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Essendo il dentro un fuori infinito #1

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di Mariasole Ariot

DIE FAHNEN wahren den Schein – LE BANDIERE salvano l’apparenza.
P. Celan

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Julia ha una macchina incastrata nello sterno. Dal collo dell’utero a metà cuore, da cuore a collo,
da collo a sinapsi : condannata all’iper-reale di due voci : la prima dice you will die till you go out
from here, la seconda intona come una cantilena you are a bitch : we will find you alone.

 

Gennaio 2014, Nigeria

 

Julia sogna il sogno proibito dei falsi profeti mezzi alieni mezzi umani – il Presidente degli Stati
Uniti d’America e un uomo con l’abito bianco a cerimonia che viaggia di chiesa in chiesa palpitano
nella notte, annunciano il vero di una nascita oscurata.
Julia ha una ferita nel cielo, un grido che le taglia le braccia, i polsi, i raggi di buio che non sono
porta, Julia scalpita, Julia corre dalla bambina, come una bambina inciampa sulle sincronicità
scivolose. Ora deve pagare il pedaggio, ora Julia deve parlare.

Tutto il silenzio gravita sotto la sabbia, le porte si aprono : nella solitudine vede i due soli spaccarle
l’utero, entrarle dentro per innestare il macchinario.

Il sogno dice : The Pope is a false prophete.

 

***

 

I mesi si oscurano.
Senza sonno raccoglie le bocche ingurgitate per la partenza, la voce della madre, e dei padri, e delle
madri : raccoglie i fratelli, li incarta uno ad uno nella valigia, parte per il nord di un altro continente,
in uno stato che non è più stato. I medici esaminano le carte : le dicono : è tutto regolare.

Prima di partire digita il sogno del mondo al mondo: The Pope is a false prophete.

 

***

 

Marzo 2014, Italia

L’arrivo in città è bianco : ci sono le strade vecchie, gli abiti più corti e i capelli più lunghi. Il marito
è già nella città della valle, lei lo segue, il marito la bacia, prende Naomi sulle spalle, e come un
fasciatoio si piega sulla moglie per dirle eccomi, usami, non scusarti.

Eppure il mondo vacilla.
Di notte gli incubi le tremano le gambe, tutte le figure si disperdono, i muri cedono, la ruota del
silenzio non riesce a più a dissimulare : ora deve
pagare il pedaggio. Ora
Julia deve parlare.

 

***

 

Giugno 2014, Sotterranei

Il delirio accade sempre in una notte : perde inizio, non contempla fine.
Un medico inviato dal Vaticano le ha inserito una macchina nel cuore della sua piccola tomba : è un
corpo, è una tomba, è una gabbia. L’hanno pagato bene. Era un parto cesareo. Se la condanna non
sarà morire in pieno giorno, la vera pena sarà fare i conti con i due piccoli umani che le dicono :
you will die as soon as possibile. Julia urla le Letture nel fondo, prega mille volte, strappa le pagine
dei diari, non può più ascoltare le foglie.

 

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L’uomo fasciatoio la carica sulle spalle, piange, la porta nei sotterranei, le danno un camice verde, le
strappano la lingua, le premono la medicina nera nella gola : qui l’inglese non è concesso. Impara
l’italiano : sei tu che sei venuta da noi. Impara l’italiano.

Julia addormenta la parola nella voliera, finge di non sentire anche quando ci sente. Julia diventa
una voliera.

 

***

 

Lui torna a trovarla ogni sera, le bacia il copricapo e il capo, il cibo dei piccoli ricordi. Julia
cammina avanti e indietro con una flebo sul braccio, non riesce dormire, spinge il cadavere del letto
sulle piastrelle sporche dei sotterranei, copre la testa con un foulard di seta : they don’t trust me :
they will kill me. It is not a joke.

Nel rione delle Porte Chiuse ridono gli infermieri :

La nigeriana si è messa a dormire come i negretti.
Dalle qualcosa, chiudile la testa.

Dalle cosa.
Dalle un silenziatore.

 

***

 

Julia ha smesso di parlare. Le figlie cadono sul pavimento, quando cerca di cantare i boschi afferra
la nota sbagliata. Noi ridiamo, noi cantiamo le sirene, noi apriamo le faglie.

I neurolettici fanno il loro dovere : si trascina nei corridoi, l’odore di fumo le invade le narici fino al
cervello.

Restano le voci : true human voices, two human voices, it is not a joke. La costruzione di una
metafora resta perfetta, una strategia per chi non ha femori abbastanza forti da poggiare sulla terra.
Il farmaco fa il suo dovere : ci dice non ascoltare, chiede non sentire.
Dice non sentire : noi non vogliamo ascoltare.

 

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dunque cos’è un delirio quando delira, quando ha il coraggio delle pietre, dei profondi e delle
soglie – quando non fa luce e non fa grida / cos’è un delirio quando indugia, cosa non è
concesso nel secondo arrivo di un asilo : gli esiliati che non siamo
se non sigilliamo l’ora che non abbiamo siglato.

 

 

 

Non deprime il cuore né lo stomaco: Ermanno Cavazzoni, La valle dei ladri

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di Francesca Fiorletta

“Io me ne intendo. Quelli che dava agli altri erano baci di superficie, senza mordente, senza che ci fosse l’anima dietro, mentre a me era l’anima che mi suggeva; e io altrettanto.”

Esce per Quodlibet Compagnia Extra, uno dei migliori romanzi di Ermanno Cavazzoni, La valle dei ladri, già edito da Einaudi nel 1999 come Cirenaica, e recentemente rimaneggiato e rivisto dall’autore, che ha voluto anche ripristinare il titolo originario. 
Sulle prime, la scelta mi ha dato un po’ da pensare. Cirenaica è infatti il nome dell’unico film proiettato nell’unico cinema del Bassomondo, questa sorta di limbo-città in cui il protagonista si ritrova a bighellonare senza un vero perché, e da cui proverà a fuggire, seppure con poca convinzione, aspettando treni fantasmatici e miracolosi che, forse, difficilmente arriveranno.
Mi sembrava proprio un ottimo titolo, Cirenaica, perché nel leggere questo libro si ha esattamente la sensazione di rivedere con costanza le stesse identiche scene, slabbrate e riproposte in sequenza circolare, frantumate e ridisposte in fila sotto gli stessi quarti di luce, che è invero un alone diafano, il surrogato di una luna opaca che è sempre sull’orlo di scomparire, catturata e resa immortale, impressa sulla pellicola di carta, prima che il suo pallore inconcusso venga soppiantato dalla ben più pervicace luce elettrica, ossia dal sempre nuovo che avanza.

Paterson – La deriva del continente (Transeuropa 2014)

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Elisa Davoglio /
Viola Amarelli*

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…A Paterson è consentito accendere per l’ultima volta un computer, per togliere il suo salvaschermo.

Gli concedono di raccogliere semi, travasare terra dai grossi vasi che ornano ancora l’ingresso, monumentali.

La cura del verde, la predisposizione all’ordine, alla santità.

La purezza di ogni peccato. Piangendo una sola volta.

Da “Lunga un anno”

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tutto-potrebbe-esser-trasformato-in-oro.-125x83-acrilico-e-matita-bianca-su-tela-su-tela-2011di Francesco Accattoli

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1. Quanto pesa la neve

Da queste altissime finestre si vede il bianco,
la coltre sopra quella linea retta
che in precedenza era traiettoria.

Tu se sai dire dillo ( terza edizione)

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18.19, 20 settembre 2014

spazio Ostrakon, via Pastrengo 15, Milano

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Lo Spazio Ostrakon ospita, tra il 18 e il 20 settembre 2014, la terza edizione della rassegna Tu se sai dire dillo, dedicata alla memoria del poeta Giuliano Mesa (1957-2011) e ideata da Biagio Cepollaro. Anche quest’anno l’attenzione è rivolta a poeti importanti e radicali del ‘900, ancora poco conosciuti, come Gianni Toti (1924-2007), tra l’altro pioniere della video poesia in Italia, di cui viene presentata per la prima volta, a cura di Daniele Poletti, l’intera opera in versi; Emilio Villa (1914-2003), precursore delle neoavanguardie,in nome del quale si sono svolte nel corso dell’anno molte iniziative promosse da Enzo Campi, a partire proprio dalla galleria Ostrakon, e Paola Febbraro (1956-2008), poetessa prematuramente scomparsa intorno alla cui opera parleranno Anna Maria Farabbi ,Viola Amarelli e Giusi Drago.

Ad arricchire il programma vi è la presentazione dell’ambizioso progetto Phonodia, curato da Alessandro Mistrorigo della Ca’ Foscari di Venezia, relativo ad un archivio di voci di poeti di tutto il mondo. Sulla questione della critica letteraria oggi, infine, verterà una conversazione tra Luigi Bosco e Lorenzo Mari, redattori del blog In realtà, la poesia, e Luciano Mazziotta.

La manifestazione pone a contatto diretto alcune radici novecentesche della ricerca in poesia e le riflessioni critiche dei più giovani che operano prevalentemente in rete.

 

18 SETTEMBRE, GIOVEDÍ

 

ore 19.00

Biagio Cepollaro legge Giuliano Mesa

 

Buffet e aperitivo

 

ore 21.00

Gianni Toti e la Casa Totiana

a cura di Daniele Poletti  e con la collaborazione della Casa Totiana

 

Invitati e interventi:

Daniele Poletti, Ermanno Moretti, Daniele Bellomi, Pia Abelli Toti, Dome Bulfaro, Giovanni Anceschi, Pier Luigi Ferro, Raffaele Perrotta, Giacomo Verde, Giacomo Cerrai

 

Pia Abelli Toti parlerà della Casa Totiana e di Gianni Toti.

Daniele Poletti e Ermanno Moretti presenteranno [dia•foria e il libro TOTILOGIA

 

E’ la prima antologia completa dell’opera poetica di Toti, corredata da interventi critici, creativi e da un inedito. Il libro è stato pubblicato, con il sostegno de La Casa Totiana, da [dia•foria, edizioni Cinquemarzo.

 

Giacomo Verde presenterà il video Fine Fine Millennio, che partecipò all’UTAPE del 1987, con Gianni Toti in giuria

 

Proiezione di 2/4, video di Gianni Toti

 

19 SETTEMBRE, VENERDÍ

 

ore 19.00

La critica letteraria: In realtà, la poesia

Luigi Bosco e Lorenzo Mari dialogano con  Luciano Mazziotta.

 

Invitati:

Francesco Forlani, Vincenzo Frungillo, Andrea Inglese, Giorgio Mascitelli, Luigi Metropoli, Davide Racca, Italo Testa, Pino Tripodi

 

Buffet e aperitivo

 

ore 21.00

Progetto PHONODIA Ca’ Foscari di Venezia

a cura di Alessandro Mistrorigo

 

20 SETTEMBRE, SABATO

 

ore 19.00

La poesia di Paola Febbraro

a cura di Giusi Drago

 

Intervengono:

Viola Amarelli e Anna Maria Farabbi

 

Buffet e aperitivo

 

ore 21.00

Un anno per Villa

a cura di Enzo Campi

 

“Il Clandestino”, video-intervento di Stelio Maria Martini su Emilio Villa

 

Saranno presenti alcuni degli autori che hanno collaborato alle imprese editoriali e performative del progetto Parabol(ich)e dell’ultimo giorno,  Dot.Com Press – Le Voci della Luna.

