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Adriano Ercolani: «Don Giovanni, eroe tragico della rivolta antidivina»

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Pubblichiamo alcuni estratti dal saggio di Adriano Ercolani Don Giovanni, eroe tragico della rivolta antidivina, pubblicato nel volume Le prigioniere divine. Il teatro d’opera come dramma delle differenze a cura di Andrea Panzavolta (Il Poligrafo).

Il volume raccoglie contributi di: Nicola Berardinelli, Stefania Navacchia, Daniele Capuano, Umberto Curi, Filippo La Porta, Filippo Pantieri, Nicola Morgese, Ilario Belloni, oltre ovviamente ai citati Ercolani e Panzavolta.

Nel saggio di Ercolani si fa riferimento a due interventi reperibili su YouTube:

-l’intervento di Umberto Curi durante il Festivalfilosofia del 2013  intitolato Don Giovanni, dal nome proprio al nome comune

https://www.youtube.com/watch?v=d086eKXd3ms

– l’intervento di Giovanni Bietti sul Don Giovanni durante la rassegna Preludi all’Opera per l’Università di Catania

https://www.youtube.com/watch?v=L_A4WlyUJ7g

 

PREMESSA

Pavel Florenskij, nel suo cruciale saggio Le porte regali, ci ha donato una celebre sentenza, che nel suo splendore apodittico è forse una prova più convincente dell’esistenza di Dio rispetto all’argomento ontologico nel Proslogion di S,Anselmo:

«Esiste la Trinità di Rublev, perciò Dio è».

Chiaramente, nell’asserzione rivelativa del sommo pensatore russo emergono secoli di Filocalia, di tradizione meditativa dei Padri del Deserto, di Neoplatonismo congiunto ai misteri della fede ortodossa, in una vertiginosa sintesi culturale, tra le più abissali del Novecento.

Ben più modestamente, nel mio entusiasmo adolescenziale ho sempre considerato due opere come dimostrazione definitiva e inoppugnabile dell’esistenza di una Perfezione Divina in esse manifestatasi: La Divina Commedia e il Don Giovanni di Mozart.

Se nel poema dantesco, non solo l’oggetto e il/la fine stessi dell’opera, ma la sua complessa impalcatura teologica da maestosa cattedrale medievale, potevano più immediatamente presupporre l’unione mistica con una dimensione divina, il capolavoro mozartiano appare al contrario (nonostante l’ironica benevolenza moraleggiante dell’happy ending) una celebrazione estetica e filosofica del più fascinoso demone carnale e luciferino della storia del mito e della letteratura.

Dunque, ancor di più risplenderebbe in essa il nitore della bellezza e del genio per comunque testimoniare, pur per contrasto, la Presenza gloriosa e travolgente di un afflato divino.

E come il poema divino, anche se da una prospettiva rovesciata (stavolta non nel senso florenskijano), l’opera mozartiana coniuga Eternità e Tempo, Aion e Chronos (avendo come protagonista un irrefrenabile inseguitore del Kairos), il rapporto col Sacro e la schiavitù dei sensi, la filosofia perenne e la dialettica sociale.

 

(…)

 

I MILLE VOLTI DELL’EROE DEMONIACO

L’eroe dai mille volti è un celebre saggio del 1949 di Joseph Campbell, tra i più brillanti e originali allievi di Carl Gustav Jung, che ispirò la codificazione del cosiddetto “Viaggio dell’Eroe”, divenuto a sua volta lo schema principale per la costruzione delle sceneggiature hollywoodiane (…) il viaggio eroico del protagonista in un’impresa avventurosa, chiara allegoria del percorso di iniziazione, della Grande Opera, dell’illuminazione, dell’incontro col proprio Sé o col divino, a seconda delle diverse tradizioni o interpretazioni.

Don Giovanni compie, nella maniera più affascinante e rocambolesca, questo viaggio al contrario: è un eroe demoniaco e daimonico, il cui itinerarium lo conduce agli antipodi del Poeta Divino, ma che proprio per questo ha un fascino irresistibile e ispira un’umanissima empatia, proprio come i più celebri dannati infernali danteschi (pensiamo alla commozione per Paolo e Francesca o al rispetto ispirato dal carisma di Farinata degli Uberti): del resto, Kierkegaard insiste proprio sullo spiegare come lo stadio estetico sia lo stato esistenziale iniziale di tutti gli esseri umani.

Sempre Dante, nel XVI del Purgatorio, fa spiegare a Marco Lombardo con accenti poetici memorabili la condizione umana: “«Esce di mano a Lui che la vagheggia / prima che sia, a guisa di fanciulla / che piangendo e ridendo pargoleggia, // l’anima semplicetta che sa nulla, / salvo che, mossa da lieto fattore, / volentier torna  a quel che la trastulla. // Di picciol bene in pria sente sapore; / quivi s’inganna, e dietro ad esso corre, / se guida o fren non torce suo amore.» . Don Giovanni, supremo ingannatore e per questo ingannato, nel suo apparente dominare la materia, cade nella trappola del velo di Maya, per questo, nel suo alone demoniaco e superumano, appare una maschera profondamente umana. Egli forza i limiti della condizione umana, come un Ulisse perso nei sensi, con la massima fierezza, fino alle estreme conseguenze.

E come Ulisse, vedremo, si presenta come un Nessuno, senza nome.

Probabilmente, proprio per questo possiede, per sua natura di dramatis persona e per la perenne attualità propria dei classici, mille cangianti volti.

 

(…)

 

Don Giovanni è stato, ovviamente, per i suoi caratteri di carisma dannato e ribelle, icona praticamente obbligatoria del Romanticismo, eppure anche qui non mancano le sorprese: nel 1812 la fantasia vulcanica e bizzarra di E.T. Hoffmann si ispira al Don Giovanni mozartiano (“opera delle opere”) con un racconto strabiliante, Don Juan. Un evento fantastico che è accaduto ad un entusiasta viaggiatore, in cui una confessione in camerino del personaggio di Don Anna rivela come il suo vero grande amore sia stato proprio Don Giovanni: furono i vincoli tragici a impedire il compimento del loro autentico amore, ed ella morirà prima di adempiere alla promessa a Don Ottavio, in un capovolgimento faustiano della figura del seduttore, non spietato violentatore ma innamorato vittima di un Fato crudele; non possiamo non citare il poema omonimo (iniziato nel 1818 e mai compiuto) di Lord Byron, che vede il protagonista come una sorta di improbabile Candide, goffo e ingenuo e facilmente sedotto dalle donne, ancora in una inversione provocatoria dei ruoli; maggiore attenzione merita una delle Piccole Tragedie (che ispirerà l’opera omonima di Dargomyžskij del 1872), Il convitato di pietra (1830) di Puskin, autore straordinario che nella stessa raccolta dedica un’altra pièce a Mozart e Salieri (inaugurando la leggenda nera dell’avvelenamento per invidia che arriverà fino al film Amadeus di Miloš Forman); ci limitiamo a segnalare, per limiti di spazio, le versioni simboliste e decadenti di Theodore de Banville, di Flaubert, di Huysmans e Remy de Gourmont, per dedicarci a un ritratto memorabile del più grande poeta loro contemporaneo.

Charles Baudelaire, sommo cantore della ricerca vana dell’unità mistica nei sensi (il sonetto Correspondance, lungi da essere lo scolatico “manifesto del Simbolismo”, nelle prime due quartine potrebbe essere scritto da uno yogin o da un sufi), nei suoi Les Fleurs du Mal (1857) immortala con la magnifica potenza del suo dono poetico la fierezza maestosa dell’eroe dannato:

 

Quando Don Giovanni verso l’onda sotterranea

discese, ed ebbe dato il suo obolo a Caronte,

uno straccione cupo con l’occhio fiero d’Antistene,

s’impossessò dei remi con gesto di vendetta.

 

Mostrando i seni penduli e le vesti aperte,

donne si torcevano sotto il nero firmamento,

e come un vasto gregge di vittime offerte

dietro di lui muggivano con lungo lamento.

 

Sganarello, ridendo gli chiedeva la paga,

e intanto Don Luigi, con dito tremante,

mostrava a tutti i morti che sulle sponde vagavano

il figlio audace che schernì il suo capo bianco.

 

In lutto, tutta brividi, la casta e magra Elvira,

presso lo sposo perfido, che fu suo amante un tempo,

sembrava reclamare un ultimo sorriso

acceso dalla dolcezza del primo giuramento.

 

Ritto nell’armatura un uomo alto di pietra

Stava al timone e fendeva l’onda nera:

ma il calmo eroe, sulla sua spada raccolto,

fissava la scia e non degnava altro vedere.

 

Sembra di leggere di Farinata che “s’ergea col petto e con la fronte/ com’avesse l’inferno a gran dispitto.”. Come scrive Giovanni Casoli in Novecento letterario italiano e Europeo, Baudelaire è un cristiano diviso, “dimezzato e révolté”: dall’unità metafisica alla base del simbolismo medievale che (fin dall’etimo del termine symbolon) trovava il proprio senso nel rapporto creaturale e verticale con Dio, il Simbolismo, moderno e decadente, cerca l’unità nell’esperienza dei sensi, in un “misticismo estetico” che trova solo un senso di unità materiale e orizzontale. Una riflessione che indurrebbe a un accostamento, che in questa sede ci limitiamo ad enunciare, con la visione leopardiana (pensiamo solo al possibile confronto tra la comune rivolta antidivina presente ne Le Litanie di Satana di Baudelaire e l’Inno ad Ad Arimane di Leopardi).

Don Giovanni di questa rivolta è appunto il più grande eroe.

 

Albert Camus, ne Il mito di Sisifo, lo interpreta, appunto, come eroe della rivolta esistenzialista, sembrando credere alla risposta di Don Giovanni quando Leporello gli rinfaccia le continue infedeltà (“È tutto amore! Chi a una sola è fedele, verso l’altre è crudele”), vedendolo come simbolo de “l’intelligenza che conosce le proprie frontiere. Sino ai confini della morte fisica, Don Giovanni ignora la tristezza. Dal momento in cui egli sa, il suo riso prorompe e fa tutto perdonare (…) per lui nulla è più vanità, all’infuori della speranza in un’altra vita. ed egli ne dà la prova, poiché se la gioca contro il cielo stesso”.

 

Passando al cinema (ricordando en passant che il primo film sonoro della storia è Don Giovanni e Lucrezia Borgia di Alan Crosland del 1926), ne L’occhio del diavolo (1960), Ingmar Bergman ci mostra un Don Giovanni sconfitto e malinconico, in chiave poetica e ironica: si tratta del film probabilmente più “leggero” del serio regista svedese, da egli stesso definito un “rondò capriccioso”, opera speculare, e antidoto complementare,  al contemporaneo, agghiacciante e cupissimo, La fontana della vergine. Partendo da un proverbio popolare irlandese («La verginità di una giovane è come un orzaiolo nell’occhio del diavolo»), Bergman immagina Belzebù infastidito, appunto, alla vista a causa della purezza di una fanciulla rimandare sulla terra Don Giovanni per sedurla, offrendo in cambio uno sconto di trecento anni sulla pena infernale. Accompagnato dal il suo fido servo (lo scudiero Pablo, che avrà più successo di lui), Don Giovanni finirà per innamorarsi dell’innocenza della ragazza, sancendo la vittoria delle potenze celesti (pur con un’ironica coda finale a smentirne maliziosamente la morale).

 

Il Don Giovanni di Carmelo Bene, lungometraggio del 1970, ispirato da un’inquietante novella di Barbey d’Aurevilly, è, invece, crudele, sadiano, un corruttore pienamente consapevole dell’innocenza e della fede. Con uno schema simile, non a caso, a quello del suo spettacolo S.A.D.E (che tanto entusiasmò l’intellighenzia francese degli anni ‘70, anche per la parodia dell’hegeliana dialettica servo/padrone, con Bene intento nei panni di Leporello), l’anziano seduttore trova ormai eccitazione solo nel paradosso: nello spettacolo teatrale questo è rappresentato dall’irruzione della polizia durante l’orgia, nel film solo dalla malsana conquista di una ragazzina bruttina e baciapile, figlia di una delle sue amanti. Con la cifra stilistica tipica di Bene, il film, costruito su un montaggio frenetico e quasi intollerabile, prova generale di Salomè, è un colto intarsio di citazioni; si apre, ad esempio, con il celebre sonetto di Shakespeare “No, non ti vanterai, tempo, ch’io muti”, e fin dall’inizio, una stupenda Lydia Mancinelli incarna, sulle note dell’aria del catalogo, tutti i dodici archetipi femminili elencati da Leporello, come poi durante il film rappresenterà celebri nudi della storia dell’arte, quale ad esempio la Venere di Velasquez. A un certo punto, con una geniale sovrapposizione archetipica, alla vicenda viene sovrapposto un dialogo tra la Fata Turchina e Pinocchio (maschera che era già un cavallo di battaglia di Bene), particolarmente significativo se si conosce l’interpretazione capovolta del mito collodiano da parte del regista.

Nel finale, Don Giovanni, davanti all’ennesimo fallimento, frantuma uno specchio, mentre risuona il monito di Jorge Luis Borges: “gli specchi, e la copula, sono abominevoli, poiché moltiplicano il numero degli uomini”.

 

Non possiamo non citare la celebre trasposizione filmica di Joseph Losey del 1979: film che si apre con una rinomata citazione gramsciana (“ il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”), prosegue con immagini dal simbolismo ermetico (per uno scherzo del destino realizzate da un illustratore di cognome Salieri!), ritmate dalle onde sempiterne della risacca, prima della suggestione alchemica della vetreria di Murano; un Don Giovanni cupo, crudele, quello interpretato da Ruggero Raimondi, antitetico a quello atletico e vitale di Cesare Siepi nelle versioni dirette da Furtwängler nel ‘54 e (quella che mi è personalmente più cara) da Krips nel ‘59; una versione in cui l’armonia delle diafane architetture palladiane (il film è girato a Vicenza) crea un perturbante contrasto col nero funereo dei costumi, in una riproposizione a scacchiera sia del pavimento della Loggia che della lotta allegorica tra Bene e Male.

In questa chiave iniziatica, obbligatorio è ricordare il saggio di Marius Schneider Il vero Don Giovanni, pubblicato su Conoscenza Religiosa del 1974, che interpreta in chiave solstiziale il mito come solare, nelle sue versioni arcaiche. Così ne evoca il senso, in Le Meraviglie della Natura, Elémire Zolla: “Il carnevale è il mese inaudito: il tredicesimo: suo eroe è un travestito sfrontato, un Lucifero, un Don Giovanni, un figlio del Sole”.

Concludiamo questa rapida rassegna con Cristian Jacq, che nella sua monumentale quadrilogia dedicata alla ricostruzione quasi quotidiana della vita di Mozart, Il romanzo di Mozart (2006), offre, nel volume Il Fratello del Fuoco, un’accurata interpretazione massonica dell’opera (come del resto fa di tutto il percorso artistico del compositore): Don Giovanni è il Compagno, Leporello il Primo Sorvegliante, Donna Anna, Don Ottavio e Donna Elvira rappresentano le tre colonne del tempio (Saggezza, Forza e Bellezza), Masetto e Zerlina la piccola unione, prima tappa della Grande Opera, mentre il Commendatore, chiaramente, è il Maestro d’Opera, ritualmente assassinato all’inizio dell’iniziazione (perdonate il bisticcio).

(…)

 

DON GIOVANNI DI MOZART, UNICUM INAUDITO

A questo punto arriviamo a uno sguardo più ravvicinato al vero oggetto della nostra trattazione, il capolavoro (non l’unico, ma forse il più universale) della produzione mozartiana.

(…)

L’Ouverture, anch’essa leggendariamente composta la notte prima del debutto, è un riassunto vertiginoso e memorabile di tutta l’opera: inizia con le note tremende e ieratiche dell’avvento finale della Statua del Commendatore, per poi liberarsi nel brio divinamente giocoso tipico della gioia compositiva mozartiana, nel rocambolesco mescolarsi di spunti travolgenti, melodie memorabili, cambi di ritmo, di atmosfera, di umore, per poi sfumare con serena, quasi fiabesca, compostezza.

Nei sei minuti scarsi dell’Ouverture del Don Giovanni non c’è solo già tutta l’opera ma c’è tutta l’esperienza umana, l’itinerarium e la catabasi, la violenza e la pietà, l’innocenza e il peccato, la dannazione e la redenzione, la rivolta luciferina e l’implacabile giustizia divina, un prodigio musicale supremo, degnamente posto all’inizio di una delle più alte creazioni della storia della composizione.

Soprattutto, c’è evidente la cifra stilistica, inedita e irriducibilmente peculiare, dell’opera: la mescolanza inaudita di generi, stili, ritmi che poi diventa specchio artistico perfetto del travolgimento di tutte le convenzioni sociali incarnato dal protagonista, che nella sua furia dionisiaca (ci ritorneremo) decostruisce e svela la vanità illusoria di tutte le sovrastrutture morali.

Iniziamo, proprio, da questo punto: Mozart segna nel suo catalogo personale il giorno della prima il Don Giovanni come “opera buffa”.

Una storia che inizia con un tentato stupro, l’omicidio di un vecchio nobile intervenuto a difendere l’onore della figlia e finisce con il protagonista trascinato all’inferno, da vivo, per sempre…”opera buffa”!

La spiegazione è squisitamente tecnica: l’opera buffa è fondata sull’azione, la velocità, sui concertati, sui brani d’assieme, sui dialoghi. Esattamente le caratteristiche necessarie per raccontare la vicenda di un protagonista continuamente in movimento, sfuggente, inafferrabile, preda di continui innamoramenti, seduzioni, colpi di scena, travestimenti, inversioni di ruolo, apparizioni e repentine sparizioni.

 

(…)

 

Come sottolinea Bietti, Mozart e Da Ponte sono esattamente al centro della tradizione, e da quel punto centrale uniscono e mescolano elementi dell’opera buffa e dell’opera seria: in questo, l’opera è unica perché il personaggio è unico.

Se i personaggi virtuosi (Donna Anna, Donna Ottavio e Donna Elvira) utilizzano il registro dell’opera seria (arie in cui il personaggio riflette a voce alta sulla propria condizione), Leporello (la versione dapontiana di Sganarello) è pienamente all’interno dei codici dell’opera buffa, Masetto e Zerlina portano nella loro litigiosa allegria la musica popolare, il Commendatore incarna ieratico il registro sacro, Don Giovanni attraversa e mescola tutti i generi.

Le sue tre arie sono velocissime e travolgenti, due delle quali cantate nei panni di Leporello, qualcosa di inaudito per il protagonista di un’opera.

La rivoluzione musicale di Mozart non è solo il significante estetico perfetto per la natura luciferina del protagonista, ma coglie con inquietante dono profetico lo Zeitgeist (meno di due anni dopo accadrà lo spartiacque storico della Rivoluzione Francese).

 

Ma, soprattutto, da supremo burlador, come è stato notato da diversi critici, Don Giovanni “si impossessa del materiale musicale” (Bietti) degli altri personaggi, e gli “fa il verso” e così facendo ruba loro l’identità.

In perenne movimento, immerso nell’attimo, non nel presente meditativo ma nel continuo rapimento della Maya, dello stimolo sensuale, si esprime per battute folgoranti, ordini imperiosi, irosi capricci, fregole incontenibili: le sue arie sono velocissime e travolgenti, consuma il tempo, divora gli amori, brucia le esperienze, sconvolge legami e calpesta ciò che è sacro, sacrificando il tutto sull’altare della propria inappagabile sete di piacere.

Al contrario, la sua Nemesi, il Commendatore, si esprime per frasi lunghissime, lentissime, solenni e definitive, come l’eterna pace dei giusti a cui appartiene.

Eppure, nella sua inafferrabile evanescenza Don Giovanni è il centro dell’opera, tutti i personaggi esistono in sua funzione, animati, per seduzione o per contrasto, dalla sua energia ferina e primordiale; per questo, come sottolinea non solo Bietti, il “lieto fine” non è poi tanto lieto, se non per i semplici Masetto e Zerlina: Don Ottavio dovrà ancora aspettare un anno di cordoglio per coronare il suo sogno d’amore con l’affranta Donna Anna, Donna Elvira si ritirerà in convento, Leporello va all’osteria “a trovar padron miglior”.

Senza Don Giovanni tutto torna piatto, banale, malinconico, privo di vita.

Altro paradosso, inevitabile da notare per qualsiasi spettatore accorto: Don Giovanni, il gran seduttore che nell’aria del catalogo può vantare 2.065 conquiste, nelle oltre tre ore dell’azione drammaturgica…va sempre in bianco.

 

(…)

 

Probabilmente, la castità forzata a cui il Nostro è costretto non dal demonio che gli par si diverta ad opporsi ai suoi “piacevoli progressi”, ma è la legge divina del karma, del contrappasso che sta incombendo con i passi ultraterreni e spaventosi del Commendatore in spiritu.

 

Come nota Bietti, tantissimo si potrebbe dire sulla genialità che ha ispirato praticamente ogni frase, ogni battuta, ogni nota (almeno nella sua disposizione) dell’opera: ben noto è come la coloratura cromatica a passi discendenti, tipica del registro drammatico, della morte del Commendatore ispirerà il celeberrimo Chiaro di Luna di Beethoven (sono state trovate delle trascrizioni di pugno del genio tedesco proprio delle battute simili alle terzine discendenti più famose della storia della musica); più volte è stato sottolineato come lo stile sillabico buffo alla Paisiello venga ripreso nel personaggio di Leporello; l’aria “Madamina, il catalogo è questo” è costruita al contrario, prima veloce, poi lenta, a minuetto (il servo si identifica col padrone, usando lo stile nobile, non a caso apre l’opera dicendo “Voglio fare il gentiluomo”); nel duetto con Zerlina (quel “Là ci darem la mano”, spesso preso a canto di “innocente amore”, che in realtà è duetto di un seduttore ingannatore e una fedigrafa sospettosa), Don Giovanni “ruba” il ritmo alla controparte femminile per portare a termine la seduzione (all’inizio cantano la stessa melodia, ma lui sul tempo forte, lei in levare), passando dallo stile nobile a quello popolare (come dirà a Leporello per giustificare lo scambio di costumi, “Han poco credito con gente di tal rango gli abiti signorili”), nel manoscritto, addirittura Mozart storce le gambe delle note a simulare l’abbraccio incombente fra i due; chiaramente il tutto ha un evidente significato anche sociale: nella scena della festa (scandalosamente aperta “a tutti quanti”, abbattendo le barriere sociali, pur per perseguire i suoi scopi seduttori) si indugia quasi inutilmente sulla ripetizione di “Viva la libertà”, forse non a caso, visto che in prima fila c’era un Imperatore; una ulteriore raffinatezza compositiva da sempre elogiata è proprio nel proseguio di quella scena, in cui tre orchestre suonano tre danze diverse (un minuetto, una contradanza, una danza popolare tedesca): non si tratta solo di uno stupefacente virtuosismo compositivo, ma della sovrapposizione eversiva delle tre classi sociali (nobile, borghese e plebea) a cui le tre danze corrispondono.

 

L’unico che che attraversa tutti gli stili (e tutte le classi) è Don Giovanni, unicum irriducibile, suo essere “camaleonte musicale” (Bietti): mentre tutti gli altri personaggi rimangono ancorati al loro stile, lui lo cambia continuamente, per sedurli, parodiarli, attraversarli: lo stile ecclesiastico del Commendatore, lo stile buffo di Leporello, lo stile tragico di Don Anna, quello patetico di Donna Elvira, quello serio di Don Ottavio, quello popolare di Masetto e Zerlina.

Dice Bietti: “continuamente Mozart articola il percorso drammaturgico attraverso queste gradazioni”, a lente ondate, è se la mescolanza dei generi è tipica dell’Opera, questa “capacità di articolare il crescere e diminuire della tensione drammatica” nessuno l’aveva mai sperimentata prima.

La poetica della gradazione si rivela cristallina ai primi confronti filologici: nella versione originale praghese, la furia vendicativa tragica di “Or sai chi l’onore”seguiva immediatamente quel momento (appena un minuto e mezzo scarso!) di pura, perfetta, divina follia dionisiaca che è“Fin ch’han dal vino”, ma, come sappiamo, per la versione viennese Mozart inserirà una nuova scena, donando allo scialbo Don Ottavio una delle arie più belle di tutti i tempi: “Dalla sua pace”, il meraviglioso canto dell’innamorato più puro, un’oasi lirica tra il registro drammatico dell’aria precedente e quello buffo (nel senso del trickster divino) di quella successiva.

A questo punto, una breve carrellata di riflessioni sui personaggi.

Leporello, da par suo, è una maschera comica perenne, che da Plauto e Aristofane, attraverso la Commedia dell’Arte, conduce, nella sempiterna efficacia delle gag classiche, ai volti della comicità contemporanea: si lamenta come Peppino De Filippo, è scaramantico come Totò, fa la supercazzola come Ugo Tognazzi in Amici Miei, mangia di nascosto come Paolo Villaggio nei panni di Fracchia. Nel ruolo di travestimento, inversione e autoparodia con Don Giovanni viene messa in scena, usando un antico dispositivo dell’arte comica, una carnevalesca esposizione della dialettica servo/padrone: Leporello inizia l’opera lamentandosi, dichiarando ad alta voce invidia sociale, ma per tutto il tempo drammatico non fa che esprimere un misto di ammirazione virile e vile condanna morale delle imprese del padrone; un conflitto che esplode e si ricompone all’inizio del secondo atto, in uno degli scambi più vivaci e comici della drammaturgia mozartiana; anche i recitativi fra i due sono speculari, per contenuto e posizione negli atti, procedono per stilemi variati che ritmano il progressivo sfaldarsi della lealtà reciproca davanti all’ineluttabilità del Fato (“Va là che sei il grand’uom” vs “Va là che sei un buffone!”); se Don Giovanni nell’unica occasione in cui rischia il successo amoroso è nei panni del servo (la stupenda serenata “Deh vieni alla finestra”) è significativo che il monito letale del Commendatore (“Di rider finirai pria dell’aurora”) geli con il suo brivido lugubre i due proprio mentre il padrone dice apertamente che avrebbe, senza esitazioni, sedotto con l’inganno la moglie di Leporello: il tradimento dell’amico fedele è l’ultimo paletto etico che una volta abbattuto spalanca le porte della dannazione.

Donna Anna, fiera, nobile, purissima nella sua bellezza e nel suo unico scopo di vendicare il padre assassinato: il meraviglioso “monologo” con cui descrive il tentativo di stupro subito e la sua coraggiosa resistenza è uno dei più picchi di un’opera in cui, sostanzialmente, non c’è un momento di pausa, di calo, di abbassamento di tensione.

Accanto a lei, Don Ottavio, uomo della delega, del dubbio, dell’incertezza, contrapposto al puro istinto, all’astuzia da Odisseo nell’oceano dei sensi di Don Giovanni: esordisce con il goffo “Tutto il mio sangue verserò se bisogna”, prosegue con la gaffe edipica “Lascia, o cara/ la rimembranza amara:/ hai sposo e padre in me” (rivolgendosi a una donna a cui trenta secondi prima hanno ucciso il padre che la stava difendendo da un tentato stupro), per tutta l’opera viene redarguito per le sue romantiche inopportunità da Don Anna che lo richiama al comandamento della vendetta, dubita ingenuamente anche davanti all’evidenza della colpevolezza di Don Giovanni, fino allo smacco finale di dover lasciare un anno ancora allo sfogo del cor di Donna Anna. Eppure, pur nella sua insopportabile inadeguatezza al ruolo, nel suo candore risplende un puro amore: “Tra cento affetti e cento/ vammi ondeggiando il cor” è uno dei momenti più alti e commoventi della storia della musica, una vertigine abissale di due teneri amanti, innocenti e tremanti al cospetto del Male assoluto.

Donna Elvira, figura dalla femminilità complessa e contraddittoria, amante tradita e furiosamente vendicativa, eppure irresistibilmente ancora innamorata, pronta immediatamente a cedere, ancora, a cadere nuovamente nell’illusione, donna ferocemente passionale eppure destinata al convento, fino all’ultimo tenta di redimere il crudele ingannatore che la sbeffeggia: significativo che perfino Leporello, fin dall’inizio complice della burla, dall’esposizione del catalogo fino alla beffa spietata del travestimento, davanti alla derisione finale si commuova e si sdegni (“Quasi da pianger mi fa costei”, unendosi al di lei grido “Cor perfido”).

Zerlina, stadio estetico che la semplicità popolare induce a diventare etico, astuta e maliziosa sposina, pronta a tradire subito il novello sposo col seduttore facoltoso, ma altrettanto abile a riconquistarlo facendolo fesso, giocando magistralmente le carte della sensualità femminile per giostrare il rozzo e amabile Masetto, scarpe grosso, cervello fino, amore bello perché litigarello, e tutti i proverbi della saggezza popolare di cui la coppia è leggiadra e consapevole incarnazione (fin dall’entrata in scena, che riecheggia il Trionfo di Bacco e Arianna di Lorenzo De’ Medici).

Il Commendatore, figura nobile e ieratica, Giusto per antonomasia, per cui Mozart (nota Bietti con una boutade) compone una serie dodecafonica ante litteram, una scala cromatica di dodici note nel verso: “Non si pasce di cibo mortale/ chi si pasce di cibo celeste”, monito sublime della Trascendenza che si confronta col Grande Negatore dello Spirito; difficilmente si riscontra nella storia della musica una scena in grado di commuovere profondamente, fino ai brividi, a ogni singolo ascolto come l’incontro finale tra la Statua e il dissoluto punito. Tutto ciò, avendo poco prima mostrato Don Giovanni al vertice del suo splendore materiale , nel trionfo edonistico, nella massima fierezza della sua rivendicazione filosofica (“Viva le femmine, viva il buon vino/ sostegno e gloria d’umanità”): tutti conoscono l’autocitazione, al culmine degli omaggi ai compositori contemporanei, dell’aria “Non più andrai, farfallone amoroso” de Le Nozze di Figaro, nel momento in cui Leporello si fa perdonare vellicando la vanità del padrone (“Sì eccellente è il cuoco mio, che lo volle anch’ei provar!”), in un vortice di calembour fra il “piatto saporito” e Teresa Saporiti (Donna Anna nella prima rappresentazione) e il cognome Cucak (“cuoco”, in boemo) del secondo maestro di cembalo nell’orchestra della prima praghese.

Quello che non tutti, a un primo ascolto, notano è come in quel momento quell’aria evocata non rappresenti un rimprovero giocoso, ma una tragica premonizione di quello che accadrà dopo pochi minuti (del resto, Kierkegaard vedeva proprio l’aria “Non so più cosa son, cosa faccio” di Cherubino, il farfallone dedicatario del monito, come perfetta rappresentazione dello stadio estetico): ulteriore raffinatezza, ricorda Bietti, l’ennesima specularità col finale del primo atto: mentre in quel caso tre orchestre suonano tre brani diversi contemporaneamente, qui una ne suona tre di seguito.

 

CONCLUSIONI

Il Don Giovanni è un “dramma giocoso”, e, se leggiamo etimologicamente i termini, dal punto di vista sapienziale non c’è più bella definizione della vita stessa.

Nella sapienza vedica del Brahmasūtra esiste il concetto di Līlā, la creazione stessa è un gioco divino: «Egli non ha motivo di essere./ Allo stesso modo il mondo è semplicemente un suo gioco.»

La Bhagavad Gita, supremo testo di conoscenza spirituale, insegna che dobbiamo essere attori e testimoni del gioco dell’esistenza, arrendendo i frutti delle nostre azioni.

