendenzioso di parole impossibili, consta in un sapido elenco (rigorosamente alfabetico) di parole, da amore a zero , esemplare del suo modo di procedere in questa letteratura autre, fatta di parole suscitatrici di concrete esperienze di vita.

Aveva avuto la ‘grazia’, così la chiamava, della non appartenenza a niente e a nessuna istituzione, Famiglia Chiesa Scuola che fosse, eppure proprio a scuola, nel collegio dei Fratelli Cristiani, ebbe la fortuna di incontrare, rara avis, un certo professor Gazzoni che lo introdusse magicamente al poiein: Traspirava infatti da ogni suo gesto, sguardo, parola, una ricchezza di spirito debordante d’interiore vitalità, di libertà gioiosa, di giocosa noncuranza. Insomma un’intelligenza della mente e del cuore, della quale prima della comparsa del Professor Gazzoni non v’era traccia in quel tetro convitto a nutrizione forzata.

Alla voce O come Oriente Tommaso Boni, scivolando con aerea leggerezza, ci introduce ai Rshi vedici capaci di dominare la complessità del reale – incluso ciò che noi designiamo come il Male – e di ‘vedere’ quella faccia nascosta della sfera del Tempo che noi chiamiamo futuro, un futuro contenuto in nuce nel presente come entrambi (presente e futuro) lo erano nel passat. Bene e Male non si trovano qui negli antitetici domini del divino e del demoniaco, ma sono amalgamati nella duplice, anzi molteplice, faccia di un’unica sondabile Divinità.

Mi sia ora lecito estrarre qualche frase dalla sua ultima lettera agli amici: “…Ho avuto sin da bambino la grazia di sentirmi totalmente estraneo a quel senso del peccato, della colpa, dell’espiazione che questa perversa religione che osa chiamarsi cristiana ha cercato di inculcarmi in tutti i modi, altra grazia: non sono mai stato attratto dal potere del Succeso, dal Denaro che oggi è l’unico Dio…. La cosiddetta ‘fede’ è solo un parto della mente. La differenza fondamentale non è fra la cosiddetta vita e cosiddetta morte bensì fra l’essere coscienti o non coscienti dell’Essere Eterno…”

Il 4.11.2010 ricevevo fotocopia di una lettera (pubblicata su La Repubblica) di Carl Gustav Jung, nella quale Tommaso Boni evidenziava con pennarello giallo i seguenti passaggi: “Quando, nell’ottobre 1913, ebbi la visione dell’alluvione… avevo raggiunto fama, potere, ricchezza, sapere… E improvvisamente… mi venne a mancare ogni desiderio e fui colmo di orrore… Anima mia dove sei? Mi senti? Io parlo, ti chiamo… Questa è la via, la via a lungo cercata verso ciò che è inconoscibile e che noi chiamiamo divino… l’anima… una creatura vivente, dotata di una propria esistenza… Giunge al luogo dell’anima chi distoglie il proprio desiderio dalle cose esteriori… altrimenti viene sopraffatto dall’orrore del vuoto… cieco cogli le cose e gli uomini, ma non la sua anima… saggio è nutrire l’anima per non allevare draghi e diavoli in cuore.” In una noticina a margine dell’articolo fotocopiato, Tommaso annotava: “Questo mi suona come l’essenziale, caro Carlos, al di là dell’inutile frastuono delle nostre povere vite, povere mete, poveri pensieri… L’alluvione che Jung vide in un sogno (nel 1913!), sarà senz’altro vista dai più attenti lettori di oggi come metafora della guerra che stava per devastare l’Europa, metafora di quella terra desolata che Eliot vedrà 10 anni dopo… In realtà a me appare come chiaro segno di quella discesa del Sopramentale che Sri Aurobindo…”

Ci fermiamo qui. Nel suo cammino interiore lo scrittore ha voluto, ha cercato con estremo (e disarmante) candore di testimoniare fino all’ultimo il suo percorso. Oltre alla terra, gli sarà lieve anche il riposo dell’anima dopo l’ estenuante cammino compiuto in questa esistenza terrena. Vale atque vale, Tommaso.
__________________

* Il verso è, non tanto inspiegabilmente, di Montale e fa da contrappunto a due citazioni, “Io sono Colui” (dall’Isha Upanishad) e “Un’eterna porzione di Me è divenuta l’essere vivente in un mondo di esseri viventi” (Gita) in calce al III capitolo (L’eterno e l’individuo) de La vita divina di Sri Aurobindo.