Il libro raccoglie, oltre ai testi villiani, contributi critici e operazioni verbovisive di:

 

Daniele Bellomi, Dome Bulfaro, Giovanni Campi, Biagio Cepollaro, Tiziana Cera Rosco, Andrea Cortellessa, Enrico De Lea, Gerardo de Stefano, Marco Ercolani, Flavio Ermini, Ivan Fassio, Rita R. Florit, Giovanna Frene, Gian Paolo Guerini, Gian Ruggero Manzoni, Francesco Marotta, Giorgio Moio, Silvia Molesini, Renata Morresi, Giulia Niccolai, Jacopo Ninni, Michele Ortore, Fabio Pedone,
Daniele Poletti, Davide Racca, Daniele Ventre, Lello Voce, Giuseppe Zuccarino, Enzo Campi

 

 

SPAZIO OSTRAKON

Via Pastrengo 15 Milano

Orari: mar-sab | 15,30-19,30

I poeti appartati: Andrea Leonessa

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Poesie

di

Andrea Leonessa

 

Tassidermia verbale

Non avendo che un tempo di curarsi, della bocca

aperta si fece spazio ad estrazione, a cassetto, vano

per Lego, d’un costrutto verbale la sede annacquata,

l’asporto delle braccia che non stanno all’incastro

Le voci dell’Olocausto. L’opera estrema di Charles Reznikoff

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A Roma, presso la Casa delle Traduzioni
(via degli Avignonesi 32)
giovedì 18 settembre, ore 17:15 – 18:30

Le voci dell’Olocausto. L’opera estrema di Charles Reznikoff
Charles Reznikoff, Olocausto, traduzione di Andrea Raos, Benway Series, 2014
http://benwayseries.wordpress.com/2014/09/09/charles-reznikoff-olocausto-holocaust-benway-series-6/

Partendo dalla recentissima traduzione di Olocausto, l’ultimo straordinario testo pubblicato in vita dal poeta americano Charles Reznikoff (1975), l’incontro cercherà di mettere a fuoco le particolarità e le difficoltà dell’opera di trasposizione di fronte a un tema così complesso e delicato come la Shoah e davanti a una lingua che assume tutta la responsabilità e, al tempo stesso, tutta la distanza necessaria per poterne rinnovare la memoria.

In dialogo sulla traduzione: Damiano Abeni e (via skype) Andrea Raos.
Interventi: Marco Giovenale e Giulio Marzaioli.
Letture dal testo: Michele Zaffarano.

https://www.facebook.com/events/616909615096122/

Charles Reznikoff (1894-1976) è stato uno dei maggiori poeti statunitensi, collocabile nell’ambito della seconda generazione di autori modernisti. Fu partecipe in prima persona (con Louis Zukofsky, George Oppen, Carl Rakosi) dell’idea e progetto “oggettivista”. È autore di numerosi testi di poesia, tra cui Jerusalem the Golden (1934), In Memoriam (1936), By the Waters of Manhattan: Selected Verse (1962), Testimony: The United States (1885-1890) (1965), Holocaust (1975). Holocaust, qui in prima traduzione italiana, fu scritto riprendendo in maniera diretta e senza alcun intervento autoriale le testimonianze delle vittime della barbarie nazista e quelle dei carnefici, così come riportate negli atti del processo di Norimberga (1945-46) e di quello a Eichmann (1961).

Andrea Raos (1968) ha pubblicato Discendere il fiume calmo (nel Quinto quaderno italiano di poesia contemporanea, 1996), Aspettami, dice (2003), Luna velata (2003), Le api migratori (2007), I cani dello Chott el-Jerid (2010) e Lettere nere (2013). È presente nel volume Àkusma. Forme della poesia contemporanea (2000) e ha curato l’antologia Chijô no utagoe – Il coro temporaneo (2001). Con Andrea Inglese ha curato le antologie Azioni poetiche. Nouveaux poètes italiens, in «Action poétique» (2004) e Le macchine liriche. Sei poeti francesi della contemporaneità, in «Nuovi argomenti» (2005).

Damiano Abeni (1956) ha tradotto dall’inglese oltre cinquanta libri e collabora con diverse case editrici e riviste letterarie. È tra i redattori di «Nuovi Argomenti» e della rivista online «Le parole e le cose». Ha ricevuto una fellowship del Liguria Study Center for the Arts and Humanities (Bogliasco Foundation, 2008) e una delle Rockefeller Foundation Fellowship (Bellagio, 2010). Nel 2009 è stato Director’s Guest presso il Civitella Ranieri Center. È cittadino onorario per meriti culturali di Tucson, Arizona, e di Baltimore, Maryland.

Il progetto editoriale Benway Series, indipendente e autoprodotto, nasce per iniziativa di quattro autori (Marco Giovenale, Mariangela Guatteri, Giulio Marzaioli e Michele Zaffarano) con l’intento di formare un tracciato di scritture di ricerca straniere e italiane, appartenenti al passato più o meno prossimo o alla contemporaneità. Sino a oggi sono stati pubblicati testi di J. Ashbery, F. Ponge, C. Costa, M. Zaffarano e G. Marzaioli. L’Olocausto di Reznikoff è l’ultima traduzione della serie.
http://benwayseries.wordpress.com/

Per l’incontro, riservato ai possessori Bibliocard, è richiesta l’iscrizione, da inviare all’indirizzo casadelletraduzioni@bibliotechediroma.it entro il 16 settembre.

 

Reznikoff, Olocausto - Benway

 

 

Idiozia d’arte & d’integralismo

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Idiozia di Andrea Inglese

Non sono uno che ogni due minuti punta il dito sull’integralismo e si dispera per la fragilità della cultura occidentale. Cerco, con spirito non pregiudiziale, di portare uno sguardo il più possibile equilibrato sugli avvenimenti. I demoni, però, sono demoni, e come tali, ad un certo punto, vanno giudicati. L’integralismo è essenzialmente demoniaco, ossia va considerato come una forma di possessione, e quindi di riduzione, d’impoverimento, della natura complessa e multiforme dell’uomo. L’integralista religioso è un uomo posseduto, ossia un uomo monodimensionale, ossessivo, deficiente.

autocritica idraulica: Sergio Garufi

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fonte

Due cronopios: Cortázar e Jovanotti

di

Sergio Garufi

La critica idraulica, come la chiamava ironicamente Cortázar, è sempre alla ricerca delle “fonti”, dei libri che hanno influenzato il tuo libro, come se le idee non potessero sfociare che da lì. È un approccio che lui rifiutava, tipico di chi pone l’accento sul sapiens anziché sull’homo. E difatti, di fronte a un’opera complessa e adamitica come Rayuela, la dichiarazione d’indipendenza della letteratura ispanoamericana, molti critici restarono spiazzati, non trovando appigli per le loro dotte esegesi. In una lettera del 24 novembre 1964 a Nestor Lugones, un laureando che gli chiedeva le fonti di Los Reyes, Cortázar rispose così, fingendo di confondere le fonti con le fontanelle:

Le uniche che vedo con chiarezza sono quelle della Piazza del Congresso, dove io passavo spesso in quell’epoca a causa di una ragazza che viveva vicino alla Confetteria del Mulino”. E poi aggiunse: “Non creda che mi sto burlando di lei […] Gli investigatori del fatto letterario partono quasi sempre dall’errore di credere che non c’è effetto senza causa. Più che un errore è una semplificazione. Io non usai nessuna fonte (copio i termini della sua lettera); in ogni caso vai a sapere quali remote e multiple fonti usarono me. Un disegno di Cocteau, per esempio, con un giovane minotauro che guarda lontano. O qualcuno che fischiettava sotto la mia finestra, disegnando un labirinto nell’aria. Lei mi cita il nome di Asterione, ma io mi resi conto di questo nome molto dopo, grazie a un bel racconto di Borges. Per me il minotauro non aveva e non ha nome. Il personaggio di Axto, per terminare, è pessimo per una tesi, perché non ha alcuna origine.  Lei forse ammetterà che di quando in quando a uno scrittore capita d’inventare un personaggio traendolo dal puro nulla. È triste, ma è così. Probabilmente per questo Minosse mandò a tortura e a morte Axto; anche Minosse cercava fonti, aveva una forte vocazione da filologo. E concluse con un invito perentorio: “Entri da solo nel labirinto, i gomitoli non le servono a nulla”.

Cortázar è molto presente nel mio nuovo romanzo, Il superlativo di amare. Gino, il protagonista, non è solo il traduttore del suo epistolario, ma è un suo grande ammiratore, uno stalker postumo che ne spia le abitazioni e i rapporti sentimentali; eppure l’argentino non rappresenta una vera fonte d’ispirazione. Anche in questo caso, ha contato più una fontanella secca vicino a un monastero di Bevagna, dalla quale fantasticavo potesse sgorgare all’improvviso un’acqua miracolosa, che tutti i libri che ho letto. Cortázar volevo che fosse solo una presenza fantasmatica, una sorta di spirito guida, come Humphrey Bogart per Woody Allen in Provaci ancora Sam; niente di più. E da questo confronto, dal ripercorrere i passi dell’argentino a Parigi, il protagonista avrebbe dovuto infine trovare la propria strada, capire che casa sua stava altrove, che doveva seguire un’altra stella.

Sulle note di Come musica ho conquistato la mia donna, come ho detto l’altro giorno in un’intervista radiofonica. L’effimera eternità di ogni storia d’amore danza intorno a una colonna sonora, e siccome il rapporto fra Gino e Stella ha parecchi spunti autobiografici, se dovessi indicare un’altra fonte del mio libro segnalerei quel bellissimo pezzo di Jovanotti. Anche il rapporto fra Gino e Stella è costellato da “false partenze”, sospetti infondati, equivoci e fraintendimenti. Anche lui sa che “è successo già, che altri già si amarono non è una novità”, però fin dall’inizio vede in lei qualcosa di speciale, qualcosa che non ha nessun’altra. E alla fine, dopo una drammatica separazione, cercherà di riprendersela, consapevole che nella vita ben più dei concetti contano gli affetti, perché “solo l’amore rimane, tutto il resto è un gioco”. Nel poco tempo che sono stati assieme Gino e Stella “si sono attraversati fino nel profondo”, ma resta ancora da scoprire “al centro del suo cuore che c’è”, ed è questa insondabilità dei sentimenti ciò che più ci attrae in una persona. Ma forse Cortázar c’entra anche qui. Vedendo il videoclip di questa canzone ogni suo lettore riconoscerà immediatamente, nel balletto degli escavatori cingolati come docili elefanti davanti al domatore, l’estro e la follia stralunata di un autentico cronopio.

 

La mala ora dell’Ultraliberismo

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georges-vivianedi Romano A. Fiocchi

Viviane Forrester, Una strana dittatura, traduzione di Fabrizio Ascari, TEA, 2003.

Viviane Forrester (qui in uno scatto di Jean-Marc Armani) è morta l’anno scorso. Era di nazionalità francese. E di origine ebraica. Conosceva Georges Perec. Ho saputo di lei grazie a una bellissima videointervista a Perec degli anni Settanta, tuttora reperibile in rete e già citata in un mio articolo cortesemente ospitato da NI. Qui i modi fascinosi della Forrester fanno da contrasto con la voce burbera di Perec, lei in un cappottino scuro con una cintura che le stritola la vita, lui con un montone dal bavero alzato, i capelli e il pizzetto da scienziato pazzo, il suo gesticolare ossessivo. Il video è girato nei pressi di rue Vilin, le prime inquadrature proprio davanti a quello che era stato il negozio di parrucchiera della madre di Perec, deportata e morta probabilmente ad Auschwitz. Dalla descrizione di quei luoghi, oggi completamente stravolti, Perec prende spunto per parlare del suo ultimo libro e per illustrare quello che sarà il suo progetto più grandioso: La vita istruzioni per l’uso. La Forrester sorride, ascolta, fa domande con voce cinguettante, non lo chiama né monsieur Perec, né Georges ma per intero: Georges Perec, dandogli del Voi (che è poi il Lei francese).

Ebbene, mai avrei pensato che una figura tutta delicatezza e femminilità potesse sfoderare gli artigli da leone in un pamphlet pieno di rabbia trattenuta, centottantasei paginette che sono una sorta di “j’accuse” moderno lanciato contro un’intera ideologia: l’ultraliberismo. Lo fa, la Forrester, con un linguaggio lucido e tagliente come un bisturi che non accusa nessuno in particolare se non l’instaurarsi di una forma mentis pericolosissima che si pone come unico obiettivo il profitto in sé, a scapito di tutto e di tutti, anche della distruzione dell’intero pianeta e del suo tessuto sociale.

forresterUna strana dittatura è un libro indignato e per gli indignati che ha come unico scopo far aprire gli occhi e mostrare la verità. Uscito nel 2000 per la Librairie Arthème Fayard, e lo stesso anno in Italia per Ponte alle Grazie, fa specie che le edizioni TEA – di cui a fatica ho reperito una copia – l’abbiano riproposto con una copertina bruttina e fuorviante, che sembra quasi uno di quegli Urania o di quei vecchi romanzi di spionaggio tradotti alla bell’e meglio e venduti in edicola. Il suo messaggio, condensato in pochi concetti che attraversano il libro come un leitmotiv incalzante, ruota intorno all’idea di una oligarchia che ha ormai in mano le redini del mondo e sta portando tutti verso il baratro senza che i più non solo l’accettino come un’irreversibile evoluzione storica, ma neppure si rendano conto della catastrofe, né – proprio per questo – tentino di opporsi.