Shakespeare farà eco secoli dopo: “Tutto il mondo è un palcoscenico, donne e uomini sono solo attori che entrano ed escono dalla scena.”.

In uno dei più oscuri e illuminanti aforismi della storia della filosofia occidentale, il sapiente Eraclito sancì che “Il Tempo (Aion) è un fanciullo che gioca”.

Friedrich Nietzsche in Così parlò Zarathustra, facendo eco al maestro di Efeso,  proclamerà: “Innocenza è il fanciullo e dimenticanza, un ricominciare, un gioco, una ruota che gira su se stessa, un primo moto, un santo dire di sì. Sì al gioco della creazione, fratelli, occorre un santo dire sì”.

Tutto questo ci riporta al grande archetipo, che agisce come un daimon occulto nella maschera eternamente cangiante di Don Giovanni: sotto al cappello a piume svolazzanti, sotto il volto celato del gran seduttore, appare il sorriso beffardo e lo sguardo cavo della maschera tragica di Dioniso.

Non sono certo io il primo ad aver colto questa profonda connessione, segnalo a riguardo i contributi Un viaggio da Mozart a Dionisio. Oltre il Don Giovanni. Essere per divenire  e Dioniso immortale. Il Don Giovanni tra iniziazione e mito e di Domenico Alessandro De Rossi.

In particolare, nell’ultimo contributo citato, l’autore, dopo aver affrontato con profonda consapevolezza simbolica la figura del Nostro come riproposizione dell’archetipo dionisiaco, offre un’ardita quanto convincente interpretazione in chiave massonica, che capovolge in maniera sorprendente, e per questo illuminante, la prospettiva più immediatamente decifrabile dell’opera.

Dopo aver proposto una complessa esegesi numerologica dei messaggi occulti disseminati da Mozart e Da Ponte nel libretto, De Rossi, con un brillante guizzo ermeneutico, arriva a fornire una interpretazione di rara profondità esoterica del celebre beffardo gobbledygook di Leporello “Conciossiacosaquandofosseché il quadro non è tondo”, sintesi solo apparentemente giocosa dell’emblema cardine della Massoneria, ovvero l’unione di squadra e compasso.

De Rossi, da questa premessa, lascia scaturire un’interpretazione vertiginosa: l’opera è una meravigliosa allegoria di un’iniziazione dionisaca, in cui l’adepto è Leporello, testimone del superamento, in un complesso rito di morte e resurrezione durato quasi tre ore, della contrapposizione tra il dover-essere del Commendatore (pietrificato nel suo rifiuto di Dioniso, immagine del “sonno di Kundalini) e la libera volontà di Don Giovanni (sprofondato nelle fiamme della sua ricerca del piacere): “In finale, l’apparente contraddizione tra dimensione terrena di Don Giovanni e dimensione superumana del Commendatore, perde qui ogni valenza di sostenibilità. Ambedue le figure simboliche nel dramma giocoso, nella commedia e nella tragedia rappresentano insieme e nello stesso tempo l’unità della vita con le sue opposte alternanze. Tra dovere e libertà, tra conservazione e rivoluzione, tra ordine e disordine, tra regola ed eccezione, tra intuizione e razionalità, tra permanenza ed effimero, tra apparenza ed essenza, tra intelligenza ed ebbrezza, tra morte e vita, tra thanatos ed eros: tra Apollo e Dioniso.”.

In questo senso, il Don Giovanni rappresenterebbe il vero capolavoro iniziatico di Mozart, rispetto al più celebrato, in quel senso, Die Zauberflöte, il quale è in realtà la più esplicità esposizione essoterica della simbologia massonica in ambito artistico.

(…)

 

Parlando di Dioniso, è altamente significativo che lo stesso Nietzsche, il filosofo che ha riportato la deità greca al centro della riflessione occidentale, dedichi, in Aurora, al Nostro questa riflessione: “Il don Giovanni della conoscenza: non è stato ancora scoperto da nessun filosofo e da nessun poeta. Gli manca l’amore per le cose che conosce, ma nella caccia e negli intrighi della conoscenza- su su fino alle stelle più alte e lontane della conoscenza- è ingegnoso, formicolante di desiderio e ne gode, finchè non gli resta più nulla cui dar la caccia se non quel che nella conoscenza è assolutamente nocivo, come fa il bevitore, che finisce per darsi all’assenzio e all’acquavite. Così, alla fine, s’incapriccia dell’inferno- è l’ultima conoscenza, quella che lo seduce.”.

 

Altrettanto illuminante è pensare che per celebrare Dioniso in musica, sotto il travestimento continuo di Don Giovanni, si sia dovuto incarnare il dio opposto e complementare, Apollo, nella perfezione armoniosa del genio di Mozart.

Se non cogliete immediatamente l’accostamento al dio dell’ebbrezza, leggete queste parole di Davide Susanetti (tratte dal saggio L’altrove della tragedia greca) e pensatele riferite a Don Giovanni:

“Appare Dioniso. All’improvviso, come colui che sempre giunge da altrove, che irrompe da molto lontano. Inatteso e ignoto come se fosse sempre la prima volta. Estraneo e alieno, eppure così intrinsecamente intimo e proprio, come sempre è intima e propria la vita, anche quando non lo si sa o non lo si vede (…) Dioniso è qualcosa che forse non si vorrebbe, che si desidererebbe ignorare. Ma non è possibile, come non è possibile negare la radice che sta al fondo dell’esistenza e della natura. E la lezione per chi rilutta non può che darsi nella forma di uno choc violento (…) E insieme all’identità si frangono anche tutte le credenze, le opinioni e le scelte che da tale identità scaturiscono come necessario e inevitabile corollario. Nel compiersi della sventura assoluta o del più grande pericolo, vi è una crepa che non cessa di aprirsi e di approfondirsi fino a ingoiare ogni cosa (…) Vita assoluta in cui tutti gli opposti si congiungono e si sciolgono”.

 

Ecco perché amiamo il Don Giovanni, colui che diventa Oltreuomo in quanto “umano, troppo umano”, colui che inseguendo l’immediato non è mai nel presente, colui che per eccesso di amore spezza il cuore di chiunque, colui che fieramente va all’inferno perché a testa alta dichiara “A torto di viltate tacciato mai sarò”, colui che davanti all’incarnazione dell’Etica che gelida gli impone il ravvedimento oppone il suo “Ho fermo il cuore in petto”, colui che calpesta ogni rispetto ma ha alto il senso dell’onore, colui che inganna e violenta ma è colmo di coraggio, colui che è nella sua incessante ricerca del piacere è un bambino che ha smarrito l’innocenza e, quindi, come Pinocchio, strepita per affermare la propria unica, irredimibile, ardente individualità, egli è la manifestazione, trionfale e per questo fallimentare, seducente e per questo punita, per sempre fascinosa e per sempre dannata, di ciò che affratella tutta l’umanità come il vero Peccato Originale: l’ego.

Per questo, per affrancarci dalla sua trappola seducente, dobbiamo sublimarlo nella trasfigurazione apollinea dell’istinto dionisiaco, un miracolo che solo Wolfgang Amadeus Mozart, prediletto degli Dèi, poteva compiere.

 

BIBLIOGRAFIA

 

Le porte regali. Saggio sull’icona, Pavel Florenskij, a cura di Elémire Zolla, Milano, Adelphi, 1977

Vita avventura e morte di Don Giovanni, Giovanni Macchia, Bari, Laterza, 1966, poi Torino, Einaudi, 1978, poi Milano, Adelphi, 1991 e 1995

Lettura del “Don Giovanni” di Mozart di Massimo Mila, Collana Piccola Biblioteca n. 494, Einaudi, Torino, 1988-2000

Don Giovanni. La musica di Mozart e l’eros, trad. Kristen Montanari Guldbrandsen e Remo Cantoni, Milano: Denti, 1944: Milano: Mondadori, 1976

L’eroe dai mille volti, Joseph Campbell, Milano: Feltrinelli, 1958; 1984

La Divina Commedia, Dante Alighieri, ora in: Umberto Bosco e Giovanni Reggio (a cura di), Purgatorio, in Divina Commedia, vol. 2 Firenze, Le Monnier, 2003

Don Giovanni. Variazioni su un mito, Umberto Curi, Milano, Mondadori, 2002

Filosofia del Don Giovanni. Alle origini di un mito moderno, Umberto Curi, Torino, Bollati Boringhieri, 2018

Don Giovanni, dal nome proprio al nome comune, Umberto Curi, 2013: video reperibile sul canale Youtube di Popsophia

Don Giovanni dalle fonti a Mozart. Metamorfosi di un mito, Eduardo Ciampi, Mino Freda, A.Rosa Porcheddu, Irfan, Roma, 2018

L’ingannatore di Siviglia e il convitato di pietra, Tirso de Molina, Bur, Milano, 1956

Don Giovanni o il convitato di pietra, Molière, Marsilio, Venezia, 2011

Il dissoluto punito ossia il Don Giovanni. Dramma giocoso in due atti, di Lorenzo Da Ponte, in Memorie, I libretti mozartiani, Garzanti, Milano, 1976

The Don Juan Theme. An annotated Bibliography of Versions, Analogues, Uses and Adaptions, Armand Edward Singer, Morgantown, West. Virginia University Press, 1993

Don Juan Tenorio, José Zorrilla, 1844, Editorial Oneness, 2016

Uomo e Superuomo. Commedia e Filosofia, George Bernard Shaw, Ghibli, Sesto San Giovanni, 2016

Don Giovanni. Tre saggi sulla leggenda, Gregorio Marañón, Gentile Paolo, Cacucci Editore, Bari, 1944

Don Juan. Un evento fantastico che è accaduto ad un entusiasta viaggiatore in Racconti di E.T.Hoffmann, Mondadori, Milano, 1942

Piccole tragedie, A.S.Puskin, Rizzoli, Milano, 1987

Il mito di Sisifo, Albert Camus, Bompiani, Milano, 1947

Sonetti, William Shakespeare, a cura di Lucia Folena, Einaudi, Torino, 2021

Finzioni: La biblioteca di Babele, Jorge Luis Borges, Einaudi, Torino, 1955

I fiori del male, Charles Baudelaire, trad. Luciana Frezza, Rizzoli, Milano, 1980

Il vero Don Giovanni, Marius Schneider, in Conoscenza Religiosa, 1974, poi in Edizioni di Storia della Letteratura, 2006

Le meraviglie della natura. Introduzione all’alchimia, Elémire Zolla, a cura di Grazia Marchianò, Marsilio, Venezia, 2017

Il fratello del fuoco in Il Romanzo di Mozart, Cristan Jacq, Cairo publishing, Milano, 2006

Una rilettura del “Don Giovanni” di Mozart in Preludi all’opera, Giovanni Bietti: video repereribile sul canale Youtube dell’Università di Catania

Il Don Giovanni, Lorenzo Da Ponte, a cura di Giovanna Gronda, Einaudi, Torino, 1995

Antico e moderno nel Don Giovanni di Mozart/Da Ponte in Don Giovanni e Faust: miti della modernità, Daniela Goldin: video reperibile sul canale Youtube dell’Accademia IISF

Bhahmasutra, Asram Vidya, Astrolabio, Roma, 1979

Bhagavadgita, Adephi, Torino, 1976

Così parlò Zarathustra, Friedrich Nietzsche, Adelphi, Torino, 1986

Aurora, Friedrich Nietzsche, Adelphi, Torino, 1978

Un viaggio da Mozart a Dionisio. Oltre il Don Giovanni. Essere per divenire, Domenico Alessandro Rossi, Gangemi, Roma, 2001

Dioniso immortale. Il Don Giovanni tra iniziazione e mito, Domenico Alessandro Rossi, Tipheret, Acireale, 2020

L’altrove della tragedia greca, Davide Susanetti, Carocci, Roma, 2023

 

 

 

Wirz

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di Maria La Tela

Quando fu il nostro turno ci alzammo da terra. Eravamo rimasti seduti a guardare le ragazze che ballavano con le magliette arrotolate sotto l’elastico del reggiseno per scoprire l’ombelico. Wirz le aveva costrette a fare pegno perché avevano perso contro di noi in una gara a chi riconosceva prima le canzoni dagli attacchi: dovevano ballare dieci minuti con la pancia scoperta e poi sopportarci mentre pogavamo intorno a loro. Wirz fece partire Blitzkrieg Bop, le pareti del seminterrato iniziarono a tremare, la musica ci venne addosso facendoci vibrare dentro; cominciammo a spingere con le braccia piegate e i gomiti attaccati alle costole. All’inizio ci pareva troppo buttarci sulle ragazze, allora inchiodavamo la suola di gomma al pavimento un attimo prima di toccarle; Wirz cominciò a dare di matto, se ci vedeva fermi ci urlava contro e le ragazze, per sfotterci, presero a colpirci spingendo più forte di noi. In quei momenti era un attimo farsi male, nessuno controllava più niente, contava solo fare più delle ragazze, più dei compagni, più di Wirz che con i capelli incollati sulle tempie per il sudore, aveva staccato la catenella che portava a un passante dei jeans, se l’era avvolta intorno a un pugno e colpiva a caso nella mischia ogni volta che arrivava il Let’s go! A terra ci finimmo in quattro, io andai sotto, ero vinto dalle spinte e asfissiato dai corpi degli altri. Nessuno si accorgerà che perdo i sensi, pensai chiudendo gli occhi; immaginai di guardare dal cortile la porta azzurra del seminterrato, di avvicinarmi alla maniglia e di leggere lì accanto la vu doppia di Wirz scritta con il pennarello nero indelebile; immaginai, infine, di morire.

Arrivasti che mi ero ripreso da poco. Hai bevuto? Mi domandasti all’orecchio. Sono caduto e basta. Andiamo. Ti tirai via per un braccio. Wirz ci fissava appoggiato a uno dei lampioni del cortile, era stato lui a farti chiamare; lo salutasti alzando il mento e ci avviammo verso il motorino. Ti stavo seduto dietro con le mani in tasca, mi nauseava la puzza di tabacco che arrivava dal tuo giubbotto e non sopportavo la posizione di traverso che assumevi guidando. Faccio l’uomo libero! Dicesti a nostro padre una volta che ti chiese che facessi tutto il giorno fuori casa; cinque dita ti prendesti.

Un tempo eravamo uguali in tutto e ci era diventato familiare il modo stupito, divertito anche, in cui le persone fissano i gemelli, ormai era un assunto senza domande né risposte. Quando in seguito prese forma in noi una coscienza più complessa delle cose del mondo e del nostro aspetto, quegli stessi sguardi cominciarono a stringerci lo stomaco, ne odiavamo l’insistenza, fummo ossessionati dal mettere in atto una reciproca diversità che ci distinguesse. Fu allora che Wirz, come un liquido, aveva cominciato a riempire quella distanza acerba; si era fatto fiume e noi sponde. Iniziasti a raccontare dei tuoi sogni, parlavi di continuo di sconosciuti, di case vuote, ma non era quello a preoccupare nostra madre che tenendoti il mento perché la guardassi, ti ripeteva che molti ragazzi facevano incubi; quello che la impensieriva, confidò in uno sfogo a nostro padre, erano i tuoi racconti di animali deformi che ti agitavano al punto di non farti pronunciare bene le parole, mentre la paura ti impastava la faccia. Lui la stava a sentire senza slancio, una volta a tavola disse di punto in bianco di non aver mai fatto sogni come i tuoi e senza neppure chiedermelo, aggiunse con sicurezza che neanche io li facevo. Avrei voluto dargli torto, ma diceva il vero, in te c’era qualcosa che non andava.

Quella fu l’estate in cui il cibo ti divenne nemico. Davanti a un piatto ti scorrevano nello sguardo contrattazioni che finivano quasi sempre per farti scegliere solo il pezzo di una parte di pietanza, già piccola di per sé. Trascorrevi i pomeriggi fuori casa, avevi conosciuto Wirz qualche tempo prima, ti ci aveva portato un amico che doveva prendere del fumo. Era stato semplice parlare con lui, mi confidasti; pensai che se c’era una cosa che Wirz con tutta probabilità conosceva meglio di quello che vendeva, erano le persone fragili. È uno che si mette lì e ti ascolta, dicesti una notte che venni a sedermi sul tuo letto perché ti era venuta la tachicardia dopo aver fumato.

Che vi dite? Domandai provando una rabbia feroce.

Gli parlo dei sogni.

Si è accorto che non mangi? Ti ha detto qualcosa?

Tra noi, non è Wirz che mi chiede, sono io che voglio raccontare.

Chissà se avevi scelto apposta per impressionarmi le parole tra noi. Le differenze che avevamo costruito mi furono più evidenti e non si trattava ormai del peso dei nostri corpi, né del taglio di capelli, della musica o del nostro modo di vestire; era cambiato il volume emotivo che ero stato per te fino ad allora. Non so dire se fu perché in quel momento ti sembrai vulnerabile come lo eri tu, ma trovasti il coraggio di dirmi che c’era stato un bacio tra te e Wirz; dovette essere per via dell’oscurità che le tue dita mi sembrarono tremolanti come i contorni di tutte le cose sotto la pioggia. Mi resi conto che ti eri esposto con l’incoscienza dei puri, ti amai di più, ma non seppi trovare parole importanti da dirti, desiderai solo che tornassimo per un po’ a quelle voci bambine che ci chiedevano di continuo se l’altro provasse dolore quando uno dei due si faceva male; sembrava un tempo insopportabile, invece avremmo potuto riderne. C’erano adesso, oggi, i sogni spaventosi e la roba di Wirz; dei primi non capivo molto, li consideravo una conseguenza del tuo carattere introverso, ma della roba volevo farmi un’idea più chiara da vicino. Non fu difficile entrare due settimane dopo alla festa nel seminterrato, un terzo della mia classe ci andava. Wirz, in piedi dietro la console in fondo allo stanzone, spostò una delle cuffie da un orecchio quando il mio amico andò a parlargli; ci fissammo, guardai la bocca che aveva toccato la tua. Si rimise la cuffia e abbassò la testa, come se decidesse, poi alzò un braccio e mi fece segno di entrare. La seconda e unica volta che incrociammo gli occhi dopo quella, fu quando mi ripresi in cortile dopo essere svenuto, ma Wirz non aveva bisogno di essere fisicamente vicino agli altri per esercitare il suo potere, mi indusse in qualche modo a credere che mi osservasse di nascosto e questo mi portò a guardare lui tutto il tempo; ero sicuro che lo sapesse. A te non erano mai piaciute feste come quelle, ma anche se non vi prendevi parte, non potevo sapere cosa fosse capace di farsene Wirz, il resto del tempo, di quella tua sprovveduta malinconia che offrivi inconsapevole a chiunque; ogni volta che mi attraversava quel pensiero, sentivo scurirsi dentro qualunque riflesso di lucidità. Passarono dei mesi, trascorrevi molto tempo in compagnia di Wirz; una notte non rincasasti, intorno alle quattro  del mattino venni a cercarti con nostro padre, lo obbligai a restare in macchina quando arrivammo nei pressi dello scantinato che, da vigliacco, avevo lasciato come ultimo posto in cui guardare. Mi avvicinai alla porta azzurra, bussai e mi parve di sentire quasi subito l’avvicinarsi di alcuni passi dall’interno.

Wirz! Lui è lì? Chiesi asciutto. I passi si allontanarono per tornare di nuovo poco dopo. Mi apristi tu, indossavi solo i tuoi pantaloni troppo larghi, ti avrei picchiato perché non riuscivi neanche a muovere la bocca mentre te ne stavi con le dita strette alla maniglia della porta e gli occhi maledetti dello schifo che ti eri preso. Ti strinsi entrambe le guance con una sola mano.

Ce la fai a rivestirti? Se entro, non lo so che succede, devi uscire tu. Mi guardavi. E ancora, mi guardavi senza rispondere. Credetti d’impazzire, ti diedi un buffetto sulla guancia con la punta delle dita strette; sentii vivido l’osso sotto il tuo zigomo. Nostro padre è qui fuori, gli dico che hai bevuto. Esci da lì!

Tornasti dentro, accostai la porta per mettere qualcosa tra voi e me. In macchina nessuno disse niente, una volta a casa nostro padre si rimise a letto, non era in grado di guardarti, di guardare la tua magrezza, la rinuncia nei tuoi gesti, non sopportava la vista del suo sangue guasto; forse ero io, più di lui, a non sopportare tutto quello. Trovammo nostra madre in cucina che mangiava noci, gli occhi sfiniti dal pianto, uno dei tanti a cui nel tempo aveva fatto in modo non assistessimo; schiacciava i gusci mentre tutto intorno era silenzio. Ti avvicinasti a lei. Ti piacciono? Biascicasti con la schiena curva, appoggiando con naturalezza un fianco al tavolo come se la tua vita fosse fatta di blocchi, di segmenti autosufficienti che ti permettevano di mantenere intatto un candore privato di qualunque precedente disagio. Sì. Rispose lei semplicemente, alzando lo sguardo. Se avesse detto ancora una parola non avrebbe più controllato il tremito del mento. Le desti un bacio sulla testa e andasti a dormire strusciando i pantaloni sotto le scarpe. Nostra madre seppe allora, prima di  tutti, che presto non saresti stato più con noi; non volle tornare a letto, il suo era un ultimo tentativo di fermare il tempo. Mi sedetti di fronte a lei, avevamo bisogno di restare così, in silenzio, a pensarti. Ogni volta che oggi accarezzo qualcuno, sento ancora quel tuo piccolo osso sotto le dita.

*

Immagine: Karolina Grabowska.

Non chiamatela Banlieue

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di Gianni Biondillo

Innanzitutto: non è una banlieue. Smettiamola di usare parole a sproposito, non aiuta a capire di cosa stiamo parlando. E, a ben vedere, non è neppure più una periferia. Dal Corvetto a Duomo ci vuole un quarto d’ora di metropolitana, siamo ormai nel cuore della metropoli lombarda. Milano è una città densa e piccola, dimentichiamo l’idea novecentesca di periferia come quartiere operaio ai margini della città. Gli operai non ci sono più, come le fabbriche, Milano è cresciuta e ha inglobato questi quartieri. Come se non bastasse, poi, il Corvetto è anche un bel quartiere. Ora qualcuno mi prenderà per matto, ma lo dico e ribadisco. È il più grande progetto di edilizia popolare costruito negli anni venti del novecento in città, quando, in quel secolo, dare una casa a tutti era un imperativo morale. Quando una casa era un diritto, non una merce di scambio.

A progettarlo fu il più prolifico e dimenticato degli architetti lombardi, Giovanni Broglio, che ideò per lo IACP case fino a tutti gli anni cinquanta. Un bel quartiere, insisto. Case semplici, ma non banali. Una piazza, un parco, un mercato al coperto, delle scuole. Da qualche anno s’è pure trasferita una grande parte degli uffici comunali, in via Sile. E se ci aggiungiamo i nuovi progetti previsti a Santa Giulia per le olimpiadi, continuare a raccontare questo quartiere come se fosse sulla luna, lontano da tutto, senza neppure un servizio, è una bugia. Nessuno dei quartieri “difficili” di Milano sta sulla luna. Abito in via Padova, la strada più multietnica d’Italia, che è a dieci minuti a piedi da Città Studi. Il quartiere San Siro, quello dei “video trapper”, è a cinque minuti a piedi dalle ricchissime case di calciatori e notai.

E poi ci sono loro, i ragazzi. Quelli che cerco di raccontare da sempre, come ne I cani del barrio, ambientato proprio al Corvetto (e a Quarto Oggiaro e in via Padova… insomma, in piazza del Duomo non ci vado mai nei mie libri). Ricordo una scritta su un muro, letta in pieno centro: “Le periferie vi guardano con odio”, diceva. Magari lo fosse, pensai. Era evidente che l’estensore del graffito fosse un figlio della borghesia “di sinistra”, che in quelle periferie non c’è mai stato. Innanzitutto perché le periferie, in senso geografico, non esistono. Esistono luoghi di frizione sociale, spesso persino a un passo dal centro storico, come via Gola. Depositi degli ultimi, dei poveri, degli immigrati, degli anziani, dei disabili, di chi non produce, di chi non è dentro la narrazione della città che non si ferma mai. E vivono spesso in case dalle condizioni igieniche precarie, come sono precarie le loro vite. Ma non c’è odio. C’è frustrazione. La città scintillante, cool, internazionale, la città dei grattacieli sbilenchi e dei boschi sui balconi, la città della riccanza è a un passo, proprio uno, dalla loro città. Ma sembrano non incontrarsi mai. Gli unici rapporti che hanno con le istituzioni sono quelli di tamponamento: assistenti sociali, preti di strada, poliziotti.

Ricordo quando nel 2005 l’allora preside Sarkozy diede della racaille (della feccia) ai ragazzini che misero a ferro e fuoco le banlieues parigine. Più d’un giornalista mi chiese se dovevamo temere lo stesso qui in Italia. Ricordo la risposta: questa è la prima immigrazione importante in Italia. E ogni prima immigrazione cerca di stare nelle regole, cerca un posto di lavoro, un’opportunità, non prevedo, oggi, nulla di simile. Ma ricordiamoci che sono venuti qui per restare. Facciamo tesoro della lezione di Parigi e lavoriamo per la prossima generazione. Evitiamo che si senta esclusa, costruiamo, prima che tutto venga distrutto. Eccola la nuova generazione. Avrei voluto essere smentito dai fatti, avrei voluto spogliarmi del mio ruolo di Cassandra. Non abbiamo fatto nulla, abbiamo messo la testa sotto la sabbia. Non è neppure più una questione “etnica”. Spesso queste bande giovanili sono composte da ragazzi di provenienza mista, italiani compresi. È più un fatto generazionale. Viviamo in un paese che odia i giovani, che non fa nulla per loro, e in una città dove un affitto di un monolocale costa come un rene. In più questi “immigrati di seconda generazione” (lo sentite l’intimo razzismo di questa definizione?) non hanno la cittadinanza italiana, non hanno un lavoro, non votano, non hanno un peso politico, non contano niente. Qui, dove tutto sembra a portata di mano. Insisto, non è rabbia, è frustrazione.

Era già successo, al Corvetto, come in via Gola, come a San Siro. Tutti quartieri popolari sotto l’attenzione degli speculatori immobiliari. Pezzi di città enormi, lasciati andare alla deriva, in attesa di essere “rigenerati” dal mercato, dato che il pubblico non ha più soldi. Era già successo, insisto, e l’abbiamo subito dimenticato. Ora resta solo la repressione. Bene. Fatelo pure, si passa facilmente all’incasso con la repressione. Sono voti sicuri. Ma non fingiamo di non sapere che non servirà a nulla.

(precedentemente pubblicato su La Repubblica il 27 novembre 2024)

Le precarie e i precari dell’università in piazza il 29 novembre

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[Ricevo dall’amica Chiara Portesine e molto volentieri pubblico  il comunicato stampa dell’Assemblea Precaria dell’Università di Pisa.]

Comunicato stampa 29 Novembre

Contro tagli e precarietà, blocchiamo l’Università! – L’Assemblea Precaria Universitaria di Pisa scende in piazza contro la Riforma Resta-Bernini e i Tagli al FFO. 

Come lavoratorə della ricerca precariə di Università di Pisa, Scuola Superiore Sant’Anna e Scuola Normale Superiore ci siamo riunitə in assemblea per protestare insieme contro i tagli al FFO e la riforma Resta-Bernini del preruolo universitario (ovvero del precariato) e per partecipare allo sciopero generale del 29 novembre.

Le nostre rivendicazioni sono chiare: da un lato, i tagli al FFO costringono gli atenei italiani a fare i conti con risorse ridotte, mettendo a rischio la sostenibilità economica e sociale delle attività di ricerca e formazione; dall’altro, la riforma del pre-ruolo penalizza soprattutto lə lavoratorə più vulnerabili, puntando a istituire contratti ancora più precari. Questo, nell’ottica di consentire alle università italiane di rimanere a galla nei prossimi tempi di magra, a scapito e con forte umiliazione delle categorie professionali che – pur già vessate – rappresentano le strutture portanti sulle quali principalmente si basa l’intero sistema dell’università pubblica in Italia, con l’effetto di impoverirlo ancora di più.

“Abbiamo sentito l’esigenza di riunirci, riflettere sulle ripercussioni della riforma sulle nostre vite, sulla qualità del nostro lavoro e soprattutto sull’impatto che questa può avere a livello socio-economico sul sistema Italia. Ci siamo confrontati sulle modalità della mobilitazione e abbiamo scelto di renderci visibili e proporre azioni collettive affinché la nostra voce possa risuonare in maniera più forte, facendoci spazio anche all’interno dei nostri dipartimenti, cercando l’alleanza con il personale strutturato, il personale tecnico-amministrativo, il personale esternalizzato, la componente studentesca e mettendoci in rete con le Assemblee precarie simili alla nostra nate in tante altre città. La nostra ricerca è un lavoro, vogliamo che venga trattata come tale” dichiara unə partecipante all’Assemblea.

Il 29 Novembre aderiremo allo sciopero e parteciperemo al Corteo cittadino convocato alle 10 in Piazza XX Settembre, riunitə insieme dietro a uno striscione che è un grido collettivo: “Contro tagli e precarietà, blocchiamo l’università!”, per ribadire come le politiche del MUR mettano a rischio il futuro del sistema accademico.

Lə manifestanti precariə daranno voce alla propria protesta con una serie di interventi in merito alla riforma del precariato Resta-Bernini. Dottorandə, borsistə, assegnistə, RTD-A e Tempi Determinati in generale rappresentano le figure che più hanno a che fare con la materialità del fare ricerca e sulle quali si scaricano i tagli ai finanziamenti, in una correlazione causa-effetto tra gli stessi tagli al FFO e la loro progressiva precarizzazione. Invece di aumentare il numero di posti di lavoro con contratti a tempo indeterminato, vengono banditi assegni e borse perché costano di meno. La riforma prevede nuove forme di contratto ancora più brevi, con salari ancora più bassi e ancora una volta non sottoposti alla contrattazione collettiva. Ad esempio, l’istituzione delle “borse di assistenza alla ricerca” porterebbe sempre meno tutele e diritti e verrebbe meno l’indennità di disoccupazione, conquistata solo (recentemente) nel 2017 per gli assegni e titolari di borse di dottorato.

“Abbiamo in media più di 30 anni, lavoriamo 10-12 ore al giorno, con contratti che hanno una durata massima di 3 anni, spesso che si rinnovano annualmente. Su ciascunə di noi pende una condanna: una data di scadenza, quasi fossimo dei prodotti deperibili. I nostri contratti cambiano da finanziamento a finanziamento, da un’università all’altra e da un dipartimento all’altro. Non siamo sottopostə a una contrattazione collettiva e questo ci impedisce di iscriverci a un sindacato, non abbiamo ferie, malattia o maternità, non abbiamo accesso ad assicurazioni sanitarie, ai fondi pensione e veniamo obbligatə a iscriverci alla gestione separata dell’INPS come parasubordinati per farci versare dei miseri contributi. Al contempo, siamo esenti dal pagamento dell’IRPEF, che ci tiene fuori dall’accesso a una serie di detrazioni e diritti. Tutto ciò ha un impatto negativo sulle nostre vite personali e sul piano emotivo, oltre che sulla nostra resa lavorativa. Ci viene richiesta costanza nel performare la nostra eccellenza, in un ambiente spesso altamente competitivo, dove non c’è spazio per crisi esistenziali o mostrare cenni di ansia e depressione, cadendo spesso nella trappola di sentirci comunque privilegiatə a fare un lavoro che ci piace”. Sono queste le parole di un altrə partecipante all’Assemblea Precaria, che continua “Vogliamo finanziamenti congrui e stabili che permettano la nostra assunzione come personale strutturato, con contratti veri, sottoposti alla CCNL, per garantirci una vita dignitosa”.