N. b.: In internet sono scaricabili gratuitamente alcuni dei libri dell’Autore.

AmneZia: il libro e il progetto

2

2-Aleksei Shinkarenko [Ho incontrato Oleksandr Mykhed, ventiseienne scrittore ucraino, la primavera scorsa a Berlino, dove presentava il progetto “Amnesia” basato sul suo libro e sulla collaborazione con alcuni artisti, tra cui il fotografo bielorusso Aleksei Shinkarenko. Propongo qui un testo di presentazione del progetto e dei passi del libro tradotti in italiano. a. i.]

Amnesia project: an open platform è un progetto multimediale letterario e artistico che raccoglie numerose interpretazioni di un testo letterario e, soprattutto, elabora una concezione della memoria. Il progetto sviluppa questa concezione attraverso varie dimensioni come la musica, l’arte figurativa e la video art. Il progetto si propone di costituire una piattaforma che crei le condizioni per un dialogo creativo fra arte, musica, letteratura e il più ampio pubblico possibile. La base del progetto è AmneZia, un libro di Oleksandr Mykhed (pubblicato nel 2013) che consiste di 106 capitoli. Si tratta di una costellazione di frammenti, che nel corso della lettura contribuiscono a formare un affresco coerente. Gli elementi chiave del progetto sono la memoria personale e quella collettiva di una generazione. Amnesia è il desiderio consapevole di non dimenticare, di ricordare e di catturare la vita nella moltitudine delle sue manifestazioni.

Biografia del silenzio (saggio sulla meditazione)

12

di Pablo d’Ors

D'ors_cover9 (Todo cambia)

Uno dei primi frutti della mia pratica di meditazione è stato intuire che nulla in questo mondo permane stabile. Sapevo già prima, ovviamente, che tutto cambia, ma meditando ho preso a sperimentarlo. Anche noi cambiamo, nonostante ci incaponiamo a vederci come immutabili e durevoli. Ora vedo che questa essenziale mutevolezza dell’essere umano e delle cose è una buona notizia.

È curioso essere giunto a questa scoperta tramite la quiete. Tutto è successo come esporrò qui di seguito: meditando ho constatato che quando mi soffermavo su uno dei miei pensieri, questo svaniva (cosa che indubbiamente non succedeva quando guardavo una persona, la cui consistenza è indipendente dalla mia attenzione). A mio modo di intendere, ciò dimostra che i pensieri sono scarsamente affidabili, mentre al contrario le persone, foss’anche solo perché hanno un corpo, lo sono in grado considerevolmente maggiore. Ho deciso dunque che, da lì innanzi, non avrei più riposto la mia fiducia in qualcosa che si dilegua con tanta facilità. Ho deciso di lasciarmi guidare solo da ciò che dura ed è pertanto degno della mia fiducia. Presento che la grande domanda è: in che cosa ho fiducia?

Accettare questa costante mutevolezza del mondo e di se stessi non è un compito facile, soprattutto perché rende impraticabile ogni definizione chiusa. Noi esseri umani siamo soliti definirci per contrasto o per opposizione, il che equivale a dire per separazione e divisione. Ebbene è proprio così, dividendo, separando e opponendo, che ci allontaniamo da noi stessi. Definire una persona e non accettare la sua radicale variabilità è come rinchiudere un animale in una gabbia. Un leone in gabbia non è un leone, ma un leone in gabbia, il che è ben diverso.

Dal mio presente – e cerco di essere concreto – non posso condannare chi sono stato in passato per la semplice ragione che colui che ora giudico e disapprovo è un’altra persona. Agiamo sempre sulla base del senno e criterio di ogni momento, e se agiamo male è perché, almeno su quel punto, eravamo ignoranti. È assurdo condannare l’ignoranza passata sulla base della saggezza presente.

 

29 (Responsables de nuestro estar bien o mal)

Abbiamo l’abitudine di estendere e ingigantire i nostri sentimenti per sentire che siamo vivi, che ci accadono delle cose e che la nostra vita è degna di essere raccontata. Ovvio che la vita ci esorta, pungola e incalza tutti; ma quante delle nostre reazioni rispondono davvero alle sfide della vita e quante, invece, sono semplici decisioni mentali che hanno preso quegli stimoli come pretesto, distaccandosene però ben presto? A mio avviso, in gran parte ci inventiamo i nostri stati d’animo. Siamo responsabili del nostro stare bene o male. Quegli ampliamenti artifi ciali delle emozioni si possono controllare e perfino interrompere grazie alla meditazione, il cui proposito effettivo, così come lo concepisco, è insegnare a vivere la vita reale, non quella fittizia.