Esagerazioni? Discorso da comunisti? Mire sovversive? È istintivo porsi domande di questo tipo proprio perché questo sistema ideologico fondato “sul dogma (o sul fantasma) di un’autoregolazione dell’economia di mercato”, questa “strana dittatura” che controlla ormai la globalizzazione, rende inverosimile la verità e condiziona a tal punto l’opinione pubblica da far credere storicamente inevitabile ciò che non lo è, dando per assodato il fatto che sia la cibernetica la causa di tutto e non lo sia piuttosto l’uso e il successivo sfruttamento a cui è stata sottoposta.

Ma partiamo da un termine abusato e che la Forrester definisce “perverso”: la globalizzazione. L’ultraliberismo è riuscito a trasformare questo concetto in un sinonimo di liberismo: “Quando parliamo di globalizzazione (definizione passiva e neutra dello stato del mondo attuale), è quasi sempre di liberismo (ideologia attiva, aggressiva) che in realtà si tratta; e questa confusione permanente consente di far passare ogni rifiuto di tale sistema politico, delle sue operazioni e delle loro conseguenze, per rifiuto della globalizzazione e dell’amalgama su cui essa poggia, il quale include i progressi della tecnologia. Facile allora, per i cantori del liberismo, liquidare i loro oppositori con un’alzata di spalle o un sorrisetto beffardi, farli passare per insopportabili retrogradi che, sprofondati nel ridicolo, infiacchiti nell’arcaismo, si ostinano a negare la Storia e a rinnegare il Progresso” (…) “Dimentichiamo che la globalizzazione non necessita di una gestione ultraliberista, e che quest’ultima rappresenta soltanto un metodo (del resto calamitoso) fra i tanti possibili. In poche parole, la globalizzazione non è la stessa cosa dell’ultraliberismo – e viceversa!”

Allo stesso modo la propaganda ultraliberista ha imposto termini ed espressioni che “hanno il dono di persuadere senza bisogno di discussioni”. Ecco allora il mercato libero (di fare del profitto, aggiunge la Forrester), le ristrutturazioni (smantellamenti di imprese o comunque disintegrazioni delle loro masse di lavoratori), o i deficit pubblici da combattere, che sono in realtà – sempre la Forrester – benefici per il pubblico: “Le spese giudicate superflue, addirittura nocive, hanno l’unico difetto di non essere redditizie e di essere perdute per l’economia privata, quindi di rappresentare mancati profitti per essa insopportabili. Ora, queste spese sono vitali per i settori essenziali della società, in particolare quelli dell’educazione e della salute”. La propaganda finisce così per legittimare deregolamentazioni, delocalizzazioni, fughe di capitali e un’economia di mercato costruita su forme sempre più speculative.

Il libro è stato scritto nel 2000. Prima pertanto dell’abbattimento del potere d’acquisto di stipendi e pensioni con l’entrata in vigore dell’Euro (2002), e prima ancora dell’inizio della crisi economica (2007/2008). Eppure l’ideologia ultraliberista era già avviata nella sua allucinante politica di fusioni e di licenziamenti finalizzati soltanto ad aumentare il profitto. La Forrester cita numerosi esempi, come il gigante della telefonia americana ATT che nel 1996 annuncia 40.000 licenziamenti e, subito dopo, vede pubblicato sui giornali lo stipendio del suo direttore generale, Robert Allen, con 16,2 milioni di dollari: triplicato rispetto l’anno precedente pur non avendo al suo attivo nessuna realizzazione di utili se non solo quei 40.000 licenziamenti. Oppure l’Alcatel, 15 miliardi di franchi di utili nel 1996, che annuncia 12.000 licenziamenti, portando a 30.000 quelli che ha effettuato in quattro anni. Oppure ancora la Michelin che durante il primo semestre del 1999 ha un rialzo di utili del 17%, con prospettive favorevoli, e contemporaneamente licenzia 7.500 dipendenti, cioè un decimo degli effettivi, scaglionato in tre anni. In tutti i casi, come negli altri citati dalla Forrester, i titoli in Borsa hanno rialzi prodigiosi: “Gli annunci dei licenziamenti entusiasmano gli azionisti, li stimolano ancora più degli utili”. La propaganda – per constatarlo basta seguire qualche telegiornale – giustifica tutte queste manovre, in Francia come in Italia, come nel resto del mondo. E le scandisce con frasi di rito: la globalizzazione obbliga… la competitività vuole che… e poi l’occupazione dipende dalla crescita, la crescita dalla competitività, dalla capacità di sopprimere posti di lavoro. Vale a dire: per lottare contro la disoccupazione, niente di meglio dei licenziamenti. Certo, questa sì che è una tesi coerente.

Ma la Forrester affonda sempre più il dito nella piaga: la scure dei licenziamenti pesa sui lavoratori superstiti e sulle poche nuove assunzioni a termine esasperando il gioco al ribasso del costo del lavoro e diffondendo nella stragrande maggioranza l’angosciosa minaccia di finire ad ingrossare le file dei disoccupati, spingendo ad accettare sottomissioni e costrizioni sempre più opprimenti. Si arriva così a quelli che già chiamano working poor, ossia lavoratori poveri. Gli Stati Uniti ne sono pieni, così come sono pieni di poveri e di senzatetto: da oltre trent’anni la prima potenza economica mondiale conta lo stesso numero incredibile di indigenti, più di trentacinque milioni di cittadini che vivono sotto la soglia di povertà, molti dei quali non risultano neppure disoccupati perché usciti dalle statistiche in quanto non più titolari di sussidi. L’economista americano Robert Reich, segretario al Ministero del Lavoro dal 1993 al 1996, sottolinea che negli Stati uniti ci sono milioni di working poor che lavorano a tempo pieno e non guadagnano abbastanza per uscire dalla miseria, e questo a causa della flessibilità concessa alle imprese e non ai salariati. Insomma, la prima potenza economica mondiale è anche la prima fra i paesi industrializzati per quanto riguarda il tasso di povertà della sua popolazione. Questo, dice la Forrester, fa riflettere sul senso, sulla qualità, sulla natura dell’economia mondiale.

Prima ancora del crollo borsistico dell’11 settembre 2002 e prima dello scoppio della bolla immobiliare dei Subprime che innescherà nel 2007 la crisi mondiale, la Forrester punta già il dito sull’economia virtuale e sulla speculazione, sui profitti originati da “prodotti derivati”, ossia non-prodotti che si negoziano come se fossero materiali. Si vendono rischi virtuali legati a contratti ancora in stato di progetto, poi si vendono i rischi che scaturiscono dall’acquisto di questi rischi, e così via. Si vende insomma il nulla speculando su ogni negoziazione, scommesse su scommesse su scommesse. A questo porta l’economia di mercato. I profitti sono folgoranti e immediati, a tempo di record. Ma la cosa più preoccupante è che se si produce profitto da utili senza produrre utili da vendita di prodotti reali, non occorrono neanche più lavoratori reali, se non quello stretto necessario per le manovre contabili. E se i prodotti da vendere non contano più nulla, significa che anche i consumatori – ossia gli acquirenti di questi beni – non contano più nulla. Contano piuttosto gli investitori, ossia chi acquista titoli di partecipazione per concorrere alla spartizione di questi enormi profitti costruiti dal nulla. Ecco dove siamo arrivati.

Così la Forrester: “Se la disoccupazione non esistesse, il regime ultraliberista la inventerebbe, perché gli è indispensabile. È quella che permette all’economia privata di tenere sotto il proprio giogo la popolazione di tutto il pianeta mantenendo la coesione sociale, cioè la sottomissione”. Ma se disoccupazione significa anche perdita di consumatori, come può un’azienda permettersi un mancato profitto? Soltanto se il suo carattere di impresa non fosse davvero cambiato, se il suo valore non si distanziasse sempre più dalla sua produzione per essere posto sempre più in relazione alla sua produttività. “Tale valore non dipende più tanto dai suoi attivi reali, dai suoi affari tradizionali, dai prodotti che propone, quanto dalla sua capacità di interessare i mercati finanziari. Ossia dal posto che l’azienda occupa nei fantasmi speculativi” (tradotto in termini nostrani, alla nuova FIAT non interessa più vendere auto ma constatare l’ascesa delle sue quotazioni di Borsa). E allora via con fusioni, incorporazioni, acquisizioni, con creazioni di colossi multinazionali che si muovono in regime di monopolio e con la vendita di prodotti differenziati dai marchi ma omologati in qualità e fattura. Anche il prodotto in sé non conta più nulla: su qualunque marca cada la scelta del consumatore, la multinazionale ha gli utili assicurati.

Un dubbio sorge spontaneo: se la disoccupazione è uno strumento indispensabile per il regime liberista, siamo sicuri che anche l’attuale crisi finanziaria non sia una sua invenzione? Non è forse un ulteriore pretesto per inasprire le sue politiche, sempre con il miraggio di una svolta positiva a favore di una fantomatica esplosione di nuovi posti di lavoro, che quasi certamente non avrà mai luogo? Sì, perché in fondo anche l’inquietante massa di disoccupati viene neutralizzata facilmente attraverso una propaganda adeguata. Basta dipingere l’assistenzialismo come una prassi vergognosa che grava sui contribuenti, i disoccupati stessi come ignobili pigri, incitandoli al lavoro senza offrirne. Un serbatoio di disoccupati in costante aumento per via di licenziamenti di massa effettuati con ragioni – diciamo la verità – che non hanno nulla a che vedere con il valore lavorativo e nemmeno con l’interesse specifico dell’impresa, con la sua produzione e suoi utili reali.

A questo punto ci si chiede chi possa tirare le fila di tutto ciò, chi sia a capo di questa “strana dittatura”, chi sia insomma lo spietato, l’Hitler di turno. Nessuno, questo è il problema. Certo, ci sono le lobby, ma quello che ci troviamo di fronte è un potere anonimo, astratto, fuori portata. Nessuno all’interno dei gruppi industriali vuole distruggere il pianeta o affamarne la popolazione. Non si tratta di una colpa individuale o di malvagità. È semplicemente colpa della logica detta realistica e ritenuta come l’unica moderna dai propagandisti. Se l’amministratore delegato della Michelin, persona per bene, non otterrà utili sufficientemente esorbitanti da attirare gli investitori, nel giro di poco tempo diventerà un’ex amministratore della Michelin. Insomma, responsabile di tutto è il meccanismo assurdo innescato da un mercato che non ammette regole se non quella di macinare profitti ad ogni costo. È un sistema cannibale. Chi non si adegua viene messo in disparte affinché la macchina ultraliberista continui a macinare guadagni.

La propaganda, in questo caso, è subdola e inventa anche strumenti atti a coinvolgere la fascia direttiva dei lavoratori illudendoli di partecipare alla spartizione dei profitti. Esempio lampante i piani di stock option, beneficio accessorio in realtà unicamente speculativi che permettono al piccolo dirigente di acquistare azioni di nuova emissione a un prezzo più basso di quello di mercato e a rivenderle immediatamente realizzando la differenza, oltre tutto con una tassazione bassissima. All’azienda non costano nulla perché l’eventuale monetizzazione è scaricata sul mercato. Peccato che le azioni in circolazione aumentino di numero, il che comporta la necessità di profitti ancora più alti per mantenere inalterati i dividendi unitari, perché gli investitori che contano, è ovvio, vogliono inalterata la loro parte di profitto. Insomma, un altro circolo vizioso che finisce per spingere a tagliare ed economizzare anche a prezzo di una decadenza evidente. Così la Forrester: “Ma sempre e ancora lo stesso interrogativo: perché? A quale scopo? A beneficio di chi o di che cosa, se non del solo profitto?”

