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La cultura sarà salvata dai volontari

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1966 Angeli del fangodi
Francesco Forlani
Due tre riflessioni a caldo (ho la febbre) a proposito di una polemica che ha coinvolto la casa editrice Voland, ben riassunta nell’articolo pubblicato da Bibliocartina.it.: Voland, la crisi e i collaboratori non pagati. Di Sora: “La mia è una lotta per non chiudere”. Ma l’editoria è un cane che si morde la coda.

La Casa Editrice Voland, in questi anni, ha svolto un lavoro importante e di qualità. Fare un lavoro importante e di qualità significa esporsi a dei rischi considerevoli. Pubblicare un autore, a mio parere tra le penne più felici d’oltralpe, come Philippe Djian in un paese che prende come oro colato le parole di Pennac o di Ben Jelloun, per restare in Francia, significa credere nella letteratura. Ricordo di un’intervista fatta alla Nothomb e che è possibile leggere per intero proprio qui su Nazione Indiana in cui la scrittrice belga definiva così Daniela di Sora: “ Una donna erudita, appassionata, umana, in una piccola casa editrice che nonostante le richieste che mi fanno di pubblicare altrove, non cambierò mai . ” Se traducessimo quel “nonostante le richieste”, in denaro contante, ci troveremmo quasi sicuramente con parecchie migliaia di euro sul tavolo delle trattative. Del resto, il rapporto tra denaro e letteratura di qualità è quanto meno complesso. Nella biografia del più illuminato editore francese del novecento, Maurice Nadeau, si racconta di quando, cacciato da un’importante casa editrice, come ex direttore editoriale informa i suoi autori della cosa spiegandogli che non li avrebbe portati con sé, nella nuova casa editrice perché nell’impossibilità di onorare le spese. Al che, uno dei suoi scrittori, tale Leonardo Sciascia aveva replicato: « Bon, je reste avec vous, je vous apporterai l’argent. » che andrebbe tradotto più o meno così: “non sarà lei a farmi guadagnare dei soldi ma io a farli guadagnare a lei”. Potrei, a tal proposito, citare il rapporto che da anni lega lo scrittore Erri de Luca alla piccola e valorosa casa editrice Dante & Descartes di Napoli insieme a tanti altri casi di questo tipo e che coinvolgono altri scrittori e piccole realtà editoriali.

Quanto sto dicendo non mette affatto in dubbio la parola della fondatrice della Voland quando dichiara di avere sempre pagato i propri collaboratori nè tanto meno vuole disconoscere la serietà di tutte quelle case editrici che, con rigore e certosina cura, onorano i propri contratti in un panorama che non dà nulla per scontato e pochi sconti fa, quando si tratta di soldi. Chiunque lavori nel mondo editoriale, soprattutto da esterno, sa infatti che gran parte delle proprie energie sono dedicate al recupero crediti. E non sempre si recuperano i soldi promessi, mentre immancabilmente si sarà sacrificato il proprio tempo arricchito delle varie incazzature e malumori che l’accompagnano insieme alla rovina di rapporti personali oltre che professionali.
La questione è allora la seguente: si devono perdonare i”non paganti” in virtù del loro progetto letterario, della qualità ricercata contro ogni legge del mercato? E fino a che punto? Se il mercato editoriale ha orrore della poesia, per esempio, è per questa ragione che non dovrebbero esistere più libri di poesia? O continuare a farli senza pagare nessuno, in primis, i poeti? O senza farsi aiutare da qualcuno, che sia l’autore o lo sparuto gruppo di lettori pronti a sottoscrivere la magnifica impresa?

A volte mi chiedo come amante della letteratura e discreto traduttore dal francese, se da parte di un editore fossi messo un giorno davanti alla scelta tra pubblicare un autore, a rischio commerciale, tipo il Régis Jauffret delle Microfictions, a patto di tradurlo gratis o lasciar perdere tutto, quale delle due cose sceglierei di fare. Tradurre credo sia tra i mestieri dell’editoria la cosa più faticosa, direi la più fisica, e per tradurre bene ci vuole talento e tempo. Conosco un traduttore dal tedesco, considerato tra i migliori in Italia, che a un certo punto ha smesso perché al “tempo” che dedicava non corrispondeva un minimo di guadagno corrispondente per vivere. Probabilmente accetterei e questa cosa farebbe incazzare e a ragione i traduttori di professione. Però dovendo scegliere tra la buona pace di questi ultimi e la guerra letteraria in cui siamo tutti più o meno coinvolti, voterei la mia causa all’esistenza di un libro per me “necessario”.

Necessità e utilità non sono mai state buone compagne di viaggio, questo si sa e faccio parte di quei conservatori che ancora ritengono impossibile l’inquadramento del “fatto culturale” in una filosofia utilitarista e di mercato. Ecco perché il lavoro culturale e dunque anche editoriale, è, diciamolo pure, il più delle volte ma una volta e per tutte, aggratis.

Se ci fosse un censimento di tutte le attività, dai festival ai cicli di presentazione nelle librerie, dai reading spontanei alle attività che coinvolgono le scuole, dai programmi radiofonici allo scouting, per non parlare della rete, dei blog e delle riviste letterarie, ci accorgeremmo che almeno l’ottanta per cento del lavoro che si fa è volontario. Per restare ai blog letterari, Nazione Indiana vive di volontariato, Carmilla, Lipperatura, Alfabeta2, Georgiamada, La dimora del tempo sospeso, Vibrisse, la Poesia e lo Spirito, solo per citarne alcuni di quelli storici, propongono da anni dibattiti, opere, creazioni grazie al lavoro costante e non remunerato dei suoi collaboratori. Certo, c’è sempre la possibilità di contare sugli effetti collaterali di quella incerta macchina dell’industria culturale e trovarsi a guadagnare di più per una conferenza o per un premio letterario assegnato a un proprio libro che non per la scrittura dello stesso, per l’attività in sé. Celebre la riflessione del grande poeta inglese Wystan Hugh Auden, a proposito: It is a sad fact about our culture that a poet can earn much more money writing or talking about his art than he can by practicing it.

L’editoria al pari della cultura è guerra, e sia che ci si lavori come autori che come correttori di bozze, librai o uffici stampa, critici o giornalisti culturali, la sensazione che ho è che ci saranno sempre più volontari a recarsi al fronte; volontari altamente professionali. E i soldi? Li troveremo, come al solito, altrove.

Poesie da Traviso

5

di Alberto Cellotto

2.
Segue, la sodaglia dell’inverno
il ghiaccio rotto nelle pozze
e l’aria sa con l’ora dei posti dove
mai sono stato, quegli
unici dove ho
davvero sostato,
eterno.

La vuota scuola

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teacherSkeleton

di Eleonora Tamburrini

La tentazione crescente è quella di gingillarci così, limitandoci a descrivere episodi tragicomici, scandalizzandoci tra addetti ai lavori, contentandoci del mezzo gaudio. Per esempio.

1) Qualche tempo fa mi trovavo al telefono con un sindacalista. Mi spiegava con tutta l’assertività del caso che no, non sapeva davvero rispondere alla mia domanda sui “contratti fino ad avente diritto” nella scuola pubblica, ma sì, reputava assolutamente necessario che io mi iscrivessi a un nuovo corso abilitante.