Le emozioni? Non sono altro che la combinazione di determinate sensazioni corporali con determinati pensieri. Lo stato d’animo? È un’emozione più o meno prolungata. Le emozioni e gli stati d’animo hanno il loro funzionamento, ma se ce lo proponiamo noi siamo infinitamente più forti. Possiamo non assecondare un’emozione, possiamo contrastare uno stato d’animo. Possiamo suscitare lo stato d’animo che desideriamo. Possiamo scegliere che ruolo rappresentare nello spettacolo o magari non impersonarne nessuno e assistervi come spettatori. Lo spettacolo può continuare e noi andarcene, o concludersi e noi restare. Le risorse della nostra sovranità sono impressionanti.

 

30 (El escenario vacío)

In questa prospettiva potrei definire la meditazione come il metodo spirituale (e quando dico «spirituale» mi riferisco alla ricerca interiore) per smascherare le false illusioni. Dilapidiamo buona parte della nostra energia in aspettative illusorie: fantasmi che svaniscono al toccarli. L’illusione è sempre un prodotto della mente, che ama distrarre l’uomo con raggiri, portandolo su un campo di battaglia dove non ci sono guerrieri, ma solo fumo, e stordirlo fino a renderlo incapace di reagire.

Noi che ci dedichiamo alla letteratura abbiamo molto chiaro che quel che sgorga dalla mente è morto e che invece vive ciò che scaturisce da un fondo misterioso che, in mancanza di un nome migliore, chiamerò «io autentico». Questo fondo misterioso – l’io autentico, non il piccolo io – è lo spazio da frequentare durante la meditazione. Questo fondo misterioso è come uno scenario vuoto. Proprio perché è vuoto, si riesce a distinguere quel che vi entra. Meditare è rimuovere da quello scenario le marionette illusorie per poter scorgere quel che irrompe sul palcoscenico. Tra tante marionette illusorie, abitualmente non distinguiamo cos’è reale. Perciò il compito di chi si siede a meditare è, fondamentalmente, di pulizia interiore. Ci spaventa lo scenario vuoto: tanta desolazione ci dà un’impressione di noia. Ma quel vuoto è la nostra identità più radicale, giacché non è altro che pura capacità di recepire e accogliere.

 

(di Pablo d’Ors sono stati tradotti in italiano il racconto lungo “Avventure dello stampatore Zollinger” (Quodlibet, 2011), e la raccolta di racconti “Il debutto” (AÌSARA, 2012), entrambi deliziosi, mentre resta da tradurre tra gli altri il romanzo mitteleuropeo e fuori dal tempo “Lecciones de ilusión”. Poliglotta e di formazione cosmopolita, prete cattolico (cappellano all’Università di Madrid Ramón y Cajal) e discepolo zen, d’Ors accompagna i malati terminali e le persone morenti. Si definisce lui stesso un “entusiasta melancólico” e “un escritor cómico, místico y erótico” (intervista al quotidiano ABC, 03.09.2014). La “Biografía del silencio” è uscita in Spagna con un piccolo editore (Siruela), e con il passaparola è diventata un piccolo bestseller. E’ stato ora pubblicata da Vita e pensiero (traduzione di Danilo Manera). Per i titoli dei tre paragrafi riportati (inseriti dall’autore solo nell’indice, e non nel testo) ho utilizzato la versione originale; GS)

D'ors_foto

 

 

 

 

 

 

NB: Pablo d’Ors sarà a Bookcity, a Milano, il 14 novembre (ore 17.30, Università Cattolica, L.go Gemelli 1), con Carlo Ossola, e a Trento il 12 marzo 2015, nell’ambito del Seminario Internazione sul Romanzo (SIR) di Massimo Rizzante.

Se me li sono persi: “Invisibile pittura”

5

di Eugenio Lucrezi

CORRADO COSTA, Invisibile pittura, Magma, Roma, 1973

Potremmo dire, parafrasando l’autocommento alla Storia della sarta che apre l’ “Indice ragionato” de L’invisibile pittura, che se in questa seconda metà del secolo fosse esistita la scrittura, noi avremmo certamente incontrato i Grandissimi Scrittori, e Corrado Costa tra loro. Poiché sono esistiti soltanto «arte e artifici, gruppi e divisioni, dichiarazioni e silenzi, controdichiarazioni e contraddizioni, cocktail e cocktailizzazioni, quote e quotazioni, etc. etc.», quelli che abbiamo incontrato, quelli che sarebbero stati grandissimi scrittori, erano gente in fuga, che viveva di nascosto. Come Costa, che ha «sprecato il suo tempo migliore parlando a vanvera e a casaccio di storie che stavano di qua o di là, al di sopra o al di sotto» delle Storie con la S maiuscola.