Al di là di tutto, la questione non è soltanto morale. Si tratta di un pericolo che è sempre in agguato e che si è concretizzato più di una volta nel corso della Storia: “Non lo ripeteremo mai abbastanza: accettare che esseri umani vengano considerati superflui e che loro stessi arrivino a considerarsi di troppo equivale a lasciare che si instaurino le premesse del peggio. Non è ridicolo affermare che tutti i totalitarismi hanno per base questa negazione del rispetto; questa apre la strada a tutti i fascismi”. Che si sono da sempre instaurati non con la forza ma per colpa di “un certo clima di indifferenza meccanica, di consensi taciti, e l’impressione condivisa da molti (che però spesso cambieranno idea) che la cosa non li riguardi”. Tutto ciò, lo prova la Storia, è una premessa ineludibile ai genocidi. “Opporsi virtualmente ai genocidi non basta. Non avvengono impunemente: hanno bisogno di un terreno preparato; è a monte che vi si deve resistere”.

Ecco che allora il ruolo dell’opinione pubblica diventa fondamentale. Nessuna dittatura ha potuto reggere il potere senza il consenso popolare, palese o tacito. Per questo la diffusione della consapevolezza che non c’è nulla di inevitabile e che l’economia di mercato non è l’unica strada possibile sono il modo più efficace per contrastare l’ultraliberismo. L’opinione pubblica, non dimentichiamolo, è l’unica in grado di influenzare le decisioni dei governi e di battere qualsiasi propaganda.

Dall’uscita di Una strana dittatura sono passati quattordici anni. È dei giorni scorsi la fusione Alitalia-Etihad con trasformazione in azioni di due terzi dei debiti. Le parole che circolano sono quelle ripetute dalla Forrester sino alla nausea: competitività, stabilizzazione dell’azienda, servizio di qualità (ma Alitalia da sola faceva poi così schifo?), costo del lavoro ulteriormente compresso (l’amministratore Del Torchio parla di “decisioni dolorose”, eppure nelle fotografia di gruppo sorride con entusiasmo). Il risultato di tutto ciò sono altre alcune migliaia di tagli di posti di lavoro. E un azionariato soddisfatto. L’ultraliberismo procede nella sua marcia apparentemente inarrestabile. Almeno per ora.

L’Ucraina e le icone della guerra necessaria

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di Giorgio Mascitelli

Il settantacinquesimo  anniversario della seconda guerra mondiale è stato ricordato dal mondo politico occidentale con una serie di paragoni e allusioni alla guerra civile in Ucraina e in particolare alla minaccia rappresentata dalla Russia: si può citare in questo senso il discorso a Danzica del presidente tedesco Gauck, sorprendente perché finora le dichiarazioni dei responsabili tedeschi erano sempre state molto caute, ma anche  una serie di dirigenti polacchi, baltici e anglosassoni ha evocato il ritorno di una minaccia nazista. Anche dall’altro lato non sono mancati riferimenti a quel conflitto: per esempio Putin con  esagerazione ha paragonato all’assedio di Leningrado condotto dai nazisti l’attacco delle truppe di Kiev contro Donetsk ( sia detto con il massimo rispetto per le sofferenze della città, che ha pagato un prezzo altissimo in termini di morti e distruzioni , paragonabili in Europa dopo la seconda guerra mondiale soltanto a quelle subite da Sarajevo).

E’ comprensibile che sia così non solo per la rilevanza storica di questo conflitto, che lo rende ancora sentito, ma anche perché la seconda guerra mondiale dal punto di vista di simbolico ha il pregio di presentare un nemico certo, aggressivo e contro il quale era inevitabile fare la guerra.  Sul piano retorico l’evocazione della seconda guerra mondiale e delle sue lezioni è quello che potremmo chiamare un’icona della guerra necessaria. Tra l’altro questo spiega perché la prima guerra mondiale, di cui pure cade il centenario, abbia avuto meno spazio nei discorsi ufficiali: si tratta di una guerra  le cui cause sono più articolate e riconducibili nella coscienza comune a un misto di veti incrociati, giochi diplomatici finiti male, nazionalismi e imperialismi reciprocamente diretti. Eppure, a volerle vedere con un po’ più di precisione anche le cosiddette lezioni della seconda guerra mondiale sono un po’ più inquietanti di quanto i richiami attuali facciano: infatti gli unici a dichiarare guerra alla Germania dopo l’invasione della Polonia furono Francia e Gran Bretagna ossia i paesi normalmente indicati come i portatori del funesto spirito pacifista europeo  che aveva lasciato la Cecoslovacchia a Hitler senza fermare il conflitto. Stalin era convinto che dopo il patto Ribbentrop- Molotov  Hitler non lo avrebbe più attaccato, nonostante l’anticomunismo fosse al pari dell’antisemitismo uno dei pilastri ideologici del nazismo. Gli Stati Uniti entrano in guerra nel dicembre del 1941, solo dopo che il Giappone aveva cominciato a minacciare i loro interessi diretti nel Pacifico, Churchill aveva respinto l’invasione dell’Inghilterra e iniziato a suonarle agli italiani in Africa e la Germania aveva aggredito l’URSS.  Tra l’altro senza l’attacco della Germania e dei suoi numerosi alleati nell’Europa centrorientale ( la Slovacchia, l’Ungheria e la Romania, oltre naturalmente all’Italia ), l’Unione Sovietica non avrebbe mai avuto l‘occasione  di sottomettere quella parte di Europa che le fu assegnata poi con gli accordi di Jalta.

Mi trovo costretto a ricordare queste ovvietà, visto che nel discorso politico e mediatico molti sembrano credere che la storia ci offra delle lezioni belle e pronte da applicare per ogni circostanza.  I fatti storici diventano delle icone che rappresentano un comportamento  o un valore da sostenere in quel momento e vengono agitati a quel fine per essere depositati nello scaffale una volta terminata la loro funzione, come i vestiti di carnevale.

Non che sia una novità: Valerio Massimo nel I secolo d.c. aveva scritto proprio una raccolta di exempla storici ( fatti e aneddoti che mettevano in luce determinati vizi e virtù morali) che dovevano servire all’oratore a seconda della tesi da sostenere, ma almeno nelle classi dirigenti romane c’era l’idea che questo tipo di uso della storia era puramente retorico e che per capirla veramente bisognava leggere Tacito.

Non sembra esserci nel nostro tempo una simile precauzione forse perché la fine della guerra fredda e l’inizio della globalizzazione sono stati percepiti nelle  classi dirigenti occidentali come una fine della storia, aldilà anche di quello che Fukuyama intendeva impiegando questa vecchia espressione hegeliana. La storia insomma è diventata semplicemente una serie di immagini utili tutt’al più utili a fornire motivazioni esemplari per determinati comportamenti nel presente;  così se qualcosa ostacola il processo di globalizzazione guidato dagli Stati Uniti, esso non può essere nient’altro che il passato che ritorna.

Per esempio, l’ex premier slovacco, nonché fondatore della Democrazia Cristiana in quel paese, Jan Čarnogursky in un’intervista concessa al quotidiano di Bratislava Sme del 16 agosto scorso dichiarava a proposito della crisi ucraina che la posizione di Putin era comprensibile e legittima. Tra le molte cose interessanti che quell’intervista contiene vi è anche una domanda degli intervistatori che chiedono a Čarnogursky come sia possibile che uno che come lui, che è stato dissidente e ha lottato contro il comunismo nella Cecoslovacchia sovietizzata, sia filorusso. Al che l’intervistato ha avuto un gioco fin troppo facile nel ricordare che essere anticomunista e antirusso non siano la stessa cosa. E’ chiaro che per quei giornalisti, e non solo per loro, l’unico motivo per cui si può comprendere la posizione dei russi è il desiderio che l’Unione Sovietica ritorni.

 

Anche il presidente Obama ha più volte parlato della Russia come di un paese fuori dalla storia ancorato al passato, alludendo in occasione della crisi ucraina alla sua incapacità a risolvere i conflitti se non con la violenza. Bisogna chiedersi allora  perché un uomo politico indubbiamente intelligente come Obama non si sia reso conto che questa sua dichiarazione si presti alla banale obiezione che negli ultimi venticinque anni nessun paese più degli Stati Uniti sia ricorso alla guerra.  L’unica risposta è che evidentemente Obama non considera quelle condotte dagli Stati Uniti delle guerre, sia che le consideri operazioni di polizia che servono a mantenere il nuovo ordine mondiale della globalizzazione, nato dalla fine della storia, sia che le consideri avvenimenti accidentali incapaci di mutare la sostanza di un mondo pacifico e globalizzato.

Negli anni ottanta Reagan prese a chiamare l’Unione Sovietica come l’Impero del male. Si trattava di una definizione fortunata non solo perché sfruttava il successo internazionale della saga di Guerre Stellari,  semplificando il messaggio ideologico della Guerra fredda, ma perché la gerontocrazia che dominava l’Unione Sovietica dette un suo contributo decisivo al successo dell’espressione, mostrandosi capace soltanto di invadere, reprimere e mandare in rovina l’economia dei paesi a essa soggetti. L’espressione usata da Reagan non costituiva soltanto una spettacolarizzazione dello scontro tra blocchi e dunque una banalizzazione politica, ma rispetto a formule di tipo più politico, che so impero totalitario o stato comunista  tirannico, spostava il confronto dal concreto tempo storico a quello indeterminato e rituale della saga. Del resto anche la sfumatura religiosa contenuta nella nozione di Impero del male contribuiva a portare il confronto su un piano astorico, sul piano dell’eterna lotta tra le forze del Bene e quelle delle Tenebre, arricchendo oltre tutto di un carattere di teodicea ( la vittoria finale del Bene)  questo tempo fuori del tempo.

 

L’Impero del male nel giro di pochi anni collassò, venendo sostituito secondo la spiritosa espressione dello scritto russo Pelevin, che si riferiva agli anni di Eltsin, da una repubblica delle banane del male, e quindi questo modo di dire cadde in disuso.  Tuttavia  la nozione di Impero del male non era una pura e semplice forma di propaganda, al contrario essa veicolava un modo astorico di guardare alle vicende storiche  che, nato dalla persistenza di vecchi archetipi  mitico-religiosi  presenti nell’inconscio culturale anche degli occidentali più laici, si sposava perfettamente con le matrici neoliberiste e neopositiviste della cultura e delle tecniche di governo statunitensi e poi occidentali. Infatti questo sguardo astorico è sopravvissuto al declino dell’Impero del male.

 

Prova ne sia che anche la globalizzazione è stata narrata preventivamente come fine della storia o come fase storica incommensurabilmente nuova di grande pace e prosperità, cioè con quegli aspetti paradisiaci che devono per forza seguire la sconfitta delle forze delle tenebre.  Non è un caso che proprio in questa fase storica prenda piede l’espressione Stati canaglia per indicare quelle nazioni che non accettano le regole del diritto internazionale scaturito dal nuovo ordine. E’ un’espressione che ha il suo apice, ricorda Derrida nel suo libro su di essi, con la presidenza di Bill Clinton.  Ora anche la nozione di Stato canaglia rimanda a un immaginario che non ha a che fare con la storia: la canaglia è quella fascia di popolazione criminale o connivente che vive in ogni epoca ai margini della vera e propria società. Si tratta di un metafora sociologica e moraleggiante che ancora una volta esclude la possibilità di una storicità.

 

Ancora più interessante è la definizione di Stato canaglia che uno dei collaboratori di Clinton, docente di studi internazionali, Robert S. Litwak ( cito sempre da Derrida) fornisce: Stato canaglia è qualsiasi stato che gli Stati Uniti ritengono tale. Se ci si pensa, una simile definizione attribuisce agli Stati Uniti un ruolo da Leviatano hobbesiano che è al di fuori delle leggi per farla rispettare e infatti coerentemente gli Stai Uniti non riconoscono la giurisdizione di quel tribunale internazionale dell’Aia, al quale pure hanno contribuito a deferire numerosi esponenti di Stati canaglia.  Il curioso è che una concezione del genere presuppone la fine del tempo storico, l’idea cioè di vivere in un’epoca che non porterà cambiamenti se non un perenne arricchimento grazia alla scienza e alla libertà economica. Dal punto di vista del divenire storico questa idea di un superstato controllore è pericolosissima perché porterebbe al conflitto non appena apparisse all’orizzonte uno stato di dimensioni tali da sottrarsi al controllo del benevolo Leviatano statunitense e che pretendesse che i propri interessi concorrenti fossero riconosciuti nei modi delle tradizionale diplomazia tra stati.