Io sono già abilitata all’insegnamento.

Ma con quella nuova SSIS?

Si chiama TFA. Sono una di quelli che la riforma vuole esclud…

Ma no, ma no! Io parlo dell’abilitazione al sostegno!

Il sostegno? Veramente non so se…

Ma come pensa di lavorare, se non attraverso il sostegno?

2) Transitando con furtiva riluttanza in alcune scuole paritarie, mi si è ripresentata con molta costanza e poche variabili la scena seguente. Insegnanti – o forse genitori? ma non saranno studenti? – pencolanti nell’atrio. La kenzia sfinita al sole. La presidenza. Atmosfera spigliata e in secondo piano busto policromo di Ugo Foscolo e insolito gagliardetto.

Si sieda pure signorina. La chiamo signorina, visto che è così giovane. Anzi ti do del tu, ti spiace? Abbiamo scelto il tuo curriculum perché sei abilitata. Con il TFA, o come si chiama. È che ci impongono di avere un tot di docenti abilitati nell’organico. Il punteggio è lo stesso che nella pubblica, sì – tanto venite qui per i punti, lo sappiamo. Il contratto è a progetto. Legale, certo. La paga è la metà. Sai, qui di soldi non ne abbiamo… cosa vuoi, non è mica la scuola pubblica. Ci viene gente coi problemi veri qua, gente che gli ci vuole il sostegno viene qua. Che nella pubblica non li seguono mica. Ma ora dimmi di te, dimmi. Cosa pensi di fare?

Passate parola: Simon Lane

2

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Le Parole alle Cose

di

Francesco Forlani

«Mi piacciono i libri di Eva, le edizioni illustrate di grandi re e strane usanze. A volte madame Gregory invita Eva a casa sua e in queste occasioni, se madame è impegnata e io ho finito di lavorare e ho sistemato tutto, mi siedo con Eva e sfoglio i libri con lei. Siamo stati in molti posti insieme, sulla Grande muraglia cinese, sulle Ande e sul Machu Picchu, nelle steppe russe, in Australia e oltreoceano, a Tahiti. Una volta ho detto a Eva che le Filippine sono fatte di oltre settemila isole. Non mi credeva, naturalmente, dice sempre Nooo! quando le racconto qualcosa, non è che non sia d’accordo, è solo il suo modo di mostrare stupore davanti a cose che non ha mai sentito prima. Suppongo che sia come me sotto questo aspetto, perché anch’io sento che il mondo è un luogo di dimensioni e ricchezza impossibili, così grande e splendido che nessuna quantità di libri potrà mai descriverlo». ( da Passaparola di Simon Lane )

Non è vero che la vita sia un ostacolo alla letteratura. Mentono quelli che dicono che uno scrittore, per essere tale, debba soltanto scriverle, le storie, e andare in giro per librerie a presentarle con una premiata corte dei miracoli al seguito. Vi prendono per il culo, sfrontatamente, quando sostengono, tra la citazione di un formalista russo e le accorate dichiarazioni di un autore acclamato dalla critica, che l’aneddoto uccida la frase, l’esperienza zittisca l’immaginazione; vi raccontano balle quando affermano che vivere le cose significhi annullare di colpo le distanze, e dunque non poterle osservare, né tantomeno descriverle come si deve in modo da poterci vivere, di scrittura.

Mentono, spudoratamente, ma soprattutto non conoscono nulla della letteratura come arte della macelleria, del fatto che uno stile incida solo quando ci vada di mezzo la vita. Non è vero. Mentono o semplicemente non vivono.

Quando le parole stanno alle cose come una seconda pelle, quando vibrano, sentono cattivo, sanno di alcol, vestono le esperienze seppure per pochi attimi è solo per riempire il vuoto che la vita ti lascia ogni volta che se ne va; scrivere è dare un senso a quelle assenze, alla ripetizione generale che non prove richiede a chi si avventuri fin lì ma solo un’autentica consapevolezza del mistero che è dietro ad ogni cosa, dentro ogni parola. Passaparola, Word of mouth, Boca a Boca, è un processo di ricognizione nello spazio e nel tempo di questo unico e insormontabile mistero; è la confessione di un ferito a morte dai terribili ingranaggi di un’epoca talmente assorta nella sua nuova identità festiva, da non intendere il lavoro di filatura che il protagonista cartografo cerca di tessere tra le strade di St. Germain, nel cuore della capitale; è una tecnica di respirazione e di sopravvivenza; è la deriva di un bidone della spazzatura che si trascina con un corpo senza vita attraverso la falsa vita di chi sembra totalmente incapace di cogliere il desiderio di verità di un clandestino, portavoce e capro espiatorio, nel frastuono dei rave metropolitani.

Simon Lane traccia in questo romanzo, con l’eleganza dei Flâneurs, il viaggio da Odissea tutta moderna di chi vuole a tutti i costi restituire un senso alla morte, come soltanto può chi della propria vita decide di farne un’opera. Ecco perché non riesco a parlare di un libro di Simon Lane senza avere la sensazione di toccare la pelle insieme alla carta, di sentire la sua voce nasale, osservare la mimica memorabile delle sue espressioni in quelle dei suoi personaggi e prendere in mano la parola “bicchiere” mentre lo ascolto. Uno dei suoi primi libri, Le veilleur, la sentinella, fu pubblicato da una delle migliori case editrici francesi, Christian Bourgois. L’editore di Jorge Louis Borges e Gabriel García Márquez, Antonio Tabucchi e Roberto Bolaño. Il traduttore Brice Matthieussent, lo stesso di John Fante, Paul Bowles and Charles Bukowski. Simon Lane avrebbe retto la sfida all’ultimo bicchiere con gli americani ma a differenza di loro era un Gentleman.

«Capisce, il mio viaggio era giunto alla fine, un viaggio tra tanti, perché tutte le nostre vite sono fatte di viaggi di un tipo o di un altro, che siano viaggi veri o immaginari, la vita è un viaggio, l’amore è un viaggio, il nostro destino è un viaggio, e questo è ciò che tutti finiamo per accettare, anche se è difficile accettare l’idea di un viaggio che comprenda un bidone con un cadavere dentro. Ebbene, il viaggio di monsieur Charles era giunto al termine e adesso stava per intraprenderne uno nuovo, l’avrei spinto delicatamente nella Senna e gli avrei lanciato un fiore, se fossi riuscito a trovarne uno, cioè, perché ricordavo benissimo di aver visto dei fiori nel libro di Eva, e almeno un fiore che galleggiava sul Gange».

ps

Questa nota è stata pubblicata come prefazione al romanzo di Simon Lane, Passaparola, A murder mystery ( Traduzione di Cristina Ingiardi) Edizioni 8libri. Ringrazio l’editrice Eva Clesis e la sua traduttrice per aver compiuto questo piccolo miracolo. A lei e a voi dedico questa pagina di Paso Doble con uno degli esercizi di stile di un autore che di stile ne aveva.  effeffe

-1

 