Nella pagina Instagram dell’Assemblea Precaria di Pisa (@assembleaprecariapisa) e in una cartella Drive condivisa nei giorni precedenti allo sciopero abbiamo fatto circolare materiali e documenti per organizzare la protesta. Tra le iniziative, un vademecum come invito a scioperare per il personale strutturato e non, un modello di mail di adesione allo sciopero, da impostare come messaggio di risposta automatica nella giornata del 29 novembre, dei volantini da appendere presso uffici e dipartimenti per sensibilizzare alle ragioni dello sciopero, dei cartelli da portare con sé durante la manifestazione.

Ma l’Assemblea guarda anche al post 29 Novembre: “La nostra mobilitazione non si ferma. Stiamo programmando momenti d’incontro e sensibilizzazione a livello pubblico. Abbiamo bisogno di tutto il supporto delle nostre comunità accademiche e della cittadinanza intera. Dobbiamo creare coscienza collettiva intorno a questi temi, affinché sia chiaro che se noi “spariamo”, gli effetti della nostra scomparsa avranno un impatto sulle vite di tuttə. Per questo dobbiamo renderci visibili, attivare degli spazi di partecipazione pubblica al di là dei momenti organizzati a livello nazionale” riporta un altrə membrə, dell’Assemblea precaria, che conclude “questa mobilitazione non riguarda solo il nostro personale futuro. L’Italia deve poter continuare a giocare un ruolo come Paese capace di produrre conoscenza e innovazione nell’università pubblica. Non possiamo accettare che il nostro sistema universitario venga impoverito a scapito della qualità della ricerca, della formazione e della giustizia sociale”.

Unitə, scioperiamo e scendiamo in piazza il 29 Novembre!

 

Insetti

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di Bruno Barbera

La prima volta che ho incontrato gli insetti è stato mentre facevo la doccia. Mi stavo massaggiando la testa con lo shampoo quando ho sentito, in corrispondenza della tempia destra, un punto cedevole. Istintivamente ho fatto pressione con due dita e nel mio cranio si è formata un’apertura. Ben presto ne è fuoriuscito qualcosa che, non appena entrato nel mio campo visivo, si è rivelato essere un lungo centopiedi. Sono stato talmente colto di sorpresa che non sono riuscito nemmeno a chiedergli che cosa ci facesse là dentro. Ma forse lui avrebbe avuto la stessa domanda per me, che cosa ci fai là fuori. O magari mi avrebbe consigliato una marca di shampoo migliore. Invece siamo rimasti lì a fissarci per un po’. Era un reciproco annusamento, forse i prodromi, chissà, di un’amicizia.

Oggi gioco a biliardo con Domenico. Il biliardo è un gioco di precisione e di pazienza. Io non ho nessuna delle due. Più di tutto non ho il senso di aderenza alla realtà. Un dilettante dovrebbe colpire piano, limitarsi ad avvicinare le palle alle buche, sequenzialmente, per poi chiudere colpi facili. Io invece non ci sto. La drammatica realtà del panno verde non mi va giù. Sogno di essere un grande giocatore e così sparo a tutta forza dei tiri che inevitabilmente finiscono con le palle che saltano nella stratosfera, poi ricadono distruggendo oggetti e ferendo persone. Il proprietario del biliardo è contrariato. Io e Domenico beviamo birra per rinfrancarci, o meglio per rinfrancarmi, e conversiamo del più e del meno. Il più e il meno, questa è la ricca eredità di questi tempi, o forse di ogni tempo. O magari sono insofferente alle nostre leggi anche al di fuori del panno verde. Così mi si può vedere sorseggiare impassibile a labbra serrate, mentre al mio interno proiettano un documentario pieno di cascate e voragini. Vorrei dire o che mi venisse detto qualcosa che abbia un senso, ma le parole mi sembrano logore e svuotate come sacchi di juta flosci.

Ho incontrato la mantide religiosa tornando a casa dal lavoro. Una giornata come le altre, quando rifletti da vicino sulla lontananza di una vocazione. L’ho trovata seduta sul divano del salotto, con le zampe poggiate sul pouf. Guardava La pupa e il secchione e divorava i miei plum cake. Glieli avrei dati volentieri, solo avrei preferito che me lo avesse chiesto prima. Comunque non ho obiettato niente e mi sono messo sul divano anch’io a guardare la tv. Ben presto ci siamo ritrovati a sghignazzare come due ebeti, accalorati dal Verbo di quella divinità semovente che è Enrico Papi. Dallo schermo sembrava provenire un soffio di eternità, una confortante garanzia di come andranno le cose da qui sino alla fine dei tempi.

Oggi vedo la mia fidanzata Anna, a Porta di Roma. Il centro commerciale ha sempre il solito effetto: ripugnante e al tempo stesso irresistibile, come un incidente autostradale. Provo a concentrarmi su Anna e penso che ha dei bellissimi capelli biondi lunghi e lisci da ragazza. Sono talmente belli che qualche volta, scioccamente, sento che li vorrei avere anche io. Chissà come dev’essere il mondo visto da dietro una sottile coltre di capelli biondi femminili. Probabilmente sanguinoso, ma un po’ più romantico. Anna fa un sacco di cose con l’entusiasmo di un bambino davanti alla sua collezione di palline rimbalzine. Gli eventi della vita di Anna sono tondi, sodi, hanno colori sgargianti, e schizzano da una parte all’altra con traiettorie spettacolari e sorprendenti. Non c’è da meravigliarsi se faccio fatica a stare dietro al suo ritmo. Credo che ogni tanto lei rallenti leggermente, di proposito, per farmi mandare giù il boccone più facilmente. Mi racconta le sue giornate con un tono didascalico, cantilenante. Io mi sforzo di afferrare il nocciolo delle sue funamboliche parabole, di trovare un minimo comun denominatore, magari una morale, ma devo dire che il boccone resta amaro, e credo che lei a sua volta se ne accorga, e i suoi lineamenti allora mi sembrano un mosaico di dubbi.

In cucina ho conosciuto la cavalletta: era molto carina con quelle ali adorabili, e mi ha chiesto se volessi cenare con lei. Aveva preparato un risotto di quelli in busta. Non se la cavava mica tanto meglio di me ai fornelli, e questo mi aveva fatto sorridere. Aveva aggiunto al risotto allo zafferano del guanciale. Il suo tocco di creatività, diceva. Devo dire che il risultato non era malvagio. Sono tempi duri, riflettevo masticando metodicamente, tempi in cui si può finire per cercare rifugio persino in un risotto in busta preparato da una cavalletta.

Il dottor Rutelini dice che presto le visioni svaniranno. Il perturbante sarà solo un ricordo. Devo semplicemente seguire le sue rigorose indicazioni, figlie di un’esperienza decennale in questo campo. Abbiamo i migliori strumenti, afferma perentorio il dottore: sarà sufficiente allinearli con i suoi migliori propositi. Così sia, penso, mentre mi crogiolo nelle sfumature sonore del suo eloquio. Trovo rassicurante il rumore sfrigolante della sua voce. Rassicurante e professionale. Ho piena fiducia nel dottor Rutelini, piena fiducia che le cose andranno meglio.

Quando la sera prendo i farmaci, mi viene sempre il dubbio di averli già presi poco prima. Allora controllo i foglietti illustrativi a proposito di un eventuale sovradosaggio: la risposta è abbastanza chiara, morte.

Morte per il primo farmaco, morte per il secondo e per il terzo. Morte moltiplicata per tre, dovrebbe fare sempre morte, un po’ come per l’infinito. O forse sarebbe una morte ancora più spettacolare.

Domenico è il mio amico fraterno. È una spugna imbevuta di latte e buone intenzioni. Assapora la vita filtrandola dalle gengive, che sono di un rosa imperturbabile. Niente può incrinare il suo silenzio accondiscendente. Non i bambini affetti da leucemia, non i ragazzi con la malattia del motoneurone. O i medici che non fanno la ricevuta. Io mi inviperisco sempre quando i medici non fanno la ricevuta. Forse è per questo che con Domenico, ultimamente, abbiamo sempre più difficoltà nel rapporto, prima ancora che per i bambini affetti da leucemia. Forse i medici fanno sempre meno ricevute, forse io sono diventato più suscettibile a queste cose, forse la fede di Domenico nelle umane sorti diventa sempre più incrollabile con il passare degli anni. È curioso osservare i risvolti della sua attitudine laica: per un credente il gioco è facile, fa tutto parte di un piano e la vita eterna compenserà ogni cosa, ma un senzadio come lui come fa a guardare in faccia i terremoti e uomini fontane di sangue che zampilla e colora il cielo, senza mai avere niente da ridire? La sua opposizione all’alternativa che la non-esistenza rappresenta è solo biologica ritrosia, meccanica idiosincrasia: non ci sono fondamenta logiche nel suo pensiero virtuoso, e ho il sospetto che non potranno esserci mai.

Quando la cavalletta era più giovane, usciva spesso di casa. Andava nel quartiere Monti, un luogo così deliziosamente levigato, mi dice; e osservava, con sguardo da entomologo al contrario, i giovani trentenni. Trentenni come me, solo incuranti della fine del mondo. Li guardava infatti parlarsi strabuzzando gli occhi perché a quanto pare un datore di lavoro chiede sempre degli straordinari che poi puntualmente non vengono pagati e allora gli occhi diventano due palloni e la bocca si contrae in una smorfia di sdegno e qualcuno tuona MA COME È POSSIBILE?, perché c’è sempre qualcosa di pazzesco nella vita, buono o cattivo che sia, non importa, mi testimonia la cavalletta, l’importante è che sia ASSURDO TI DICO, sono andato a comprare un soprammobile da mettere in salotto ed era PAZZESCO il fatto che la metro fosse inagibile perché NON È POSSIBILE, è un disservizio continuo, questa città è un degrado, però alla fine il soprammobile era PAZZESCO anche lui e quindi va bene, e l’ho pagato un’inezia, un po’ come le piastrelle del bagno, ogni cosa è PAZZESCA e ASSURDA e NON È POSSIBILE, ogni cosa tranne, a quanto pare, il fatto che tutto si distruggerà, la metro, il soprammobile, il datore di lavoro, le piastrelle, e non ne rimarrà nemmeno una fine sabbiolina, e su questo io e la cavalletta siamo pienamente d’accordo. Mangiamo la nostra cena in perfetta sintonia, il tavolo appena illuminato dalla luce fioca e intermittente del lampadario, la cui lampadina malfunzionante forse non mi deciderò mai a cambiare.

La terapia del dottor Rutelini è radicale. Il dottor Rutelini è radicale, e promette risultati radicali. Conto le scatole di farmaci, le scruto, poi le svuoto e maneggio i mucchi di compresse, disegno delle scritte, per esempio S O S, poi impilo le pilloline una a una, faccio delle torri e sto a vedere quanto tempo reggono prima di crollare. È il mio diletto personale, la manifestazione della mia aderenza giocosa e granitica alla ferma dottrina del dottor Rutelini.

Anna è qui davanti a me insieme alle sue perplessità, che devono essersi gonfiate con il tempo, come sotto l’effetto di una fermentazione chimica. A ben vedere le parole che mi riserva ora, borbottate a mezza bocca, sono figlie dei suoi pensieri i quali a loro volta scaturiscono proprio da processi chimici che avvengono nella sua scatola cranica, sotto quei meravigliosi capelli. Tutto torna. E la mia scatola cranica?, vorrei dirle. Scatola nera che può solo immagazzinare informazioni, in attesa dell’incidente. Ha il volto pallido e contratto; il sangue tutto al cervello intento a costruire e demolire edifici mentali. Anna… è quello che riesco a dire, come misera replica al suo sguardo pacatamente furente. Non riesco ad assumere alcun tipo di atteggiamento, figuriamoci un atteggiamento coerente con la situazione.
Non ricordo più bene cosa ho fatto o cosa non ho fatto per meritarmi i suoi occhi fiammeggianti, ma qualcosa deve pur esserci stato, e comunque immagino che ormai non abbia più importanza.
Intanto continua a fissarmi, sobbollendo, a braccia conserte. Quando la mia prima ragazza, dopo ben due mesi e mezzo di una straordinaria relazione, venne carinamente sotto casa mia per dirmi che mi lasciava, io assunsi presto proprio quel tipo di postura (allora sì che ero ancora capace di rappresentare l’incarnazione di uno stato d’animo). Lei, che faceva teatro, e di queste cose ne sapeva a pacchi, si indispettì: Ecco, guarda il tuo linguaggio del corpo! Manifesta chiusura! E che cos’altro dovrei manifestare?, avrei voluto dirle. Altri tempi, però. Ora c’è solo Anna in lievitazione, e ho il presentimento che presto non ci sarà più nemmeno questo.

Il centopiedi mi ha confidato di aver abitato la testa di un’altra persona, prima di me; un diciannovenne studente universitario, di economia per la precisione. Ne aveva assaggiato gli umori dell’encefalo, ne aveva tastato il polso mentale. La mattinata cominciava sempre con un vago senso di costrizione alle vie respiratorie, come se l’organismo, da brava macchina biologica qual è, si rifiutasse di compiere uno sforzo, o un lavoro, per il quale non sente di essere stato progettato, realizzato e nemmeno testato a dovere. Poco dopo, quando s’incamminava con la sua macchina non biologica lungo la via predefinita che lo aspettava con pazienza al mattino, le curve della strada gli davano l’impressione di sorrisi ironici che dicono “tanto lo sapevo che saresti passato di qui”. Quando il percorso porta sempre nello stesso posto, rimuginava il giovane, non c’è più spazio per la conoscenza e la sensazione, è tutto un meccanico ripetersi di movimenti e pensieri standardizzati; la via di fuga nell’abisso, o perlomeno sull’orlo dell’abisso, è invece vettore di un’emozione molto più potente.

La Nomentana comincia all’incirca nel cuore della città, narra il centopiedi, pulsante di traffico e di vita, ammesso che la si possa definire vita, mentre sul traffico proprio non c’è dubbio. Mano a mano che si procede verso il Raccordo, però, le quattro frenetiche corsie vengono inglobate in due, gli incroci rigurgitanti automobili cominciano a diminuire, i palazzi si diradano per lasciare spazio a una vegetazione che selvaggia in senso assoluto non è, ma sicuramente più dei tipici scenari cittadini a base di cemento e smog, brulicanti di persone.

Quanto sia difficile muoversi lungo il confine senza precipitare nel baratro è arduo da stabilire per un semplice studente universitario: probabilmente il verificarsi della caduta dipende dalla propensione del soggetto, dal suo coraggio o dalla sua incoscienza, a seconda dei punti di vista.

Poi lo studente, dal percorrere la Nomentana in senso centrifugo, si ritrovava ad abbandonarsi alle molteplici stradine che la tagliano, vagando senza meta, con traiettorie ripetitive, simil-circolari, all’interno di un qualche quartiere di periferia, che poteva essere San Basilio come un qualunque spazio remoto e orrido all’interno della sua mente.

Ho fatto un sogno. Giacevo su un letto di schegge di vetro, che si combinavano con le mie ossa in un incastro sferragliante. Sentivo le mie cartilagini articolari consumate, non offrire più alcun sollievo. Poi di colpo ero steso dentro al cuore di un ghiacciaio, sotto una coperta bucata. Da quel foro vedevo chiare, davanti a me, le lettere del mio nome, colorate di un rosso acceso, lampeggianti, come una spia che segnala estinzione. Alla fine mi trovavo al di sotto di un’enorme massa di acqua limpida, un oceano appeso sulla testa; e alzando la testa, in quell’oceano potevo stare a guardare il mio riflesso nitido esalare i suoi ultimi respiri.

Ma poi mi sono svegliato, con la consapevolezza che le cose andranno meglio, che mi proviene dal dottor Rutelini.

I miei colleghi di lavoro sono sempre stati simpatici. Ma è quella simpatia del tipo «se non fossi costretto ad avere a che fare con te quotidianamente non ti cagherei di striscio». Lo si può scorgere nello sguardo apparentemente impenetrabile di chi ti chiede di fare delle fotocopie. Lo si può scorgere nell’impercettibile incresparsi delle loro labbra quando dici una cosa di cui non sei sicuro. Lo si può scorgere nel modo autorevole con cui appallottolano un foglio di carta e lo buttano nel cestino accanto alla tua scrivania. Se li aveste conosciuti lo avreste pensato anche voi. O forse no. Forse sono solo scherzi della mia mente. D’altra parte, è con la mia mente che devo fare i conti; e i suoi scherzi possono essere molto più reali di qualsiasi verità sia scritta su un qualsiasi libro di scienza. Così magari è stata solo una mia impressione, ma non hanno fatto una piega quando ho detto che mi licenziavo. In un certo senso, sembrava che se l’aspettassero. Il lavoro non era poi nemmeno terribile, ma so quello che lascio, e tanto mi basta.

La mantide mi ha raccontato di un uomo che aveva conosciuto a Villa Doria Pamphili. Nei suoi racconti la villa è certamente più selvaggia di quanto pensassi. Era un mercoledì mattina come tanti, un giorno lavorativo per tanti, che aveva svuotato questo ampio angolo di verde quanto basta per immaginarlo come il porto definitivo, rampa di lancio per arrivare oltre e ultimo punto di contatto con tutto quello che va lasciato alle spalle. L’uomo quel giorno a lavorare non ci era andato, aveva fatto sega come ai tempi della scuola. Era un cinquantenne con una vita minuziosamente e faticosamente costruita ma mai desiderata davvero, una nostalgia cronica e soffocante, un viso cupo reso ancora più ombroso dalla coppola calata sulla testa.

Sono quasi sicuro, le aveva detto lui a un certo punto, che se mi incammino verso laggiù, dove la vegetazione s’infittisce e dove non arriva più nemmeno l’eco di quello che è stato, è, e sarebbe potuto essere, sono sicuro, sì, che passo dopo passo perderò automaticamente e progressivamente di sostanza, di consistenza, fino a scomparire del tutto senza emettere alcun suono, neanche un sussulto, e senza provocare nessun mutamento sostanziale nel luogo che accoglie i miei passi, solo un momentaneo piegarsi degli steli d’erba che torneranno prontamente ad ergersi, cancellando ogni segno del passaggio, chiudendo ogni spiraglio di indagine, sancendo così definitivamente la compiuta transizione verso la fine dell’universo.

Così sono passati i mesi. Io e Anna abbiamo chiuso. Cioè, lei ha chiuso, io non sarei stato in grado di mettere in atto alcuna forma di risolutezza. Ad ogni modo, così è la vita. Domenico spugna è sparito: in effetti eravamo due rotaie che portano in spalla il mondo intero, come se fosse il loro treno: questa è comunicazione? Dai miei ex colleghi neanche un messaggio di saluto, proprio come previsto. I miei genitori erano già morti, e ho controllato al cimitero, non sono resuscitati. Ieri sera ci ho bevuto su, sopra tutto questo, insieme al centopiedi, alla mantide, alla cavalletta e al resto della compagnia. Avevamo della vodka alla pesca e dell’erba, ridevamo, per un attimo sembravamo tornati tutti quindicenni.

Oggi ho incontrato il dottor Rutelini, era molto soddisfatto. Ero sicuro, mi ha detto, sicuro che le cose avrebbero preso la piega giusta. Quando ho stretto con la mia mano la sua zampa di enorme scarabeo, ho provato un profondo senso di gratitudine.

Gen Z: voto e tendenze in America

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ph. Alec Soth/Magnum Photos (particolare)

ph. Alec Soth/Magnum Photos (particolare)

 

di Francesca Beretta e Loretta Bersani

Nel 2016 l’elezione di Trump era stata una sorpresa, qualcosa di inaspettato, uno shock iniziale seguito da un “vediamo cosa succede”. Da allora sono successe molte cose. Il trionfo del 2024 è il risultato di una campagna elettorale iniziata nel momento stesso in cui Trump è stato sconfitto da Biden, che ha portato oggi a un voto consapevole a favore di un uomo con un’identità ormai ben definita, così come lo sono i suoi valori e il suo retaggio culturale. E a un voto contro la sinistra, di cui oggi si capisce poco o niente.

Quando si pensa al voto pro Trump, l’immaginario comune corre subito all’America profonda, bianca, bigotta, isolata, poco scolarizzata, a quell’America che, se l’America un po’ la conosci, se l’America l’hai viaggiata, rimane sempre uguale per centinaia e centinaia di miglia, attraversata da strade che non curvano mai.

E mentre il Paese si è nettamente spostato verso destra, ognuno all’interno del partito democratico prova a darsi una spiegazione a seconda della propria posizione. Bernie Sanders  con il suo stile diretto definisce “disastrosa” la campagna centrista e liberale dei Dem che hanno fallito su più fronti: prima l’abbandono della working class bianca, poi di quella nera e infine di quella latina, in un momento in cui il 60% degli americani vive di stipendio in stipendio. Poi la politica estera, con il sostegno economico a Netanyahu, nonostante la maggior parte degli americani fosse contraria, e, davanti agli occhi di tutti, il genocidio e la fame a Gaza. Sanders non dimentica di come siano proprio i giovani americani a trovarsi davanti a un futuro incerto, con condizioni di vita potenzialmente peggiori di quelle dei propri genitori e preoccupazioni nazionali e globali concrete. Ed è in questo contesto che Trump ha saputo radicarsi con il suo motto MAGA (Make America Great Again), lanciato dalla campagna di Ronald Reagan del 1980 e popolarizzato dal tycoon per evocare un’America storica, non meglio definita ma comunque di successo, riproponendo il paradigma del “si stava meglio prima”.

Uno dei bacini demografici su cui hanno puntato i GOP è quello della Generazione Z. Della Gen Z americana si è sempre parlato come della generazione più progressista, multietnica e con il livello d’istruzione medio più alto di sempre, appassionata dell’ideologia “woke”, concentrata su questioni di giustizia sociale, uguaglianza razziale e di genere, diritti LGBTQ+, salute mentale, sostenibilità ambientale e pace globale. Una generazione dotata di una forte coscienza civica, che ha dimostrato di votare a tassi più elevati rispetto alle generazioni precedenti alla stessa età. Nell’immaginario romantico di chi ripone la speranza in un futuro sociale migliore nelle mani dei giovani, molti avrebbero voluto che la Gen Z fosse solo questo blocco monolitico. Ma la realtà è più complessa e sfaccettata.

Come mostrano i dati di CIRCLE (Center for Information and Research on Civic Learning and Engagement presso la Tufts University del Massachusetts), nel 2024 i giovani elettori hanno preferito Kamala Harris a Donald Trump con un margine di 6 punti (52% contro 46%, con il restante a favore di un candidato indipendente o di un terzo partito). Sebbene inferiore rispetto al 2020, quando avevano favorito Biden su Trump di 25 punti, il voto della Gen Z (18-29 anni) rappresenta comunque il maggiore sostegno per Harris tra tutte le fasce di età.

Dai dati emerge come i gruppi di giovani non bianchi, in particolare le donne laureate (75%) e non laureate (74%), e le persone non binarie (82%), abbiano votato in modo netto per Harris, riflettendo una tendenza in linea con l’identity politics. La preferenza per Harris si attenua tra gli uomini non bianchi (neri, latini e asiatici). I giovani bianchi con un titolo di studio universitario hanno preferito Trump con il 56%, mentre quelli senza laurea lo hanno sostenuto in modo ancora più deciso (67%). Le donne bianche con istruzione universitaria hanno favorito Harris con il 60%, mentre quelle senza titolo di studio hanno preferito Trump (55%). In generale, i giovani hanno indicato l’economia come tema principale (il 42% degli uomini e il 39% delle donne), seguito dall’immigrazione come secondo tema per gli uomini (15%) e dai diritti abortivi per le donne (17%). Tra gli argomenti che continuano a emergere, spiccano quindi l’economia e un divario di genere legato al voto dei giovani uomini bianchi. Vediamo come questi fattori siano stati determinanti.

Lo studio storytelling condotto dalle ricercatrici generazionali Corey Seemiller e Meghan Grace, che di Gen Z si occupano dal 2013 esplorando sia le sfere personali sia quelle accademiche e professionali, descrive sì questa generazione come la più diversificata nella storia, ponendo una forte accento su etnia, genere, orientamento sessuale e background socioeconomico. Ma è proprio sulla fase iniziale del loro adulting (il diventare adulto) che è importante concentrarsi per comprendere meglio le loro sfide.

Di orientamento finanziario fortemente conservatore, una grande fetta di questa generazione avverte la pressione dei genitori, considerati i primi modelli di riferimento, a intraprendere il percorso universitario per garantirsi un futuro migliore, pur trovandosi di fronte alle rette universitarie più alte di sempre.

Indirettamente colpita prima dalla crisi finanziaria del 2008 e poi dagli effetti della pandemia, una larga fetta di giovani si ritrova spesso a dover accumulare debiti universitari mentre i genitori sono ancora impegnati a saldare i propri. Questa generazione affronta l’università con l’aspettativa di un ritorno economico e il desiderio di acquisire competenze immediatamente applicabili. Da qui il crollo in popolarità delle discipline umanistiche e un duro colpo all’ideale secondo cui la nobile missione accademica di formare cittadini onesti e pensanti avrebbe sempre prevalso sull’utilità immediata di qualsiasi titolo di studio.

A differenza delle generazioni precedenti, i membri della Gen Z che si iscrivono al college non lo fanno per esplorare indirizzi di studio o corsi opzionali che accendano le loro passioni, rischiando di aumentare il debito. Al contrario, cercano lauree che rispondano alle esigenze del mercato e, per molti, il percorso universitario è accompagnato da decisioni finanziarie complesse e misure di accessibilità economica: rinunciare alla scelta del college ideale, frequentare università statali, vivere a casa con i genitori o seguire corsi nelle scuole superiori che rilascino crediti universitari per accorciare il percorso accademico. Nel periodo post-Covid, la percentuale di studenti lavoratori è aumentata drasticamente; secondo le statistiche del Bureau of Labor (2022), l’81% degli studenti universitari lavora part-time e il 42% full-time.

Per quanto riguarda il divario di genere, iniziamo col dire che Trump e Harris hanno utilizzato i podcast come strumento principale per attrarre i giovani, riconoscendo l’importanza della Gen Z come pubblico da raggiungere negli spazi digitali, dove si formano e si discutono le opinioni politiche. Su consiglio del figlio diciottenne Barron, Trump ha cercato di raggiungere i giovani uomini attraverso piattaforme che evitano i media tradizionali, come la manosphere  — una rete online di comunità maschili che promuovono idee antifemministe e sessiste, dove le fake news diventano realtà e il politicamente corretto un lontano ricordo, un po’ come l’ ‘X’ attuale di Elon Musk, amico e alleato di Trump. D’altra parte, Harris ha puntato a coinvolgere le giovani donne, utilizzando podcast che trattano temi sociali in modo diretto e senza filtri, attirando principalmente un pubblico femminile in una campagna elettorale che agli uomini ha lasciato poco, pochissimo spazio.

Kelsey Eyre Hammond, coordinatrice di programma presso l’American Enterprise Institute, ha osservato che l’accento posto dalle campagne Dem sui diritti delle donne ha fatto sentire molti giovani uomini marginalizzati, portandoli a identificarsi sempre più con il Partito Repubblicano, visto come un alleato: “Il forte focus della campagna dei Democratici sui diritti riproduttivi e sull’accesso all’aborto porta molti a pensare: ‘Ok, questo partito è per le donne.’, automaticamente spostando l’attenzione sui GOP come partito maschile. Secondo un sondaggio del 2020 condotto dal PRRI, molti uomini concordano con l’affermazione che “oggi la società sembra punire gli uomini solo per comportarsi come uomini.” Questo sentimento ha rafforzato il supporto a Trump, visto come simbolo di forza maschile e di valori tradizionali. Il suo gesto di alzare il pugno alla Capitan America dopo l’attentato al comizio in Pennsylvania è stato interpretato come un segno di resistenza, consolidando ulteriormente la sua posizione tra chi lo considera l’incarnazione dell’orgoglio maschile e di un modello di virilità tradizionale. Tutto questo si inserisce nella più ampia discussione sul “sostegno alla mascolinità” che Trump ha saputo canalizzare, facendo leva sui sentimenti legati alla percezione di una società dove il sostegno alle donne, la fluidità di genere e le questioni di inclusività sono ormai centrali.

Un orgoglio rimarcato anche dalla figura del vicepresidente J.D. Vance, che ha guadagnato notorietà nazionale nel 2016 con la pubblicazione autobiografica Hillbilly Elegy, successivamente adattato al cinema e distribuito su Netflix nel 2020, sotto la regia di Ron Howard. Il titolo stesso è emblematico: un’elegia degli hillbillies, ossia di coloro che provengono dalle aree rurali e montuose degli Appalachi, negli Stati Uniti. Il libro racconta la storia di un ragazzo cresciuto in una famiglia povera tra Ohio e Kentucky, con una madre tossicodipendente. Viene allevato dalla nonna e diventa un first-gen (il primo membro della famiglia a intraprendere un percorso universitario). Si laurea in giurisprudenza a Yale e sposa la sua sweetheart, conosciuta durante gli studi. Si tratta di una storia di successo che rappresenta la quintessenza del sogno americano del “ce la puoi fare indipendentemente da dove parti”. E qui rimarchiamo come questo memoir esalti la meritocrazia bianca, in una fase fase storica dove è la diversità a essere considerata un punto di forza, rappresentanza e resilienza. È anche una storia dove il protagonista trionfante non dimentica mai però le proprie origini, il proprio vissuto, quella parte di America che oggi favorisce la politica isolazionista di Trump dal mondo esterno, perché ha bisogno di salvare il proprio. Il libro ha guadagnato popolarità soprattutto nelle università, diventando una lettura comune in molti campus dove Vance è stato spesso invitato a tenere conferenze. E dov’era poche ore prima delle elezioni? A tenere un discorso alla High Point University in North Carolina. Ed ecco il Millennial, prima pensatore indipendente, oggi esponente del GOP, che si appresta a diventare Vicepresidente degli Stati Uniti a quarantadue anni, distinguendosi come il politico di maggior rilievo anagraficamente più vicino ai giovani.

Fino al 5 novembre, in molti hanno creduto, o almeno sperato, che i giovani avrebbero dato un contributo decisivo all’America progressista e liberale, contribuendo alla sconfitta di Trump e del suo retaggio culturale. E invece, il 6 novembre ci siamo risvegliati in un ‘68 distopico, con il riallineamento di una fetta consistente di giovani bianchi e della classe operaia che guarda a un Baby Boomer per riportare il sogno americano indietro di più di mezzo secolo con le buone o con le cattive, un po’ alla Don’t Worry Darling (Olivia Wilde, 2022).