 

Nel concreto il richiamarsi al passato , sovietico o nazista o talvolta entrambi, evocato astoricamente come un’icona del male è stato il modo in cui l’occidente ha letto la vicenda ucraina. Ancora  una volta questa lettura richiama il tempo mitico della saga nella variante dell’Impero che colpisce ancora. Una prospettiva storicizzante invece avrebbe sconsigliato di sostenere in un paese composito etnicamente e il cui principale atout economico è di essere una porta per il mercato russo un movimento nazionalista antirusso: è chiaro che una scelta del genere significa condannare per decenni un paese così grande a un’instabilità politica e a una dipendenza dall’estero paragonabili o superiori a quella della Bosnia pacificata dopo la guerra civile. Ma tutto ciò per il tempo mitico nel quale nuotano le categorie politiche delle èlite politiche e culturali dell’occidente globalizzato non conta nulla. Non è un caso che in queste èlite gli unici a esprimere preoccupazione per il modo in cui l’occidente aveva approcciato la crisi ed era intervenuto in Ucraina sono stati due dirigenti novantenni come Kissinger e Helmut Schmid, e ciò non per saggezza senile, ma perché ai loro tempi era impossibile non avere una prospettiva storica nelle scelte politiche.

 

Se poi questo modo di vedere è pericoloso per gli Stati Uniti, che infondo hanno sempre come via d’uscita estrema la possibilità tecnica dell’isolazionismo, per l’Europa, in cui tutto ci condanna a essere dentro la storia, è una forma di autolesionismo addirittura letale.

Editoria indipendente a Ostia

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esoed

Ostia, sabato 13 settembre – alle ore 18:00
L’EDITORIA INDIPENDENTE AL FABER BEACH
Lungomare Paolo Toscanelli 199

Presentazione di alcune collane editoriali esterne ai grandi circuiti:
– Chapbooks (Arcipelago Edizioni)
– Benway Series (Tielleci Editrice)
– Syn (IkonaLiber)
– Le edizioni de La Camera Verde

e dell’antologia EX.IT – Materiali fuori contesto

Dialogo con alcuni curatori:
Marco Giovenale, Mariangela Guatteri e Giulio Marzaioli.

Incontro a cura di Simona Menicocci.

Su facebook: https://www.facebook.com/events/704204466320358/

Violenza, silenzio e barbarie: quello che ho visto io della Siria

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di Lorenzo Declich

Le cose, sul campo, erano già molto chiare all’inizio.

La violenza del regime ha iniziato a manifestarsi subito, anzi, la rivolta nasce simbolicamente come risposta “civile” a un atto di violenza: un gruppo di ragazzini, picchiati e torturati per aver scritto su un muro quello che pensavano di Bashar al-Asad.

La macchina della propaganda, allora, era già ben oliata, ma nessuno che avesse un po’ di senno pensò che video e immagini della repressione contro i manifestanti pacifici fossero dei falsi.

Cosa che, invece, diventò uno dei pilastri della disinformazione negli anni a venire.

Erano in divisa o in borghese, sparavano sulla folla inerme.

Al termine delle dimostrazioni rimanevano a terra in molti.

Qualcuno respirava, qualcuno si muoveva, altri no.

Alle dimostrazioni seguivano gli arresti, gli stupri, le torture, molte delle quali senza ritorno.

Gli attivisti lavoravano per far tornare a casa i prigionieri, o per avere loro notizie.

Nasceva il Centro di documentazione sulle violazioni in Siria, aprile 2011.

Documentavano le morti, le vessazioni subite dai prigionieri con racconti, fotografie, video di persone martoriate, smagrite, quasi in fin di vita.

Le proteste si organizzavano principalmente attorno a due eventi, uno programmato il venerdì, l’altro dipendente dall’intensità della repressione: i funerali.

***

Andò avanti così per un po’ e la rivolta, nonostante la repressione, si allargò.

Iniziarono gli assedi. Prima furono “morbidi”: blindati bloccavano le vie di fuga delle città ribelli.

La città di Deraa fu la prima.

Lo scopo del regime era silenziare le proteste, isolare i focolai di rivolta, non permettere il collegamento fra attivisti.

Quando c’era una manifestazione gli strateghi del regime mandavano l’esercito, i soldati dell’esercito di leva davanti a tutti, e ordinavano di sparare.

Se i soldati si rifiutavano di sparare venivano presi a fucilate alle spalle.

Morti e feriti aumentavano esponenzialmente.

Eravamo all’inizio di maggio 2011, le vittime erano centinaia.

Il regime parlava di “terroristi”, di complotto contro la Siria ma nessuno dalla parte dei manifestanti aveva ancora sparato un colpo.

A nulla servivano gli infiltrati, venivano isolati.

Si narra anche che la sicurezza lasciasse per strada armi da fuoco.

Era l’ennesima provocazione, i manifestanti erano dichiaratamente pacifici e lo rimarcavano continuamente nei loro slogan.

Ma lì si registrarono le prime defezioni di ufficiali dell’esercito.

Bashar al-Asad, il dittatore, decretò la prima di una serie di amnistie grazie alle quali mise in libertà criminali comuni ed esponenti dell’islam radicale.

Un cavallo di Troia utile a legittimare l’algoritmo della violenza che i suoi seguaci traducevano nello slogan: “O Asad o bruciamo il paese”.

***

Gli assedi si moltiplicarono nelle città che il regime ritenne essenziali dal punto di vista strategico.

Homs, Baniyas, Tafas, Talkalakh, Rastan, Talbiseh, Jisr ash-Shughur.

In giugno a Jisr al-Shughur, cittadina di frontiera con la Turchia nella provincia di Idlib, si registrò il primo caso di violenza da parte dell’opposizione.

La città era assediata dall’esercito governativo, uomini armati – secondo gli attivisti si trattava di soldati defezionari – attaccarono le forze della sicurezza e le postazioni della polizia.

L’assedio si concluderà la settimana seguente con una carneficina, almeno 120 manifestanti rimasero uccisi.

Fu un episodio premonitore, in tutti i sensi, ma prima ci fu il 22 luglio 2011, il venerdì delle manifestazioni di massa in tutta la Siria.

Il punto più alto della rivolta pacifica.

La cifra della rivoluzione siriana.

Le bandiere sventolate dai manifestanti erano ancora quelle ba’athiste, le bandiere panarabe della Siria degli Asad.

Successivamente i rivoluzionari, per segnare un punto di non-ritorno, adottarono la bandiera dell’indipendenza.

Le città coinvolte furono soprattutto Hama – città simbolo della repressione asadiana – e Deir Ez-Zor ma l’intero paese, dalla costa al nord-est curdo, pullulava di presidi e proteste.

L’esercito siriano venne dislocato al centro di Damasco, dove le manifestazioni vennero di fatto impedite.

Il 29 luglio, per iniziativa di un gruppo di ufficiali disertori dell’Esercito Siriano nasceva L’Esercito Siriano Libero, con lo scopo primario di difendere le manifestazioni pacifiche dagli attacchi delle forze di sicurezza, dei civili lealisti e dell’esercito governativo.

Due giorni più tardi, il 31 luglio, nel quadro di un’operazione di repressione su scala nazionale, l’esercito regolare entrava a Hama e a Deir ez-Zor con i carri armati senza incontrare alcun genere di resistenza.

Spararono sulla folla, a caso.

Poi piazzarono i cecchini appostati sui tetti.

Il “massacro di Ramadan”  fece 136 vittime.

Passarono le immagini di corpi ammassati l’uno sull’altro, corpi senza testa, bambini arsi vivi.

***

A fine 2011 ci fu il primo attentato.

Esplosero due autobomba a Damasco, 34 morti secondo le autorità.

La televisione di Stato, giunta in loco pochissimi minuti dopo le esplosioni, inquadrava pezzi di essere umani sparsi sull’asfalto.

L’evento, che giungeva il giorno dopo l’arrivo degli osservatori della Lega Araba, fu il primo del genere nel conflitto siriano, non fu mai rivendicato.

Ne verranno altri, le modalità sono le stesse, lo spettacolo anche.

A partire dal 3 febbraio 2012 l’esercito governativo bombardò con l’artiglieria la città di Homs – snodo economico e strategico fondamentale per il regime – in particolare i quartieri della ribellione.

L’offensiva terminò il 14 aprile successivo, quando il regime affermerà di controllare circa il 70% della città.

Alto il prezzo pagato dalla popolazione.

La città sarà infine rasa al suolo, la sua anagrafe bruciata.

A marzo 2012 il campo profughi palestinese di Yarmuk, divenuto nei decenni un vero e proprio quartiere di Damasco, si unì alla rivolta.

Iniziò la repressione, in un’escalation che porterà al blocco totale del campo.

Come in altre zone calde la strategia del regime sarà il blocco degli accessi all’area e il martellamento tramite artiglieria.

Due anni più tardi Yarmuk sarà di nuovo in mano al regime.

Le immagini parlano chiaro, fu presa per fame.

Bambini e vecchi morivano.

Quelli ancora vivi erano ridotti a scheletri.

La stessa strategia venne messa in atto nelle aree liberate di Homs, che alla fine caddero.

Oggi il regime si esercita nella stessa pratica in altri quartieri di Damasco e ad Aleppo.

***

Nell’aprile 2012 un doppio attentato dinamitardo scosse la capitale.

55 le vittime secondo le fonti del governo.

Per la prima volta l’obiettivo era civile.

Pezzi di corpi sull’asfalto.

Il regime accusò “i terroristi” e qualche giorno più tardi su internet comparve una rivendicazione della Jabhat al-nusra, gruppo armato estremista che più tardi scopriremo essere affiliato ad al-Qa’ida, che immediatamente smentì.

Fu il mese di inaugurazione della “stagione delle stragi”.

Avvennero in paesi, piccole cittadine attorno a Homs.

Il regime faceva “pulizia” nelle aree che riteneva strategiche.

Quella di Hula è la più conosciuta, ne seguirono diverse altre, fra cui quelle di al-Buwayda al-Sharqiyya e al-Qubayr.

L’esercito chiudeva le via d’accesso all’area, bombardava con l’artiglieria.

Poi entravano in azione i “reparti speciali”, formati da civili lealisti, che facevano irruzione nelle case e uccidevano chiunque trovassero.

Le immagini fecero il giro del mondo.

Case distrutte, corpi ammassati, messi in fila.

Gli eventi vennero definiti dagli analisti un “punto di svolta” del conflitto.

Ma l’atteggiamento degli attori internazionali non mutò.

Nei fatti la strage di Hula determinò la fine del “cessate il fuoco” che, mai davvero rispettato, era stato annunciato dall’inviato dell’ONU Kofi Annan il 4 aprile precedente.

***

Il 17 luglio 2012 partì una grande offensiva dei gruppi ribelli, fra i quali figuravano già un buon numero di formazioni di spiccato carattere confessionale.

Gli obiettivi erano le principali città (il 19 luglio inizia la battaglia per Aleppo, ancora in corso).

Iniziò la guerra, una guerra asimmetrica e sempre più sporca.

Iniziò a manifestarsi, anche, il gioco della guerra per procura.

Iran (e poi Hezbollah e milizie sciite iraqene) e Russia con Asad, gli arabi del Golfo e la Turchia con la ribellione.

Polarizzazione in senso confessionale.

Gli Stati Uniti e l’Europa rimasero nel limbo.

La Cina alla finestra.

Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite immobilizzato.

***

Il 3 novembre 2012 l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani denunciava l’esecuzione sommaria di militari dell’esercito regolare siriano catturati dai ribelli.

Questo e altri fatti avvennero nonostante l’Esercito Siriano Libero si fosse dato in agosto un “codice di autoregolamentazione” per impedire eccessi di questo genere.

Il fondamentalismo intanto montava, le brigate si radicalizzavano.

I combattenti non siriani, da ambo le parti, erano ormai una realtà tangibile.

Entrava in scena l’aviazione del regime, coi razzi.

Bombardavano scuole, ospedali, istallazioni civili.

Nel gennaio 2013 venne colpita l’università di Aleppo.

Era giorno di esami, fu una strage.

Nello stesso mese, nella stessa città, corpi senza vita emersero dal fiume Qweyq.

Erano circa 80 persone giustiziate dai lealisti con un colpo di pistola, legate mani e piedi e gettate in acqua.