5 note per Hilde

1
Natura morta di mele a Merano, 2009 - Sabrina Ragucci
Natura morta di mele a Merano, 2009 – Sabrina Ragucci

di: Tommaso Ottonieri

 

1. NEL TUONO DELLA H: UNA SAGA DEL RESPIRO

Salutata, a ragione, dal primissimo apparire, come opera destinata a segnare un cardine imprescindibile, e punto di non ritorno, nella narrativa italiana di questo già avanzato inizio di millennio, poi di recente bacchettata, piuttosto risibilmente, per via di qualche virgola giudicata scoscesa più di quanto accettabile da editors privi di estro, La gemella H si presenta e dichiara (fin nella noterella editoriale in quarta) in veste di saga familiare. La saga – va subito detto – riguarda, centralmente, il nazismo; ossia – ancor più della sua espressione realizzata, – la persistenza della sua ombra, cioè, di esso, il lascito invisibile: il modo in cui è penetrato nelle coscienze d’Occidente, divenendone la filigrana rimossa eppure sempre incombente, attiva, pronta a riemergere quasi er via di atti mancati nella meschina economia della vita quotidiana. Il pensiero va, naturalmente, a quel vero e proprio capovolgimento inverante, che è The Man in the High Castle, di Philip K.Dick, ambientato (lo sappiamo) in un Nordamerica nel tempo in cui L’Asse ha vinto la Guerra; ma l’effetto è ancor più straniatamente “vero”, se l’agnizione si centra sulla terra dei limoni in fiore, quella “gemellare” dell’Asse, maestra di nazionalpopulismo prima che, poi, satellite ed elettiva allieva, d’una nazi-ideologia dissimulata e definitivamente diffusa (tradotta in impero totalitario della comunicazione e della pubblicità): tantopiù se eletta dalla mentalità germanica come mito di classicità sovratemporale, e meta elettiva di Grand Tour (tappa d’ogni individuo romanzo-di-formazione) prima ancora che di turismo di massa; compiendosi nel tempo orizzontale e sospeso della megalopoli vacanziera dell’Adriatico di Romagna, che la saga, discesa dal Mitteleuropa, giunge così a inverarsi nella nostra stessa genealogia.

DONNE (1/2) (elenchi # 1)

6

di Giacomo Sartori

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donne alte e altere

donne alte e altruiste

donne basse e bonarie

altezze altezzose

bassette altolocate inclini alle bassezze

bassette alterate

mediatrici con alti e bassi

Pastorali / Pastorelles

2

John Taggart

(trad. Cristina Babino)

Pastorale 3

 

Spareranno al tuo cane
cervo che corre
si diranno membri devoti dell’instaurata chiesa del cervo
devoti
e autorizzati
gireranno con l’auto intorno a casa tua tutto intorno
la loro devozione non limitata a un solo momento del giorno
giorno o stagione
gireranno lentamente intorno a casa tua
di notte
luce dai loro fari
sbirciando lentamente intorno a boschi e campi e intorno a casa tua
e spareranno al tuo cane
tornato in qualche modo
piazzato di fronte alla porta di casa tua
occhi vitrei sopra la saliva sul muso
piazzato tremante scioccato incapace di muoversi oltre.

 

 

 

Pastorale 7

 

Fango lungo il margine del ruscello

ruscello o piccolo fiume
e in secca durante l’estate

acqua bassa e margine aumentato di fango odore di marcio
col caldo
molte rocce esposte viscide al tatto

il problema non è trovare un sasso ce ne sono
tanti

il problema non è diventare
un sasso

il problema è un problema di quanto
lontano quanto lontano posso lanciarmi e quanto lontano posso
lanciarmi ancora.

 

 

 

Pastorale 10

 

Grandi balle di fieno rotonde a caso
sul campo
che pare rasato pare liscio come una tavola

alberi nei boschi
attorno al campo il cielo sopra sembrano più grandi più assoluti
il campo un campo assoluto una forma chiusa da un bordo arcuato di alberi

per le grandi balle di fieno rotonde

come Stonehenge/autoreggenti/strane

quando le balle ora se ne vanno nei loro vagoni rossi e sgangherati

tutto =
il familiare = l’invisibile
per cui si piange se si piange per pura gratitudine.

 

 

 

Pastorale 13

 

“Così è stato”
modo di dire del gergo locale

ciò che si dice alla fine di ciò che si sta dicendo da queste parti

intensifica e chiarisce
ciò che si sta dicendo

ciò che si sta dicendo è “il cavallo è caduto nel pozzo” che è come dire che tutto
quello che poteva andare male è andato male non c’è nient’altro che possa andare
male

“così è stato” alla fine de “il cavallo è caduto nel pozzo”

che dice tutto che
rende intensamente chiaro che non è rimasto nulla
il cavallo un cavallo morto in un pozzo prosciugato.

 

 

 

Cantante rhythm and blues

 

1

 

Morto a gennaio a Memphis
James Carr

cantante rhythm and blues
che non imparò mai a leggere e scrivere
superiore
così superiore a Bartleby che non riuscì a disimparare a leggere e scrivere
tagliare le corde che legano

le parole ci impigliano
le parole in lettere dell’alfabeto le lettere in parole scritte

ritmo = il suono di fondo di tutti i piaceri biologici
blues = sfortuna e guai
cantare è essere slegati.

 

2

 

Linguaggio prima della scrittura
prima della lettura
prima dell’alfabeto
acustico
fiume
un fiume di suono
fiume
un fiume di azione
fascino e più del fascino
conferito dal suono
azione
per la sopravvivenza
cosa fare
come
fare
cosa fare.

 

3

 

Linguaggio dopo la scrittura
dopo la lettura
dopo l’alfabeto
visuale
segni non meraviglie
silenziosi in
versi silenziosi
segni silenziosi in versi silenziosi
per un ragionamento
un fiume zittito e
raddrizzato
sillogismo
un verso
tutti gli uomini sono mortali
James Carr è un uomo
un altro.

 

4

 

Buio

intrecciati e intrappolati alla fine buia della strada
un tu e un me
un noi come Pierre e Isabel
lettori
lettori e scrittori e amanti

trovati si troveranno intrappolati nelle lettere nelle parole scritte ne
l’invenzione del romanzo

canzone del cantante rhythm and blues
che non poteva leggere o scrivere né poteva sopravvivere
alla mortalità
importargliene di meno.

 

 

 

Lavoro*

 

E puoi arrivare a questo
se ci provi

questo = la sezione ritmica della Hi Records
il loro lavoro con il pushbeat che avanza in powerglide ma insieme
pushbeat e
backbeat rimangono insieme
il dolce stile nuovo del loro lavoro con il beat

provi = nella legnaia negli anni giovani della tua vita

questo = il loro lavoro

tu = chi ci arriva chi
può
purificarsi con questo rilassarsi con questo
trattenendosi restando un po’ indietro con grazia di attore Nō/Astaire.