La Mattonella

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Foto di Sameera Madusanka da Pixabay

di Silvano Panella

Osservo gli oggetti che nel corso degli anni ho disposto all’interno dell’armadio a vetri. Sono cimeli, quel che rimane delle mie avventure. C’è la chiave recuperata dalla cantina di un immenso palazzo pieno di legna e prossimo a un incendio devastante, il dado sottratto a una scellerata gilda d’uomini poco propensi a prestare quelle opere caritatevoli delle quali fantasticavano a voce, il campanellino raccolto nella neve mentre risalivo la montagna assieme a un necromante, la mattonella a motivi floreali che una donna mi regalò in India dopo avermi salvato dalla giungla. Mi ero perso…

Foglie color del sangue ossidato per esposizione all’aria aperta, perduto da chissà quale preda sacrificale, la tigre decide di punire chi, come me, si addentra troppo nel suo territorio, gli uccelli si danno il cambio e vocalizzano canti più cadenzati e querimoniosi, i petali si tingono d’ambra liquefatta, la giungla al tramonto è molto bella e molto pericolosa. Il caldo umido, la vegetazione fittissima, la fatica, il disorientamento, l’impressione d’essere già passato di qui, d’aver già carezzato queste volute di petali, foglie, rami, l’impressione d’essere prossimo alla fine per sbranamento, morso di serpente, puntura d’insetto, oppure a causa d’una freccia, o battendo la testa al culmine d’uno scivolone. Perché non ho preso l’altra pista? Perché non ho più acqua nella borraccia? Dubbi, divagazioni. Sii maturo, non compiangerti, mi ripetevo.

Fermo a tendere i sensi all’eventuale assalto d’un grande predatore, cosa che mi rendeva vulnerabile alle arrampicate di formicolanti animaletti, sentii un frusciare di fronde. Alzai lo sguardo. Era una scimmia. La seguii, magari si stava mettendo al riparo. Scelta saggia, ma appena mi scorse cambiò direzione e non la seguii più – le scimmie non sanno resistere agli scherzi, avrebbe potuto accompagnarmi in un burrone oppure nelle sabbie mobili. Un nuovo fruscio, differente, morbido, un movimento ad altezza umana, un drappo decorato, linee sinuose diramate su una superficie ondeggiante. Il viso nascosto dai capelli, braccia piegate a sorreggere una cesta. Seguii la donna, una portatrice di bacche e noci. Non disse nulla, mi guardò soltanto due volte, la prima per capire a quale specie appartenessi, la seconda per dimostrarmi d’essere conscia che le stessi dietro. Arrivammo in una radura quasi del tutto occupata da una fabbrica ottocentesca, un passato coloniale di soprusi e imposizioni, un eterno presente di eclettismo architettonico – i nostri predecessori si adoperavano per rendere bello e durevole ogni edificio, erano convinti che bellezza e durevolezza fossero sinonimi. Una fabbrica di mattonelle un po’ diruta ma ancora funzionante, sbuffi grigi dai comignoli, sacchi di argille e di coloranti, i forni, il calore, odori pungenti, uomini al lavoro. C’erano anche le famiglie. Un ragazzo mi venne incontro con una brocca d’acqua a decori verdi, fiori che si mimetizzavano tra le loro foglie, eventualità controproducente ma vera. Mi dissetai a mancafiato. Incuriositi dalla mia apparizione, gli abitanti si avvicinarono per esaminarmi, alcuni sospettosi, altri sorridevano. La giungla si abbuiò, le lanterne a olio presero a illuminare la fabbrica e le case al suo interno.

La mattonella è stata creata, cotta pochi anni fa, nella fabbrica indiana, è passata di mano in mano prima di finire impilata, è passata di mano in mano prima di finire a me, in dono. I motivi della mattonella non venivano ricopiati sui loro vestiti. Peccato. Nella radura, nella fabbrica uomini e ragazzi indossavano le magliette che si indossano nei nostri paesi. Magliette, simboli della serialità, macchie squadrate, stampate, vestiti di facile taglio, comodi. La comodità ci fa essere sbadati. Abbiamo la mattonella e quella ci basta, la fissiamo a parete assieme alle altre e questo ci basta, la scegliamo una volta e poi la sottintendiamo. Siamo arrendevoli. Gli anziani e le donne indossavano vestiti tradizionali. Forse perché gli anziani rivivono la loro giovinezza tramite scelte antiquate rispetto al presente e rispetto al loro stesso passato, le donne bramano gli abiti delle loro antenate perché li associano a quei gioiosi momenti di festa in costume che vissero da giovani. I riccioli terminano arrotondati, precisi, senza gocciolature, sbavature, senza indecisioni, senza concedere appigli alla sbadataggine.

La donna che mi aveva condotto alla radura mi chiamò nella sua casa. Conobbi suo marito, le mani imbiancate di polvere, l’espressione persa nel lavoro, un cenno di intesa e tornò nel laboratorio. Indossava una tunica bruna imbiancata come le sue mani. Durante il lavoro vestiva in modo tradizionale, magari perché reputava importante la creazione dell’opera. Sbirciai le mattonelle impilate. Bei disegni floreali, monocolore, essenziali. Il lavoro era concluso, sì, ma gli uomini, prima di spostarsi nelle adiacenti case, desideravano mettere ordine. Erano molto meticolosi. La cena su una bassa tavola, stufato di carni e bacche. Per la notte mi sistemai su una stuoia. Credevo fosse scomoda e invece dormii bene, i versi cadenzati degli uccelli mi piacevano e sognai una tigre che ci tollerava perché non cacciavamo le sue prede.

Mi svegliai ben riposato, ottimista, il Sole splendeva sulla fabbrica e riusciva a rendere ameno lo squallore degli elementi forzati, superflui, rifiutati – bottiglie e buste di plastica, lamiere ondulate, tappi, scatoloni, cavi, etichette, volantini, blocchi di cemento per le piccole riparazioni a facciavista. Al mattino siamo distratti dal buonumore e dalla prima luce, di giorno ci distraggono i nostri impegni, la sera l’oscurità protegge tutte le cose, andiamo a dormire e dimentichiamo. Ecco i motivi della persistenza dello squallore. Preferisco la giungla, così abile a fingersi eterna, a eliminare ogni traccia di forzatura, ogni brano superfluo attraverso l’inghiottimento, attraverso la decomposizione. Salutai gli abitanti della radura e mi inoltrai nella vegetazione. Non mi persi. Questa mattonella attira le dita, le sfrego volentieri per seguire i meandri, per adombrare lo sfondo. La giungla e la sua terra. La fabbrica è sul retro, sagomata in un marchio d’orgoglio.

Il fascino indiscreto degli scacchi

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di Maurizio Corrado

Cos’hanno in comune Dante, Leonardo da Vinci, Napoleone, Voltaire e Duchamp? Un gioco. Uno dei pochi giochi che da più di cinque secoli ha le stesse regole e che spesso porta alla follia o, al contrario, salva dalla follia. Un gioco di guerra che ha le sue origini probabilmente in India, passa dalla Persia e il mondo arabo per arrivare in Europa e dove ciò che conta è esclusivamente l’abilità del giocatore. Cos’hanno di così unico gli scacchi per affascinare una mente come quella di Duchamp e fargli abbandonare l’arte a trentasei anni? Per qualche mese mi sono dedicato a esplorare questo mondo dal punto di vista della letteratura. Questo è il mio racconto.

 

Partiamo da due romanzi che iniziano con stessa scena: in una stanza di albergo di un paesino del Portogallo, Alexander Alekhine viene trovato morto in poltrona con indosso un cappotto davanti a una scacchiera. Alekhine, il cui vero nome è Aleksandr Aleksandrovič Alechin, è un campione mondiale di scacchi russo naturalizzato francese, il suo rivale storico è José Raul Capablanca, campione cubano, chiamato il Don Giovanni degli scacchi. A lui è dedicato il romanzo di Fabio Stassi La rivincita di Capablanca che esce nel 2008 e ha quindi il primato del tempo rispetto all’altro. All’inizio vediamo i due, giovani scacchisti già noti, contendersi una bella dama scommettendo su chi dei due riuscirà per primo a infilarsi fra le sue lenzuola. Da questa sfida risulterà vincitore Capablanca ma perderà il duello al gioco e per il resto della vita aspetterà una rivincita che Alekhine, nel frattempo diventato il suo peggior nemico, non vorrà mai concedergli. Lettura leggera e scorrevole. Tutt’altra atmosfera si respira in Teoria delle ombre, di Paolo Maurensig, scrittore consumato e profondo conoscitore del gioco a cui ha dedicato già diversi romanzi di cui conoscevo La variante di Lünenburg che inizia sempre con un omicidio di uno scacchista. Nella Teoria troviamo una scrittura densa, piena di echi, dedicata a Alekhine, figura controversa per le sue connivenze naziste che Maurensig affronta magistralmente verso la fine del testo, senza concedere nulla a soluzioni scontate e proponendo un’approfondimento del personaggio ricco di abili sfumature.

 

Di sfumature e sottigliezze è maestro Nabokov e non le lesina in La difesa di Luzin, la densità della scrittura aumenta dopo quella già forte di Maurensig, dalla metà del romanzo il punto di vista è quello di Luzin, una visione coerente nella sua quasi totale assenza di contatto con il reale e in quel quasi stanno i dettagli che lui interpreta come una trappola che qualcuno gli sta preparando e di cui si convince di accorgersi cercando le contro mosse fino a quando decide che l’unica soluzione è uscire dal gioco. Il personaggio è probabilmente ispirato a Curt von Bardeleben, uno dei migliori scacchisti tedeschi a cavallo del secolo, morto suicida nel ‘24. Nabokov lo scrive in russo nel ’29 e lo fa uscire  puntate nella rivista Sovremennye Zapiski, curata da emigrati russi. Nell’andamento lento e denso tipico della sua scrittura, oltre alla conoscenza personale del gioco, mi è sembrato di riconoscere una vita ordinata, la sua, in cui proprio questa sua meticolosa organizzazione esterna gli dà la possibilità di immergersi totalmente nei personaggi fino a conoscerli nel profondo e aderire empaticamente alle loro personalissime visioni del mondo, come nell’indimenticabile Humbert di Lolita.

 

Leggo Una sfida di Patrick Suskind nel viaggio in autobus dal mio quartiere fino al centro città. In un giardino di Parigi arriva un giovane bello e sconosciuto e si siede alla scacchiera con il vecchio imbattuto campione del quartiere. Tutti vedono in lui la possibilità di rivincita su quell’uomo che batte inesorabilmente tutti. Fa mosse azzardate, impossibili, gli spettatori sono in visibilio, il vecchio giocatore è intimorito, è arrivata la sua ora? Finalmente qualcuno riuscirà a batterlo? Speranza e timore si intrecciano mentre gli spettatori hanno un nuovo idolo. Ma non è così. Purtroppo il vecchio giocatore vince. Cosa ha abbagliato tutti? La speranza nella giovinezza? La possibilità di cambiamento?

 

Walter Tevis, La regina degli scacchi. Verso la metà mi dico, ok, capito, scrittura fluida, leggerissima, si capisce come mai ne hanno tratto una serie, è già pronta, lui sembra scrivere per Hollywood, solo sei romanzi ma due sono diventati film e uno una serie, mi dico può bastare, ma poi lo seguo fino alla fine e anzi dopo mi manca, come accade con certi romanzi lunghi. Lo conoscevo come autore di fantascienza, il suo L’uomo che cadde sulla terra, interpretato da David Bowie, è un cult per noi amanti del Duca bianco. Poi ricordo un pomeriggio in cui zappingando oziosamente mi blocco su di un film con Paul Newman e Tom Cruise ambientato nel mondo dei giocatori di biliardo, bellissimo, profondo, appassionante, solo alla fine scopro che la regia è di Martin Scorzese: Il colore dei soldi, che lui ha pubblicato nell’84, un anno dopo La regina degli scacchi. Il grande merito della serie è stato avvicinare al gioco molti ragazzi e di riflesso me, che ho ricominciato a giocare online per avere una scusa per stare in qualche maniera in contatto costante con mio figlio. Per il resto è una lettura piacevole, priva di approfondimenti psicologici se non suggeriti dai comportamenti della protagonista, prima bambina poi donna in un mondo prevalentemente maschile.

 

Se dovessi indicare un testo che racchiude in maniera completa tutte le implicazioni e le evocazioni che emanano dagli scacchi, direi con sicurezza che quel testo è il breve racconto di Paolo Maurensig L’ultima traversa. L’incompetente vulgata comune riserva spesso il primato a La novella degli scacchi di Stefan Zweig, ultimo racconto scritto prima del suicidio, mentre stava completando quel meraviglioso ritratto dell’Europa da fine Ottocento alla Seconda Guerra Mondiale che è Il mondo di ieri. Qui un campione tonto che ha nel gioco la sua unica rivincita sul mondo si trova sfidato da un misterioso personaggio che si scoprirà aver imparato il gioco come salvezza personale mentre era prigioniero della Gestapo. Nel racconto la lista degli elementi che orbitano intorno agli scacchi è pressochè completa: sacro, erotismo, sfida, pazzia, vizio, esclusività, ossessione, morte. Se lo trovate nelle edizioni Barbera, non leggete la sciagurata quarta di copertina che perversamente svela tutto.

 

Non facilissimo da trovare, finalmente mi arriva fra le mani Zugzwang, mossa obbligata, di Ronan Bennett. Prima, per una piccola confusione di nomi, inciampo in Alan Bennett, gustosissimo autore inglese noto per il suo teatro. Ronan invece è, per me che non lo conoscevo, una piacevole sorpresa: irlandese, impegnato politicamente e forse anche militarmente contro gli inglesi, dedica vita e scrittura alla lotta contro l’oppressione. Zugzwang esce a puntate sull’Observer nel 2006, poi in forma di romanzo diventa un successo internazionale e a ragione: scrittura fina, veloce, profonda, gira intorno al torneo di scacchi del 1914 a San Pietroburgo dove furono invitati i migliori giocatori del momento, fra cui nomi ormai noti anche a chi sta leggendo queste righe come Capablanca, Lasker, che vincerà, Alekine, Nimzowitsch. Mescolando realtà e finzione, Bennett costruisce un intrigo tutto russo con protagonista uno psicanalista che si trova ad avere come paziente uno dei campioni intorno al quale girerà una vicenda che vede coinvolti rivoluzionari bolscevichi, alte cariche dello stato, la figlia, un concertista, poliziotti e delinquenti vari. A tutto ciò si intreccia una partita a scacchi di cui seguiamo le mosse fino alla fine. Veramente gustoso, valido e appassionante.

 

Noiosissimo invece ho trovato Gli scacchi, la vita, di Garry Kasparov, che dopo la carriera di scacchista e campione del mondo dal 1985 al 2000, diventa uno dei maggiorti oppositori di Putin. Dice cose giuste, interessanti e valide partendo dalla sua carriera infinita come professionista del gioco, alternando con biografie di altri campioni, ma troppo, troppo, troppo prolisso, lo leggo velocemente saltando pagine intere. Rimane un grande rispetto per il giocatore e per l’uomo, ma come scrittore no, decisamente da preferire il suo breve e intenso Scacco matto, fra i manuali certamente uno dei migliori.

 

Gesualdo Bufalino aveva iniziato un romanzo dedicato a José Raul Capablanca, di cui rimangono solo poche pagine, Shah mat. L’ultima partita di Capablanca, contenute nel secondo volume delle Opere pubblicato da Bompiani. Il Don Giovanni degli scacchi è visto nell’ultimo giorno di vita, gironzola per le strade di New York e s’infila in un cinema dove danno un film ambientato a l’Havana. Da qui ricordi, nostalgie, fino a quando viene abbordato da una giovane francese che si porta a casa e con cui inizia a parlare fino a quando, ultima frase del testo, “qualcuno bussò alla porta.” Non sapremo mai chi era, non sapremo mai come Bufalino avesse in mente di proseguire nella rievocazione di uno dei più affascinanti scacchisti di tutti i tempi, sappiamo che fra i testi letterari dedicati al gioco questo è certamente da non perdere.

 

In Samuel Beckett, forte giocatore, gli scacchi compaiono alla fine di Murphy, e sono affidati al signor Endon, ospite di una casa di cura per malati mentali, imbattibile al gioco e completamente immerso nel prorio mondo. La partita fra lui e il protagonista viene riportata per intero. Anche qui scacchi e follia sono uniti. Per meglio dire, sono una soglia. L’unica finestra che ha la follia in comune con la realtà. L’unico modo di comunicare, una porta che viene aperta solo per lo spazio di una partita.

 

Da Murphy a Morphy il passo è breve, forse troppo per non immaginare una somiglianza cercata. Paul Morphy è da molti considerato il primo genio moderno degli scacchi e certamente la sua imbattibilità e la sua vita è entrata nella leggenda. Nato a New Orleans nel 1837, a lui è dedicato L’arcangelo degli scacchi, di Paolo Maurensig, che abbiamo imparato essere uno dei più prolifici ed esperti autori del gioco. Romanzo pacato scritto in prima persona, appare a chi un po’ conosce le dicerie sul protagonista come un tentativo, pienamente riuscito, di riportare Morphy nei confini di una persona quasi normale, ma il quasi è d’obbligo trattandosi di uno scacchista di livello mondiale. Dopo aver battuto chiunque in America, Morphy parte per l’Europa con un solo abbiettivo: misurarsi con l’inglese Howard Staunton, che oltre a curare un’opera completa degli scritti di Shakespeare, era considerato il miglior giocatore del tempo e colui che ha dato il nome alla tipologia di scacchi più usata dalla sua uscita, nel 1849, disegnata in realtà dal designer Nathaniel Cook. Staunton nella realtà eviterà accuratamente di incontrare l’americano, ma Mauresig ci regala una sfida immaginaria ma non troppo fra i due campioni.

 

Michail Tal’ e il suo modo sorprendente e gioioso di giocare e la sua vita è il protagonista di Il mago di riga, di Giorgio Fontana. Il romanzo si svolge intorno alla sua ultima partita di torneo, il 5 maggio 1992, pochi giorni prima della sua morte, è un continuo flash back che ripercorre tutta la vita di questo campione lettone, a 23 anni il più giovane campione del mondo prima di Kasparov. Ne risulta un ritratto che ce lo fa amare subito, amante delle bevute, delle donne, della vita in ogni forma vissuta senza risparmare nulla.

 

Scacchi e matematica è un accostamento che troviamo spesso. Ne L’assassino degli scacchi e altri misteri matematici, di Benoit Rittaud, fra gli altri racconti a sfondo giallo, troviamo il testo che dà il titolo alla raccolta, in cui viene affrontato il tema del computer, che rapporto ci può essere fra un umano e una memoria elettronica o, se preferite, un’intelligenza artificiale in grado di elaborare una quantità di mosse che un cervello umano non potrebbe mai affrontare? È la morte del gioco? L’uomo è destinato a soccombere? Già nel 1836 Poe aveva affrontato il tema della macchina giocatrice ne Il giocatore di scacchi di Maezel, risolvendolo tutto in favore dell’uomo nel senso che il racconto è una minuziosa dimostrazione di come la macchina in realtà sia manovrata da un essere umano. Sembra una prova generale per l’Auguste Dupin che comparirà nella Rue Morgue cinque anni più tardi. Il conflitto fra mente umana e macchina, fra uomo e computer, oggi si parlerebbe di AI, per quanto mi riguarda è quanto di più noioso e privo di interesse si possa immaginare. Non si tratta di stabilire, come sempre accade ogni volta che salta fuori un conflitto simile, di stabilire se sia più forte l’uno o l’altro. Di solito la macchina è dipinta come potente ma fredda e l’uomo come limitato ma con la grande arma della creatività. Essendo il gioco un conflitto psicologico, il confronto con una macchina diventa un ottimo allenamento, un esercizio per migliorare la capacità di gioco, in attesa di avere di fronte un essere in carne, ossa e memoria da affrontare. Un po’ come far l’amore con un robot.

 

Spesso gli scacchi vengono evocati nella narrativa gialla dove servono a dare sapore a sfide e morti inspiegabili senza di fatto entrare nel merito del gioco. Fra questi, uno degli esempi più riusciti è Sfida cruciale, dell’islandese Arnaldur Indridason. La vicenda si svolge nel 1972 durante la sfida fra l’americano Fischer e il russo Spassky in una Reykjavik diventata improvvisamente il centro del mondo. Siamo in piena guerra fredda e il valore dell’evento trascende completamente il puro gioco, divendo il simbolo della sfida fra le due superpotenze. La prosa di Indridason non è mai banale, riesce ad approfondire bene i personaggi, mentre i due sfidanti rimangono sullo sfondo, come comparse famose in una vicenda a loro sconosciuta. Chi riesce bene a cogliere l’essenza di quella sfida è invece Alessandro Barbaglia ne La mossa del matto, dove Fischer viene paragonato ad Achille e Spasskij a Ulisse.

 

Inevitabilmente, non può mancare in questa breve carrellata un passaggio su di uno degli scacchisti più anomali e conosciuti del Novecento: Marcel Duchamp. Ferruccio Pezzuto ce ne parla ne La Partita di Duchamp, non un romanzo ma una cronaca di vita e opere con un focus sul gioco. Nel 1923, a trentasei anni, Duchamp abbandona l’arte e si dedica pressochè esclusivamente agli scacchi. Aveva già fatto in tempo a precedere di diversi decenni tutto l’andamento e le piste seguite poi dall’arte del Novecento, dalla performance al concettuale. Per almeno dieci anni non fa altro, poi qui e là produce alcune opere, tra cui 25 scacchiere e diversi scacchi. La domanda è: come mai la mente di un artista così potente si dedica esclusivamente al gioco maledetto? Che rovesciata, diventa: cos’hanno gli scacchi di così pervasivo da soddisfare una mente come la sua scacciando ogni altro interesse? Abbiamo visto come l’esclusività sia una delle caratteristiche che appaiono spesso nello scacchista di alto livello fino a diventare un’ossessione. Marcel non diventerà mai un campione di livello mondiale, ma giocherà nella nazionale francese e soprattutto, c’era da aspettarselo, il suo gioco prende vie più concettuali, arrivando a pensare a una “partita a scacchi non competitiva; quella per intenderci in cui l’avversario è stato allontanato, evacuato per citare un’espressione a lui cara, poiché non ha rilevanza alcuna. È questo per Duchamp l’unico modo per ricondurre all’Uno il dualismo conflittuale Bianco/Nero, realizzando quel matrimonio alchemico Fratello-Sorella che caratterizzava l’aspirazione irrealizzata nel Grande Vetro.” Negli anni Venti, insieme alla nascita delle avanguardie artistiche, si produce anche negli scacchi una nuova tendenza, chiamata ipermodernismo che guarda ai surrealisti come modello. In assonanza con lo spirito del tempo nei loro scritti gli ipermodernisti, a cui Duchamp si avvicina, “annunciano di voler far esplodere la scacchiera, di voler liberare il dinamismo insito negli scacchi.”

 

Fin qui l’occidente. In Cina negli anni Ottanta esce Il re degli scacchi, di Acheng, considerato uno degli scritori di punta di quegli anni. Gli scacchi sono quelli cinesi, è diversa la scacchiera, sono diversi i pezzi, resta identica l’ossessione, l’esclusività, il giovane eroe solitario proveniente dal popolo che si dimostra invincibile. Molto interessante il tono della voce di Acheng, completamente differente da quello occidentale.

 

Abbiamo visto come la figura del giocatore di scacchi abbia alimentato non poco fantasia e capacità narrativa, voglio chiudere citando un breve saggio, uno dei pochi che ha affrontato il tema da un punto di vista psicanalitico, un testo degli anni Cinquanta di Reuben Fine, La psicologia del giocatore di scacchi, molto utile anche per i brevi ritratti che contiene dedicati ad alcuni dei più noti campioni. A questo punto la domanda è una sola: giochiamo?

 

 

 

 

 

 

 

Uno spiritello si aggira per l’Europa: Incurables.

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di

Incurabili

Oggi 21 novembre 2024 uno spiritello si aggira per l’Europa. Un movimento generazionale e rigenerativo di cui vi diremo meglio, e racconteremo il Manifesto, articolo per articolo, il 30 dicembre prima di fare il botto. È nato il giorno dopo la morte di Franco in Spagna, come in una legge del contrappasso, per definire ma nemmeno troppo chi siamo e cosa faremo. Ciò che non siamo lo sappiamo già.

Lola&Vlad – Piero Melati

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Prologo del nuovo romanzo di Piero Melati, Polidoro Edizioni. Collana Interzona diretta da Orazio Labbate.

Chissà perché ho ripensato ai pidocchi. Anzi no, me lo ricordo bene. Pulci e pidocchi portano la peste. Una volta hanno scoperchiato la tomba di Apollo ed è saltato giù il flagello. Loro, pulci e pidocchi, sono i vettori, in groppa ai topi. Nosferatu, il film di Herzog del 1979: i moli del porto di Brema invasi dai ratti arrivati sulle navi, con parassiti al seguito. Una volenterosa coorte di sporcizia animata. E dopo lo sbarco, il contagio che bussa alle porte della città: toc, toc, reverendissimi umani, siete in casa?

Siamo venuti astecchirvi a peso morto. Quanto a me, il batterio Yersinia Pestis non mi tocca. Oppure guarisco. Ma quei bifolchi di scrocconi sanguisuga, che la peste ha sempre al seguito, mi infastidivano. I topi li sterminavo, ma quanto agli altri mantenuti… pulci e pidocchi… dovevo grattarmi o estirparli. Mi facevano indignare.

Mi sono grattato la cute nel sonno, per il ricordo. Ma al risveglio tutto è stato chiaro. Avevo sognato il demone Pazuzu, generatore d’incubi. Lui mi aveva rievocato i pidocchi. Al termine di una notte immobile, esattamente trenta minuti prima dell’alba, Pazuzu mi era apparso in tutto il suo fetore. Dovete sapere che c’era una volta, nella valle tra i due fiumi della Mesopotamia, che vide alle sue rive Isacco di Ninive (vi ricorda niente?) un terribile signore dei venti. Si chiamava Pazuzu. Oggi ne resta una statuetta al Louvre, un esile mostro con le ali, la cui iscrizione recita: «Io sono Pazuzu, il re degli spiriti malvagi del vento che sorge all’improvviso dalle montagne». Ma nessuno gli crede più. I turisti ci si fanno i selfie. È un idolo trapassato, come altre vecchie divinità che avevano una data di scadenza: Afrodite, Diana, Dioniso, Pan, eccetera eccetera. «Il grande dio Pan è morto» gridarono al marinaio egizio dall’isola di Paxos. Figuratevi: erano ancora i tempi di Plutarco e Pan, già allora, era acqua passata.

Pazuzu, in epoche più robuste, governava il soffio maligno che, da sud-ovest, porta tempeste, carestie, siccità, locuste. Si alzava dalle rocce e spandeva distruzione. Ma in Assiria, otto secoli prima di Cristo, il nostro Pazuzu era ancora invocato perché combatteva la demonessa vampirica Lamastu, che attaccava donne incinte e neonati. Una demone vampira. Personalmente, le sarei stato devoto. Il demone Pazuzu, nelle raffigurazioni, ha un pene eretto che culmina in una testa di serpente. Il linga della tradizione indiana, il fallo con cui Pan scopa le capre. E questo avrà avuto un suo significato, anticamente.

Ma questo oscuro diavolo antropomorfo era stato completamente dimenticato, quando mezzo secolo fa la sua figura inaspettatamente risorse. Nelle sale cinematografiche di tutto l’Occidente. Il cinema è un vascello dell’eterno ritorno. Proprio Pazuzu fu il simbolo satanico evocato nella saga de L’esorcista, la morbosa pellicola del 1973 che ha fatto epoca. Il film raccontava che nel sito archeologico di Hatra, nell’attuale Iraq, era stata rinvenuta per caso una statua raffigurante questo malvagio malandrino ctonio. Così, grazie a tale incauta “liberazione” dagli abissi della Terra, dove da tempo immemorabile esso giaceva, sarà proprio Pazuzu a impossessarsi del corpo della giovane protagonista del film, Regan MacNeil.

Che blasfema sceneggiatura. Tuttavia partorì una locandina pubblicitaria tanto apparentemente innocua quanto profondamente inquietante. Forse la più disturbante di tutti i tempi. In essa si vede un uomo immobile nella notte, ben vestito, con tanto di cappello e valigetta, fermo all’ingresso del giardino di una palazzina, circondato dalla nebbia, affiancato da un’alta lampada stradale fiocamente illuminata. Ma soprattutto, l’uomo è investito da un possente e innaturale faro di luce che divampa da una finestra al primo piano. Ivi è rinchiusa, nella sua linda cameretta da adolescente, la giovane posseduta.

Ora attenzione. Non vediamo mai l’indemoniata, nella locandina. Ma intuiamo che quell’innaturale diluvio di chiarore proviene indubbiamente da una sua metamorfosi. Siamo anche noi irrorati da quell’insano faro insieme all’uomo. Egli è un prete, l’esorcista padre Merrin, interpretato dall’attore Max von Sydow. Resta immobile nella sua postura, perché già congelato nella sua successiva, inevitabile sconfitta.

Quell’innaturale chiarità notturna lo paralizza. Colta nell’attimo precedente l’entrata in scena del personaggio, la presenza di quella luce che lo avvolge, di misteriosa e ultramondana provenienza, sentenzia l’imminente capitolazione di tutto ciò che è terreno e transeunte, di fronte a un incommensurabile fenomeno, che semplicemente non avrebbe mai dovuto esserci. Eppure c’è.

Ci sono fenomeni che non dovrebbero essere, eppure sono. Essi, come il suono di un gong, stabiliscono che ogni cosa terrena e transeunte è destinata a essere divorata da qualcosa di ultramondana provenienza. Se ci riflettete, è una cosa molto semplice. Dunque, fu una pessima idea da parte vostra far risorgere Pazuzu, grazie a quel film, e con lui risvegliare ciò che da millenni dormiva nelle fosse della Terra. «Ma era solo cinema» direte. Piantatela, vi prego. Rendetevi conto, piuttosto, di quanto siano incaute le mani umane, quando maneggiano antichissime potenze come fossero tagliandi di un Gratta&Vinci. Proprio tale vostra sprovvedutezza avrebbe presto contagiato altre menti perverse. Avrebbe piantato in loro la speranza di nuove resurrezioni, dopo quella di Pazuzu, rastrellando ancora una volta il ventre profondo del terzo pianeta.

Che follia, la vostra. Ci sono cose che sono state sotterrate, ma mai davvero sepolte. Esse permangono. Essi vivono ancora. In loro persino la morte è morta. È esattamente questo, come vi racconterò, il casino che avete combinato. A un certo punto del risveglio, mi sono toccato i canini con il pollice e il medio della mano destra. Ecco una cosa concreta, mi son detto. Altro che chiacchiere. Soltanto noi siamo la ribellione a questo deprimente ordine tanatologico del cosmo, la risposta alla sua, e alla vostra, vocazione mortuaria.

Ok, la pianto qui. Cercavo solo un modo semplice per introdurre la storia. Alla fine l’ho trovato. Si chiama Lola e Vladimiro. Che prendano loro la parola. I personaggi. Umani come voi. Più o meno. Questa storia è cominciata proprio all’alba di internet, quando ancora non c’erano i social network. A quei tempi, esistevano soltanto le chat, i forum, i primi siti, i primitivi motori di ricerca. Ma le chat, in particolare, segnarono l’inizio di una rivoluzione umana. Hanno inaugurato tutto quello che c’è adesso: i social network, gli influencer, gli youtuber, Facebook, WhatsApp, Instagram, Tik Tok, i like, i cuoricini,i followers. Fu allora che iniziò un percorso virtuale che non si è più fermato. Anzi, è dilagato con la geometrica potenza di una epidemia di peste. Quando l’artificiale ha cominciato a prendere il sopravvento sul reale e la realtà si è mischiata alla finzione. Peggio delle arti visive, della fotografia, del cinema, della televisione. Non c’è paragone con tutto quello che c’era stato prima.