Più avanti iniziarono a manifestarsi le evidenze di attacchi chimici, bombe incendiarie, gas.

Caddero anche bombe a grappolo.

Corpi martoriati, persone che scavano, persone intossicate e poi morte asfissiate.

Il flusso dei profughi e degli sfollati aumentava esponenzialmente.

Pestaggi, umiliazioni, stupri, accanimento su corpi esanimi, processi sommari, fucilazioni ed esecuzioni efferate da ambo le parti.

Un combattente di Homs la cui famiglia era stata sterminata dai lealisti strappò il cuore dal corpo di un militare di Asad, lo portò alla bocca nell’atto di mangiarlo.

La spirale della vendetta sembrava non conoscere fine.

E fecero la loro comparsa i barili bomba: ordigni ciechi, senza propellente, armi di distruzione di massa destinati ad uccidere indiscriminatamente.

Le vittime erano quasi soltanto civili, puro terrore.

***

Nell’aprile 2013 infine fece la sua comparsa lo Stato Islamico di Iraq e Siria (ISIS) che operava inizialmente a cavallo fra le frontiere siriana e iraqena.

La situazione, lo avrete capito, era già ampiamente deteriorata.

L’Esercito Siriano Libero soccombeva, mancava di logistica e coordinamento.

Diverse brigate avevano cambiato bandiera, si rafforzavano e si federavano le formazioni jihadiste, meglio equipaggiate e foraggiate.

Altre, lasciate a se stesse, si abbandonavano a razzie, gestivano i traffici di armi, agivano come veri e propri gruppi criminali.

A Qusayr l’aviazione lealista bombardò i civili in fuga dalla città dopo la conquista della cittadina da parte dell’esercito siriano e del libanese Hezbollah.

Nella Ghuta di Damasco il regime bombardò col sarin.

L’ISIS occupò l’est del paese, abbandonato dal regime, e guerreggiò a nord.

Mentre Asad teneva l’esercito nelle caserme, ISIS prendeva possesso del territorio e dell’amministrazione.

Combatteva contro i gruppi armati anti-regime, si accaniva contro gli attivisti, incarcerava gli esponenti della società civile, li uccideva in piazza di fronte alla popolazione e poi esponeva in pubblico i loro corpi crocifissi.

Si apriva un nuovo fronte per l’eterogeneo fronte anti-Asad, anche l’ISIS era “il nemico”.

***

Ecco, questo ho visto io in questi anni.

Un colpevole: il regime di Bashar al-Asad, spalleggiato dai suoi complici d’oriente e d’occidente, avallato dai silenzi di chi nel mondo voltava le spalle e chiudeva occhi e orecchie.

Una risposta: l’aumento esponenziale dell’esercizio della violenza.

Un esito: la barbarie.

***

Il 16 aprile 2013 l’ONU invocava la pace in Siria, usando le facce di ben cinque responsabili di agenzia (OCHA, PAM, UNHCR, UNICEF, OMS).

Una di queste cinque facce, quella del Direttore dell’Alto Commissariato per i Rifugiati, che si chiama António Guterres ed è stato Primo ministro nel suo paese, il Portogallo, parlò con i giornalisti dell’Economist.

Spiegò loro che la guerra in Siria, secondo il suo modesto parere di uomo che di conflitti ne ha visti decine, era la più brutale dal 1989 – cioè dalla fine “dichiarata” della Guerra fredda – a oggi.

Lo era dalla prospettiva dell’impatto sulla popolazione e da quella della percentuale totale della popolazione in stato di bisogno.

In quegli stessi giorni tornava dalla Siria Amedeo Ricucci, cronista di guerra di lungo corso, una specie di Guterres italiano nel suo campo, dopo essere stato ostaggio di una brigata di qaidisti che, proprio in quei giorni, passava dalla Jabhat al-nusra all’ISIS.

La cosa più importante che disse, appena sceso dall’aereo, non riguardava la Siria in sé, ma il fatto che fosse diventato quasi impossibile raccontare la Siria.

Da una parte, già allora, c’era un regime che considerava “obiettivi militari” tutti coloro che entravano nel paese “illegalmente”.

Dall’altra un groviglio di fazioni armate che dimostravano di non aver più alcuna fiducia nel “potere della stampa” e di non farsi scrupoli di fronte alla prospettiva di qualche vantaggio economico (o nel caso dell’ISIS anche propagandistico).

In mezzo c’erano decine, centinaia di giornalisti, per lo più siriani “freddati con colpi di arma da fuoco alla testa, torturati a morte, sequestrati e mai più tornati a casa” (fonte).

***

Bene, prendete in considerazione le due coordinate della “brutalità” e del “silenzio” e consideratele in atto su una scala temporale sempre più ampia o, se preferite, su una scala di potenza sempre maggiore.

Su un tratto temporale breve incontreremo il tiro a segno del regime sui manifestanti e, poco più in là, il massacro di Hula o i “massacri del pane”, quei “punti di svolta” che, se ignorati (cosa di fatto avvenuta), rendono ancora più clamoroso il silenzio.

Su un tratto di media lunghezza – ad esempio dall’inizio della rivolta fino all’aprile 2013 – troviamo 70.000 morti e 6 milioni e mezzo di rifugiati o sfollati.

Parliamo di numeri, qui, di numeri in progressione, ovvero di qualcosa che ci “risveglia l’attenzione” in occasione di cifre tonde (100.000!) o di salti di scala (1:10!).

E su un tratto lungo?

Sul tratto lungo c’è un crimine di inaudita brutalità reso possibile da un silenzio ormai definitivo, una cosa così spaventosa da renderne addirittura scabrosa la menzione.

Sul tratto lungo c’è una cosa che si chiama sterminio.

***

Siamo arrivati a settembre 2014, è passato un anno e mezzo.

I morti sono triplicati.

Un terzo degli abitanti della Siria, 8 milioni di persone, è fuggita dal paese, vive la condizione di profugo.

Non si contano più gli sfollati interni.

Da gennaio, l’ONU ha smesso di contare i morti.

Noi però da queste parti parliamo solo dell’ISIS, e solo nella misura del fatto che l’Occidente “è in pericolo”.

E questo non lo dico per cercare di smuovere qualche coscienza.

Lo dico perché sono certo che a molti, oggi, sfugge un aspetto centrale del “problema mediorentale”: la Siria di Asad.

Però, per parlare dell’oggi, delle preoccupazione dei nostri Ministri dell’interno, dei tagliatori di teste anglofoni e delle teste mozzate in Iraq, uso le parole di Zanzuna (uno pseudonimo).

L’articolo, che qui riporto per intero, è apparso il 9 settembre su SiriaLibano.

Siria, in carcere chi chiede dei militari scomparsi

Non ha usato mezzi termini il presidente americano Barack Obama quando, nell’incontro Nato tenutosi venerdì a Newport in Gran Bretagna, ha parlato dei mezzi per sconfiggere lo Stato islamico. Non ha utilizzato l’espressione “linea rossa”. Né ha insistito sulla “necessità di trovare  soluzioni politiche”.

Obama è sembrato deciso e chiaro:  “Vi è una ferma convinzione che dobbiamo agire. (…) Lo Stato islamico è una grave minaccia per tutti. E nella Nato c’è una grande convinzione che è l’ora di agire per indebolire e distruggere l’Isis”.

Da Newport 2014 a Bruxelles 2013 è passato più di un anno. Allora, la tavola rotonda della Nato aveva altre priorità, e la situazione siriana presentava realtà diverse: la Nato respinse un “intervento nel conflitto siriano, nonostante il deterioramento della situazione”.

Non sembra essere molto utile mettersi a studiare cosa è accaduto in questo periodo per capire come mai la Nato abbia cambiato idea.

Non è stato per Raqqa, la prima città uscita dal controllo del regime nel marzo 2013 e capace di gestire la sua vita civile nel primo mese di libertà, prima dell’arrivo dello Stato Islamico. Non è  stato per il massacro della Ghuta con i gas nell’agosto 2013.

Forse il caos creato dallo Stato islamico in Iraq è diverso da quello creato in Siria.  Forse solo adesso “le minoranze del mosaico religoso sono a rischio”. Forse è stato a causa della morte dei due giornalisti americani James Foley e Steven Sotloff, barbaramente uccisi dallo Stato Islamico. In questo modo il video game funziona e convince il mondo a unirsi per combattere contro i terroristi.

Anwar al Bunni, avvocato siriano da decenni in prima fila per la difesa dei diritti umani, scrive sulla sua pagina Facebook: “Non so perché il mondo vibra di panico quando centinaia di teste vengono tagliate dalla spada, ma non vibra quando decine di migliaia di persone vengono uccise dai barili esplosivi lanciati dagli aerei, o dai missili, o dalle armi chimiche, o sotto tortura (…). La risposta ha a che fare con l’identità dell’assassino? O forse con l’identità della vittima? Se l’assassino indossa l’abito laico gli è permesso forse di uccidere chi vuole e nel modo in cui lui vuole? Ma se il boia indossa l’abito religioso gli è vietato anche di urlare?”.

Due facce della stessa medaglia. Una uccide il popolo con il coltello. L’altra col veleno. Una uccide e dice “sto uccidendo e sono così”. L’altra consegna alla prima il popolo che deve essere ucciso.

Il presidente siriano Bashar al Asad ha imparato dall’esperienza americana: creare il nemico terrorista serve per diventare il baluardo contro l’integralismo da combattere con tutti i mezzi, leciti o meno. A dire il vero, Asad figlio ha imparato bene dal padre.

Per fare funzionare questo gioco chiede ai suoi militari di ritirarsi da alcune aree, lasciando scoperti molti luoghi del fronte contro lo Stato islamico. Molti suoi soldati sono così lasciati impotenti da soli ad affrontare l’attacco della marea nera dei jihadisti. Solo allora, servirà l’intervento salvifico delle truppe di Asad.

Nadin, un’attivista siriana, racconta la sua storia nelle località attorno a Tartus: “Non ci sono più uomini nei villagi alawiti. Questi villaggi sono ormai famosi perché le donne che vi abitano non hanno più un uomo al loro fianco. Gli uomini che tornano, tornano morti”.

#Wainun(“Dove sono?”) è una campagna Web gestita da attivisti siriani per chiedere che sia fatta luce sulle sorti degli scomparsi come Padre Paolo, Razan Zaytune, Samar Saleh, Mazen Darwish, Yehya Sharbaji e molti altri.

Su modello di questa campagna, i siriani fedeli ad Asad, hanno cerato una pagina Facebook in cui campeggia la foto del raìs e chiamata: “Le aquile dell’areoporto militare di Tabqa, uomini di Asad” in riferimento alla battaglia avvenuta a fine agosto nella regione settentrionale di Raqqa tra lealisti e jihadisti.

Di solito questa pagina incoraggiava i soldati a combattere nel nome di Asad. Soprattutto quelli rimasti nella base militare area di Tabqa ad affrontare lo Stato islamico. Ma quelle “aquile” sono poi state abbandonate. Senza nessun sostegno di Asad.

Ecco perché i lealisti, autori de “Le aquile dell’areoporto militare di Tabqa, uomini di Asad”,  hanno creato nella stessa pagina una sezione informativa chiamata #Wainun dove raccolgono notizie sulla sorte dei militari dell’esercito regolare scomparsi.

L’episodio di Tabqa non è stato certo l’unico. Ma è stato il più recente e quello più drammatico. Centinaia di soldati sono stati uccisi dai jihadisti. Il regime non solo non li ha difesi, non ha nemmeno parlato della loro morte nei canali televisivi governativi che hanno invece proseguito a trasmettere secondo il palinsesto regolare, con musichette e serie televisive.

I toni espressi nella pagina Web #Wainun dei lealisti mettono a nudo la rabbia e la delusione di molti sostenitori del regime: “Dove sono i nostri figli?”, hanno chiesto in molti. Come se questi seguaci di Asad si fossero accorti solo adesso del gioco e del fatto che il regime è capace di impegnare ogni energia per liberare dei rapiti russi o iraniani, ma è capace di lasciare al loro destino tragico centinaia di soldati semplici. Come carne da macello e niente più.

La pagina lealista #Wainun ha così superato la “linea rossa” indicata dal regime e dai suoi servizi di controllo e repressione. Ma non comprendete male: non è che gli agenti dei servizi sono andati a difendere i soldati di Asad al fronte contro i jihadisti. No… gli agenti sono andati ad arrestare l’amministratore della pagina Facebook e l’ideatore della campagna, Mudar Khaddur.

