di Igiaba Scego
Tette rosa, orecchie rosa, boccuccia rosa, unghiette rosa, panno rosa. Il resto nero come la pece. Il bambino, un bambino africano, si sta tenendo in equilibro su una gamba sola. Sta giocando forse o forse no. Chi può dirlo? A guardare il disegno -perchè di disegno si tratta- sembra anche un po’ stralunato. Si intravede un occhio spalancato, impaurito, un po’ vacuo. Ha paura di cadere? Di essere visto? Di cosa ha paura il bambino? In testa tiene sospesa della geometria assortita, una sfera e tre parallelepipedi sottili, tutti di diverso colore. Il bambino, a parte il panno rosa già citato, è nudo. Questo è bene sottolinearlo. Tutto in lui è selvaggio, trasandato, non civilizzato. Guardo la pagina nella sua interezza è noto che le ripetizioni di nero, giallo e rosa sono dappertutto. Provo un certo fastidio a guardare questa immagine. Non ci posso fare niente, ma qualcosa mi preme all’imboccatura dello stomaco. E quel qualcosa, lo so bene per esperienza, non è foriero di niente di piacevole. Mi fa male, accidenti! Sto incassando la solita botta, il solito pugno malefico, sempre lì nello stesso punto, sempre lì dove fa male da morire. Succede sempre così quando vengo investita da uno stereotipo. E quasi peggio del razzismo urlato in piena faccia, quasi peggio di quando alle elementari mi chiamavano “Kunta Kinte, sporca negra”. Ad un insulto razzista di quelli beceri so rispondere per le rime, è quasi più facile. Ma gli stereotipi, le parole sussurrate, quei non detti che ti inferiorizzano ecco quelli sono bocconi amari da mandare giù.
Ma lo devo proprio mandare giù questo boccone?
Riguardo la pagina. Bilbolbul VII edizione, ecco cosa c’è scritto. Ma si? Ora capisco! Stanno pubblicizzando la nuova edizione del festival internazionale di fumetto che si tiene a Bologna a fine Novembre. Un bel festival! Insieme a quello di Lucca uno dei migliori della penisola. Da lì ci sono passati tutti i “mejo” fumettisti italiani, da gipi a zero calcare per interderci. Pesi massimi insomma. E poi sono state tante le attività antirazziste che il festival ha organizzato nel corso degli anni. Sono gente attiva, in gamba. A pensarci però è proprio questo a farmi male di più ovvero che gente attiva, in gamba, non si è ancora posta il problema di mettere in discussione il nome (e l’iconografia) della loro manifestazione. Mi fa male sapere che gente in gamba nel 2014 riproponga un Bilbolbul nero, selvaggio, coloniale come se niente fosse.
Occorre fare un passo indietro però. Va spiegato ai più, a chi non la sa, chi è Bilbolbul.
Bilbolbul viene considerato il primo fumetto italiano. Comparve per la prima volta sul Corriere dei Piccoli il 27 Dicembre 1908 a firma di Attilio Mussino. Il fumetto rappresentava un bambino africano un po’ tonto che viveva letteralmente le metafore e i proverbi che incrociava nel suo cammino. Ed ecco che nel corso delle sue avventure si allungava, si accorciava, andava in pezzi, si rincollava e soprattutto cambiava spesso colore. Poteva diventare verde dalla rabbia, rosso di vergogna e così via. Quando tornava nero naturalmente rientrava nel suo stato di bambino tonto e ingenuo delle colonie. Le avventure di Bilbolbul erano ambientate in Africa. Ma non l’Africa reale, ma una sorta di giungla fiabesca ed arretrata dove tutto poteva succedere. Una terra piena di pericoli e magie che andava presto ricollocata nei binari della civilizzazione. Il personaggio era un perfetto figlio nella sua epoca storica. Bilbolbul era di fatto un sudditto coloniale, il “negretto” di Giolitti e per relazionarsi con lui si doveva usare una certa dose di pazienza e paternalismo, un po’ come gli ufficiali trattavano le truppe coloniali, gli ascari, con paternalismo e una buona (anzi cattiva) dose di frustrate. Bilbolbul era più una bestiolina che una persona. Una scimmietta mangiabanane che faceva le smorfie e faceva divertire i padroni bianchi. Ed anche il suo farsi metafora di fatto era un aderire completamente al volere di un sistema colonialista chiuso ad ogni speranza. Oltre al contenuto quello che colpì al suo apparire fu anche la forma del fumetto. Molti esperti ancora oggi sottolineano l’estro grafico di Mussino e la buona caratura stilistica del fumetto. Mussino