Piero Melati è stato vicecaporedattore alla cultura del Venerdì di Repubblica. Attualmente collabora all’inserto Robinson di Repubblica, alle pagine culturali del Venerdì. Ha scritto Vivi da morire con Francesco Vitale (Bompiani, 2015), Giorni di mafia (Laterza, 2017), La notte della civetta (Zolfo,2020), Paolo Borsellino. Per amore della verità (Sperling&Kupfer, 2022), Il viaggio del camaleonte: Truman Capote in Sicilia (Le storie, 2023).

Mariano Tomatis: «l’insegnamento del mago»

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Il 20 Novembre 2024 è arrivato in libreria Il mio libro di magia di Mariano Tomatis (Edizioni Tlon), una guida pratica e insieme una sfida a ripensare l’idea di arte magica, contaminare la modernità e ispirare una magia conviviale e antifascista.

Proponiamo un estratto in anteprima.

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Prologo

Londra, 1635. Tra le attrazioni della fiera di San Bartolomeo c’è anche un mago. Si chiama Hocus Pocus, come la formula magica. In mano ha una pallina e invita uno spettatore a prenderla. Mentre costui sta per afferrarla, l’illusionista chiude la mano e lo guarda negli occhi: «Prima, però, mi assicuri che sarai svelto?». È una domanda a trabocchetto: serve a distrarre lo spettatore e a fargli allontanare lo sguardo dal pugno chiuso; nel gergo magico, è un’azione di misdirection, “direzione sbagliata”. L’uomo ci casca, alza gli occhi e dice di sì sorridendo. Nel frattempo, Hocus Pocus ha fatto cadere la pallina in tasca e riportato il pugno nella posizione iniziale: è la mossa segreta in vista del prestigio. Il mago sussurra in latino: «Vade couragious, celeriter vade» (“vai con coraggio, vai velocemente”). Lo spettatore crede che sia un invito a far presto; non sa che Hocus Pocus sta ordinando alla pallina di sparire e di farlo in un battibaleno. Il mago apre lentamente la mano e la pallina è sparita!

Il pubblico scoppia a ridere: se la gara consisteva nel dimostrarsi più veloci dell’altro, Hocus Pocus ha vinto nel modo più spettacolare. L’uomo guarda mortificato la mano vuota, ma l’umiliazione non è finita; il mago rincara la dose con una pesante allusione: «Se sei altrettanto lento a prendere la donzella che hai accanto, anche quando ce l’hai già tra le braccia, non scommetterei un centesimo sulle tue doti amatorie».

Lo spettatore si allontana pieno di malumore. Gli avevano detto che la magia è l’arte dell’incanto e della meraviglia; mai avrebbe immaginato di tornare a casa con un peso sullo stomaco. Non sapeva che la bacchetta magica si potesse usare come un randello.

La vittoria per ko ha galvanizzato gli altri spettatori: anche loro vogliono usare la magia per sconfiggere gli avversari. Hocus Pocus ha quello che fa per loro: un manuale di illusionismo che non si limita a insegnare i trucchi del mestiere; far sparire una pallina non basta, se non sai trasformare il prodigio in un’esperienza dolorosa e frustrante per la tua vittima. Hocus Pocus fornisce chiavi in mano il copione giusto, le battute di spirito con cui accompagnare i giochi di prestigio.

Il libro che vende alla fine dello spettacolo si intitola Anatomia della prestigiazione (1635) e riporta le parole pronunciate pochi minuti prima (in inglese antico Lasse significa “donzella”): L’insegnamento del mago è semplice: se vuoi divertire il pubblico, scegli una vittima e usa la magia per umiliarla, mettendo in dubbio le sue doti amatorie e intellettuali.

Dal Seicento a oggi, la lezione di Hocus Pocus si è affermata dappertutto: molti giochi di prestigio offrono strumenti per prevalere sugli altri, fornendo randelli sempre più potenti. L’illusionista ostenta il suo potere al pubblico, dimostrando di saper fare l’impossibile; chi osa sfidarne la figura ne esce con le ossa rotte. Nessuno l’ha detto meglio di Jerry Seinfeld: «Tutta la magia si può riassumere in: “Ecco una moneta, ora è sparita. Sei uno sfigato. Eccola riapparsa. Sei un idiota. Lo show è finito”».

Se il comico ha ragione e quell’approccio ci mette a disagio, perché occuparci di prestigiazione? Non dovremmo lasciarla a chi ha un carattere prevaricante, rifugiandoci nella pittura ad acquerello o nel lavoro a uncinetto? In realtà, l’alternativa esiste ed è esaltante. A suggerircela è il poster di David Devant – forse il più bel manifesto illusionistico di sempre.

Il mago è ritratto di spalle mentre i volti meravigliati del pubblico riempiono la scena. Il primo messaggio è chiarissimo: al centro non ci sei tu ma chi partecipa allo spettacolo. Il secondo è scritto in un angolo ed è la chiave per fare la rivoluzione: tutto fatto con gentilezza.

 

***

 

MARIANO TOMATIS (1977) è illusionista e scrittore. Si occupa da anni di indagini storiche su illusionismo e parapsicologia, valorizzandone i risvolti politici e filosofici. Ha vinto il Premio Peano per la divulgazione con La magia dei numeri. Come scoprire con la matematica tutti i segreti del paranormale (Kowalski, 2010). Dal 2014 cura la Biblioteca magica del Popolo e collabora con la Wu Ming Foundation. Tra i suoi ultimi libri Incantagioni. Storie di veggenti, sibille, sonnambule e altre fantasmagoriche liberazioni (Produzioni Nero, 2022) e La veggente indecorosa di Lourdes (Eris Edizioni, 2022).

 

“Tales from the Loop”: una tragedia non riconosciuta

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di Lorenzo Graziani

Da anni ho smesso di leggere dopo cena. Posso dare la colpa alla pigrizia, o magari alle difficoltà di digestione; comunque, da quando è arrivata la rivoluzione dell’intrattenimento on-demand, anch’io ricerco la quiete della sera attraverso una massiccia dose di streaming. Qualsiasi sia la piattaforma, la regola aurea che orienta la scelta è sempre la stessa: se sei in dubbio, scegli fantascienza. Non è infallibile, ma sicuramente rodata: mi conosco abbastanza bene da sapere che preferisco un mediocre show di fantascienza a un mediocre show di qualsiasi altro tipo. Mi piace pensare che sia perché la fantascienza è il genere più speculativo e vicino alla filosofia, come sostengono Deleuze e Chalmers; ma forse è solo perché appartengo a quella generazione di nerd svezzati all’ombra di George Lucas.

È proprio in conseguenza dell’applicazione della regola aurea su Amazon Prime Video che ho scoperto Tales from the Loop. Le immagini dell’anteprima hanno catturato inesorabilmente la mia attenzione: goffi robot e misteriosi macchinari dall’appeal retro-futuristico si dividono la scena con vecchi furgoni Volkswagen. Leggo la trama. Siamo negli anni Ottanta, in una regione rurale dell’Ohio, dove è stato realizzato un imponente acceleratore di particelle, noto come “Loop”, che si snoda per decine di chilometri sotto la campagna circostante. La popolazione del luogo conduce una vita apparentemente tranquilla e ordinaria intorno al Loop, immersa nelle routine quotidiane e nei legami di comunità. Tuttavia, questa serenità è spesso scossa da eventi straordinari e paradossali legati alla misteriosa installazione, che si rivela così una presenza capace di sovvertire ogni certezza. Cercando in rete, scopro che lo sceneggiatore Nathaniel Halpern si è ispirato a un albo illustrato dell’artista svedese Simon Stålenhag, specializzato in scenari di storia alternativa. Per realizzare la serie, ha coinvolto non solo attori e registi di alto livello, ma anche musicisti del calibro di Philip Glass e Paul Leonard-Morgan. Non potevo chiedere di meglio.

Nel giro di qualche giorno vedo l’intera prima stagione che, con sorpresa, scopro essere anche l’unica. Certo, non tutte le puntate sono ugualmente riuscite, ma il livello mi sembra nettamente sopra la media. La serie è del 2020, e mi chiedo come sia possibile che in quattro anni tutto sia rimasto fermo e che l’algoritmo di Prime Video – pur conoscendo i miei gusti – non me l’abbia mai suggerita. Incuriosito, mi metto a cercare alcune recensioni, e le risposte alle mie domande non tardano ad arrivare. Salvo rare eccezioni, la maggior parte dei pareri disponibili in rete concorda nel dire che, nonostante il buon cast, l’ambientazione evocativa e il “tocco artistico” delle inquadrature, Tales from the Loop “is, all in all, a pretty terrible series” (James Guild). Dal “Guardian” ai blog, le ragioni sono evidenti e sempre le stesse: trama esile, ritmo lento, carenza di “sostanza” narrativa e troppe, troppe domande inevase.

Tra le critiche, spicca quella che, pur scorrendo sottotraccia un po’ ovunque, emerge con particolare evidenza da un pezzo di Serena Nannelli, pubblicato su “il Giornale” in piena crisi pandemica. Il difetto di Tales form the Loop è il seguente: in ogni episodio “all’indiscussa bellezza estetica si accompagna il sentimento costante d’impotenza e d’incomprensione vissuto dai personaggi”. Qualcosa – avverte Nannelli – da evitare accuratamente, soprattutto in un periodo in cui gli spettatori sono “già in balia di notevoli incertezze”: “l’immensa sensazione d’attesa che non conduce da nessuna parte è troppo simile a quella vissuta in massa da chi oggi cerca di evaderne di fronte alla tv”. In altre parole, la serie di Halpern tradisce le aspettative che si hanno oggi verso qualsiasi opera di mass art: che ci intrattenga senza farci pensare troppo, che ammazzi il tempo prima che lui ammazzi noi.

Ora, non c’è dubbio che la serie sia triste e lenta. Di sicuro esistono metodi migliori per anestetizzare il sistema nervoso e prepararlo al recupero notturno delle energie necessarie per essere svegli e produttivi il giorno dopo. Credo però che in questo caso si possa fare appello anche a un’altra ragione per spiegare l’insuccesso di questa serie: Tales from the Loop è una tragedia non riconosciuta.

Cerco di spiegarmi con un paio di esempi. Nel quarto episodio, “Echo Sphere”, Russ, direttore del centro e nonno di Cole, ha il gravoso compito di comunicare alla sua famiglia che non gli resta molto da vivere. La parte più difficile è dare la notizia al nipotino Cole. Russ decide allora, nel corso di una delle consuete passeggiate nonno-nipote, di portare il bambino a visitare l’oggetto che dà il titolo all’episodio: una grossa sfera arrugginita che giace abbandonata, poco fuori dall’abitato, in una chiazza di arido terreno. All’inizio Cole è diffidente e non vuole avvicinarsi, ma, rassicurato dalla presenza del nonno, si fa coraggio e i due entrano nella sfera. Russ invita Cole a urlare all’interno della struttura, che risponde riproducendo molte volte l’eco della voce del bambino. Più volte si ripeterà l’eco, più lunga sarà la vita di colui che ha prodotto il segnale originale, spiega il vecchio. E infatti, quando viene il turno del nonno, la sfera non restituisce alcuna eco. A questo punto, Russ si china verso il nipote, l’inquadratura si allarga e nella scena successiva vediamo Cole correre via, nonostante il vecchio lo preghi di fermarsi. Trascorsi alcuni giorni, Cole accetta di parlare con Russ e gli chiede se vi sia un modo per fermare la morte e, quando il nonno sostiene che è impossibile, il nipote gli ricorda le parole che aveva utilizzato per descrivere il suo lavoro al Loop: “se qualcuno dice che qualcosa è impossibile, io dimostro che è possibile”. Dopo un po’ di tempo, Russ viene ricoverato. Cole, convinto di poter trovare un rimedio per salvarlo, si intrufola nell’acceleratore, ma viene fermato dalla madre – alla quale nel frattempo è stata affidata la direzione del centro di ricerca – che tenta a sua volta di far capire al figlio come la morte vada accettata in quanto inevitabile parte della vita. L’episodio si conclude con Cole che, dopo la morte dell’amato nonno, torna alla sfera, ci urla dentro e, a ogni eco, vede trascorrere le decadi della sua vita futura. La sfera si riempie infine di lucciole e partono i titoli di coda.

Il secondo episodio su cui mi voglio soffermare è l’ottavo e ultimo, “Home”, diretto da Jodie Foster. Cole va a trovare il suo fratello maggiore, Jakob, dopo che questo, terminata la scuola, è andato a vivere fuori casa. Jakob però è stranamente freddo e distante. Quando Cole gliene chiede il motivo, il fratello confessa di non essere Jakob, ma Danny, un suo amico: in un episodio precedente, infatti, i due ragazzi avevano trovato un congegno in grado di scambiare le coscienze da un corpo all’altro e Danny, trovandosi a vivere in una situazione familiare molto più svantaggiosa di Jakob, si era poi rifiutato di tornare nel suo corpo. Poiché Danny gli racconta che la coscienza di Jakob è rimasta intrappolata all’interno di uno dei robot che si aggirano nella foresta, Cole parte alla ricerca del fratello con la speranza che la madre possa trovare una soluzione. Dopo averlo trovato, i due si dirigono verso di lei, ma un robot li attacca e il fratello maggiore si sacrifica per salvare il minore. A Cole non resta altro che ritornare, sconsolato, al Loop, ma nel farlo guada nuovamente il ruscello che all’andata aveva trovato congelato, il quale è ora scongelato. Al suo ritorno al centro, trova sua madre molto invecchiata. In una sequenza scopriamo, assieme a Cole, che sono passati molti anni dal momento in cui è partito alla ricerca del fratello; Danny ha confidato l’accaduto ai genitori di Jakob, che hanno ritrovato il “corpo” del figlio morto nella foresta; la nonna, a cui Cole era molto affezionato, se n’è andata, e così anche il padre. È sulla madre, ormai vecchia e sola, che ricade la responsabilità di dirigere il centro e di fornire una spiegazione dell’accaduto al figlio, mentre siede accanto a lui su una panchina pubblica:

Madre: “Il fiume nel bosco. L’hai attraversato quando era scongelato e sei stato via a lungo.”

Cole: “Non mi è sembrato tanto tempo…”

Madre: “Ma è così. Vorrei che tuo padre e tua nonna fossero ancora qui per vederti.”

Cole: “Non è giusto. Voglio che torni tutto com’era.”

La madre allunga la mano e prende quella del figlio, in silenzio. L’episodio si chiude con Cole, ormai adulto, che fa ritorno alla casa d’infanzia insieme alla compagna e al figlio adolescente. Quest’ultimo, osservando la casa, commenta che sembra passato molto tempo da quando suo padre era bambino. Cole, senza distogliere lo sguardo dalla casa, aggiunge: “Un battito di ciglia”. E così si conclude la prima stagione.

Ci troviamo chiaramente di fronte a uno di quei casi in cui, per dirla con le parole di Philip Dick, le trovate fantascientifiche servono solo a “trasferire in un ambiente esterno quello che di solito è un problema interiore”. Sarebbe pertanto fuori luogo lamentare l’assenza di spiegazioni riguardanti il funzionamento della “Echo Sphere” o i motivi degli slittamenti temporali provocati dal cambio di stato del fiume: grazie a essi vengono affrontati temi di interesse umano come lo scorrere del tempo e l’esperienza del lutto. A mio parere, quando i critici accusano gli autori della serie di lasciare troppe domande inevase, stanno in realtà criticando quella che definirei la gratuità inesorabile delle dolorose vicende rappresentate.

In (quasi) tutti gli episodi della serie, i personaggi si trovano impotenti di fronte alle forze che plasmano o distruggono le loro vite e si sottraggono al dominio della ragione o della giustizia. Sicuramente il rifiuto di Danny di ritornare nel suo corpo è riprovevole, ma è scarsamente qualificato come antagonista su cui scaricare la responsabilità del male. Il destino di sofferenza che grava sui personaggi appare già segnato e, nella maggior parte dei casi, accettato con olimpica consapevolezza e serenità: si pensi a Russ o allo stesso Jakob, che fa capire al fratello minore di non serbare alcun rancore nei confronti di Danny. A ben vedere, l’origine delle avversità che affliggono gli abitanti del Loop è il Loop stesso: il tentativo di rendere possibile l’impossibile, anziché portare beneficio, non fa altro che acuire le sofferenze. È il caso del congegno scambia-coscienze e delle alterazioni artificiali del flusso temporale, ma anche della “Echo Sphere” in grado di vaticinare la lunghezza della vita; per non parlare del penoso contrasto tra il potere del Loop di rendere possibile l’impossibile e l’incapacità di scongiurare la morte, desiderio che occupa mente e cuore degli esseri umani fin dall’alba dei tempi. In un certo senso, pare che il Loop non abbia altra ragion d’essere se non quella di ricordare come la sfera della razionalità, dell’ordine e dell’equità siano dolorosamente limitate e che nessun avanzamento scientifico o mezzo tecnico possa ampliarne l’estensione.

La necessità del fato, la nobiltà dei personaggi nell’accoglierla, la relazione tra la caduta dell’eroe e una sua debolezza morale (la “colpa”) e la consapevolezza dei limiti umani sono caratteristiche tipiche della tragedia. Il silenzio pieno di dolore della madre nella scena sulla panchina (ep. 8, “Home”) non potrebbe esemplificare meglio le parole con cui George Steiner descrive la concezione tragica della vita: “È inutile chiedere spiegazioni razionali, o pietà. Le cose stanno come stanno, inesorabili e assurde. La punizione è sempre più grave della colpa”. Tales from the Loop, quindi, non è una serie triste, ma una serie tragica, sebbene la sua tragicità non sia stata adeguatamente riconosciuta.

Se fosse stata correttamente identificata, probabilmente non sarebbero sorte critiche sull’assenza di spiegazioni e sul ritmo lento di molte scene, di cui trovo emblematico un esempio. Joel Golby, nel recensire la serie sul “Guardian”, si sofferma sulla scena in cui Russ e Cole vedono per la prima volta la “Echo Sphere” e accusa il regista di annoiare il pubblico con “20 secondi di inquadratura di loro due che camminano verso di essa, in silenzio”: “Don’t waste my time”.

Non credo che la questione si possa licenziare facendo unicamente appello alla scarsa raffinatezza del critico del “Guardian” o del suo lettore modello, oppure alla diminuzione – evidenziata da numerosi studi – della capacità di sviluppare un pensiero “profondo” a causa dell’abuso di internet e dei social. Ciò che sfugge a Golby è la ritualità della scena, e la ritualità è una questione di forma, non solo di storytelling (laggiù c’è qualcosa, ciò che importa è ora capire che cosa sia e che ruolo abbia nella storia). Il lento avvicinamento è profondamente significativo. È l’avvicinamento a un luogo a suo modo sacro, dove vengono fatte delle profezie; dove avviene l’incontro con l’opera del destino che – nonostante gli enormi progressi compiuti nel controllo della materia e nella scienza – l’essere umano non può comprendere né dominare. Ancora una volta, è la voce tragica a non venire compresa.

Che la modernità occidentale abbia assistito a un inesorabile tramonto della tragedia non è una tesi nuova, e proprio Steiner offre uno degli studi più completi sulle ragioni di questa perdita. Oltre ai problemi di ricezione del teatro shakespeariano e alla democratizzazione del pubblico, con il conseguente abbassamento del suo livello culturale, per Steiner un ruolo determinante è svolto dalla scomparsa di alcuni valori essenziali della sensibilità e della vita sociale, che avevano dominato dall’epoca di Eschilo fino a Racine, dunque fino al teatro tragico del Seicento. Con l’Illuminismo prima e il Romanticismo poi, si diffonde una visione più “ottimista”, che considera la condizione umana suscettibile di un radicale miglioramento grazie a trasformazioni nel sistema educativo e nelle condizioni sociali e materiali della vita. Tale concezione porta con sé una nuova visione del male, che “non può essere innato”. Se le cose stanno così, allora non solo la responsabilità dei crimini umani ricade sull’educazione o sull’ambiente, ma si dissolve anche la visione tragica del mondo, fondata appunto sulla gratuità inesorabile del male, ossia sull’idea che le intenzioni degli esseri umani si scontrino con forze misteriose e distruttive che, pur assumendo l’aspetto dell’ira divina, risiedono in realtà nelle pieghe più profonde della coscienza.

Complementare all’ottimismo è il concetto di redenzione, centrale in Cristianesimo, Romanticismo e Marxismo, le tre “mitologie” che, secondo Steiner, hanno forgiato la modernità. La redenzione è incompatibile con la visione tragica del mondo. Se qualunque male può essere sanato, nulla è davvero irreparabile: un riscatto e una ricompensa sono sempre possibili. Magari non in questo, ma in un altro mondo; oppure in un futuro imprecisato, a seguito di una rivoluzione che affranchi l’uomo dall’antica tara dell’egoismo. Vi è dunque spazio per la giustizia, ma non per il sentimento tragico, poiché – osserva Steiner – “la tragedia è irreparabile”.

L’analisi di Steiner ha sicuramente i suoi limiti ed è possibile integrarla con altri elementi. Per esempio, ha ragione Terry Eagleton a sostenere che La morte della tragedia emana in alcuni punti un malcelato conservatorismo: la nobiltà dei personaggi tragici e l’accettazione di un male gratuito e inesorabile non ci obbligano infatti a invocare alcuna incompatibilità della tragedia con politiche liberali e radicali; basti pensare alla “social catena” di Leopardi o alle “Note all’Antigone” di Hölderlin, secondo cui la presenza di personaggi come Antigone e Creonte, che hanno, ciascuno sul proprio terreno, insieme ragione e torto, testimonia la natura egualitaria e “propriamente repubblicana” della tragedia. Tuttavia, credo che Steiner abbia ragione nel ritenere di rilevanza capitale, per comprendere il tramonto della tragedia, la progressiva erosione di certi valori essenziali della sensibilità e della vita sociale, in particolare di quei valori che alimentavano il cosiddetto “senso del limite”.

Mi spiego. Steiner non è il primo a individuare nel Settecento una linea di frattura importante per la cultura Occidentale. Dall’Illuminismo in poi si è infatti affermata l’idea di un progresso illimitato, non interrotto da catastrofi ricorrenti, che permette all’uomo di trasformare ciò che prima riteneva immutabile. Questo processo ha contribuito, insieme ad altri cambiamenti dell’epoca moderna, a definire quello che oggi alcuni chiamiamo Antropocene. L’espansione dell’umanità – dalla conquista degli oceani e dei cieli, fino allo spazio – insieme alla globalizzazione, alla creazione di armi nucleari, alla diffusione dei mass media e della democrazia, ha nutrito l’illusione che il raggiungimento del completo dominio della ragione sopra ogni cosa sia solo una questione di tempo. Ecco come il senso del limite, così radicato nel pensiero greco da comparire tra le due iscrizioni del tempio di Delfi (dove accanto al celebre “Conosci te stesso” si leggeva anche “Nulla di troppo”), è stato quasi del tutto cancellato dalla cultura odierna.

Le recensioni di Tales from the Loop testimoniano che la mentalità moderna prova un certo disagio di fronte alle domande senza risposta: la risposta deve essere da qualche parte e, se non si trova, la si inventa. Come ricordato dall’articolo su “il Giornale”, in un periodo di incertezza, guai a chi amplifica le domande anziché fornire risposte!

Non voglio dire che l’arte e la scienza moderne non siano consapevoli del lato oscuro dell’essere umano, sarebbe assurdo pensarlo. Ma la modernità eccelle nella giustificazione del male, che è un modo di dominarlo, rendendolo comprensibile: anche verso il mostro di Düsseldorf non possiamo che provare compassione, malato di mente – vale a dire irresponsabile delle proprie azioni da un punto di vista medico – e, per di più, giudicato da un tribunale di ladri, assassini e prostitute. Il male è controllabile perché è sempre razionalmente spiegabile, fino alle camere a gas.

La tragedia si distingue proprio perché non cerca un’origine del male. Il male è immanente al mondo e al cuore umano. La tragedia – afferma Hölderlin – si riconosce per la “massima imparzialità”. Prendiamo come esempio l’Edipo re e il legame tra Laio ed Edipo: se Edipo finisce per uccidere suo padre e appare quindi condannabile per la sua violenza, Laio non è da meno. È infatti lui il primo a scagliarsi contro il figlio, tentando addirittura di ucciderlo per evitare che si avveri la profezia dell’Oracolo di Delfi. Così, tra padre e figlio, non si trovano differenze nette; vittime e carnefici si mescolano.

È proprio questa reciprocità violenta a costituire il cuore della tragedia. La crisi tragica raffigura un’umanità sconvolta dal dolore, un dolore che però la porta a comprendere l’esistenza di un orizzonte invisibile in cui tutti si trovano parimenti smarriti, anche se spesso non ne sono consapevoli e credono di avanzare con sicurezza. Gli eventi tragici, anche se rappresentano situazioni lontane dalla vita di tutti i giorni, spingono a distanziarsi per guardare le cose da una prospettiva diversa. Da questa nuova angolazione, le ragioni personali, solitamente così rilevanti, appaiono invece relative, e l’essere umano, di solito così certo di comprendere la realtà, si rivela governato da forze che, almeno in parte, sono fuori dal suo controllo.

La tragedia è quindi una lezione di umiltà: ricorda agli esseri umani la fragilità irreparabile della loro esistenza. Un messaggio banale, ma troppo spesso dimenticato, come nel caso della ricezione di Tales from the Loop, i cui personaggi subiscono tutta l’ironica assurdità della parabola umana: sono avvelenati dalle medicine che creano, tutte ugualmente mirate a “risolvere” la condizione umana e tutte immancabilmente destinate a fallire. Certo, la maggior parte dei personaggi non finisce murata viva in una grotta o incenerita nella caldera dell’Etna: muore sola, magari in un Hospice sotto cure palliative. Ma come sostiene Hölderlin in una lettera a Böhlendorff, “questo è il nostro tragico: in assoluto silenzio, chiusi in qualche ricettacolo, allontanarci dal regno dei viventi, anziché, divorati dalle fiamme, subire la fiamma che non abbiamo saputo domare”.

Nessuno può uccidere Medusa

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Marino Magliani intervista Giuseppe Conte

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

MM Giuseppe Conte, se da una parte abbiamo il ritorno, per il piacere dei tuoi lettori, al mito, si può dire che Nessuno può uccidere Medusa” ci conduca in territori piuttosto nuovi. Non so mica, infatti, se hai mai ambientato un romanzo, prima di questo, in Sicilia. Nella Sicilia almeno in parte anche tua, visto che tuo padre ha risieduto gran parte della sua vita in Liguria, ma dopo essere nato a Catania, ed esserci tornato ciclicamente, con voi, tua madre e te e tuo fratello. In effetti questo è un romanzo che avresti potuto ambientare in qualsiasi parte del mondo, ma l’hai ambientato in Sicilia, e di certo non solo per una questione di radici. A proposito di radici, tanti anni fa, ma davvero tanti, quando ti conobbi, ti chiesero se le tue radici erano in Liguria, e la tua risposta, conoscendoti già un po’, non mi sorprese: “le mie radici non le sento nella terra, nelle profondità fangose, ma le immagino piuttosto nel mare”.

GC Per me, propriamente, non si può parlare di un ritorno al mito. Io lavoro intorno al mito dagli anni Settanta del secolo scorso, quando mi ribellai, allora davvero solo in Italia, allo strapotere della cultura analitica, della semiologia, del formalismo, una cultura che avevo attraversato come allievo e poi assistente di Gillo Dorfles alla Statale di Milano, ma che all’improvviso mi sembrò portare in un vicolo cieco, nell’impossibilità di creare, nel nichilismo più totale, in una realtà senza più passioni, senza più carne, senza più il mistero del sacro. In giovinezza ho lavorato tantissimo sulla teoria della letteratura, e non   me ne vergogno. Ma le mie esigenze erano già allora esistenziali, necessarie per la mia vita, cioè miravano a una riscoperta di me stesso, a superare la mia fase di materialismo assoluto, per ritrovare il senso dell’anima come soffio vitale, dello spirito come luce ed energia. Per questo mio andare per la mia strada controcorrente (“controcorrente in acqua limpida”, come le trote di Camillo Sbarbaro) ebbi allora molti nemici. Gente che oggi mi viene a dire che avevo ragione, che il mito, la natura, il bisogno di ridare incanto e sacralità alla vita era la strada giusta, e si è visto dopo. Ma allora… Ho dovuto combattere tantissimo, e subire tantissimo. Danni, insulti, censure. Ma ho la pelle dura. Il mito nella poesia, il mito nei romanzi. Non ci credeva nessuno. Oggi esiste ed è perfino di moda il retelling mitologico… Io ho usato il mito come racconto per decenni. In Nessuno può uccidere Medusa è più organica la trasposizione del mito nella realtà contemporanea. Ogni personaggio è un archetipo del mito, e nello stesso tempo un personaggio vivente del nostro tempo. E veniamo alla Sicilia, tasto, caro Marino, per te dolente… Ricordo la tua smorfia di perplessità, quasi di rimprovero quando ti annunciai che avrei ambientato il libro in Sicilia. Vedi, io me ne sono fregato per decenni della Sicilia. Ma anche un po’ della mia cittadina natale, che oggi disconoscerei del tutto non fosse la città, amatissima, di mia madre. La mia geografia era tra Nizza, Milano, la Bretagna. Però con gli anni ho cominciato a sentire un richiamo nascosto, è il richiamo della terra dei padri, non delle radici, il richiamo del DNA, della continuità della vita che io, eternamente figlio e senza figli miei, ho spezzato. Il richiamo di mio nonno don Peppe, capomastro tipo il don Gesualdo verghiano, che viveva ancora come ai tempi dell’Iliade, in una Sicilia piena di bellezze e di orrori, di generosità sublimi e di efferata violenza. Ambientare il romanzo in Sicilia è stato necessario: inoltre quale terra più ricca di miti, quale terra più adatta a una storia di sangue e di vendetta? Per un altro verso, c’è anche un omaggio a Sciascia, al suo impegno razionalista, il ricordo di una sua telefonata un mattino di tanti anni fa in cui mi parlò del mio Equinozio d’autunno, il rimpianto di non essere subito corso a Palermo a trovarlo e salutarlo di persona. C’è il ricordo di D.H. Lawrence in Sicilia, continuo a considerarlo il mio più vero maestro, il massimo cantore della natura e dell’eros nella letteratura del Novecento (io ho canone diverso da quello ufficiale, come Henry Miller nel suo supremo Max e i fagociti bianchi). Dove ho le radici? In Liguria? Nell’estremo Ponente dove sono nato? Vedi, io non ho mai avuto il culto della liguritudine. Adoro Sbarbaro e il    Montale degli Ossi, ho avuto la fortuna di frequentare Calvino e di avere il suo appoggio, ho letto festosamente il libro del mio amico Mario Soldati intitolato Regione regina. Alla fine amo la Liguria, ma non mi fermo lì. Sono stato un grand voyageur (copyright Le Monde, mio massimo successo mondano). Ho concepito sempre la vita come viaggio. Non ritorno ulisside. Viaggio senza meta che il viaggio stesso, che la pienezza della vita. Chi scava troppo nella terra, cosa trova? Faccio sempre l’esempio dell’albero. Le radici nel profondo della terra, le fronde nella luce del cielo. Se ti ho detto una volta, nel corso della nostra lunghissima amicizia, di avere radici in mare, mah, forse in quel momento mi pensavo un delfino, a compiere quei bei salti sulle onde e la schiuma della vita.