Khaddur è sempre stato un lealista. Poi ha perso uno dei suoi fratelli nella battaglia dell’aereoporto. E ha creato questa pagina per chiedere ad Asad e al ministro della difesa, Fahd al Frej, i motivi per cui i generali sono scappati, lasciando i soldati in mano allo Stato islamico, che prima li ha insultati e poi uccisi. Khaddur ha trascorso giorni e giorni per raccogliere informazioni sui soldati scomparsi e per dare la notizia alle loro famiglie.

Questa partita a scacchi il regime la vuole giocare fino all’ultimo. Ha capito di essere il re e di poter giocare col sangue. Non pensa di esser sconfitto solo perché fa la parte del cattivo. Non crede alle favole, dove i cattivi alla fine vengono sconfitti. A differenza di noi, il regime di Asad sa che non è “il protettore del Paese” e che non è “il protettore delle minoranze”. Lo sa bene e sorride di fronte ai proclami di Newport e Bruxelles, ai negoziati di Ginevra-2 e Ginevra-1, alle riunioni degli Amici della Siria e degli Amici del regime. Perché in questa partita a scacchi, nessuno vuole gridare “Scacco matto!”.

 

Jucci è un mantra. Breve storia di un canzoniere

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cover_gra di Marco Corsi

C’è una differenza sostanziale tra la cronaca e la narrazione di una storia e sta nel fatto che il soggetto, nella cronaca, perde talora la sua identità; qui invece, dentro la nuova raccolta di Franco Buffoni, c’è un movimento forte di acquisizione.

Jucci è un mantra: è uno strumento del pensare, del ricordare e del far rivivere la memoria. Un pensiero che agisce attraverso le immagini, ma soprattutto attraverso le parole, quelle della protagonista di allora e quelle attuali, oggidiane, del poeta, e che come una preghiera solo rammemorata o sussurrata si svolgono in grani concentrici per toccare gli estremi della comprensione e del distacco, fondendoli insieme.

«Per una narrazione dei fatti» (come si legge nel terzo componimento della sezione Le maniche distanti) nulla è mutato rispetto a quanto Buffoni anticipava nella nota ai primi componimenti pubblicati su «Nuovi Argomenti» dell’aprile-giugno 2011:

les nouveaux réalistes: Simone Ghelli

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petit-nuage

Più sopra il cielo è invisibile
di
Simone Ghelli

Uno scoppio rotondo, pieno d’acqua come la pancia d’una donna gravida, la sveglia per l’ennesima volta. Proprio sopra la sua testa. Tuuum!, e poi una vibrazione sorda da basso continuo.
Livia cammina sul pavimento freddo, le dita dei piedi contratte, eppure sensibili come antenne alla ricerca delle ciabatte disperse chissà dove. Si alza per via di quell’impulso ad andare a controllare se il mondo esiste ancora. Il cielo, soprattutto. Ha paura che il cielo, sotto quelle cannonate insistenti ormai da giorni, sia in procinto d’incrinarsi e riversarsi giù tutto insieme.
Scosta le tende della finestra e guarda fuori, affascinata come sempre dalla luce tinta d’arancione che rimbalza sulla facciata del palazzo di fronte: una sorta di scheletro grigio, rimasto lì ad ammuffire dopo che i vigili hanno messo i sigilli a causa d’irregolarità riscontrate nei permessi. Più sopra il cielo è invisibile, o forse la città è già sommersa e nessuno se n’è ancora accorto. Sono anni che la televisione parla dell’innalzamento delle maree e dell’erosione delle spiagge. Anziché sprofondare lentamente, secondo Livia finiranno sommersi da questo acquazzone che sembra non voler finire più, ricoperti da una mano di vernice blu, liquida e vischiosa.

Scrosci d’acqua improvvisi, scossi da folate di vento, frustano le pareti del suo piccolo monolocale. Dal rumore capisce che la pioggia si tramuta a tratti in chicchi di grandine che picchiettano sul tetto.
Le sembra di vivere in quell’incubo ricorrente che la tormenta da anni, dove la tempesta travolge e trascina via tutto, lasciandola incolume insieme ad alcuni cari, con i quali ascende al cielo in una spirale d’acqua. Quando le capita di raccontare quella storia, le persone le dicono che l’acqua esprime evidentemente il bisogno di un cambiamento, ma a lei sembra piuttosto di essere in balia della ribellione del proprio inconscio che la invita a liberarsi dei beni materiali. O forse non c’è proprio nessuna metafora dietro a tutto questo, se non la raffigurazione delle sua paura di perdere quel piccolo monolocale che ha sempre desiderato.

Livia passa nel bagno, dal quale proviene l’inquietante gorgoglio dell’aria che entra nei tubi di scarico. Le gocce d’acqua battono sull’unica finestrella di alluminio e rimbalzano via con uno strano rumore metallico.
Alza la tavoletta e si accovaccia sul water, sommando un rivolo di urina a tutto il liquido che il cielo sta riversando sulla città. Le sembra di stare su una barca, lassù all’ultimo piano, sulla cresta di un’onda.
Sullo schermo della televisione, appena un metro più in là, l’orologio del televideo segna le 3:49. L’attenzione di Livia viene rapita da una curiosa notizia riportata tra le news: «L’albero di Natale a Piazza Venezia abbattuto da un fulmine». Sotto al titolo viene precisato che il tronco dell’abete addobbato a festa si è spaccato in due parti uguali, per fortuna non si registrano feriti. Livia fa zapping per cercare qualche immagine dell’accaduto, ma sembra che nessuno abbia avuto interesse a riprendere la scena; eppure sente che quello deve essere il segnale d’inizio, il monito lanciato dal cielo.

Intanto, fuori la pioggia si è definitivamente trasformata in un torrente di grandine che sta ricoprendo con un enorme manto bianco la strada e le auto parcheggiate. Picchia duro sul tetto e contro i vetri delle finestre, copre il volume della televisione, dove alcuni giornalisti stanno dibattendo in una replica notturna sulla plausibilità di certi attacchi sferrati al Presidente del Consiglio. I suoi difensori si appellano al sacro diritto alla privacy e avanzano giudizi morali su quelli che si permettono di violare quella sfera privata per gettare fango sugli avversari politici. Gli accusatori sostengono invece che la moralità di un uomo di stato debba dimostrarsi integerrima in pubblico così come nel privato.
Livia pensa alla sua di tutela, e a quella delle decine di persone che ogni giorno viola digitando una serie di numeri che non significano niente, se non il sogno di vendere e fatturare che appartiene a qualcun altro. Lei non sa neanche il nome di chi ci guadagna, conosce soltanto il suo e quello di chi condivide quel supplizio di voci.
A volte persino si confonde, dice buongiorno di pomeriggio o addirittura buonasera di mattina. Dall’altra parte ridono. Capita, gli dicono. È la vita di oggi che è troppo frenetica. Loro vanno di fretta, e lei ci sta per trattenerli ancora un minuto.
Il lavoro di Livia non è calcolabile in base al tempo, anche se ha il dovere di dettare il ritmo, di provare a tenere le persone sull’attenti. Entra nelle loro case, ignara delle attività nelle quali le sta sorprendendo, per ricordar loro che al giorno d’oggi non ci è concessa nessuna rinuncia. Il suo compito è quello d’instillare in loro il dubbio che via sia ancora qualche necessità da soddisfare. A volte un po’ se ne vergogna e le viene da pensare che potrebbe esserci uno dei suoi genitori tra loro.

Oggi vorrebbe sembrare più a suo agio, quasi disinvolta, come molte colleghe che entrano salutando i colleghi dell’open space con larghi sorrisi e ampi movimenti, senza incespicare nelle buone intenzioni al primo passo e rifugiarsi poi nella sua postazione incastrata in un angolo, dove il tempo non passa mai, oppure passa troppo veloce.
Spegne il televisore e con tre passi è di nuovo nel letto, sotto il bozzolo di lana della coperta. Il ticchettio delle gocce sul tetto sembra quello di una lancetta impazzita che corre dietro al tempo. Livia pensa che deve dormire, che deve assolutamente ritrovare il sonno, ed è un pensiero che si avvita su se stesso, che la porta sulla soglia per poi sbatterla subito fuori. Ogni volta il cuore ha un tuffo, come perdere il fiato e tornare a galla.
Mancano solo tre ore e deve respirare piano, prendere aria e tenerla nei polmoni come le hanno insegnato. Le capita anche a lavoro, una specie di panico che le secca il naso e la gola. Le hanno spiegato che deve fare un gran respiro, che deve ingoiare l’aria con la bocca e tenerla a lungo. Di notte però non ha nessuno che glielo dica, soltanto lei con il panico che le mostra quant’è fragile. Si sente di vetro, si sente che potrebbe rompersi da un momento all’altro e la sua testa che non si scollega, che assiste impotente al precipitare di tutti quei dati estratti dai computer e raccolti nelle liste a uso e consumo degli uffici marketing aziendali. Va avanti per minuti, forse per ore, ma quello è il segno tangibile che la comunicazione si sta interrompendo.
Tututututututu.
Segnale occupato.

La radiosveglia è sempre quella, sempre la stessa dai tempi dell’università. È l’unica cosa che la riporti indietro, dalla prima notte che abitò sotto lenzuola umide e fredde; che ha il potere di strapparla al sonno e di gettarla nella materia dura del giorno. Oggetto dalla funzione detestabile, che uccide ogni immaginazione.
Questa è Livia, 37 anni e un profilo da operatrice telefonica, se l’esperienza significa ancora qualcosa.

Tra Gramsci e Gogol: come Strati tentava di spiegare il Sud

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di Domenico Talia

Se un narratore sceglie di usare la frase di un uomo politico come esergo del suo romanzo, il rischio di buttarla in politica va messo nel conto. Se il politico che ha scritto quella frase non è uno dei tanti ma è Antonio Gramsci, uno dei migliori che l’Italia ha saputo esprimere, il rischio aumenta. Che Saverio Strati volesse raccontare una storia in cui la coscienza politica del protagonista fosse la stella polare da seguire, lo si può intuire dal titolo del romanzo, È il Nostro Turno (Mondadori Editore, 1975), e da quella citazione di Gramsci:

«Nessuna azione è possibile se la massa stessa non è convinta dei fini che vuole raggiungere e dei metodi che vuole applicare.»

Frase che gronda di quella coscienza di classe che ha riempito la storia del Novecento e che oggi sembra soltanto un ferro vecchio che nessuno vuole più usare. Eppure, nonostante le categorie del Novecento sembrano ormai servire a poco in questi tristi anni Duemila, in quel romanzo di Strati, le considerazioni di uno studentello di paese che leggeva Gramsci e che durante la metà del secolo scorso viveva e studiava in una città di provincia nel profondo Sud italiano potrebbero fornire suggerimenti utili a comprendere il nostro tempo.

«Sarebbe importante studiare questo fenomeno che si sta affermando in Italia: la divisione del territorio nazionale in aree di potere. Bisognerebbe avere la fantasia di un Gogol e scrivere un romanzo dal titolo: Anime Morte, Italia Anni Cinquanta.»

Erano questi i pensieri che Saverio Strati ha messo in bocca al giovane protagonista di È il Nostro Turno. Pensieri di un giovane proletario che sa bene che soltanto la scuola e lo studio lo potranno salvare dalla sua condizione di povero meridionale. Pensieri che mettono insieme Gramsci e Gogol e che ancora oggi potrebbero essere utili strumenti per comprendere le forme di potere e le anime morte dell’Italia degli anni Duemila.