 

Puoi arrivare a questo può impazzire
se ci provi

questo = il tuo lavoro col beat impazzito e
più che impazzito
il tuo lavoro una sega
sega che taglia trasversalmente che taglia attraverso/contro la venatura del beat
scuote il corpo/lo scuote completamente

provi = in effetti oltre gli anni giovani

questo = il tuo lavoro

tu = chi usa una sega non così gentile non così dolce non così elegante
attraverso/contro il beat
per avere un nuovo padre e per essere un nuovo padre chi uccide il padre
e i profeti ancora a venire.

 

 

* Il riferimento e’ a “Nice work if you can get it” di George Gershwin. Il Powerglide è un congegno di trasmissione automatica a due velocità progettato dalla General Motors: l’idea ad esso associata è di un movimento potente ma di esecuzione facile e rilassata. 

 

*

 

 

Pastorelle 3

 

They will shoot your dog
running deer
they will say devoted members of the instated church of deer
devoted
and licensed
they will drive around your house around and around
their devotion not limited to a single time of day
day or season
they will drive slowly around your house
at night
light from their spotlights
slowly peeking around about woods and fields and around your house
and they will shoot your dog
somehow got back
standing at the door of your house
eyes glazed over slobber on the muzzle
standing shaking in shock unable to move further.

 

 

Pastorelle 7

 

Mud along the edge of the creek

creek or small river
and low during the summer

low water and increased edge of mud rank smell
in the heat
many rocks exposed slick to touch

the problem is not finding a rock there are
many

the problem is not turning
into a rock

the problem is a problem of how
far how far can I throw myself and how far can I
throw myself again.

 

 

Pastorelle 10

 

Large round bales at random
on the field
which looks shaven looks pool-table smooth

trees in the woods
around the field the sky above seem bigger more absolute
the field an absolute field a form framed by an arching border of trees

because of the large round bales

Stonehenge-like/free-standing/strange

when the bales are now departed in their rickety and red wagons

everything =
the familiar = the invisible
for which one weeps if one weeps in sheer gratitude.

 

 

Pastorelle 13

 

“So it did”
turn of phrase of local parlance

what’s said at the end of what’s being said around here

intensifier and clarifier of
what’s being said

what’s being said is “the horse fell in the well” which is saying all
that could go wrong did go wrong there’s nothing left to go
wrong

“so it did” at the end of “the horse fell in the well”

which says it all which
makes it intensely clear there’s nothing left
the horse a dead horse in a well gone dry.

 

 

Rhythm and blues singer

 

1

 

Dead in January in Memphis
James Carr

rhythm and blues singer
who never learned to read or write
superior
so superior to Bartleby who failed to unlearn reading and writing
sever the ties that bind

words entangle us
words in letters of the alphabet the letters in written words

rhythm = the backbeat of all biological pleasures
blues = bad luck and trouble
to sing is to be untied.

 

2

 

Language before writing
before reading
before the alphabet
acoustic
river
a river of sound
river
a river of action
charm and more than charm
conferred by sound
action
for survival
what to do
how to
do
what to do.

 

3

 

Language after writing
after reading
after the alphabet
visual
signs no wonders
silent in
silent lines
silent signs in silent lines
for argument
a river silenced and
straightened
syllogism
one line
all men are mortal
James Carr is a man
another.

 

4

 

Dark

tangled and entangled at the dark end of the street
a you and a me
an us like Pierre and Isabel
readers
readers and writers and lovers

found going to be found entangled in the letters in written words in
the invention of romance

song of the rhythm and blues singer
who couldn’t read or write nor could survive
mortality
could care less.

 

 

 

Work

 

And you can get it
if you try

it = the Hi Records rhythm section
their work with the pushbeat motoring along in powerglide but together
pushbeat and
backbeat staying together
the sweet new style of their work with the beat

try = in the woodshed in the young years of your life

it = their work

you = who gets it who
can be
refined with it relaxed with it
pulling back getting behind a little with Noh actor/Astaire grace.

 

Can get it can get crazified
if you try

it = your work with the beat crazified and
more than crazified
your work a saw
cross-cut saw that cuts across/against the grain of the beat
leaves a body gruesome/real gruesome all over

try = actually out of the young years

it = your work

you = who runs not so nice not so sweet not so stylish saw
across/against the beat
to get a new father and to be a new father who is the law of the saw
and the prophets yet to come.

 

 

*

 

 

[dall’introduzione di Cristina Babino]

 

[…] L’approccio alla scrittura, in particolare quella poetica, è per Taggart in primo luogo una questione di disciplina, un concentrarsi laborioso e graduale sulla forma. Una forma riconducibile a una griglia, da stabilire a priori muovendosi al suo interno con movimenti progressivi, tentando quindi di andare al di là di essa, e finalmente al di fuori di essa. Una griglia che spinge a organizzare il pensiero, a ordinarlo e riordinarlo mettendo fisicamente insieme le parole, che è soprattutto un riferimento visuale («My beginnings tend to be visual, and I hope the ends are not») e che Taggart esemplifica ricorrendo di nuovo al canone visivo delle grandi tele custodite nella Rothko Chapel di Houston: dipinti quadrati e di enormi dimensioni, apparentemente monocromi, simili a entità monolitiche sospese nell’ambiente altrimenti neutro della Cappella, che osservati non restituiscono alcuna idea di “griglia” o schema, eppure la loro assolutezza scaturisce proprio dalla severa struttura sottostante, e dalla fedele disciplina profusa al suo interno. L’effetto finale che emana dalla pagina scritta, per Taggart, dovrebbe essere il medesimo: le sue chiuse possiedono infatti una speciale qualità di risonanza, nel senso letterale di suono – o umore, o atmosfera – che persiste, le sue poesie eccedono l’ultimo verso, l’ultima pagina, e da qui, sorprendentemente, si sollevano. […] A livello formale, Taggart non usa quasi nulla dell’armamentario retorico a disposizione del poeta. Non usa mai punteggiatura interna (se non i punti a fine testo), preferendo invece inserire segni grafici quali /, -, +, =, allo scopo di movimentare il flusso di parole e di conseguire maggiore impatto e immediatezza nella lettura. Raramente usa similitudini o figure retoriche: i soggetti delle sue poesie sono piuttosto metafore essi stessi, rimandano ad altro, a una dimensione spirituale più ampia che dal dato materiale si origina e si eleva. Senza le coordinate offerte dalla punteggiatura, i testi possono apparire spesso inizialmente “confusi” all’occhio, che tende a perdersi tra le linee. È qui che, di nuovo, diventa necessario l’intervento della lettura ad alta voce, fondamentale nello svelare una sintassi al contrario del tutto ordinata, misuratissima, mai accidentale. Ad alta voce si scopre allora che esistono soltanto alcuni modi (non necessariamente uno solo) in cui il testo può essere letto, pronunciato, che esso risponde a una precisa costruzione sonora, la quale sfocia inevitabilmente in un’inedita costruzione di senso. […]
Le Pastorelles traggono la loro ispirazione direttamente dallo stabilirsi nella grande casa di campagna di Newburg, ristrutturata dai Taggart attraverso un continuo e faticoso lavoro di risistemazione e ridisegno della vasta aria verde circostante, con la quale il poeta ha familiarizzato poco a poco, palmo a palmo, attraverso la cura e la conoscenza amorevole delle piante e degli alberi, oltre che dei piccoli animali, che in quel luogo trovano vita e dimora.
Le quindici numbered Pastorelles rappresentano i testi più “nuovi” rispetto alla caratterizzazione stilistica cui Taggart ci aveva abituato in precedenza: testi incisi di una sottile diffusa ironia – che non è mai mancata nella sua scrittura – ma qui dall’approccio almeno all’apparenza più diretto, dall’ispirazione più immediata, rintracciabile proprio negli aspetti più consueti della vita di campagna: le balle di fieno nei campi, gli effetti della siccità e lo scorrere fangoso e sonnolento dei ruscelli, o ancora resti della presenza umana come un’antica scuola, un vecchio registro contabile, l’ombra di una ragazza Amish che pattina. Persistenze che diventano segni, presenze tangibili eppure spirituali, calati in una dimensione minimale e quotidiana in cui gli oggetti vivono la vita dei ricordi a cui sono allacciati, l’ambiente quella segnata dall’evidenza dell’intervento umano. Il paesaggio – lo sfondo rurale della Cumberland Valley – diventa quindi il campo d’azione e articolazione di una ricerca di senso attraverso la parola e la sua sonorità, di un’esplorazione poetica di ciò che esiste e, insistendo, persiste. Non c’è però spazio, nel libro, per alcuna reverie pastorale o rassicurazione bucolica: c’è piuttosto una sensibilità ecologica rinnovata e una continua riflessione sulla condizione umana, animale e vegetale che si riverbera dalla contemplazione laboriosa e mai estatica del paesaggio rurale circostante, in cui l’io poetico è immerso e con cui esso è portato a un costante confrontarsi e riconoscersi. […]