MM E ora veniamo a Med di “Nessuno può uccidere Medusa”, a parte la questione geografica, come nasce un romanzo così duro? C’è sempre qualche vendetta nelle tue pagine, la sperimenta Giannetta ne “I senza cuore”, ed è presente in qualche modo anche in “Il male veniva dal mare”, ma qui la potenza e il destino che conducono alla vendetta Med diventano i binari del libro, sembrano persino alimentarne ogni respiro. A tratti è come se nascosto, ma indelebile, il senso di colpa scatenato da una tragedia capitata ai genitori, possa trovare la sua pace solo nelle sete di vendetta di Med.

GC Giusti i riferimenti ai romanzi precedenti che fai. C’è un filo rosso che lega tutti i romanzi, e persino la poesia, nell’insieme della mia opera. La vendetta di Med è la risposta alla violenza subita e al suo essere diventata vittima senza volerlo essere. Ecco, direi che Med si ribella innanzi tutto alla resa, al vittimismo, al piagnisteo. Med diventa di pietra. Nel mito, Medusa diventa un mostro che pietrifica chiunque la guardi. Nel romanzo, Med diventa un mostro, sfigurata nella sua bellezza, nella sua innocenza, nei suoi capelli, e pietrifica innanzi tutto sé stessa. Non ha più altro sentimento che quello della vendetta. Vive quasi in simbiosi con il male, perché adatta la sua vita a quella di chi l’ha violentata, vive solo per il desiderio ossessivo di punirlo, rovinarlo, fargli pagare un prezzo altissimo. Certo Med è toccata dalla sventura (la morte dei genitori che può sembrare causata da lei, il disamore delle sorelle, la loro freddezza, e infine la brutale aggressione di Vittorio Ventura, uno di quei bastardi che, per dirlo col titolo di un romanzo della saga di Millenium, sono “uomini che odiano le donne”). Ha anche chi la ama. Esmeralda, teneramente, il giovane immigrato Abdelnur, e padre Homer Grant S I, che le prospetta l’ipotesi del perdono. La vendetta è un istinto naturale. Per questo ne parla così spesso il mito. E ricorre nei miei romanzi “mitici”. Il perdono richiede di salire a un livello superiore di coscienza. Non è naturale, è una conquista dell’anima. Homer Grant è un sacerdote. Parlare a Med di perdono è suo dovere. Ma Homer Grant è un conoscitore, da gesuita, da grecista, dell’anima umana. E così aiuta Med, la capisce, non la giudica, la aiuta. Le vuole bene nel modo migliore in cui si può voler bene.

 

MM La centralità nel romanzo spetta a Med, sebbene ogni altro personaggio, da quelli importanti come le sorelle, a Grant, per non parlare di Esmeralda e del professore di greco, e sacerdote, Homer Grant, e persino i mezzadri della masseria di proprietà della famiglia di Med, siano ben scolpiti, come lo fossero dalla luce siciliana. Dalla natura. Persino dai silenzi.

GC Di democrazia romanzesca parlava se ricordo bene Nabokov (che per altro non è tra i miei amori letterari). Ma questa idea la trovo giusta. I personaggi hanno tutti una loro dignità che va rispettata. I personaggi centrali vengono indagati, scavati, si ripercorrono tappe della loro esistenza, come con Vittorio Ventura, di cui faccio intravedere per flash infanzia e adolescenza, come per Esmeralda, e naturalmente per Med. Altri personaggi appaiono sulla scena per come sono in quel momento, ma hanno un loro linguaggio specifico, loro caratteristiche linguistiche e morali. Prendi quell’egoista smidollato del Principe Laerte Lancia di Paternò e San Sebastiano, padre di Esmeralda. È un personaggio che dà nel comico, e nel suo linguaggio mescola siciliano e francese, e a volta anche si traduce, dal francese al siciliano, ironicamente, snobisticamente in favore della povera madre illetterata di Vittorio Ventura. Calì e i suoi uomini, tra cui spicca per comica ignavia Pippo Triglia, parlano spesso in siciliano. Ho usato un siciliano non filologico, basato su letture, glossari, impressioni, ricordi. In casa mia nessuno parlava in dialetto, mio padre aveva perso persino l’accento siciliano, così difficile da perdere. Ma ogni tanto affiorava qualche proverbio, qualche detto… I parenti liguri parlavano in dialetto tra loro, mai con me e mio fratello Silvio. Per cui se io parlo oggi in dialetto ligure, e mi piace farlo, spesso brevemente anche con te, si sente che è di testa, imparaticcio, anche se sicuramente amato (il dialetto di Porto Maurizio è la lingua madre di mia madre!). Due personaggi cosiddetti minori sono Abdelnur Nassry e Homer Grant. Il primo si islamizza in seguito alla difficoltà e alle ingiustizie subite. Ma di fronte all’orrore sanguinario del terrorismo si tira indietro. Homer Grant è il porto sicuro di Med. In lui lei trova comprensione, affetto, cultura, sicurezza, aiuto. Mi sono reso conto a libro uscito che, in una storia di passioni violente e crude, i due personaggi che incarnano in pieno la positività del vivere sono due uomini che hanno, sia pure uno islamico e l’altro cattolico, una religiosità profonda, una visione sacrale dell’umanità. Non era progettato. Ma vorrà dire qualcosa, io credo.

 

NdR: Il romanzo di Giuseppe Conte “Nessuno può uccidere Medusa” è stato pubblicato recentemente da Bompiani

 

 

Giallo

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Foto di StockSnap da Pixabay

di Franco Santucci

Era entrata nella mia vita vestita di giallo, come uno scorpione dentro le ossa, come il veleno, l’antidoto, giallo come un’ellissi, come il barocco scomposto di una lingua intima, giallo, come essenze anticipatrici dell’abisso.

Mi fu chiaro fin da subito: giallo senape, percussioni nella testa, giallo margherita, ossessioni ridicole, giallo zolfo, come deflagrazione di un sogno sfuggente. Gialla la scintilla, l’assottigliarsi della miccia, giallo il cuore di polvere nella dinamite: il mondo era uno spazio di segnali in successione, come una strada a scorrimento disseminata di cartelli “rallentare”: compaiono a tratti, giallo, si lasciano leggere, giallo, esita il piede sull’acceleratore. Giallo freno, giallo corsa, giallo strisce.

Mi attaccavo al reale per sopperire alla lontananza, mi sommergevo di lavoro, preferibilmente manuale e condiviso, e gente, vino e birra unite al credito di bocche alcoliche: giallo limone come un mojito dall’ombrellino di menta, giallo chartreuse nel chiacchiericcio di un cosmopolitan, giallo cadmio dentro un negroni in un tumbler.

La ragazza dagli occhi azzurri e dai capelli ruggine, giallo lentiggini sul viso, mi parlava al bancone, senza essere ben conscia del peso della sua visione: arterie in rapida espansione, ragioni contrastanti il nonsenso, strade violente percorse di notte, giallo. La stessa sensazione, presumevo, che anche lei (giallo vestiti) poteva esperire: giallo dalle facciate di mattonelle consunte, giallo del vociare dozzinale nei corsi affollati, giallo di uomini dai tratti irregolari e dagli occhi appuntiti, da ingenerarle una nuova cromia. Gialla anch’essa e un altro cocktail scomparso d’un fiato, per tornare a casa dentro una gola caustica, gialla, come la battaglia di un santo con la sua aureola. Giallo il senso di corsa, giallo il battito, giallo l’oscurità della chiave nella toppa.

La notte, divinità antagonista, tremava nelle sue nuove foto in rete, nella paura di paesaggi come riflessi di specchi: giallo navone in capitelli derivativi alle porte di un teatro, giallo sabbia di vegetazioni elusive e greggi lungo i crinali dal lato opposto, giallo violino in palchi illuminati da braccia in sincrono (e giallo ombra di visi dietro l’obiettivo), mentre barche in distanza, giallo oceano, cadevano dall’orizzonte, metafora della mia presenza o del sonno, costruito ad arte su misture di erbe e chimica.

Nonostante tutto continuavamo a sentirci ancora, persi nel traffico di frequenze e semafori, di panchine al sole in parchi senza pretese, nei dehor di bar invasi da musiche di sottofondo, giallo citrino in canzoni da voci femminili malinconiche, troppo rassegnate per raggiungere le ottave giuste, quelle alte, e sfondare. Giallo cromo in telefonate disseminate di frasi ambigue, come quando mi confidò di non riuscire più a leggere e io le risposi che l’arte è solo un convincere gli altri di una propria ossessione. Giallo, come la risposta che le avrei dovuto dare, per poi confermarle che per me era lo stesso, che qualsiasi attività di intelletto mi veniva a fatica: giallo di un animale nella sua tana ad attendere, di una nevicata, la fine.

Mi confortavano i volti femminili lungo il corso: cercavo il legame contrario e unificante, capelli castani e ricci, gialli negli avvitamenti a boccoli, rime di gonne e maglie abbinate, labbra gialle come autostrade seriali, sopracciglia lavorate da orafi su fronti scoperte e sogni in evoluzione.

Giallo cuore, giallo sperma, giallo sangue, che mi pilotava su e giù lungo ciglia nere, così lunghe e curve da farci una giostra, e così vicine al mio viso da riempire ogni bicchiere di questo locale asfissiante. La ragazza mostrava l’oro di braccialetti e il suo orologio cromato, anelli d’argento e interesse, così mi avevano riferito, per la mia storia e il mio viso; interesse, il mio, ricambiato sul suo corpo, giallo crema, così delicato, nelle forme in linea con il gusto comune, e per il suo vestito bianco lungo, con un motivo floreale blu ripetuto, da ingentilire gli spigoli di un mobilio moderno. Giallo oro nel vino dal calice, nell’intesa alcolica di un rosso pieno, giallo segnale in un appartamento al quarto piano e lingue dal sapore misto, vitigni ignoti e tabacco uniti nel palato, giallo avorio di un fantasma dentro un incontro: giallo pantera, giallo preda, giallo agguato. Giallo letto, giallo sibili, giallo grida.

Giallo, nella crepa d’intonaco sul soffitto, nell’ubriaco urlare di strade a finestra aperta, giallo nel calore di un sonno infreddolito. Mi rifugiavo nella stanchezza e nel profumo materico di quel corpo, giallo miele di passaggio, prima di abbandonarmi ancora al pensiero dell’altra (giallo donna) e struggermi del nostro tempo breve: era stato come ballare su una musica sconosciuta, con il timore di sbagliare i passi, ma la certezza del danzare in sintonia.

La ragazza dalle ciglia lunghe scriveva messaggi deliziosi in frasi sorridenti e un profumo misto fra panni stesi al sole e litanie di una celebrazione intima e religiosa, un giallo dalia, a tratti, purtroppo palliativo.

Le avrei dovuto narrare del mio dibattimento, quello antico, in adolescenza, di quando la commessa dette per scontato la mia scelta sul giubbino bordeaux, più adulto, a dispetto dell’altro, giallo, dal tono acceso; mia madre presagiva il contrario nel suo sorriso, ma forse solo perché credeva fossi ancora il suo bambino, giallo paffuto.

Era più di un’avvisaglia, era un percorso sotterraneo, un giallo antimaterico dentro scelte confuse, fino all’esplosione, di diversa natura, su quel viso (giallo lontano) amplificato nei nostri corpi intensamente condivisi: giallo nelle sue gambe diagonali sulle mie spalle, giallo nel moto dei suoi fianchi possenti tra le mie mani (violenza di un temporale passato al nubifragio), giallo nel profumo subacqueo che dalle sue braccia si stendeva attorno al collo, giallo nell’aderire fondo della nostra pelle: giallo nel sangue, che si scambiava di posto.

La liberazione (non proprio) venne in una notte, dentro una delle tante immagini di fronte la stazione dall’entrata a portici: un bambino, pelle nera, occhi bianchi, era su un passeggino al fianco di una valigia enorme. Solo, senza una madre in vicinanza o a vista, con la poca gente che passava e frequentazioni dubbie, fin troppo tranquillo e misurato per una situazione così equivoca.

Passai anch’io. Giallo, come argomentazione sterile, come il ridicolo di emozioni in un trascorso indenne, giallo narciso di sconforto e inettitudine, nervi a pezzi di un giallo inutile. Mi rifugiai sul primo treno in partenza, uno qualunque (giallo borghese di una medesima ribellione), per sfuggire alla persecuzione, probabilmente autoimposta e decretare la fine a un qualcosa che sa di febbre e incomprensione e lotta contro l’aria.

Ma il finale possibile era solo uno, tanto da trasformare il treno su cui ero salito in un capannone ornato a festa per l’inaugurazione di un locale: il chiarore, dall’alto di un lucernaio in plexiglass, la colpiva in diagonale: giallo obliquo nelle sue labbra gioviali dalle fossette contigue, giallo nella montatura tondeggiante dei suoi occhiali da sole, nella sua collana d’oro sottile con un ciondolo dalle forme futuriste, giallo pastello in quel vestito a maniche corte con una linea di stoffa ondulata a coprire la mezzeria del braccio e un puerile fiocco sull’addome, giallo denso delle sue inflessioni verbali atipiche, del suo incarnato di navi da saccheggio e galee, giallo nel suo biondo, liscio e voluminoso, naturale e tinto di rinforzo, in caduta libera sulle clavicole, giallo (finalmente scoperto) dei suoi occhi marroni, come un teatro di sbagli pronto alla rappresentazione. Giallo, come un amore feroce e in punta di piedi. Giallo in altro giallo. Giallo come la luce, giallo come l’inferno. Giallo.

Gianluca Furnari: «avanti, non si piange / per la fine di Marte»

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È uscito, per Interno Libri Edizioni, il libro Quaternarium di Gianluca Furnari.

Ospito qui alcuni estratti.

***

Proemio funebre

I.

Ultima notte sulla Terra.

Amici rimasti,

finalmente trovo il tempo

di scrivervi qualcosa

dal nuovo modulo spaziale:

 

solo, evaso dalla camera,

a lungo fraintendendo la rotta,

sono approdato alle sei del mattino

qui, sul Mare Vaporum.

 

Sto cercando di dirvi

che non sono più chi credevo di essere

e che vorrei disfare tutto

a cominciare da queste lenzuola.

 

Amici, avevo una gran fretta

di popolare anch’io la favola

e stavo a un passo dalla vita come

voi, che standomi accanto siete altrove.

 

***

 

da Calendario Marziano

 

I.

Spettabile Consorzio Intergalattico,

non ci capisco più niente. Prendevo

vita trent’anni fa

in un mondo dei vostri,

lungo il Braccio di Orione,

trapiantato dal nulla all’esistenza

come un grano di senape –

poi indigesta la specie, l’epoca malfatta,

provando a crescere con gli altri,

dentro sempre c’era una spina,

tutto odorava di simulazione.

 

Vedi, caro Consorzio,

è così vecchio il mondo

e perso il filo dei discorsi

che ogni parola viaggia per millenni

e non arriva mai –

io quindi, avendo appreso

da bambino una lingua di concetti

utile a sporgere reclami,

 

chiedo

 

in cambio un altro mondo

con le stesse piantine ornamentali

e una stanza d’inverno –

mondo vero, stavolta,

che i pensieri non vi facciano il nido

e il mutismo dei vivi si allontani.

 

***

 

da Quantum nova

 

V Dies

Exitus numerorum

 

Silent. Pax Antarctica

rerum sistit chorum.

Incipit superius

lepra numerorum.

 

Primum premit proceres

quot sunt: obit Mille

Millies, tunc Centies

Mille, tunc et Mille

 

Decies. O, decolor!

o, fulgescens funus!

Fractus in particulis

evanescit Unus.

 

Aevi sub egelidis

ventis ipse vidi

ultimo zephyrium

Zephirum elidi.

 

Quo te, globosissime

numerorum, ore,

quo te canam, unice,

mortis in candore?

 

Satis. Scribat calamus:

«Cessat aetas Quarta».

Splendeat Quinarius.

Congeletur charta.

 

***

 

Giorno 5

Fine dei numeri

 

Silenzio. Pace antartica

la polka delle cose.

Su, in alto, prende i numeri

la malattia di Hansen.

 

Prende i grandi per primi,

uno per uno: muoiono

il Milione, poi il Cento-

mila, poi il Diecimila;

 

oh, trapasso incolore!

oh, strage luminosa!

Ridotto in particelle

si dissolve anche l’Uno.

 

Ho visto con i miei occhi

elidersi lo Zero-

zefiro sotto i venti

gelidi dell’eterno.

 

Con che voce dovrei

cantarti, rotondissimo,

numero unico, chiuso

nel bianco della morte?

 

Basta. Scriva la penna:

«Fine dell’età Quarta».

Riscintilli il Quinario.

Sia ibernata la carta.

Cinquant’anni dalle poesie che non cambieranno il mondo

1

 

di Rosalia Gambatesa

Una poeta ragazzina, arrivata a Roma da Todi qualche anno prima, pubblica il 16 novembre del 1974 la propria smilza raccolta di esordio. Col titolo dichiara spavaldamente che le sue poesie non cambieranno il mondo e le destina «A Elsa». Patrizia Cavalli in quel momento ha ventisette anni, dedica Le mie poesie non cambieranno il mondo a Elsa Morante – rimasta per sempre l’unica ad avere ricevuto l’offerta di un suo libro di poesie -, ed è, secondo Garboli, «poeta di sicuro e maturo talento: non una promessa, ma un punto d’arrivo»[i]. La sua opera poetica, nonostante tali premesse, non è stata studiata come quella di altri poeti della sua generazione, e, sebbene in questi ultimi anni un vivace lavorio di ricerca la stia interessando, in opere a più grande diffusione si continua inspiegabilmente a leggere di una poesia quotidiana e dallo stile semplice. Il cinquantenario dell’esordio è quindi l’occasione per provare a ripercorrere la gestazione e le ragioni poetiche del primo libro, anche perché, nel lungo frattempo del passaggio tra la scrittura e la nuova auralità tecnologica, quel libretto antimoderno è diventato di fatto canonico come il suo titolo folgorante. Più o meno dal ’66 fino al ‘74, gli incontri romani, prima con gli americani e poi con Morante, e le sollecitazioni dei lunghi periodi trascorsi a New York, danno, seppure per tracce, l’idea di una ricerca artistica del tutto autonoma rispetto a quella allora egemone in Italia, né semplice, né affatto quotidiana. La lingua festiva che nel libro la riflette, e di cui raramente Cavalli ha dato conto, è invece la sua visibile manifestazione.

Morante, innanzitutto – Il titolo delle Mie poesie non cambieranno il mondo riecheggia quello del Mondo salvato dai ragazzini e la scrittura del libro, grosso modo tra il ’72 e il ’73, partecipa da vicino alla vicenda della Storia, arrivata in libreria cinque mesi prima, il 20 giugno dello stesso anno. Il titolo, la dedica e il componimento eponimo ad aprire i trecentosessantacinque versi delle cinquantaquattro poesie, quasi una successione di haiku, al massimo, per le due più lunghe, diciassette, appaiono nel bel mezzo del fragoroso dibattito sul romanzone acceso a luglio da Balestrini e marcano inequivocabilmente la loro vicinanza a Morante. Eppure Patrizia, forse nel 1969, o più probabilmente nel 1970, durante il primo pranzo, aveva da subito cominciato a litigare con Elsa. Aveva la certezza di assomigliarle perché Elsa aveva scritto Il mondo salvato dai ragazzini. Ma Elsa, ricorda, stava da un’altra parte, mentre lei era una conformista ancora ferma al Sessantotto. La sera del 27 aprile 1966, durante la prima occupazione di un’università, organizzata dagli studenti di sinistra della Sapienza per la morte di Paolo Rossi, lei è seduta su una panca di Filosofia con i suoi compagni di corso[ii], e nel 1967 Paolo Rossi è tra i Felici Pochi della Canzone. Eppure, quando nei primi anni romani si impegna a portare a Todi il verbo del Movimento, dicono in molti che lo fa con l’attenzione rivolta altrove. In Discutiamo Discutiamo, il corto di Marco Bellocchio girato con gli studenti durante la nuova occupazione sessantottina, quando interpreta la studentessa maoista, è una maoista giocosa, come, secondo il racconto di uno dei protagonisti, Bellocchio decide in extremis di girare. Bellocchio dirà poi in un’intervista di averlo fatto con mille conflitti e mille riserve. Il Movimento non era la sua dimensione, non vi era partecipazione, lo turbava, lo metteva in crisi, ma comunque lo guardava da cineasta in maniera obiettiva e distaccata[iii]. Per la soluzione giocosa, molti degli studenti, compagni di Cavalli, attori e autori della sceneggiatura molto seria sull’autoritarismo, sulla contestazione dell’impianto classico universitario e sulla situazione storica, si vergognarono di andare a vedere il film in sala[iv]. Difficile pensare che sia accaduto proprio lo stesso a Patrizia. In ogni caso, lì, in quel primo pranzo con Elsa, era cominciata la sua vita[v], nel senso dell’esistenza e della poesia.

Negli otto mesi in cui prepara le poesie da sottoporre allo spietato giudizio di Elsa, Patrizia, secondo il suo racconto tante volte ripetuto, non ricopia componimenti già scritti come le dice di star facendo. Diventata consapevole di aver scritto fino ad allora schifezze, li scrive ex novo col terrore di perdere l’amica nel caso lei non li apprezzi. Sa bene quanto per Morante sia importante il rapporto tra il poeta e la lingua poetica che per lei era come dire la forma suprema della realtà. Avrebbe anche imbrogliato, ma con Elsa non era possibile. E, quindi, resasi conto che le poesie scritte fino a quel momento erano niente e non si capiva bene chi le avesse scritte, non poté far altro che cercar di capire «cosa io fossi davvero. Fu una specie di esercizio spirituale, un esercizio di sottrazione: fare il vuoto e mettersi in ascolto aspettando qualche parola vera»[vi]. La conclusione, ormai mitica, della lettura morantiana delle poesie è nota: «Patrizia, sono felice, sei una poeta». Meno nota una testimonianza di Giorgio Agamben che riporta una frase un po’ diversa da quelle tante volte ripetuta da Cavalli: dopo aver letto il fascetto di testi che la giovane amica si era infine risolta a consegnarle, Morante a lui avrebbe invece detto «Patrizia è la poesia»[vii]. Aveva forse riconosciuto il suo essere poetico in una lingua in cui risuonavano questioni per lei centrali a partire dall’inizio degli anni Sessanta? Deve averne di certo molto apprezzato l’esercizio di verità. Cavalli racconta di una lettura ad alta voce della Storia, neutra e senza intonazione, fatta, prima della pubblicazione, da lei a Elsa, così faticosa che le impedisce di rileggere in seguito il libro[viii].

Morante, dopo aver laureato poeta Cavalli – Patrizia era al settimo cielo per la felicità – la prende in giro per non farla insuperbire. La canzona chiamandola Plebea Somari, ma intanto deve aver caldeggiato presso Einaudi l’uscita del libro. Cavalli ne parla[ix], e anche il suo ricordo del momento della pubblicazione, forse all’inizio del ’74, è significativo.

Einaudi era considerato ancora un editore di grande prestigio […]. Tutto avvenne con molta grazia e naturalezza, senza sforzo e difficoltà. E così immaginavo che dovesse essere: si raccolgono le proprie poesie, si va dall’Editore, l’Editore fa un bel sorriso, poi le legge, ti scrive una gentile lettera, manda il contratto e pubblica il libro. Non dubitavo che così dovesse essere. Così è stato per me. In realtà sembra che non sia così, anzi è sicuro che non è così […] Ciò vuol dire che, considerando la mia pigrizia e la mia superbia, non fosse stato per Elsa, io non avrei mai pubblicato un solo verso e forse non avrei continuato a scrivere[x].

Il titolo lo sceglie Morante, che decide anche dell’ordine dei componimenti, mentre a Torino, nella primavera del ‘74, sta rivedendo le bozze del suo libro e Cavalli è a New York[xi]. Lo prende dalla poesia «Qualcuno mi ha detto» in cui lei stessa è citata e che colloca in apertura[xii]. Una sorta di comune sphraghis? Ricorda Paolo Frongia, amico intimo della giovinezza di Patrizia, che Elsa le diceva: «“guarda che non cambiano niente, le poesie non cambieranno il mondo” e infatti è stato quello il titolo suggerito da Elsa perché lei diceva “sì, però, non pensare”, perché anche a quei tempi c’era in ognuno di noi un po’ l’idea che avremmo cambiato il mondo, insomma, anche se poi politicamente è stato, diciamo il periodo della contestazione, anche da parte di Patrizia, è stato un fuoco di paglia perché gli interessi erano altri»[xiii].

E poi gli americani – La riflessione sull’inadeguatezza della politica a cambiare il mondo e il convincimento di dover indagare e sanare, grazie alla poesia, le terribili sopraffazioni in atto nella sua mente si va probabilmente mettendo sempre meglio a fuoco in Cavalli alla fine degli anni Sessanta. Scorrendo velocemente gli incontri letterari e umani di quegli anni si ha l’impressione di una grande fame di conoscenza, di una persona sempre «in piedi pronta per uscire»[xiv]. Dal 1967 legge Emily Dickinson, l’altro suo pilastro fondativo, certo il riferimento primo per la costruzione ritmica delle immagini così peculiare della sua lingua mai ferma. Più o meno alla fine dei Sessanta incontra Peter Hartman, uno dei punti di contatto con Morante, e Daniel Berger, laureato in filosofia e in storia dell’arte, che dal ’56 vive tra Roma e New York, impegnato nel mondo dei musei a cominciare dal Metropolitan Museum nel 1961. Nel gruppo degli americani a Roma, in cui ci sono Berger e John Clarke, studioso sia di archeologia romana, sia di arte degli anni Sessanta, futuro fiduciario dell’Accademia Americana a Roma dal 2011 al 2013, conosce Diane Kelder, la storica dell’arte, compagna di una vita, che, almeno dal ’70, va regolarmente a trovare nella Grande Mela. A New York si lega strettamente alla geniale e generosa Mary Kaplan, ereditiera di una famiglia di filantropi, attorniata da un mondo variegato di artisti, creatrice di dimore allestite come scene teatrali, strenua amante della poesia, da subito presissima dalla sua straordinaria intelligenza; diventa molto amica di Barbara Rose, collaboratrice di Leo Castelli e in rapporto con artisti geniali come Warhol, Stella e Rauschenberg, che esplora lo spazio vuoto tra il quotidiano e l’arte, di cui Cavalli ha un quadro a via del Biscione già intorno al ’72. Entra probabilmente in contatto con John Ashbery e le sue tele verbali, e poi, in anni verosimilmente successivi, è molto vicina anche a Kenneth Koch, autore di Talking to Patrizia, quasi un poemetto con Patrizia nel ruolo dell’interlocutrice assente.

Tanti altri – Sicuramente a Roma si confronta con Emilio Garrone, professore anche di Dario Bellezza e Giorgio Montefoschi, nei primissimi Settanta suo relatore di tesi, forse sull’estetica musicale idealista tra le due guerre. Frequenta Elda Tattoli, conosciuta insieme a Bellocchio, e gli amici di Morante, che diventano per lei le persone più care, Carlo Cecchi, Ginevra Bompiani, Giorgio Agamben, Paolo Graziosi, Bice Brichetto, Marilù Eustachio, Titina Maselli, Alfonso Berardinelli, Angelica Ippolito, per ricordarne solo alcuni. Si esibisce durante confuse serate tra gente che va e che viene in spettacolini in cui canta, con accompagnamenti jazz, i testi di Dickinson, come farà Innamorata nel lungo omaggio finale di Tre risvegli del 2013. Bazzica intorno al Gabbiano, che espone allora Balthus, dove gira pure Guccione e assapora i nuovi mondi che via via conosce appassionandosi, come ricorda Berger, alla parte materica, alla materia dell’arte, e non all’arte come mainstream[xv] – da sempre nemica delle astrazioni e fiduciosa solo nei suoi tanti sensi. Più che negli Stati Uniti, nel giro di Bice Brichetto incrocia Susan Sontag, che ha già pubblicato nel ’66 il fondamentale Contro l’interpretazione ed è legata intorno al 1970 a Carlotta del Pezzo.

La rivoluzione, che fare? – Alla fine degli anni Sessanta, segnati dall’inizio della relazione con Diane Kelder, conclude definitivamente la propria breve carriera rivoluzionaria. Elsa è ferma ormai nell’idea della poesia come unica possibilità di rompere l’opacità dell’irrealtà e di «rendere amabili le cose orribili in quanto orribili, semplicemente perché sono»[xvi]; non ha ancora smarrito, se mai la smarrisce, «la speranza nell’antipotere della poesia come religione e politica, come filosofia»[xvii]. E, a differenza di quanto va dicendo a Cavalli, è convinta che bisogna scrivere solo libri che cambiano il mondo[xviii]; del resto, Patrizia, a proposito del suo titolo, parla di una citazione scherzosa[xix]. Già nel Mondo salvato dai ragazzini e poi nella Storia, Morante recupera, grazie alle letture weiliane, la propria terribile esperienza del vuoto dei primi anni Sessanta e riconosce «come irreale tutto ciò che si produce a causa dell’incessante e universale impulso dell’io a esercitare un potere piccolo o grande  […] e al contrario come reale ciò che principia a manifestarsi nella misura in cui si infrange lo schermo dell’io»[xx]. Un’esperienza analoga, seppure biograficamente del tutto diversa, deve aver conosciuto e recuperato nello scrivere le sue poesie anche l’amica che ai suoi occhi incarna la poesia e che nella poesia riflette la propria condizione di abbandono, sin da giovanissima, a fissare il vuoto e i paesaggi visionari, in uno stato di separazione[xxi]. Su questo terreno, centrale in tutta l’opera cavalliana e in qualche modo costitutivo del suo essere, si sono forse avvicinate le due donne, la ragazzina e la romanziera già affermata.

In un’intervista del ’77 a Michèle Causse e Marivonne Lapouge, curatrici di un’antologia francese sulle voci femminili italiane, Cavalli, segnalata loro da Amelia Rosselli, mostra di aver molto chiaro quale sia per lei il rapporto tra l’io e la poesia. La poeta rifiuta la banalità dei fatti, dice, perché non ne vede l’utilità storica. La sua storia non è altro che il letame grazie al quale coltiva la sua differenza[xxii]. Nella poesia di apertura delle Mie poesie non cambieranno il mondo è proprio una trasformazione del tempo in ritmo a cambiare il mondo trasformando il letame biografico dello scherzo tra Morante e Cavalli in un io libero dalla storia. Un impercettibile cambiamento metrico lo fa passare, tra la prima e la seconda terzina, da soggetto al tempo a soggetto poetico. Nelle due strofe («Qualcuno mi ha detto / che certo le mie poesie / non cambieranno il mondo. // Io rispondo che certo sì / le mie poesie / non cambieranno il mondo»), la ripetizione tautologica della prima nella seconda vede il passato prossimo, di cui l’io è oggetto, scandito dalla decisa spezzatura dei due settenari successivi, diventare il presente di cui è soggetto ritmato dall’inarcatura del quinario sul settenario fusi così nell’endecasillabo a minore del titolo. Non solo, nel componimento proemiale, l’io da essere soggetto al tempo diventa soggetto dell’armonia. Nell’intera raccolta una cadenza come circolare dei ritmi delle cinquantaquattro poesie scandisce anche l’avvicendarsi delle sue faccende quotidiane e rende così la superficie stessa del libro la scena del non senso della sua volontà, dei suoi terrori e dei suoi desideri, sottratti dalla rappresentazione a eventuali letture realistiche[xxiii]. D’altro canto, se è davvero Morante a riordinare la raccolta, di fronte a tale impianto non si può non pensare alla sua considerazione sulla costruzione del racconto come architettura e sulle vetrate come scene isolate. Cavalli, riferendosi ancora una volta agli equivoci critici suscitati dall’onnipresenza del suo io, torna a spiegare che «l’io non è l’indizio certo di una scrittura autobiografica […] non è mai un io psicologico, è un io linguistico, uno spazio linguistico e dell’esserci. È un io che guarda a se stesso come un campo privilegiato dell’attenzione e dell’esperienza»[xxiv].