era anche un pittore e la sua tecnica ha regalato una certa corposità a Bilbolbul. Era di fatto qualcosa che non si era visto prima. Per quei tempi il lavoro di Mussino era davvero all’avanguardia, stilisticamente parlando. Non è un caso che i bambini si affezionarono da subito a quella sagoma nera un po’ bizzarra, a quel simpatico “negrettino” al quale spuntavano letteralmente le ali ai piedi ogni volta che aveva fretta e la lingua era tutta a penzoloni ad ogni corsa fatta. Era un nero addomesticabile Bilbolbul, faceva di fatto abituare i bambini italiani (purtroppo aggiungerei) ad essere “razza” civilizzatrice. Bastava solo il fatto che i piccoli lettori di Bilbolbul erano tutti vestiti a puntino, mentre lui il povero africanino si aggirava per la foresta quasi come mamma l’aveva fatto. Certo non si era ancora arrivati agli eccessi del fascismo e ai racconti bellici dall’Africa Orientale, ma il personaggio di Mussino di fatto è stato (volente o nolente) una tappa preparatoria a quello sfacelo di razzismo e vanità imperiale voluta in seguito da Benito Mussolini.
Purtroppo Bilbolbul non era un eccezione in quei primi anni del Novecento. Nel Fumetto imperversava il colonialismo. Basti ricordare Nemo di Winsor McCay con il suo fantasmagorico regno di Slumberland o i Katzenjammer Kids, in Italia conosciuti come Bibì e Bibò, che erano di fatto una famiglia tedesca in una remota (e non precisata) colonia d’oltremare. Il tema si ritrovava pure nelle pubblicità, nei modi di dire, nelle canzonette. Ed ecco che lavare il nero era uno tra i leit motiv più usati per reclamizzare i saponi detergenti.
Questo succedeva nei primi anni del ‘900 quando Bilbolbul era nato. Ma oggi?
Perchè io figlia di migranti, afrodiscendente, afroitaliana apro una rivista nel 2014 e mi tocca vedere lo stesso Bilbolbul stereotipato? Sembra non essere passato nemmeno un minuto da quel 27 Dicembre 1908 quando il Corriere dei Piccoli presentava ai suoi lettori la creatura di Mussino. É sano questo? Normale?
Guardo le tette rosa del Bilbolbul del 2014 e comincio ad odiarle. Ma arrabbiarsi non serve. Dobbiamo usare tutti la testa. Tentare di trovare un sentiero condiviso. Ma quale?
Vorrei tanto che un festival di fumetto, un festival di pregio come questo, si mettesse in discussione.
Perchè in Italia serve come il pane mettersi in discussione. Spesso ci capita di arrabbiarci davanti al razzismo manifesto di certi esponenti politici. Parole amare, parole avvelenate traboccano dai nostri Tg o dai talk show. Il razzismo è stato sdoganato purtroppo. Ma è solo il razzista dichiarato il nostro problema? Spesso l’antirazzismo italiano gioca di rimessa. È un antirazzismo che risponde agli stimoli xenofobi, ma non sa più dettare l’agenda. È paradossale la situazione che stiamo vivendo. Si reagisce (ad una barzelletta, ad una dichiarazione, ad un pestaggio), ma spesso non si agisce in maniera preventiva sulle cause del razzismo che ci avvolge. Non riflettiamo più. Siamo in difesa, sempre in trincea, sempre a rispondere e mai a domandare. Ed ecco che esponenti politici di partiti apertamente e dichiaratamente xenofobi usano il razzismo perché hanno capito che da visibilità e voti nelle urne. E perchè sanno che sono soli in campo, sono loro a creare le azioni, nessuno li contrasta, nessuno. Per usare un’altra metafora calcistica possiamo dire che l’antirazzismo fa catenaccio stretto, mentre il razzismo sfodera una massa incalcolabile di centravanti. Ed ecco che si sollecita la pancia degli italiani. Si gioca molto sulle paure. La paura di perdere il lavoro, di perdere la fecondità, di perdere la salute, di perdere il benessere. La paura regna sovrana e si alimenta di stereotipi. L’altro quindi è sempre il poveraccio, l’untore di ebola, quello che stupra, l’ingenuotto mangio a sbafo, la prostituta. L’altro non è mai persona. L’altro è solo una cosa, un oggetto, un qualcosa di molesto che va eliminato, un essere inferiore ed inferiorizzato. Il razzismo di oggi si nutre di fatto degli stereotipi e dei meccanismo creati durante il colonialismo. E li trovi dappertutto in un articolo di giornale, in una fiction della televisione, in un dibattito politico, in parola pronunciata con noncuranza da uno speaker radiofonico.