 

John Taggart, Pastorali. Traduzione di Cristina Babino. Vydia, 2014. Premio Achille Marazza Giovani per la traduzione 2014.

Edizione originale: John Taggart, Pastorelles, Flood Editions, 2004.

Info: http://www.vydia.it/pastorali/

 

 

 

Dialoghetto su tre libretti (di poesia)

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°°°°°°° °°°°°°° °°°°°°° °°°°°°° °°°°°°° °°°°°°° °°°°°°° °°°°°°° °°°°°°° [Questo dialoghetto è apparso in due puntate su “l’immaginazione”; lo proponiamo qui con una parte inedita.]

“Questo è l’accendino.”

“E questa è la sigaretta.”

Andrea Inglese vs. Andrea Raos

Parte prima. Andrea Raos

AI. Ricordo che mi passasti un fascicolo di fogli A4 stampati e quel fascicolo era Lettere nere. Ci trovavamo entrambi a Parigi, e allora mi sembrava un libro impregnato di tutto il bello e il brutto della città: la sua energia spesso anarchica e incontrollabile, le notti alcoliche, gli appartamentini da cui traslocavi con una certa frequenza, le pile di libri e CD che divoravi continuo, i personaggi completamente pazzi che sembravano darci appuntamento in ogni festa o bar dove sbarcavamo, le storie d’amore, che a Parigi andavano in pezzi con una teatralità tutta particolare…

Miti Moderni/1: che non sa fare niente

1
Infinito, Luigi Ghirri

di: Francesca Fiorletta

Tu non vuoi fare mai niente, tu, glielo ripete piano, un’altra volta, tu non vuoi mai fare niente, stai sempre ferma e zitta e stai, ti rallenti, sei ferma e zitta, e non vuoi fare mai niente, tu, perché non fai mai niente? sei zitta e mosca, come i delitti popolari, tu che abiti vicino all’ospedale, lo dice la mappa, che non vuoi fare mai niente, di niente, tu che non sai niente di niente, ascolta quello che ti dicono gli altri, tu non sai dire mai di no, glielo ripete un’altra volta, segui le mappe sbagliate, i percorsi ragionevoli, al limite, con tutte queste idee inutili nella testa, ma dove vuoi andare a finire? sai finire, hai finito? di ripetere sempre: tu.

Se me li sono persi: “Coro” di Giuliano Gramigna

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di Eugenio Lucrezi

GIULIANO GRAMIGNA, Coro, Campanotto editore, Udine, 1989

Ha scritto Giuliano Gramigna: «Mi piace più pensare ad una poesia come luogo, aperto a mo’ di ombrello là dove non c’era nulla, che ad una poesia come organismo vivente, come macchina bene temperata. Intanto c’è il vantaggio che ci si può camminare dentro… ». Se rappresentare significa restituire a mezzo della scrittura lo spessore dimensionale della realtà nella sua trionfante pienezza, allora l’argomento di questo libro – terzo di poesia di uno scrittore che è anche importante romanziere e prosatore – è l’impossibilità della rappresentazione.

Xenakis. Nuvole e galassie

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 Breve storia di un poeta in guerra, nell’infinito quotidiano.

di Stefania Gaudiosi

Per dissipare il terrore di queste tenebre dello spirito non c’è dunque bisogno né dei raggi del sole, né dei tratti luminosi del giorno, ma dello studio razionale della natura (Lucrezio, De Rerum Natura II, 59-61).

C’è anche la vita dell’uomo, di un altro uomo, che si manifesta tanto misteriosamente attraverso le cose, per dissipare il terrore di queste tenebre.
Ho incontrato Xenakis nove anni fa, durante i miei studi di architettura.
Non avevo alcuno strumento, né pregiudizio.
Tutto quello che so di lui non sono che frammenti. Come ricordi e come sogni.

Overbooking: Sonia Caporossi

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Atomic Overlook

Le piccole esplosioni di Sonia Caporossi

di

Claudia Boscolo

 

È uscito a maggio per i tipi di Corrimano una raccolta di racconti di Sonia Caporossi intitolata Opus metachronicum. Il titolo di certo non avvicina lettori svogliati, e già in ciò si sostanzia un atto di coraggio da parte di un’autrice il cui interesse da tempo si rivolge alla critica letteraria e alla sperimentazione.

Il libro si apre con la descrizione in soggettiva di una scena macabra in cui il personaggio di Van Gogh, calato nelle sale in cui si svolge una mostra dei suoi dipinti, si acceca per non assistere allo scempio fatto alla sua arte, all’annullamento del significato della sua opera causato dalla sovraesposizione. Da qui inizia un percorso attraverso le vite di personaggi della storia, della letteratura, dell’arte e del mito, di cui si offre una rilettura in chiave critica rispetto all’idea cristallizzata e ufficiale che il lettore ha di loro.