Cavalli è tornata in interventi più recenti a parlare dell’antipotere della poesia a proposito delle scelte poetiche di quei suoi anni di formazione, riprendendo il filo del suo primo titolo, il suo più bello, scelto da Morante, che mette bretonianamente insieme l’idea di Marx di trasformare il mondo e quella di Rimbaud di cambiare la vita, e consuona anche con un microlito celaniano del ’69 («Le poesie non cambiano certo il mondo / ma cambiano l’essere nel mondo»[xxv]). Le mie poesie non cambieranno il mondo non voleva dire che lei non lo volesse cambiare. Quel titolo «era una provocazione, ma anche una forma di arroganza. Perché dire “le mie poesie non cambieranno il mondo” voleva dire il contrario. Cambiarlo, ma in maniera diversa, attraverso le parole. Non cambiandolo entrando nella dimensione della politica, (o quella roba lì)»[xxvi].  All’uscita di Datura nel 2013 riprende l’argomento e parla di una «virtù linguistica della poesia» capace di sanare le cieche e feroci sopraffazioni presenti nel corpo mentale producendo figure che hanno un ordine e un limite[xxvii] e dei sensi della mente che «sanno accogliere le parole giudicandone la verità»[xxviii]. In un intervento all’Istituto Italiano di Cultura di Berlino, in margine a un convegno su Aracoeli, spiega di riuscire ad affrancarsi dal dolore insopportabile del romanzo per lo specifico potere della lingua di Morante, e non si può non pensare che, come succede in questi casi, non stia pensando, in parte, anche alla propria.

Quindi questo modo di procedere, questa lentezza e questa festa della lingua che non vuole recedere dall’oggetto, questa lingua che vuole usare tutte le proprietà che le sono state date, per far esistere una cosa più di quanto la cosa possa esistere in se stessa, perché a differenza di quello che Elsa dichiara, che è la realtà a produrre le parole e non le parole a produrre la realtà, in verità non è vero. Lei sa benissimo che non è così. Cioè, sa benissimo, quando lei parla di realtà, tutti sappiamo cosa intendeva, un concetto piuttosto vago e anche piuttosto vasto che non era semplicemente la cosa, ma il modo della cosa. E quindi, dicevo, quando lei… usando la lingua in questo modo… in realtà crea una specie di altro mondo rispetto alla morte, ma non per quell’idea banale dell’arte che salva dalla morte, ma crea effettivamente, di fatto, un altro mondo, fisicamente, cioè linguisticamente, lì, in quel momento, un altro mondo che vince la morte, addirittura la abolisce, perché sospende il tempo[xxix].

Le poesie – Come mostra la corsiva ricognizione effettuata sui sette/otto anni di gestazione del libro, Cavalli durante la composizione delle Mie poesie non cambieranno il mondo abbandona definitivamente l’idea dominante di poter cambiare il mondo con la politica e matura il medesimo convincimento morantiano che sia invece la poesia a poterlo cambiare. La lingua festiva e la costruzione del libro, insieme all’effetto antifrastico del titolo, entrato nell’uso come un aforisma, riflettono con esattezza la prospettiva estetica maturata in quel periodo, disinteressata del tutto ad abbandoni sentimentali e a qualsiasi forma di realismo. Gli uomini si fingono di avere dei fini per poter godere e usare dei loro mezzi, spiega ancora all’ICI Berlin citando a memoria alcuni versi dal Mondo salvato dai ragazzini, e «l’arabesco fantastico è dato per la gioia del suo movimento e non per la soluzione del teorema. Alla fine la vostra felicità è conoscere che anche il paradiso è servile, anche il desiderio del paradiso è servile». Pure nelle Mie poesie non cambieranno il mondo il paradiso offerto è manifestamente servile poiché nel suo teatro di parole appare distinto il riflesso dell’inconsistenza delle intenzioni e dei desideri dell’io. Quell’arabesco generato da una voce poetica senza storia è ancora intatto per chi voglia sostare sulla felice rappresentazione di una figuretta inchiodata prometeicamente ai cicli infaticabili del corpo, e riconoscere in se stesso e negli altri la leggerezza del proprio niente. Basta guardarlo.

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Note

[i] Cesare Garboli, in Patrizia Cavalli, Sei poesie, «Paragone», n. 282, agosto 1973, p. 73.

[ii] Mimmo Rafele, Intervista inedita.

[iii] Massimo Ghirelli,‘68 vent’anni dopo, Roma, Editori Riuniti, 1988, p. 25.

[iv] Roberto Maragliano, Intervista inedita.

[v] Annalena Benini, Le mie poesie sono respiri e io respiro per trovare le parole, «Il Foglio Quotidiano», 19 e 20 agosto 2017, a. XXII, 195, p. VI.

[vi] Pasqualina Deriu, Patrizia Cavalli, in Id., Racconto di poesia, Milano, CUEM, 1998, p. 23.

[vii] Giorgio Agamben, Autoritratto nello studio, Milano, Nottetempo, 2017, p. 162.

[viii] Lily Tuck, Woman of Rome. The life of Elsa Morante, HarperCollins, p. 150.

[ix] Tuck, p. 115.

[x] Deriu, p. 24.

[xi] Camilla Valletti, Il tempo della valigia. Intervista a Patrizia Cavalli, «Indice», 11 novembre 2006, p. 24.

[xii] Caterina Bonvicini, Patrizia Cavalli, altro che twitter questa è poesia, «Il Fatto Quotidiano», 22 giugno 2013, p.16.

[xiii] Paolo Frongia, Intervista inedita.

[xiv] Aurora Ombretta Prevosti, Plebea Somari, « Città Viva », n. 4, Giugno | Luglio 2023, p. 25. L’autrice, è ospite in via del Biscione dal 1972 al 1974 insieme al suo futuro marito, compagno di liceo di Cavalli.

[xv] Daniel Berger, Intervista inedita.

[xvi] Giancarlo Gaeta, Contro il dominio dell’irrealtà. Elsa Morante e Simone Weil, «Lo straniero», 188, febbraio 2016, p. 76.

[xvii] Goffredo Fofi in Giancarlo Gaeta, p. 77.

[xviii] Giorgio Montefoschi www.raicultura.it/webdoc/elsamorante/index.html#services.

[xix] Caterina Bonvicini, Patrizia Cavalli, altro che twitter questa è poesia, «Il Fatto Quotidiano», 22 giugno 2013, p.16.

[xx] Giancarlo Gaeta, p.74.

[xxi] Leonetta Bentivoglio, Patrizia Cavalli: «Io, la malattia e le mie pene d’amor perdute», «la Repubblica», 7 settembre 2016, p. 30.

[xxii] Michèle Causse, Maryvonne Lapouge, Patrizia Cavalli, in Iid., Écrits, voix d’Italie, Paris, Des femmes-Antoinette Fouque, 1977, pp. 184-193.

[xxiii] Rosalia Gambatesa, Ormai è sicuro, il mondo non esiste, Bari, Progedit, 2020, pp. 48-57.

[xxiv] Intervista di Emanuele Trevi a Patrizia Cavalli, Un grande desiderio inesaudito, Le musiche della vita, Radio3, trascrizione mia, link non più attivo.

[xxv] Paul Celan, Microliti, traduzione e cura di Dario Borso, Rovereto, Zandonai, 2010.

[xxvi] Poetessa, Le musiche della vita, Radio3, trascrizione mia, link non più attivo.

[xxvii] Alessandro Bottelli, Scrivo poesie con il silenzio, «Avvenire», 4 settembre 2012, p. 24.

[xxviii] Caterina Bonvicini.

[xxix] Patrizia Cavalli-Im Gespräch, a cura di Sara Fortuna e Manuele Gragnolati, https://legacy.ici-berlin.org/videos/patrizia-cavalli-im-gespraech/part/2/, trascrizione mia.

Evviva Sud. Nuovo numero 24: Itinera

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di

Francesco Forlani

Come ogni anno, con salti mortali e piccoli miracoli tra amici, fresco di stampa il nuovo Sud esiste, su supporto cartaceo in una tiratura limitata e disponibile gratuitamente in edizione digitale insieme all’intera serie a questo indirizzo.

Per l’occasione vorrei proporre un pezzo su Venezia secondo me bellissimo di Mirco Salvadori e Giusy La Serissima, giunto in redazione quando ormai le macchine della tipografia già sfornavano i larghi fogli della rivista e che purtroppo non abbiamo potuto inserire in questo numero dedicato al senso del viaggio.

Buona lettura.

Venezia Sub Reale

Uno stravagante racconto di quotidiana reale assurdità

di Mirco Salvadori e Giusy La Serissima

Venezia è un pesce, scriveva ben ventiquattro anni or sono Tiziano Scarpa che in questo luogo di paura e delirio, come me vive. Qui però non siamo a bordo di una enorme decapottabile che sfreccia lungo il deserto verso Las Vegas, qui non usiamo droghe per alterare il nostro stato di coscienza, qui alterati ormai lo siamo stabilmente perché questa è Lagunaland, un PDP: Parco Divertimento per Poveri, una stazione di disservizio mangia e deponi i tuoi scarti ovunque, un gioco mortale al ‘vediamo se oggi riesco a salire sul vaporetto senza maledire i morti ai mille rintronati con zaino che gremiscono il carro bestiame galleggiante’, una sfida continua alla propria integrità psicologica, messa a rischio sei giorni su sette, dentro le anguste mura di un luogo che si trova sotto le Procuratorie di una che sarebbe anche la più bella Piazza del mondo, non fosse per loro: i foresti e per chi da sempre non sa governarli e governare questo sputo di isola, un tempo Regina dei Mari.

Mi chiamo Giusy, da oltre vent’anni e ancora non so ancora per quanto, faccio la commessa in un negozio di Piazza San Marco. Vendo ciarabatoe made in Ciaina per i turisti che non sa gnanca de esser al mondo.  Questa è la storia della mia tragica vita a contatto con l’overturism o come casso se scrive!

Ho lasciato a Giusy l’onere della presentazione, sapevo ci teneva come qualsiasi local lagunare quando si tratta di parlare della propria città invasa. Io sono un semplice narratore che ogni tanto appare nelle pagine dei romanzi o dei racconti. Il mio è un mestiere per nulla redditizio ma decisamente soddisfacente dal punto di vista dello scambio, del dialogo. Ogni pagina che frequento, ogni pensiero con il quale vengo a contatto, è fonte di piacere perché mi permette di conoscere mondi nascosti, realtà altrimenti impossibili da scoprire e soprattutto, mette alla prova la mia pazienza perché lo assicuro, avere a che fare con Giusy chiamata Ea Serenissima, una casteana nata e tutt’ora residente in Cae dei Preti, un frammento del sestiere più popolare di Venezia, lì dove in tempi neanche tanto remoti, se per sbaglio ci passavi e non conoscevi nessuno del posto,  ti chiedevano cosa ci facevi lì e dove stessi andando, è compito per nulla facile.

La storia comunque non può che raccontarla un veneziano vero, non quello che sta oltre il Ponte della Libertà che per fare il figo dice di essere figlio della Laguna e magari è nato ed abita nelle campagne vicine, quello che il sabato sera cala in città per gli addio al celibato con cinquanta sui consimili, tutti sventurati alcolisti e futuri disperati mariti ma anche mogli, inconsulti giovani che mai reciterebbero quella grottesca tragedia di vino da poche lire, urla, canti sguaiati, peni fluttuanti nell’aria e vuoto mentale, nella piazza del loro paese così devoto e pudico, un veneziano vero insisto, quello nato e ancora miracolosamente residente in centro storico, colui che si aggrappa con le unghie ai muri scrostati e contaminati dalla salsedine, pur di non finire a vivere in quelle piazze così devote, colui che va a formare quel numero in costante discesa che appare nei contatori di fine vita lagunare, posizionati in due farmacie del centro storico, unici luoghi nei quali trovare la chimica capace di calmare l’ansia da invasione costante. Un tempo esistevano le pause, qualche mese di pace, il silenzio! Ora è un continuo arrivo, senza sosta. Le strade sono intasate, non si cammina, si fa lo slalom tra trolley e gruppi sconfinati di invasori ai quali basta giungere in Piazza San Marco, convinti sia Piazza San Pietro, per vedere il Papa affacciarsi al balcone: questa l’ho sentita dalla Giusy ed è vita vera, reale, che il local veneziano tocca con mano ogni santo giorno.

No sta darme el foresto che se mette a far el paeadìn de Venessia! Ti vara se dovevo beccarme un naratore che me cava via l’aria. Come no ghe fusse già bastansa gente che me cava l’aria ogni santo giorno!

Insomma, lui vi ha già informato sul mio conto per cui non sto a dilungarmi. Molte però sono le cose che ignora perché il lavoro da commessa in Piazza, ha lo stesso valore che possiede quello di uno sceneggiatore di fama a Hollywood. Siamo tutti figli di Truman e la sostanza tossica nella quale ci immergiamo ogni santo giorno ci rende parimenti cinici e taglienti.

Quando, alle dieci del mattino inserisco la chiave nella serratura della porta che dovrà rimanere spalancata tutto il giorno e parte della notte, visto che qui si chiude alle undici, di notte dico,  attorno a me prende vita un mondo che solo uno schermo cinematografico potrebbe ospitare e questa assurda e unica città sopportare.

Il rito è sempre lo stesso: apri, fai ordine, pulisci e togli la polvere dalle vetrine, rimpiazzi ciò che manca dagli scaffali e prima che giunga la piena umana che tutto spazza via, attendi il passaggio dei tuoi colleghi, persone che lavorano tutte nei negozi sotto le Procuratorie ma di cui non conosci il nome perché in questo far west serenissimo, ciò che conta sono i soprannomi.

L’elenco che segue conterrà molte parole in dialetto veneziano che non sto a tradurre, fate uno sforzo che tanto siete sempre in debito con noi, lo siete ogni santa volta che decidete di venire qui in visita andando ad ingrossare le fila del turistame, quello mordi e poi fuggi perché: Venezia è bella ma non ci vivrei… aeora perché casso ti ghe vien?! Testa da battipai che no ti xe altro!

Quello che segue è un elenco parziale della fauna che incontro ogni mattina che il Santissimo ci porge in dono e sempre o quasi sempre, sia lodato.

Punto e virgoa. Nane per gli intimi. Raccoglitore seriale di inutili scarti altrui che andava a cercare nei cestini della spazzatura della Piazza. Da sempre veste il suo metro e forse neanche cinquanta con ricercata sapienza, usando anelli in numero spropositato e foulard anche e soprattutto annodati alla tracolla dell’immancabile borsello. Dopo aver beccato una multa salata per furto di monnezza, si è riciclato come cantante/ballerino ma non a richiesta, nel senso che è lui a chiedere un euro formulando a chiunque lavori in zona, ambulanti in primis, la domanda: ti me da un euro se canto e baeo? Dileggiato  via social ma anche amato dai più, è odiato dai “bangla”, la nuova dinastia di ambulanti che pian piano sta soppiantando i local: una stirpe con storia ultra decennale alle spalle che ha le sue radici nei banchetti che coprono la Riva degli Schiavoni e li ha resi benestanti, grazie alla vendita di soffocante paccottiglia veneziana made in China.

Tacchetti. Un tempo commessa in carne e, dopo miracolosa dieta dimagrante, agile camminatrice che puntualmente e con uno sciocco sorriso stampato sul viso, va ad aprire il negozio quando ancora il silenzio regna lungo le Procuratorie. Ecco che ea riva, senti dire dai colleghi riuniti per la colazione al Caffé Quadri e lo capisci dal rumore assordante prodotto dai quei tacchi (da qui il soprannome), indossati dopo la miracolosa dieta dimagrante e mai più abbandonati.

Uomo Colonna o Uomo Zucca. Lui è un commesso che, dopo aver aperto il negozio, esce, si appoggia ad una colonna delle Procuratorie e lì ci passa la giornata, con i suoi bei completi immancabilmente color giallo zucca.

 Cultura Italiana. Cultura italiana è il collega del negozio di fianco al mio che dispone di un alto grado di scolarizzazione e conseguente cultura. I suoi discorsi, che immancabilmente finiscono in furiose discussioni con il Ragazzo Cavallo, così chiamato per la sua non eccessiva bellezza dei lineamenti del viso, vertono esclusivamente sullo sport, la figa e la politica, segnatamente di destra, motivo valido per far infuriare il Ragazzo Cavallo, di vedute politiche opposte.

 Matrix. Alto quasi due metri, sempre fasciato in un lungo trench di pelle nera, indossa stivali texani di coccodrillo e cravatte fluo, utili per le giornate di nebbia che qui chiamiamo caigo fisso. Solitamente si accompagna a Lupin, altro esemplare della fauna di Piazza San Marco, chiamato così perché veste esattamente come il ladro del manga creato da Monkey Punch.

Il Dottor Pometti, soprannome dovuto alla sua precedente attività di fruttivendolo in quel dell’Isola dee Foche, così noi veneziani chiamiamo l’isola della Giudecca, ed ora magazziniere di una storica bottega della Piazza, specializzata in vendita di oggetti votati all’assoluto cattivo gusto, tipo stole di volpe immancabilmente sintetiche e altamente infiammabili. Il Dottor Pometti ha una qualità indiscutibile, sprizza simpatia e ironia da ogni poro, non per nulla è il mio compagno preferito nelle pause caffè, quando ce lo permettono.

 Signora La Nutria. La Signora La Nutria è una commerciante che assomiglia incredibilmente ad una nutria. Stazza notevole, il modo di procedere e il colore dei capelli che ben si avvicina alla sfumatura del mantello di questo mammifero. Ricordo ancora il giorno nel quale giunse in negozio una giovane nuova commessa, per farla adattare senza traumi all’ambientino di lavoro della Piazza, iniziai a spiegarle chi erano i vari personaggi che si aggiravano nei paraggi e che ben presto avrebbe conosciuto, compresa La Signora La Nutria. Il MOSE ancora non era stato manco pensato per cui, nella stagione autunnale, l’acqua alta la faceva da padrona. Un po’ come ora quando il più delle volte non lo alzano per i troppi costi da affrontare, inaugurando così il massimo divertimento che un turista può sperimentare in questa Disneyland lagunare: la corsa a piedi nudi nell’acqua che vede una concentrazione di coliformi manco riscontrabile nelle fogne di Parigi. Un mattino particolarmente ventoso e con molta pioggia che cadeva costantemente, la Signora La Nutria si palesò senza stivali di gomma, ai confini tra la terra asciutta e l’entrata sommersa del suo negozio. La giovane e altruista commessa la vide e iniziò a gridarle: ATTENDA SIGNORA LA NUTRIA! PRENDO UN PAIO DI STIVALI E GLIELI PORTO! NON SI MUOVA SIGNORA LA NUTRIA! Non mi sono più palesata con la Signora La Nutria che tutt’ora continua a cercarmi per avere delle spiegazioni.

 L’Ispettore Gadget. L’Ispettore Gadget possedeva il dono dell’allungamento degli arti e delle parti mobili del corpo, collo compreso. Ricordo quando passava, ho ancora presente il movimento del collo che permetteva alla testa di girarsi verso il negozio mentre lui continuava a camminare ma, cosa eccezionale, si allungava man mano che il passo lo allontanava dall’obbiettivo che, per i duri di comprendonio, ero io. Ora è molto che non lo si vede in zona, dicono sia andato ad allevare finti pesci rossi affogati nei fermaporta di puro cristallo made in Taiwan.

Ciò che avete letto, lo si nota, è scritto al presente perché al presente è stato vissuto. Il narratore, diversamente dall’autore che il racconto lo scrive in prima persona, sopravvive. Noi narriamo in eterno, la nostra scadenza dipende solo dalle capacità di scrittura dell’autore che, con il tempo, possono andare a scemare o improvvisamente scomparire, come in questo caso.

Quando successe, Venezia contava ormai neanche 500 abitanti e quasi tutti sfollati dal Centro Storico all’Isola del Lido. Le continue ondate turistiche erano via via scomparse, trasformandosi in una definitiva invasione che andava a colpire i residenti lasciando dietro di sé macerie mentali e vittime sacrificate sull’altare del malessere psichico. Alcuni local si erano organizzati formando piccoli gruppi di assalto che agivano nella clandestinità: usavano l’AI inserendosi nei circuiti turistici che proponevano la città lagunare anche e soprattutto fuori stagione, quando la stagione ormai non era più un periodo limitato di tempo ma durava 365 giorni all’anno. Riuscivano anche ad impressionare, con i loro terribili ed estremamente verosimili video decisamente splatter, qualche turista in procinto di scegliere la città lagunare come meta ma: le pantegane che azzannavano alla gola il viandante sperduto tra calli e campielli, il veneziano ormai alla deriva mentale che girava con l’ascia a caccia di foresti, il cuoco cinese che cucinava gatti importati dall’estremo oriente, il buttadentro rumeno che spezzava le braccia al turista indeciso se entrare o meno, convincendolo sbrigativamente ad oltrepassare la soglia del ristorante, il bagarino che vendeva i biglietti per l’accesso al Campanile di San Marco, minacciando con una lama puntata alla carotide il malcapitato portatore di zainetto, le montagne di spazzatura abbandonata ovunque, che copriva fino al polpaccio gli sfortunati viandanti giornalieri, nulla di tutto questo fermava la maggioranza di umani sciamanti da ogni parte del globo a raggiungere questa città unica al mondo.

Xe drio piover che Dio ea manda da oltre un mese! Già nassemo coa artrosi ma de sto passo ne saltarà fora anche e branchie! Ciò Luisa, i ga speso miliardi par el MOSE, i se ne ga messo in berta altrettanti coe bustaree, i ga devastà quea po’ po’ de beessa che gera e dighe e tutto el paesaggio intorno, al Lido digo ma, miga i ga pensà che sta roba del climat ceng podeva cambiar tuto. Desso l’acqua no entra più in casa dai gatoi o dal cesso no, ea riva dai copi ormai sfondai da quee po’ po’ de naranse che casca a duxento chimoetri al’ora dal cieo, giasso assassin, grandine che massa!

Ne sono certa, quando il narratore troverà le mie memorie, avrà un moto di stizza perché non ho tradotto questo passaggio in italiano ma, tesoro mio che no ti xe altro! Tu non hai la minima idea di cosa sta succedendo, di cosa stiamo vivendo. È un evento talmente enorme e assurdo, che perder tempo a tradurre ciò che si può ben dedurre tra una parola e l’altra, sarebbe solo una perdita di tempo.

Ormai l’acqua ha invaso perennemente i locali e gli appartamenti al livello della strada, gli sfollati non si contano e non li conta neanche una Giunta Comunale che incredibilmente ancora impera incontrastata con il suo inossidabile Sindaco, colui che ha deciso di costruire il nuovo Comune di Venezia oltre il Ponte della Libertà, al centro del suo Bosco dello Sport inaugurato ormai molti anni or sono. Quest’isola ormai assomiglia al relitto di un decrepito veliero in preda delle correnti, le vele lacerate dalle troppe tempeste superate, lo scafo con il legno marcito e l’acqua che da ogni parte sgorga, portando con sé la decomposizione, la corruzione, la dissoluzione di questa mia povera città nella quale ho avuto la fortuna di nascere e molto probabilmente di morire.

Ovviamente il lavoro l’ho perduto da molto tempo, la Piazza è stata la prima ad assaggiare il gelido  impatto dei chicchi di grandine delle dimensioni di un arancio che cadevano dal cielo. Passavo ore in negozio senza che nessuno entrasse, tutti impazzivano per la ‘new liquid xeperience’, come la chiamava un’agenzia turistica perspicace e in grado di capire quando fosse giunto il momento di accelerare sull’inventiva, in fin dei conti era tutta una questione di sopravvivenza, possibile a patto di comprendere cosa di assurdo si poteva inventare, continuando ad usare una città che pian piano stava sprofondando nel mare, di pioggia e di acqua salata.

Giusy La Serissima si aggrappava ormai al ricordo, alle mille storie vissute e a come si era, tutto sommato, divertita con le migliaia di foresti che erano passati nel suo negozio, ora sommerso fino al soffitto. Le bastava fermarsi un momento e le visioni partivano:

la vecchietta sudamericana dormiente e abbandonata tutto il giorno sulla sedia vicino alla vetrina e recuperata solo all’orario di chiusura.

 Come mai riusciamo a vendere le borse di coccodrillo Hermès a soli 35 Euro? Il proprietario ha un allevamento di alligatori vicino a Spinea, nella campagna veneta e sa come, questo abbatte i costi.

 Ma se lei che è così, mi scusi sa, bassa di statura. Ma ci chiediamo, quando sale l’acqua oltre il metro e quaranta, come fa?! Beh, noi qui abbiamo il pronto intervento pompieri subacquei. Più di una volta mi hanno ripescato.

 Il TAX FREE compilato sul foglietto del bloc notes scrivendo tipo: acquisto ornitorinco acquaticus imbalsamato, usando il timbro scordato dal tecnico del condizionatore e informando il cliente che poteva ottenere il rimborso solo in aereoporto.

 Salire sopra lo sgabello e con un fischietto, mettere in fila un gruppo di coreani ubbidienti e farli entrare con ordine.

 Orario di chiusura passato da quindici minuti, pavimento lavato, moccio e secchio bene in vista, scopa messa di traverso all’entrata. Mi scusi sta chiudendo? Vorrei dare un’occhiata, dice la turista da crociera Vedi l’Italia In Un Giorno E Mezzo Per 128 Euro Bibite Comprese, mentre sposta la scopa entrando. No no tranquilla, sa io faccio la notte come le infermiere, se guarda bene fuori, sullo stipite, può notare la H di Hospital.

 Tutte le t-shirts sono Taglie Uniche, c’è scritto in un cartello enorme vicino allo scaffale espositivo. Mi scusi avrebbe una media?

 Camerini terra di nessuno, scambiati per: cessi pubblici dove fare i propri bisogni, nei quali lasciarsi andare a rapporti di sesso o tagliarsi le braccia in preda ad astinenza da droghe e via andare.

 Panini, bibite, gelati, tutti consumati dentro il negozio: sa come, fuori fa troppo caldo.

 Il mirror ghosting da noi chiamato: entrano, si specchiano, si pettinano, si truccano, si girano e se ne vanno.

 Mi scusi ma. A che ora chiude Venezia?

 Mi scusi, dove posso prendere un taxi ma non acqueo, costa troppo! Un taxi di quelli normali, con le ruote.

 Mi scusi ma qui esistono case dove si vive?

 Mi scusi ma per fare la spesa voi andate con le moto d’acqua?

 Mi scusi, per il Ponte Vecchio da che parte?

 Mi scusi, per Piazza San Pietro sono giusta?

 Mi scusi, dove possiamo mangiare bene pesce ma fresco, spendendo poco? Guardi, giri a sinistra uscendo, avanti troverà un ponte e oltre il ponte un cartello di indicazione con su scritto Betania. Ecco, segua l’indicazione e poco più avanti lo troverà.

 Mi scusi, è tutto il giorno che camminiamo, non è che avreste un bagno? Abbiamo provato ad andare in qualche bar ma ci chiedono di consumare almeno un caffè e costa un euro e cinquanta centesimi e poi il caffè lo bevo solo io, i miei quattro figli, mio marito e mia suocera non lo bevono mica.

 Sono decine e decine gli episodi che esplodono di assurdo, sopra questo palco galleggiante che sta lentamente affondando. Affollano continuamente i pensieri di Giusy mentre posa la penna, chiude il quaderno e lo ripone nel cassetto sotto la cassa. Fuori tempesta come al solito, indossa la tuta stagna, il casco ed esce chiudendo la porta a chiave. La Serenissima non tornerà più in quel piccolo teatro nel quale quotidianamente andava in scena la commedia dell’assurdo, Giusy non tornerà più neanche in Calle dei Preti a Castello, uno dei sestieri più popolari di Venezia.

VENENZIA SUBREALE è il nome che i visitatori hanno stampato sulle tute da sub. Ora di mestiere faccio la guida subacquea, anche se mi manca il poter narrare.

Il turismo non ha mai smesso di frequentare questo luogo, neanche dopo che il mare se lo inghiottì. Panico, commozione, ricordo delle vittime e poi, pian piano, il ritorno alla normalità della follia turistica e subreale, con continue immersioni alla scoperta di una Venezia altra, sommersa, silenziosa, ancor più immobile di quanto non fosse nelle notti di, rara ultimamente, fittissima nebbia.

La Piazza ovviamente è la più gettonata e il tour comprende la visita della Basilica e tutto il perimetro delle Procuratorie. È proprio in uno di questo tour che mi sono imbattuto nello storico negozio della Giusy. La porta con il tempo si era aperta ed era preda delle correnti marine che seguiva muovendosi sinuosamente come la pinna di una affascinante sirena. Sono entrato in punta di pinne in questo sacrario del ricordo nel quale ancora qualche borsa Hermés di alligatore allevato a Spinea, galleggiava silenziosa mostrando il suo interno di cartone sventrato dall’azione dell’acqua. Mi sono guardato in giro notando subito quell’unico cassetto ancora chiuso. Il suo diario era ancora lì, ben racchiuso in un sacchetto stagno. Mentre commosso mi avviavo verso l’uscita, ho sentito uno strattone alla corda che mi teneva unito al resto dei subacquei che accompagno nella visita. Girandomi vedo il più intraprendente di loro porgermi la lavagna data in dotazione nel caso di emergenza. Mi fa cenno di leggere indicando qualcosa fuori dalla porta d’entrata: mi scusi, c’è scritto, è quello il balcone dal quale si affacciava il Papa?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La ragazza che va in sposa – Tiziana Lo Porto

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l’anno della tigre

 

cammino per le strade di new york

william s. burroughs è al mio fianco

gli altri non lo vedono

nemmeno io lo vedo ma so che c’è

quando vediamo un gatto ci fermiamo

guardalo negli occhi dice lui

guardo il gatto negli occhi

è tuo padre? domanda

no rispondo

è qualcuno che conosci?

no mai visto dico

lasciamo andare il gatto e riprendiamo a camminare

vorrei fargli delle domande

vorrei chiedergli cose della scrittura e della vita

vorrei chiedergli questa storia dei gatti

tua moglie si è davvero reincarnata in un gatto?

anch’io diventerò gatto?

ma è sempre così serio e allora sto zitta

ha il cappello e un abito tre pezzi

come mio padre

continuiamo a camminare

mi fermo perché vedo una tigre

lui va avanti

si vede che le tigri non gli interessano

e comunque è di plastica

la prendo in mano

la guardo negli occhi

tigre, chi sei? le domando

ci conosciamo?

la tigre sta zitta

la infilo in tasca e raggiungo burroughs

è l’anno della tigre gli dico

lui sta zitto

forse sorride

oppure no

abbiamo ripreso a camminare

la città è nostra.