Ed ecco che la paura si alimenta di immagini antiche, sepolte nel profondo di un io in cui purtroppo il colonialismo e il suo sistema di potere (che divide il mondo in in inferiore e superiore) sono vivi.
Quindi cercare di problematizzare il nome (e l’iconografia) di un festival di fumetti non è questione di lana caprina, ma un esempio di quello che per me significa di fatto decolonizzare. Penso a quanti adolescentu, per fare un esempio, saranno esposti al moderno Bilbolbul nero pece, quanti penseranno nel fondo del loro cuore che in fondo in Africa sono così, sono un po’ selvaggi, un po’ bambini. E il passo è breve tra questo pensiero e picchiare una ragazza nera sull’autobus accusandola di portare l’ebola in Italia.
Non voglio accusare il festival di fumetto per carità. Ma la mia idea è quella di instillare il dubbio, aprire un dibattito.
Di Bilbolbul ne ho parlato tante volte anche con Viviana Gravano e Giulia Grechi. Queste due donne straordinarie hanno messo in piedi una grande avventura che spero possa avere successo. Io e molti altri abbiamo aderito con entusiasmo. L’idea di Viviana e Giulia è molto semplice, Loro vogliono creare una sorta di archivio del colonialismo italiano, un archivio sociale, fatto da tutti noi. Vogliono raccogliere oggetti, fotografie, francobolli, bambole, manifesti per creare una sorta di banca dati della memoria. Ogni persona che vorrà dare il suo materiale lo darà solo in prestito, l’archivio lo catalogherà, lo restituirà e lo metterà a disposizione online per ricerche accademiche e artistiche. L’idea poi è quella di superare il contenitore di memorie, ma creare una piattaforma aperta e un dispositivo vivo, in stretto contatto con il tessuto sociale. Il primo step [dopo la campagna di crowdfunding che sta continuando in questi giorni e del quale si può prendere visione su questo sito https://www.indiegogo.com/projects/immaginari-postcoloniali-postcolonial-visions] prevede un convegno di due giorni -27, 28 Novembre, casa della memoria, a Roma- dal titolo Presente Imperfetto. Le organizzatrici del convegno, che avrà un’impronta decisamente non accademica, hanno chiesto ai relatori di preparare gli interventi a partire da un oggetto/documento del periodo coloniale italiano, che verrà portato e mostrato al pubblico. Io sarò una delle relatrici. Ho deciso che porterò tra i vari oggetti anche due immagini di Bilbolbul. Una dei primi anni del ‘900 del XX secolo e l’altra il manifesto dell’edizione 2014 del festival che si terrà a Bologna dal 20 al 23 Novembre. Perché serve problematizzare anche quello che spesso diamo per scontato. Spero di cuore che qualche organizzatore del festival bolognese possa venire a Roma e discutere con tutti noi un modo di decolonizzare non solo Bilbolbul, ma anche l’intera Italia. Meritiamo un paese senza più stereotipi razzisti. Ora la strada è lunga, ma accidenti dobbiamo farcela.







