Il titolo, “metacronico” fa riferimento al fatto che i personaggi sono presi di peso dal passato e trasportati, attraverso la loro decontestualizzazione, su un diverso piano di significato. Sono vittime di riscritture aliene e spesso deformanti. Nelle intenzioni dell’autrice, questa operazione consente un rispecchiamento da parte del lettore grazie al monologo e all’io narrante; si si permette al lettore di identificarsi nelle nefandezze o nei gesti estremi compiuti da ognuno di questi personaggi. Ognuno di essi infatti incarna un elemento delle postmoderne atrocità a cui siamo sottoposti. Naturalmente, la sfida di un’opera di questo tipo è incontrare lettori che si lascino trascinare dentro queste riscritture. Definito dalla stessa autrice “neobarocco”, lo stile di Caporossi aspira a rompere le maglie dell’ironia minimalista che per alcuni decenni ha caratterizzato la produzione narrativa italiana. Vena minimalista che a ben vedere si è esaurita da sé a causa degli eventi drammatici che hanno toccato questo Paese in tempi recenti, dalla ascesa e caduta di Berlusconi alla devastazione sistematica delle tutele sul lavoro, a un crisi sistemica che ha intaccato tutto, dal settore edilizio alla ricerca universitaria. Un Paese desertificato ha poco da concedersi dell’ironia minimalista, ed è su questo piano che Caporossi elabora una poetica personalissima strutturata su percezioni e riflessioni – la cui matrice più che letteraria è filosofica – incentrate sul corpo, sul significato del corpo nella storia e nel mito, laddove è il corpo storicizzato che viene fatto rivivere e riconfigurato secondo coordinate attuali. L’obiettivo è trascinare il lettore dal particolare all’universale, scegliendo esempi dal passato che si prestano a metafore.

copertina_sonia

Nel racconto dedicato a Jack Lo Squartatore il criminale è trasferito dalla Londra ottocentesca all’Idroscalo di Ostia la stessa notte in cui fu massacrato Pasolini. Egli incarna quindi la mediocrità dell’uomo comune che odia gli intellettuali, il serial killer per antonomasia la cui missione diventa massacrare la cultura per tramite di chi la rappresenta. Un altro proposito narrativo dell’autrice è vendicare personaggi del passato, o prendersi una rivincita nei loro confronti. L’opera dunque potrebbe anche dirsi ucronica, e non solo metacronica, in quanto non è unicamente in viaggio al di là del tempo, oltre un tempo cronologico, cioè il tempo degli eventi come sono ordinati per convezione e per comodità nella narrazione della storia, ma anche in nessun tempo, con la modalità della storia alternativa, il what if che crea una situazione in cui altri eventi avrebbero potuto avere luogo con conseguenze molto diverse da quelle avvenute nella storia. Siamo quindi nel dominio della allostoria. Allora Prometeo vede gli uomini bruciare in un incendio cosmico, viene letterariamente vendicato per la sua ingiusta espiazione; oppure il marito cornificato di Madame Bovary massacra la moglie e la figlia: trasformato in uno psicopatico, egli si spoglia del suo ruolo marginale di vittima e si ricolloca nella cornice in cui si svolge la storia di Emma, ovvero quell’ambiente patriarcale in cui il signor Bovary deteneva di fatto un potere sulla moglie.

Lungi dal classificarsi come divertissement postmoderno, nonostante gli espliciti rimandi all’aggettivo “postmoderno” presenti nel testo, l’opera di Caporossi è un’operazione di riscrittura dotata di un forte carattere etico. Non si tratta solo di giocare con i protagonisti del passato, di raccontare un diverso punto di vista per sollecitare una riflessione “diversamente impegnata” su aspetti altri di una vicenda altrimenti molto nota. Si tratta invece di operare una profonda modifica nel significato stesso attribuito a ogni personaggio, decontestualizzando e applicando quindi alla sua vicenda uno sguardo alieno e deformante, di modo che essa appaia in tutto il suo carattere disturbante.

“Sei una mia invenzione, Curione. Sei il personaggio di un giorno metacronico, che attraversa barriere di certezza per esplorare l’aspetto artistico di situazioni irrimediabilmente perdute nel passato. Sei il mio personaggio, che ora sta in piedi davanti a Cesare, ritto e tremante, il sesso un po’ gonfio dall’emozione, consapevole di essere il punto di rottura dell’Evento e del Caso, il luogo di sublimazione dell’Atto e della Storia, il vortice di un’energheia che aspira alla catarsi assoluta”, lo apostrofa l’autrice. Curione non è più un personaggio storico immerso e partecipe di vicende a noi notissime per essere apparse nei libri di scuola, ma diventa “il mio personaggio”, ciò che Caporossi fa di lui, o meglio ciò che l’autrice gli restituisce, facendolo emergere dal fondale della storia e donandogli una caratterizzazione a tutto tondo che non ha se non nelle monografie dedicate. Curione diviene il regista dell’evento che dà vita alla nascita dell’Impero romano, la sua figura acquista quindi caratteristiche di responsabilità che vengono di solito attribuite a Cesare: aumentando la figura di Curione l’autrice in realtà diminuisce quella di Cesare che trasforma un semplice attore della catarsi voluta dal suo consigliere. Spostando l’asse della responsabilità in maniera inattesa e sorprendente, Caporossi ribalta vicende note innescando delle piccole esplosioni di significato, come delle micro-agnizioni da cui emergono verità più profonde e più universali di quanto ci si aspetti dalle vite di personaggi ampiamente esplorate e digerite.

Sonia Caporossi, Opus Metachronicum, Palermo, Corrimano, 2014, pp. 112, 10€

 

 

 

 

 

 

 

 

[Film muto]

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di Giorgia Romagnoli

 

*
la proiezione è di breve durata: in bianco e nero, senza audio. non sono presenti personaggi. gli oggetti sono inquadrati più volte, ogni volta modificati. la mancanza di suoni porta gli spettatori a immaginarli. la sensazione non è comune. la sala risulta gremita; i presenti rispondono al silenzio col silenzio e scrutano meravigliati lo schermo illuminato dal vecchio cinematografo.

 

 

*
1) cercare la modificazione in ciò che appare immobile
2) relazionare/relazionarsi
3) non un solo suono

 

 

*

silenzio

subito  scattare

sempre

 

 

*
la proiezione è di breve durata: in bianco e nero, senza audio. sono presenti personaggi. due sordomuti comunicano gesticolando: esterno il movimento intrinseco alle immagini. naturale, come se fosse questa la realtà: “ li ho visti alla stazione, erano gli stessi del film”. (naturati senza voce.)

 

 

*

signore

sì signore

sarà

 sì

 

 

*
4) se si porta un corpo a una velocità superiore a quella della luce, è possibile che esso vada indietro nel tempo?

 

 

*

sono sensi

se sia

  se

  solamente

 

 

*
un uomo trasporta una tela bianca. attraversa la stazione affollata.

 

 

*
seguìto

seguirono

 

 

*
5) la proiezione è di breve durata

 

 

*
sfortunatamente sono

 

sorridente

 

 

*
6) solo se si tratta di un corpo avente massa pari a zero.

 

 

*
prevalere sullo spazio

 

 

*

sono

sempre

stato spazio

 

 

*
7) questo è un esempio di _ _ _ _ _
la foto sarà allegata.

 

 

*
personaggio 4: “ma cosa vi insegnano? impiccato

il vostro _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ ha le mani sporche”

esce

 

 

*

struttura stessa

struttura stata

 

 

*
8) crepe su case- rigature
su mattoni impilati- assestati
a formare pareti
trapassate
da chiodi
cornici- colori
a: perforare pareti/
sorreggere linee
incendiate-
di sera

 

 

 

Una carezza per Mario

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mario  [Nazioneindiana condivide queste parole, che ci ha mandato Pino Tripodi, amico e collega di Mario Benedetti]

Caro Mario,
in questo momento difficile ascolta la nostra carezza scritta con le tue parole.