 

una storia d’amore

 

per baciarci ancora un po’ di nascosto

ci siamo dati appuntamento in tutti i bar del centro

abbiamo chiesto a stelle e pianeti di farci passare

dalla stessa strada nello stesso momento

abbiamo baciato altri e fatto sesso

per la certezza che non fosse lo stesso

siamo diventati gatti, monaci e giacche a vento

abbiamo fatto questo e quello

ci siamo baciati di nascosto

più grandi di vent’anni e senza tempo

 

festa di compleanno

 

sylvia plath che dice:

dov’è la gioia?

nelle rane

non nell’idea degli altri

che leggono la mia poesia sulle rane


Tiziana Lo Porto è nata a Bolzano nel 1972. Ha curato e tradotto libri di Charles Bukowski, Jim Carroll, James Franco, Kim Gordon, Bernardo Bertolucci, Patti Smith e Vasco Brondi. È autrice del graphic novel Superzelda. La vita disegnata di Zelda Fitzgerald. Vive a Roma e a New York dove scrive e traduce. La ragazza che va in sposa è la sua prima raccolta di poesie.

Amelia C: «a voi adulti dico: vigliacchi!»

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«No, io non sarò come voi. Noi non saremo come voi. Noi siamo un mondo nuovo. Noi siamo l’insurrezione naturale perché la nostra natura poggia le radici su terre sconosciute» scrive Amelia C., 17 anni, e tanto basta come introduzione a uno dei libri più formidabili pubblicati negli ultimi tempi, Vigliacchi! Il mio j’accuse al mondo degli adulti. Lo pubblica AgenziaX, e andrebbe letto subito, senza indugi, se non fosse che l’autrice sovverte anche questa aspettativa: «Sono Amelia, sono il futuro e non ho fretta».

Lettura antidotale al fatalismo, alla desolazione come mandato generazionale, questo libro si legge con una specie di attrito necessario. Siamo di fronte a un buon veleno, di quelli che curano, senza diluire la rabbia, senza truccarla di moralismo. Gli adulti, di questi mondo che si sono ritrovati in eredità, non hanno capito nulla. Soprattutto, sono stati cattivi antenati. Non possiamo più permetterci lo stesso errore, dice Amelia. E dovremmo darle ascolto.

Come si comprenderà leggendo i due estratti che ho scelto di ospitare qui sotto, c’è molto in Vigliacchi!: l’incapacità di venire a patti con il passato e la ridefinizione del mito, la guerra permanente e l’orrore del genocidio in Palestina, l’analfabetismo digitale, le auto elettriche e lo sfruttamento sistematico delle materie, l’inutile crociata contro la pornografia e la crisi radicale della scuola. Pasolini e Madame, Facebook e Chi l’ha visto, la masturbazione e l’orgasmo, senza esaltazione, senza pruderie. Soprattutto, c’è la volontà di stare nell’incerto, in ciò che punge, che non si risolve immediatamente in qualche buona novella, con la consapevolezza di poter dire, contro ogni futuro già colonizzato: «Noi saremo proprio qualcosa di sconosciuto e lo saremo in maniera dirompente perché siamo figli di un secolo che farà da spartiacque, che stravolgerà il modo di lavorare, agire, pensare. […] Non ci fa paura questo nuovo mondo perché ne siamo parte integrante. Ma sappiamo metterci le mani».

Viva questo libro, vestito d’ortica e di furore, ma con tutto l’impeto della felicità – quella non facile, che non si dà pace, che che vuole ricominciare il mondo.

 

***

Voi volete stare in pace

Continuate a discutere di fascismo e antifascismo. Quindi di un tema del nostro passato, relativo alla Seconda guerra mondiale e al dopoguerra. Non voglio fingere che sia una questione che non riguardi anche la nostra generazione. La storia è la nostra levatrice, non potrebbe non interessarci. Cosa è accaduto? Perché? Perché non dovrebbe mai più accadere? Però io non posso commuovermi per qualcosa che è accaduto settant’anni fa. Non perché sono insensibile, ma perché quello che è successo nel passato fa parte della Storia con la S maiuscola. Io la posso studiare ma non posso commuovermi e men che meno posso essere interessata al dibattito antistorico e spesso fumettistico che ne fanno gli adulti come in una disputa tra tifoserie. Poi c’è qualcosa che a me non torna. L’articolo 11 della nostra Costituzione recita nel primo comma: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Bene. Noi non siamo coinvolti nell’attuale guerra RussiaUcraina, ma non mi sembra che stiamo ripudiando quel conflitto, visto che inviamo armi a uno dei due contendenti. Siamo coinvolti? Voi sembrate non curarvene, non ne parlate mai. E anche questo mi stupisce, quando poi vi accapigliate per motivi molto più stupidi. Il dramma della guerra è invece il tema principale del parrocco di zona, quel don Fabrizio che papà non hai mai sopportato. Ora, io non sono in grado di dire cosa si dovrebbe fare, ma mi rendo conto della contraddizione. Vi metto la questione sul piatto, perché sembra che voi non vogliate guardare. Dal basso dei miei anni, posso solo mettere in risalto ciò che vedo. Non sono ancora in grado di trovare soluzioni, ma di porvi domande precise e puntuali sì. Quelle a cui voi non rispondete forse perché siete stanchi o non vi sono mai interessate. Avete lasciato correre. Non ve ne siete mai occupati. Avete solcato la corrente del fiume dal verso più comodo. Vi siete lasciati trasportare. Poi vi lamentate, ma questo forse è un vizio che emerge a una certa età. Ecco, io no. Noi no. Questa sarà la differenza tra la mia e la vostra generazione. Entreremo nel merito delle cose. Ci sbatteremo la faccia. Forse ci faremo male, ma non ci lasceremo trasportare né dalle mode, né dalle abitudini, né da quello che chiamate “contesto sociale”. A voi della pace non interessa nulla. Volete semplicemente “stare in pace”, ossia restare ai margini, seduti sui vostri comodi divani, dibattendo del vostro collega di lavoro che ha avuto una promozione, mentre siete sempre fermi, anche se vi fate un “mazzo”, come dite. Oppure discutete, perché i pettegolezzi non li fate, sull’amica della mamma che ha deciso di cambiare vita a cinquant’anni. E a voi sembra una demoniaca serpe, mangiatrice di uomini, senza responsabilità.

Per carità commentate anche del vicino che si è comprato un’auto storica, dell’estetista, del fatto che l’Ikea non è più conveniente come una volta, del meteo, del fine settimana che volete passare senza vedere nessuno, della cucina da cambiare, della lavatrice, della bolletta del gas, del caro benzina, di quegli stronzi dell’assicurazione, della gelateria che ha cambiato proprietari. Avete una serie interminabili di argomenti su cui discutere. Sul nulla. Perché sulla guerra tra Israele e Palestina non proferite parola. Io non riesco a capire! Come è possibile non dire nulla su quello che sta accadendo! Dovrebbe essere l’unico tema di interesse. Stanno sterminando un popolo, uccidendo civili, bambini, madri e vecchi. Da mesi e mesi. Senza soluzione di discontinuità. Io non voglio insegnare nulla a nessuno ma le domande mi sorgono. La reazione del governo israeliano a fronte di quella che è stata l’aggressione di Hamas il 7 ottobre 2023, non è andata oltre ogni limite? Esiste un principio di proporzionalità? Oppure è giusto sradicare qualsiasi forma di vita che persiste su quel territorio? È lecito lasciare morire di fame i civili, distruggere ogni edificio, eliminare fisicamente sino all’ultimo superstite? No. È barbarie allo stato puro. E nessuno mi può accusare di essere una sostenitrice di Hamas se dico che la reazione è stato fuori misura, disumana, ingiusta! E se critico il governo di Israele non sono antisemita, non odio gli ebrei, non ne conosco nemmeno uno. Penso solo che accettare inermi la soluzione “totale” tesa a massacrare un intero popolo è da considerarsi disumano. Non possiamo confondere la Palestina con Hamas. Qui sta il punto di equilibrio.

E quando finirà questa atrocità, cosa rimarrà? Come potremo pensare che un superstite, che ha perso l’intera famiglia, gli amici, la casa, non potrà provare odio per quel Paese che ne è stato il carnefice? Come non potrà provare istintivamente vicinanza per qualsiasi gruppo terroristico che vorrà ripagare per l’ingiustizia ricevuta? Non ci può essere una prospettiva d’uscita dalla spirale dell’odio se non si comincia a riconoscere l’altro, affermando il diritto a esistere e a vivere in pace. Ma di tutto questo a voi, sembra non interessare. Perché? Forse avete paura di litigare troppo con qualcuno? Ma cosa sta succedendo? Solo l’altro ieri mi raccontavate che voi due vi siete messi insieme durante un grande corteo per la pace e ancora adesso conservate come un oggetto sacro la bandiera arcobaleno nel cassetto dei calzini. Per esempio, non vi siete mai chiesti come mai non ci sono immagini esplicite di morti e cadaveri tra le macerie di Gaza? Forse vi serve guardare una foto per aprire gli occhi. Ma forse ancora, voi davvero volete semplicemente essere lasciati in pace. Vivere la vostra vita, fingendo che nulla vi possa toccare, che la vostra casa è al sicuro, che la vostra auto è in garage, che vostra figlia non morirà accidentalmente per un effetto collaterale. Ebbene io non posso essere come voi, come l’Europa, come i nostri politici che parlano di tutto, si accapigliano sul redditometro, ma non sono in grado di esprimere parole decise contro quello che sta accadendo. È possibile che debba ascoltare il Papa, o Santoro, per sentire l’indignazione, il dolore, lo squarcio nel cuore, per tutti questi morti?

No, io non sarò come voi. Noi non saremo come voi. Non saremo le ribelli del femminismo anni settanta. Noi siamo un mondo nuovo. Saremo proprio qualcosa di sconosciuto e lo saremo in maniera dirompente perché siamo figli di un secolo che farà da spartiacque, che stravolgerà il modo di lavorare, agire, pensare. Noi siamo l’insurrezione naturale perché la nostra natura poggia le radici su terre sconosciute, ancora tutte da scoprire. Terre e mondi di cui voi siete gli antenati, in cui trascorrete ancora parte della vostra vita ma da ospiti, noi del nuovo mondo vi sembreremo degli alieni. E questo è un bel paradosso, siamo vostri figli, figli di questa epoca storica, ma stranieri, extraterrestri.

 

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I (vostri) miti

“Ma che musica ascolti? Che cantanti sono questi che suonano tutti nella stessa maniera, con lo stesso ritmo, le stesse melodie, addirittura le medesime parole? Questi durano un mese e il prossimo non esistono più. Ma inizia ad ascoltare i miti della musica: non dico Bruce Springsteen, Pink Floyd, Bob Dylan, ma almeno quelli della mia generazione: Clash, Nirvana, CCCP! Suvvia, non esistono paragoni con quella roba che ascolti tu.” Ecco i miti. Vedete, questi sono i vostri miti. Mi citate gente che ha più di settant’anni, che voi seguite da quando ne avevate 20. E io vi capisco. Sono per voi i miti della vostra giovinezza e della vostra età adulta. Non li avete mai mollati. Parlano di voi. E voi parlate di loro. Ma sono i vostri. Io non ve li contesto, hanno accompagnato le vostre vite, le hanno plasmate, sono la memoria di voi stessi che prosegue nel tempo. Sono miti nel campo della musica probabilmente irraggiungibili. Ma capite che è proprio questo il punto. Voi avevate e avete bisogno di miti. Vi servono per spiegare a voi stessi l’origine, la vostra stessa genesi. Il mito in senso generale è parte costitutiva della nostra essenza umana. Ma vi ripeto qui risiede una parte della nostra inconciliabilità. Arriveremo anche noi ad ascoltare i vostri cantanti e non è escluso che ci piaceranno, ma non saranno mai i nostri miti, rimarranno i vostri. Oggi, la medesima parola ha perso la potenza con cui voi lo evocate, sono diventati oggetto di consumo e non più i dei dell’Olimpo. Voi adulti avete sostituito i classici miti come Platone, Hegel, Dostoevskij, Molière, Sartre, Marx, Calvino, Beckett e molti altri ancora, con i cantanti della vostra generazione che hanno riempito le vostre vite, l’amore, l’amicizia, le notti folli che avrete sicuramente fatto. Oggi, se ci sentite parlare di miti, noi lo facciamo con una certa leggerezza, non vorrei dirvi addirittura ironia. Ma sappiamo bene che il gruppo che ascoltiamo oggi vale solo per quest’oggi. Lo ascoltiamo centinaia di volte, poi lo molliamo e passiamo ad altro.

Noi cerchiamo altri ragazzi che come noi si sono persi dietro una frase che condividiamo con le cuffiette. Non sono miti? Va bene. Non hanno le caratteristiche dei vostri, ma siamo in un altro tempo. Voi ascoltavate i gruppi o i cantanti come tifosi, odiando chi si appassionava per altra musica. Noi siamo una generazione liquida, lo posso dire a ripetizione tanto non capite. La musica è importante anche per noi, ti fa sconvolgere lo stomaco, arriva dritta all’anima. Li chiamiamo anche noi “miti” ma con molta meno enfasi di voi. Però usiamo lo stesso termine, perché al suo interno sopravvive il mistero, qualcosa impossibile da afferrare per intero. In questo segreto vive la speranza di un mito più grande, di qualcuno che riconosca per intero le nostre sensazioni nel momento stesso che le proviamo. A dire il vero, possiamo considerare un “mito” un nostro compagno di classe oggi, e descriverlo e persino denigrarlo come uno stupido domani. I nostri aggettivi sono liquidi. E la parola mito ha perso la sua forza propulsiva, il suo significato etimologico, ossia una narrazione epica o addirittura sacrale. Noi siamo figli dell’epoca del tweet. In tre righe, più minimalisti dello scrittore Raymond Carver, indichiamo ciò che pensiamo sul mondo. Oggi i miti si sono volgarizzati ma, attenzione, non pensiate che i vostri erano sacri. I nostri sono diventati estemporanei ma non hanno perso quell’alone di mistero che avevano i vostri. Ma voi avete sempre avuto disperatamente bisogno di miti e di eroi. Siete una generazione che ha tentato di decontestualizzare il mito per poi portarlo su un palco con 70mila persone. Ecco, non ridicolizzate i nostri perché ci fareste subire la medesima sensazione che la generazione precedente alla vostra ha fatto con voi. Sarebbe una ritorsione, una meschinità. Una sorta di mito per vendetta. Coccolateveli, teneteli buoni con voi. Se volete siamo disposti anche ad ascoltarli ma non riusciremo ad avere i vostri occhi luccicanti, a capire i vostri discorsi iperbolici. Noi non pretendiamo da voi lo stesso trattamento. Sappiamo quanto siano transitori i nostri riferimenti.

Quello che non capite è che non siamo alla ricerca del mito, non ci sentiamo menomati per questo. Andiamo ai concerti, ci divertiamo, ascoltiamo le stesse tre canzoni per tre settimane e poi cambiamo. Fatto e disfatto il mito. Vedete c’è una leggerezza che portiamo in dote che voi non potete capire. Eppure, siamo in un periodo complesso, quello dell’adolescenza, ma non potete guardarci come vi osservavate voi allo specchio. Ci guardate ma continuate a guardare voi stessi. Siete solo dei narcisisti. Ecco perché non possiamo capirci. E guardate che il bene e l’affetto non c’entrano nulla. Non sentitevi colpevoli e non generate in noi sensi di colpa che tra l’altro facciamo fatica anche a percepire. Vi dovete solo arrendere al fatto che questa generazione con cui avete a che fare, perché ci avete tra i piedi, sarà lo spartiacque. Voi i luddisti a difendere i vecchi telai, noi i promotori delle nuove trasformazioni. Noi con lo smartphone, e voi… con lo smartphone che userete sempre più maldestramente.

 

“Sì”#3 Lettura a più voci

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[Sì (seguito da Altri segni, Tertium quid, Ultimo esempio) è un libro di Alessandro Broggi, uscito per Tic edizioni, nel giugno del 2024. Come Noi, uscito per lo stesso editore nel 2021, si presenta come un libro in prosa, abbastanza breve, difficilmente classificabile. Ho chiesto ad amici e amiche autrici, di scrivere qualcosa su questo oggetto letterario non ben identificato, senza per forza la pretesa di prenderne tutte le giuste distanze critiche. Di un libro del genere, mi sembra importante già darne conto attraverso una pluralità di “esperienze” di lettura. Abbiamo cominciato con le voci di Andrea Accardi e Leonardo Canella, di Renata Morresi poi, e chiudiamo questa settimana con Laura Di Corcia. a. i.]

di Laura Di Corcia

È un libro, in fondo, sul desiderio; un libro che pare costituito da risposte, più che da domande. Un libro di esercizi di centratura. Ma anche un libro che mira a un’ecologia della mente e della scrittura di Alessandro Broggi (Tic edizioni, Roma 2024).

Sin dal titolo l’autore dichiara la sua intenzione di riconvertire, per mezzo di uno sguardo diverso, uno sguardo incentrato sul presente, il polo negativo – il dolore, che nasce dalla mancata accettazione del flusso della vita – in polo positivo; un’affermazione che fende strati e strati di preconcetti, su noi stessi e sulle leggi che governano la nostra esperienza nel mondo, per creare occhi nuovi, per rinascere al mondo. Sì, questo libro vuole porre le basi per una rinascita scandita attraverso esercizi di rieducazione al fine di disarcionare l’io e le sue pretese – i concetti di identità, la biografia fittizia che ci siamo costruiti come caparbia protezione verso il cambiamento continuo e verso la molteplicità, le unità cristallizzate e false, la storia come ricostruzione ideologica – per aprirci giorno per giorno, attimo per attimo all’esistenza come essa è, o appare, senza filtro alcuno (impresa che però, lo ammetto, personalmente trovo in egual modo illusoria, almeno parzialmente).

“Sei in uno stato di illusione se ti attendi che domani sia esattamente come l’hai immaginato, o che accada ciò che hai stabilito, lo sconosciuto è l’unica realtà, lo stare nel non sapere, uno degli spazi più scomodi per il personaggio: l’esistenza è inafferrabile, è il mistero rispetto al quale sei nel non sapere costitutivamente”.

Poi ci sono gli altri. E sono tanti, e abitano la sezione “Attività”, e sono gli altri incastrati in spazi di mondo in cui hanno deciso di abitare o chiudersi. Gli altri che si definiscono soprattutto attraverso il lavoro che hanno scelto, o che è stato scelto per loro. Gli altri che si danno ad imprese più o meno grandi, spesso e volentieri mediocri. Giancarlo Majorino parlava di “vitette”, riferendosi specialmente alla classe media che disporrebbe dei mezzi per cambiare e invece accetta supinamente e vigliaccamente il sistema. E, relativamente a questa parte del libro, che peraltro è quella più vicina ad Avventure minime, mi sembra di poter intravvedere una comunanza con il poeta milanese, ma forse Broggi aggiunge un tassello, perché gli altri che dipinge nella sezione centrale del libro sono meno vividi, rispetto a quelli che abitano le Torme di tutto di Majorino, e guardandoli riflessi mi sembra che le loro sagome combacino con la fumosa consistenza dei fantasmi. Vite con direzioni precise, il nulla al centro. Il vuoto.

Ma allora l’esistenza cos’è?  Contraddicendo in parte la prima impressione, questa domanda viene continuamente ritrattata e contrattata nello spazio di . Leggendo la parte finale del libro, si potrebbe cadere nella definizione (banale, già sentita) che solo nell’incontro con l’altro si possano  definire un senso e una direzione. Ma questo non è un libro così facilmente afferrabile. È un libro in cui l’autore, che a tratti può parere perentorio nell’affermare un senso altro che si contrappone a quello comune, si perde. E ci fa perdere. Quando pensiamo di aver arpionato qualcosa, lo abbiamo in realtà smarrito nei mille rivoli della vita.

E quindi è un libro sul farsi dell’esperienza. È un testo che si tuffa nel rapporto magmatico, mai risolto, invischiante, dell’esperienza del mondo e della coscienza che non può suo malgrado smettere di ragionare su questa relazione, sulle discrepanze fra vita e riflessione sulla stessa, sulle illusioni che intercettiamo e nelle quali inevitabilmente ricadiamo. Non c’è chiave di volta, non c’è soluzione, non ci sono più soluzioni. Ci sono risposte provvisorie, traballanti, che si perdono nel mare. Il mare, spesso presente. Lo sguardo che indaga, ragiona, si frange sulla battigia, si ritira. Come un’onda. Come tante onde.

“Perché l’esperienza che hanno del mondo è il mondo di cui hanno esperienza”.

Non premiatemi, sono un poeta

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Foto di Markus Spiske da Pixabay

di Max Mauro

Sono un poeta. Negli ultimi dodici anni ho partecipato a 128 concorsi letterari.

Tengo il conto di tutti perché sono un tipo preciso. In camera, in una cartellina dentro il cassetto dei documenti, conservo le ricevute delle raccomandate di ogni singola spedizione, ché quando si spediscono cose di valore come le poesie è indispensabile la lettera raccomandata. 128 concorsi non sono noccioline.

Mica sono come Onelio che va in giro a dire di essere un pittore solo perché ha le pareti della casa piene di fogli A4 spalmati di colore. Ce ne sono perfino in bagno, così se uno va a fare i bisogni non può fare a meno di notare tanto impegno artistico e chiedersi se si trova veramente nella casa di un pittore o nel bagno di una galleria d’arte. Solo che Onelio è quasi orbo: ha gli occhiali spessi come copertoni di motocoltivatore. Il suo problema principale è tuttavia che ha un braccio solo, l’altro lo ha perso mentre viaggiava in moto con suo fratello. Stavano superando una coda di automobili in autostrada, lui era seduto dietro, a un certo punto un tipo che era in colonna ha aperto la portiera del fuoristrada. Suo fratello se ne é accorto all’ultimo momento ma è riuscito a piegarsi di lato, mentre Onelio, che era già orbo come oggi, ci ha messo troppo a capire da dove veniva il pericolo e si è trovato con un braccio mezzo tranciato. Ha avuto fortuna, poteva perdere la testa, poteva. Ma il fatto è che Onelio è mancino e il braccio che gli è rimasto è il destro. Come può dire di essere un pittore in quelle condizioni? E io, non sarei un poeta solo perché non ho mai pubblicato un verso? Mi volete prendere in giro?!! Ho partecipato a 128 concorsi, ho tutte le ricevute e non mi hanno mai rifiutato, mai, nemmeno una volta hanno rispedito indietro le mie poesie. Me ne sarei accorto perché conservo tutte le lettere e le cartoline che ricevo, anche quelle della pubblicità.

L’ho detto ad Amilcare, l’assistente sociale che fa visita a mia zia Linda tre volte a settimana. Amilcare ha l’hobby dell’editoria. Cura il bollettino della Pro Loco e aiuta in biblioteca l’ex segretario comunale che fa il bibliotecario part-time. Controlla che i libri siano in ordine e telefona a quelli che ritardano nelle consegne. Se ritardano più di una settimana sale sul motorino e va direttamente a casa loro a riprendersi il libro.

L’altro giorno l’ho incontrato a casa della zia e gli ho chiesto quando si decide ad aprire una rubrica di poesia sul bollettino della Pro Loco. E’ da un po’ che glielo chiedo. Non sono mica scemo, la poesia va di moda, gli ho spiegato. Ma lui mi ha risposto che il bollettino è una cosa seria, ci stanno i conti della Pro Loco, i resoconti della festa del mattone (che si fa in settembre) e di quella del coniglio alla cacciatora (che si tiene in primavera, ai primi di maggio), e poi l’articolo del parroco e quello del presidente dell’associazione carabinieri in congedo. C’è poco spazio per altre cose, mi ha detto. E poi chi dovrebbe pubblicare poesie? Tu? Saresti un poeta, tu?, ha eruttato dalla sua crassa bocca pelosa.

E’ uno sbruffone, ecco quello che è. A quella frase non ci ho più visto dal nervoso. Prima gli ho detto dei 128 concorsi e tutta la storia che vi ho raccontato prima, chiamando in causa Onelio e qualche altro amico mio che non vi sto a dire ma che la racconta lunga come le budella del toro, ma lui sorrideva e faceva come se gli stessi raccontando delle balle. Io che racconto balle! Uno deve proprio odiarmi per pensare una cosa simile. Allora ho preso il forchettone per la griglia che stava nel lavello e gliel’ho piantato nella mano, così, come si vede fare nei film western. E che cavolo! Mica mi faccio prendere in giro così dal primo babbuino che cura il bollettino della Pro Loco. Cosa ne sa lui di poesia, poi. Il forchettone era mezzo storto e gli ho giusto graffiato due dita, ma ha preso paura ed è scappato via urlando che sono pazzo che me la fa pagare che devo venire rinchiuso. E’ solo uno sbruffone fifone, ecco quello che è.

Nelle mie poesie parlo della vita.

Intendiamoci, gente come Amilcare non è vita. Quelli come lui sono le casualità malate della natura a crearli. E’ gente cattiva, che con i principi della vita non c’entra. Nemmeno quelli come Onelio hanno a che fare con la vita che io rappresento nelle mie poesie. Io parlo del giorno annunciato dalle sirene stonate delle fabbriche, delle mutande bianche alte stese ad asciugare dalla sorella del prete, dello stracchino che come il cuore di una gallina si sfa nella mia mano ma solo quando è fresco fresco. Questa è la vita, non le cattiverie inutili di gentaglia come Amilcare.

E’ lui che ha detto ai vigili di venire a cercarmi.

Voleva mettermi paura, ma io sono più intelligente di quello che crede. Quando sono arrivati, prima che suonassero il campanello li ho visti dalla finestra. Mi sono messo la felpa da ragazzino e le braghe corte e sono andato ad aprire la porta. Avevo indosso anche il berretto col frontino con la scritta “I love hamburgers”. Gli ho aperto e ho incrociato i loro sguardi spiazzati. Hanno pensato che fossi un adulto mai cresciuto, come potevo fare male a qualcuno? Hanno chiesto se c’era la mamma, gli ho detto che era uscita. Hanno chiesto se c’era mio fratello, perché pensavano che quello pazzo fosse mio fratello. Non c’è neanche lui, gli ho detto. Se ne sono andati mogi mogi, forse pensando che il pazzo fosse Amilcare.

Ecco, i due vigili nelle mie poesie ci stanno. Sono due figure epiche, due guardiani del tempio inviati in missione nella casa del vate. E io li faccio diventare degli eroi. La poesia che ho scritto quel giorno si intitola “Due come Due” ed è dedicata a loro:

Due come Due sono le pigne
in mano all’uomo
che irato guarda passare
il passero che va
va per la sua strada
che poi è la stessa
il caso dice
la stessa dell’uomo
dalla cui mano
volano le pigne
inseguono il passero
che va
va per la sua strada
che poi è la stessa
il caso dice
due come due sono i guardiani
che guardano la mano
da cui volano le pigne
due come due sono i calci
che raggiungono il didietro
dell’uomo
che irato guarda passare
il passero che va
Io sono un poeta. E’ la verità.

Qualcuno, non dico chi per rispetto dei defunti, mi ha detto che non sono un poeta vero perché non ho mai vinto un concorso, nemmeno una menzione avrei avuto. Secondo quel tipo, che non cito perché ha ancora qualcuno che lo rimpiange, sarei solo uno scribacchino di parole alla rifusa. Quello è, o meglio era, un individuo malato. Come può (poteva) dire una cosa simile? Il tempo ha deciso il giusto e una cosa così non la dice più, ora. Che forse da quanto era cattivo quello lì nemmeno Caronte lo ha voluto sulla sua barca. Con un calcio nel sedere lo ha mandato a fare il bagno nelle acque putride dello Stige. Gli sta bene. Ma non so se è andata così. Non ne sono sicuro. E’ una supposizione.

Io non ho mai vinto un concorso per una ragione semplice: nella lettera di presentazione dei poemi pongo sempre una specifica: “Non premiatemi, sono un poeta”.

Non è giusto premiare il poeta. Il poeta deve vivere di dolore e pane indurito. Il poeta non deve vivere di gioie e ricompense altrimenti la sua vena si rinsecchisce e diventa come il fiume che finisce addosso alla diga e si trasforma in un melmoso lago senza vita.

Sono sicuro di aver vinto almeno metà dei concorsi a cui ho partecipato, ma giustamente non mi hanno premiato perché così ho chiesto io. Sono concorsi seri, dove il presidente della giuria fa quello che deve fare il presidente della giuria, apre le buste e le passa a quello alla sua destra e poi sentenzia quello che gli passa scritto su di un foglietto quello alla sua sinistra.

Ho vinto almeno sessanta concorsi, mentre gli altri non mi riguardavano perché erano riservati a saggi o reportage giornalistici. Io ho spedito comunque le mie poesie perché penso che quei giurati dopo un po’ che leggono lunghe pizze seriose abbiano bisogno di dare aria al cervello e la poesia è il miglior ventilatore che c’è.

A me non importa quello che dice la gente. Uno come Amilcare non capirà mai il mio talento perché è in cattiva fede. Io dono le mie poesie a chi le merita. Sono sicuro che i giurati dei concorsi per racconti o saggi hanno apprezzato le mie poesie, hanno capito il mio gesto e si ricorderanno il mio nome. Ecco, il mio nome verrà ricordato dalle persone giuste, non da quelli come Amilcare, Onelio e quello che non posso citare per rispetto della privacy della famiglia nel cui cortile è sepolto all’insaputa del padrone di casa.

Perché nelle sue poesie non parla dell’amore? Così mi ha chiesto una giornalista che mi ha intervistato alla Comunità 29. Ci siamo incontrati lì più che altro per una questione di comodità (io ci passo i pomeriggi) e per non dare nell’occhio.

L’amore è come una pentola di fagioli dimenticata sul fuoco, le ho detto. I fagioli si induriscono e diventano un pastone che per tagliarlo ci vuole la roncola. Così succede ai sentimenti, che dopo un po’ diventano marmorei e ingombranti. Visto che non si può usare la roncola per toglierli di mezzo meglio farne a meno, eliminarli dal principio. E poi l’amore nelle poesie è banale. Così le ho detto. Lei ha chiuso il registro dove trascriveva le mie risposte e mi ha ringraziato. Gente come me ce n’è poca in giro, ha commentato andandosene.

Ora ho smesso di partecipare ai concorsi letterari.

Dopo 128 partecipazioni e almeno sessanta vittorie, sono soddisfatto. Andando avanti su quella strada rischiavo di esaurire la mia vena poetica. Ché è pur vero che non ho alcuna medaglia in casa, ma la consapevolezza di aver comunque vinto tutti quei premi rischia di darmi alla testa. Ho deciso che devo indirizzare la mia arte verso altre persone. Dopo aver conquistato le sfere più alte della cultura è giunto il momento di parlare al popolo, all’uomo della strada. Per questo, facendomi violenza, ho insistito con Amilcare per farmi pubblicare le poesie sul bollettino della Pro Loco.

E’ un pubblico selezionato, quello che legge il bollettino e, poeticamente parlando, totalmente analfabeta. Rivolgendomi a loro è come se parlassi con il mulo che carico di fieno scende dalla montagna. E’ un tipo duro, il mulo, apparentemente insensibile ai comandi vocali, risponde solo alle legnate che riceve sul groppone. In verità, anche lui a forza di insistere con le parole recepisce qualcosa. Sono convinto che il pubblico del bollettino della Pro Loco sia il più difficile da conquistare. Mi piacciono le sfide.

Bisogna avere pazienza e tenacia. Io le ho entrambe.

Prima o poi riuscirò a pubblicare le mie poesie sul bollettino della Pro Loco e allora nessuno potrà dirmi che non sono un poeta.