En finir avec le monde

Pierre Jean Jouve, Matière céleste

Io non ho più niente di me.
Respiro la fatica della stanza a stare
dove gli uomini non sono più.
Io che sono qualcos’altro: distanza dalla vita

(Da: Mario Benedetti, Umana Gloria, Mondadori, 2004)

Monologo dello scapolone (da Aguafuertes porteñas)

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di Roberto ArltRoberto Arlt, Acqueforti di Buenos Aires

Mi guardo il pollice del piede e godo.

Godo perché nessuno mi infastidisce. Come una tartaruga, al mattino, tiro fuori la testa da sotto il guscio di coperte, e muovendo il pollice del piede, compiaciuto, mi dico: “Nessuno mi disturba, vivo solo, tranquillo e grasso come un arciprete ingordo”.

Il mio lettuccio è onesto, una piazza, e ringrazio. Potrebbe usarlo comodamente il papa o l’arcivescovo.

Alle otto del mattino entra in camera la padrona della pensione, una signora grassa, calma e materna. Mi fa due massaggi alla schiena e sul tavolino posa la tazza di caffelatte e il pane imburrato. La padrona mi rispetta e mi stima. La padrona ha un pappagallo che dice: – Ajuá! Te ne sei andato? Buona fortuna. – E confortandomi, il pappagallo e la padrona mi fanno ben capire quanto sia ingrata la vita per chi ha moglie e, oltre alla moglie, una caterva di figli.

Sono dolcemente egoista e non mi sembra una brutta cosa.

Lavoro il giusto per vivere, senza fregare nessuno, e sono pacifico, timido e solitario. Non credo negli uomini e meno ancora nelle donne, anche se questo non mi impedisce a volte di avere rapporti con loro, perché l’esperienza si perfeziona attraverso l’incontro (e del resto non c’è donna che, per pessima che sia, indirettamente non ci faccia del bene).

Mi piacciono le giovinette che si guadagnano da vivere. Sono le uniche per le quali nutro grande rispetto, anche se non sempre sono splendori di donne. Mi piacciono perché esprimono un sentimento di indipendenza che è il credo della mia vita.

Quelle che mi piacciono più di tutte, però, sono le donne che non si truccano. Quelle che si lavano la faccia, ed escono con i capelli umidi, con quella sensazione di pulizia interna ed esterna che a uno, senza farsi scrupoli, verrebbe voglia di baciar loro i piedi.

Non mi piacciono i ragazzi, fatte alcune eccezioni. In tutti i piccoli, quasi sempre si scoprono i tratti della furbizia paterna, per questo li preferisco a una certa distanza, e la penso come la maggior parte della gente, che si trova d’accordo nel dire: «Che ragazzi, sono una meraviglia!», anche se è una menzogna.

Faccio il bagno ogni giorno, inverno ed estate. Un corpo pulito è la base dell’igiene mentale.

Credo nell’amore quando sono triste, mentre quando sono contento guardo certe donne come se fossero le mie sorelle, e mi piacerebbe poterle fare felici, anche se non posso nascondermi che un pensiero del genere è davvero una sciocchezza, già che è impossibile che un uomo faccia felice una sola donna, immaginiamoci tutte.

Ho avuto diverse fidanzate, e ho scoperto in esse solo l’interesse per il matrimonio. Naturalmente dicevano di amarmi, ma poi amarono anche altri, il che dimostra come la natura umana sia sommamente instabile, sebbene le sue azioni vogliano ispirarsi a sentimenti eterni. Per questo non mi sono mai sposato.

Tra chi mi conosce, ben pochi dicono che sono un cinico; in realtà sono un uomo timido e tranquillo, che invece di fermarsi alle apparenze cerca la verità, perché la verità è la sola via per una vita degna.

Molta gente ha provato a convincermi a metter su una famiglia, e alla fine ho scoperto che questa gente sarebbe stata molto felice se non avesse avuto una famiglia.

Sono servizievole nella giusta misura e a patto che il mio egoismo non si senta offeso, anche se sono convinto che l’anima dell’uomo sia fatta in modo tale che ci si dimentica prima del bene ricevuto che del male patito.

Come ogni essere umano riconosco in me molte meschinità, delle quali farei volentieri a meno, ma alla fine mi sono convinto che un uomo senza difetti sarebbe insopportabile, perché non darebbe l’occasione al prossimo di parlare male di lui, e l’unica cosa che non si perdona mai a qualcuno è la perfezione.

Ci sono giorni in cui mi sveglio e sento dentro tutta una delicatezza. Allora mi annodo scrupolosamente la cravatta ed esco e guardo teneramente le curve delle donne. E ringrazio Dio per aver creato un essere, una creatura così bella, che con la sola sua presenza, ci emoziona e ci fa dimenticare tutto ciò che abbiamo avuto dal dolore.

Se sono di buon umore, compro un giornale e mi informo su cosa è successo nel mondo, e ogni volta mi convinco di quanto sia inutile il progresso se il cuore dell’uomo continua a essere duro e acido come lo era il cuore degli umani mille anni fa.

Al crepuscolo torno alla mia camera da monaco, e mentre aspetto che la cameriera (una ragazza rozza e sempre irritata) apparecchi la tavola, “sotto voce” canticchio Una furtiva lagrima, oppure Addio, del passato bei sogni ridenti

E il mio cuore sprofonda in una pace meravigliosa e non mi pento di essere nato.

Non ho parenti, e siccome ho rispetto per la bellezza e detesto la decomposizione, mi sono iscritto alla società di cremazione, perché il giorno in cui io morirò il fuoco mi consumi e, come unica traccia del mio passaggio puro sulla terra, non resti che pura cenere.

(con il gentile consenso dell’editore Del Vecchio, pubblichiamo questo racconto della bellissima raccolta di Roberto Arlt – che riprende pezzi scritti per il quotidiano El Mundo – uscita nel 1933, e ora tradotta da Marino Magliani e Alberto Prunetti; il libro è uscito questa settimana)

Overbooking: Roberto Arlt

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Scrivere per seminare il panico

Breve viaggio nella letteratura di Roberto Arlt

di
Alessio Arena

 

“Arlt è il traduttore di Dostoievski in lunfardo”

Juan Carlos Onetti

L’irriducibile Artl, ostinato contraffattore della sua biografia e autore di un’opera sfacciata e onesta, vive negli ultimi tempi un rinnovato interesse editoriale, grazie soprattutto alle precise traduzioni di Raul Schenardi, che per Sur Edizioni ha tradotto recentemente la raccolta di racconti “Scrittore fallito” e per la salernitana Arcoiris ha invece riscattato la nouvelle “Un viaggio terribile.”

Il vero fondatore della città moderna nella letteratura argentina, che per primo la plasma definendone i limiti e le zone d’ombra con una lingua strampalata e una sintassi, all’epoca, censurabile, quella Buenos Aires che avrebbe lasciato in eredità a scrittori come Cortázar, Sabato e Piglia, Roberto Arlt conquista sempre più lettori, che si lasciano facilmente ammaliare dall’universo dell’argentino con accento tedesco, come alcuni lo definivano, lo scrittore autodidatta che odiava parlare di letteratura e che intendeva invece la sua occupazione come un doveroso esercizio di solitudine, l’unico paesaggio possibile per produrre dei libri che si leggano come pugni in faccia, che racchiudano la violenza di un cross, un montante alla mascella, come egli stesso scrive nella celebre introduzione al suo romanzo “I lanciafiamme.”

Certo tradurre Arlt non è un lavoro facile: i suoi racconti, i romanzi e soprattutto le Aguafuertes porteñas, i testi della rubrica che curava sul giornale El Mundo e che gli procurarono una certa popolarità, facendo impennare le vendite del giornale, rendono visibili, per la prima volta nella storia della letteratura argentina, i tuguri, i conventillos, le case collettive dove convivevano diverse famiglie, affittando ognuna di loro una stanza, e soprattutto il clima di ostilità vissuto in una città come Buenos Aires tra gli emigranti europei che l’avevano sognata come il luogo delle speranze e che, nella maggior parte dei casi, non avevano tardato a comprendere di essersi sbagliati.

La lingua di Arlt, teatrale e ricca, quando non scende a compromessi di trasparenza e di leggibilità, che pure succede spesso nei suoi articoli, letti normalmente anche da manovali, artigiani, negozianti, riproduce tutta la musicalità e il carattere essenzialmente “misterico” del lunfardo, la lingua dei bassifondi – “ese código entre dos para que no se entere un tercero” –sulla quale si sarebbe fondata anche la poesia del tango, l’espressione più autentica di questo argot.

8694422_origTra le due più recenti pubblicazioni in italiano, tradotte da Schenardi, il lungo racconto “Un viaggio terribile”, incluso nella collana “Gli eccentrici” di Arcoiris Edizioni, rappresenta, per il lettore che voglia iniziarsi al mondo di Roberto Arlt, una corsia preferenziale per scoprire la ricca e personalissima opera dello scrittore argentino.

Derivata dal soggiorno di Arlt in Cile nel 1940, solo due anni prima della sua prematura morte a Buenos Aires, questa nouvelle contiene infatti molti interessi manifesti nella vita e nella letteratura del suo autore.

Scritto a partire dalla fusione di due racconti precedenti, “¡S.O.S.! Longitud 145″ 30’, latitud 29″ 15” e “Prohibido ser adivino en este barco”, il libro narra il tremendo viaggio di una nave che parte dal porto di Antofagasta verso il Panamá, e che sta per concludersi tragicamente, per il narratore e per gli altri singolari passeggeri, quando la navigazione procede di fianco alla costa del nord del Perù.

La Blue Star, così si chiama la nave, inizia il suo viaggio nel più terribile dei pronostici proprio perché ha adottato questo nome cambiandone l’originario, la qual cosa, secondo l’allucinato cugino del narratore, basterà a decidere il destino di tutto l’equipaggio. Ma in fin dei conti, la “traversata del terrore” benché stia lentamente spingendo la nave verso il centro di un pericolosissimo vortice nell’oceano, non è poi tanto spaventosa per il carattere inesorabile di tale evento, quanto per le spropositate e assurde reazioni dei passeggeri: una piromane, una femminista svedese che finisce addirittura per invaghirsi del figlio di un emiro, un pastore metodista, un conte marpione col vizio di rubare: tutti personaggi di una studiata corte di miracoli che traghettano verso la parodia e la letteratura dell’assurdo un racconto che, almeno nelle prime pagine, potrebbe far pensare a un’avventura di Jules Verne.

È indicativo del rapporto che Arlt aveva con la sua scrittura, dei tempi forsennati della sua produzione letteraria, il fatto che, come ho già detto, per costruire questo racconto ne riprendesse due precedenti, e finisse per amalgamarli nella stessa narrazione. Conseguenze, senza ombra di dubbio, di una vita sacrificata al durissimo laburo di inventare storie, anche ogni giorno, secondo i dettami della carta stampata, per tentare di reagire meglio alla quotidianità o per capire che la soluzione stia proprio nell’arrendersi, nello smettere di cercare un senso, nell’ accettare, magari anche con una certa eleganza, con un minimo di compostezza di pensiero, l’inequivocamente assurdo corso degli eventi, come l’orribile vortice aperto in mezzo all’oceano che attira verso di sé una nave di infelici.

 

Idioletto (seconda parte)

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Biagio Cepollaro, L'inizio, 2008

di Biagio Cepollaro

[Pubblico qui la seconda parte di Idioletto. La prima parte si legge qui. Si tratta di una delle voci del dizionario della contemporaneità che circa venti anni fa Lucio Saviani aveva raccolto in un volume dal titolo Segnalibro (Liguori Editore, 1995). La contemporaneità di venti anni fa lasciava certamente presagire in parte quella attuale che ha caratteristiche ancora diverse. Per me si trattava di approfondire alcune considerazioni di poetica, legate alla scrittura di due libri di poesia, Scribeide  e Luna persciente, all’ interno di una visione più generale del rapporto tra linguaggi e mondo, delineando appunto una sorta di ‘condizione idiolettale’.]

 Idioletto e paesaggio

L’idioletto si accampa oggi tra scrittura e paesaggio, gioca la sua carta antropologica, la sua massima ambizione. Da un lato la poesia sembra riprendere le strade del simbolo, richiamare a sé vecchie prerogative, prestarsi al gioco dell’evasione e della nobilitazione (14), dall’altro la sua confidenza con il linguaggio le chiede una parola che possa un po’, solo un po’, illuminare ciò che fuori del linguaggio preme. Il testo idiolettico potrebbe produrre un paesaggio in cui la pressione e l’osmosi tra le radici e i flussi etnici si mescolano alle tecnologie dell’informazione e producono sedimentazioni. Lo spessore sociolinguistico di queste sedimentazioni potrebbe permettere al testo poetico di uscire dalla separatezza tradizionale per calamitare in quelle sedimentazioni nuove costellazioni di senso. Dialetti privi di identità, metamorfosanti, attraversanti «tubi catodici delle emittenti private», costretti a contaminarsi con sintassi assolutamente impreviste e soggetti ad estranee regole del gioco: il fenomeno della “oralità secondaria” (15) scompagina il vecchio tessuto della scrittura e le relative implicazioni individualizzanti.

Lud-in-the-Mist: ovvero un romanzo incantato che meriterebbe di essere tradotto

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di Francesca Matteoni

In primavera Giovanni De Feo, scrittore italiano spaesato, che viaggia da Basile a Peter Pan alle illustrazioni di Mervyn Peake, mi consigliò fortemente di leggere un romanzo del primo novecento inglese, Lud-in-the-Mist della modernista Hope Mirrlees.[1] Perché avrei dovuto conoscerlo? Per l’unico motivo che conti davvero – la passione per le storie di magia e ancora di più per tutto ciò che è faery. Tuttavia non ho avuto modo di affrontare il libro che poche settimane fa, in montagna di sera, con l’odore delle stufe che inizia a riempire l’aria alla fine dell’estate e quel silenzio animalesco che viene dai boschi.

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