 

Saverio Strati è scomparso a Firenze nell’aprile scorso, qualche mese prima di compiere novant’anni (era nato nell’agosto del 1924), dopo aver scritto molti romanzi e un grande numero di racconti. La sua è una vasta produzione letteraria che è fortemente intrecciata con la storia del Novecento del Mezzogiorno d’Italia e allo stesso tempo costituisce una sorgente permanente di riflessioni molto attente sulla condizione umana. Tra i tanti romanzi e raccolte di racconti che Saverio Strati ha scritto, È il Nostro Turno è un romanzo che ha ricevuto non molta attenzione da parte della critica, almeno non quell’attenzione che hanno avuto il romanzo che l’ha preceduto, Noi Lazzaroni (Mondadori Editore, 1972), e quello che lo ha seguito, Il Selvaggio di Santa Venere (Mondadori Editore, 1977), con il quale Strati vinse il premio Super Campiello nel 1977. Eppure questo romanzo, più di altri, racconta la parabola dello scrittore contadino e muratore che è stato Saverio Strati. La storia di un giovane del Sud che cerca, attraverso lo studio, un modo per superare le difficoltà di una condizione di povertà ed emarginazione comune alla gran parte delle popolazioni meridionali nel dopoguerra e durante la metà del Novecento. Il racconto è costruito intorno al tema della ricerca e del conseguimento di un titolo di studio da parte dei figli dei poveri contadini meridionali. Il titolo di studio come elemento di superamento dell’emarginazione e come strumento di riscatto per chi nella vita si è dovuto piegare ai voleri dei potenti e ha sempre “faticato” senza mai avere dal lavoro la giustizia sociale e il progresso cui aspirava.

 

È il Nostro Turno mantiene e rafforza la tradizione, già presente fin dai racconti de La marchesina (Mondadori Editore, 1956), di un autore che, come aveva scritto Mario La Cava, «… vede sé come uno dei tanti personaggi della vita,…». In questo romanzo il protagonista è un giovane studente calabrese che racconta le sue avventure vissute in luoghi lontani dal suo piccolo paese, nei quali arriva spinto dalla necessità di ottenere un titolo di studio che potrà offrirgli un’esistenza diversa da quella dei suoi genitori e di tanti suoi paesani. A conferma degli aspetti autobiografici del romanzo, la storia si svolge tra Catanzaro, Reggio Calabria e Firenze. Luoghi in cui il protagonista vive per ragioni di studio, luoghi che nel racconto sono descritti con gli occhi di un figlio di contadini poveri che vive in un paese della Calabria interna e si sente inferiore in un mondo cittadino popolato da piccoli borghesi ipocriti e mediocri. La storia si sviluppa nella narrazione dei rapporti del protagonista con i suoi compagni di studi, con le persone conosciute nella sua vita da pensionante, con le prostitute e i poveri incontrati alla mensa cittadina, con le ragazze con cui intreccia piccoli amori mai perfettamente corrisposti, con donne più o meno mature con le quali i suoi primi rapporti sessuali sono quasi sempre furtivi e problematici.

 

Dietro tutte queste vicende, a volte misere, che si sviluppano quotidianamente in quel contesto cittadino, c’è l’essenza del romanzo che già il suo titolo rivela: la formazione di un giovane intellettuale meridionale che si interroga sul ruolo storico che lui e i giovani istruiti come lui dovrebbero avere nella costruzione di una società meridionale libera dagli antichi poteri che l’hanno costretta all’arretratezza, condannandola ad un miseria diffusa e al dominio dei corrotti. Strati e il suo personaggio si chiedono se non sia giunto il tempo (il turno) di una nuova classe di persone istruite e libere da condizionamenti che possa diventare la classe dirigente di un nuovo meridione. Lungo questa traccia si sviluppa il percorso della narrazione che, dietro le vicende quotidiane dei personaggi, affronta in maniera originale e profonda il rapporto tra le potenzialità dei giovani meridionali e il mancato sviluppo del Sud. È questa la ragione principale che rende questo romanzo di strettissima attualità, anche se sono trascorsi quarant’anni da quando Strati lo ha scritto e più di cinquanta dall’epoca in cui la storia è ambientata.

 

Infatti, insieme a un piano “interno” che fornisce una sorta di contributo ideologico-politico che esprime la necessità di acquisire una coscienza sociale generatrice di una nuova classe dirigente, il romanzo di Strati, contiene anche un piano “esterno” descrittivo che ha valore di memoria storica ed è costituito dal racconto dei luoghi e dei contesti sociali narrati, come, ad esempio, avviene nella prima parte del romanzo con le descrizioni dettagliate del paesaggio urbano e del contesto sociale di Catanzaro. Descrizioni che oggi rappresentano una singolare testimonianza sui luoghi e sulla vita di quella città nei decenni della metà del secolo scorso.

 

Il titolo, come abbiamo detto, indica in una forma evidente il significato delle vicende narrate e segue una tradizione presente in altri romanzi di Strati come Mani Vuote (Mondadori Editore, 1960) e Noi Lazzaroni i quali, come La Cava aveva notato in una sua recensione, sono titoli che indicano «espressioni isolate che hanno una funzione orientativa nell’insieme dei motivi ispiratori di un’opera.» La stessa funzione orientativa si scorge nell’esergo gramsciano del romanzo. E a confermare l’ispirazione gramsciana del piano ideologico-politico del romanzo c’è il suo carattere anti-borghese («che c’entro io in questo mondo di borghesi!») che spesso emerge nella narrazione e nelle tante frasi tramite le quali si richiama il ruolo degli intellettuali come soggetti che hanno il compito di «studiare la realtà, minuziosamente, per essere in grado di cambiarla laddove sia necessario.» Il protagonista del romanzo racconta esplicitamente di aver letto le Lettere dal Carcere di Gramsci e di averne tratto ragioni di riflessione. In un passo del romanzo è anche narrato un episodio in cui regala quel libro ad una sua compagna di studi che mostra di non apprezzarlo e questo atteggiamento superficiale della ragazza per lui è motivo di delusione. Volendo sottolineare gli aspetti autobiografici del romanzo si può notare che proprio nello stesso anno in cui Strati ha sostenuto per la prima volta l’esame per la licenza ginnasiale a Catanzaro, la casa editrice Einaudi ha pubblicato le Lettere dal Carcere.

 

L’ispirazione gramsciana spinge il protagonista a meditare sulla condizione degli studenti figli di poveri contadini e lo conduce ad acquisire una coscienza del ruolo sociale che quelli come lui devono avere. Giovani studenti che non debbono accontentarsi di vivere una vita più agiata dei loro padri, ma devono assumere un ruolo di guida nella trasformazione sociale del Mezzogiorno:

«Non è più possibile che ci respingano ai margini … Non c’è scampo per i nostri avversari; questo è il nostro turno.»

Questa visione che il romanzo esprime ha ricevuto alcune critiche nel periodo successivo alla sua pubblicazione da chi ha ravvisato un approccio narrativo eccessivamente ideologico e troppo schierato politicamente per un romanzo che in alcuni passaggi contiene diverse invettive contro i mali della società meridionale e italiana che a taluni sono apparse quasi velleitarie. Eppure, a quarant’anni dalla sua pubblicazione, questo romanzo che non ha avuto la fortuna di altre opere di Strati, mantiene molti elementi di attualità soprattutto a causa delle condizioni di difficoltà in cui ancora oggi si trova il Sud, per l’estrema incertezza – accresciuta anche a causa della crisi – in cui vivono i giovani meridionali e per la persistente arretratezza sociale, di infrastrutture e di servizi che il Sud registra rispetto al resto del Paese. Il libro mostra tramite una narrazione realista anche l’incapacità e le pratiche corruttive non rare nella classe politica e i suoi dimostrati rapporti con la malavita. Tutti questi elementi, ancora oggi molto attuali, sono analizzati tramite le vicende e gli atteggiamenti dei personaggi e sono denunciati senza giustificazioni in questo romanzo “politico” che Strati ha scritto nel periodo che va dal 1973 al 1974.

 

È sufficiente citare alcuni brevi passaggi del libro per mostrarne l’attualità e l’analisi lucida di mali sociali purtroppo ancora oggi ben presenti nel Meridione d’Italia:

«Le forze vive che potrebbero curare i bubboni sono via, partono ogni giorno.  … e i governi e i politici al potere non si preoccupano minimamente di creare condizioni respirabili di vita.»

E ancora

«Se non si è conosciuti, negli ospedali, dicono si rischia di crepare.»

Momenti di sconforto in cui il protagonista mostra di avere perso ogni speranza sul futuro del suo mondo:

«Non ci ritornerò mai più al Sud. Il Sud è come una carcassa d’asino abbandonata agli elementi.»

Fino a considerazioni e domande che sembrano essere state scritte oggi e che dimostrano come le difficoltà del Mezzogiorno non siano poi così cambiate di molto rispetto a quelle che Strati denunciava:

«E il Sud, il Sud scadrà sempre di più? Ha superato ormai da tempo i limiti di ogni depressione. Più in basso non è possibile scendere. Ora che è arrivato al fondo, scatterà … o soggiacerà per sempre?»

Insomma, dopo mezzo secolo molte cose non sono cambiate e l’analisi lucida che Strati conduce si dimostra tuttora valida e lo è anche quando il giovane protagonista del suo romanzo riflette su se stesso e si scopre essere diventato uno dei tanti «indifferenti consumatori», uno di quelli che sarebbero dovuti essere classe dirigente ed invece sono «diventati degli squallidi impiegati».Infine, un ultimo aspetto che testimonia l’attualità del romanzo sta negli accenni al nuovo ruolo della ‘ndrangheta che precedono l’analisi dettagliata che Strati ha condotto tramite una narrazione dall’interno, contenuta ne Il Selvaggio di Santa Venere. Accenni che rivelano come i rapporti tra malavita e politica erano ben presenti nella narrazione storicistica di Strati:

«La mafia infatti è diventata classe di potere e nell’amministrazione e nella scuola; classe di potere nei neonati governi regionali la cui funzione è pressoché nulla; è inutile, è di peso e d’intralcio; è covo di ruffiani, di mediocri, e sede di mafiosi».

 

L’insieme di tutti questi aspetti inseriscono questo romanzo nella traccia narrativa che Strati ha saputo costruire con le molte sue opere fondate sulla descrizione impietosa dei mali del Sud, raccontati tramite le vite dei suoi personaggi e per mezzo di un linguaggio spesso crudo e diretto, non mediato da alcuna diplomazia espressiva o da compromessi con le mode letterarie del suo tempo. Una lingua che è  formale, misurata, monocorde quando a parlare sono i piccolo borghesi che popolano il romanzo, mentre diventa forte, rude, a volte rabbiosa ed efficace quando esce dalla bocca delle persone del popolo, dei poveri che usano espressioni dialettali dirette e piene di significato. Le diverse costruzioni linguistiche sono uno degli strumenti con cui Strati riesce a esplicitare le differenze tra i gruppi sociali che descrive, esprimendo un chiaro punto di vista che la sua narrazione non vuole nascondere e che, seppure quando è diventata invettiva non ha ricevuto giudizi positivi, conferisce una caratteristica di verità e chiarezza alla sua opera letteraria.

 

Se me li sono persi: “Sonno” di Amelia Rosselli

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[“Se me li sono persi”, è una rubrica di letture inattuali di libri imperdibili, a cura di E. L.]

di Eugenio Lucrezi

AMELIA ROSSELLI, Sonno – Sleep (1953-1966), Rossi & Spera, Roma, 1989

Paradosso centrale di tutta la poesia di Amelia Rosselli è il primeggiare di due elementi coesistenti pur nel contrasto della polarizzazione netta: l’espressione non fluente ma risoluta di un soggetto che si dice rischiando sempre il travaso e la dispersione del senso e l’abbandono della forma; l’autonomia squisitamente linguistica di una scrittura che si propone alla ricezione ne suoi contorni materici, anzi nel pieno spessore di corpo vivente nella deformazione e nello scarto, nell’eccesso articolatorio e connotativo delle frasi. Dicevo di una disfluenza: segnale delle frequenti interruzioni dei liberi flussi psichici, opportunità per riprese, deviazioni, nuove intraprese; occasione d’uso di un vastissimo repertorio di figure iterative, ripetizioni con variazione che sono il motore retorico di questa poesia.

Migranti, la condanna all’immobilità

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Migranti, la condanna all’immobilità

di Donatella Di Cesare

(Pubblichiamo, per gentile concessione dell’autrice e dell’editore, un estratto da “Crimini contro l’ospitalità”, il melangolo 2014. Tra denuncia politica e reportage filosofico, questo libro è un viaggio in un centro di identificazione e espulsione, quell’Ade invisibile e nascosto dove vengono relegate le scorie umane della globalizzazione. Ma il viaggio diventa occasione per riflettere sui campi per gli stranieri, sulla retorica ambigua dell’accoglienza. Dove finisce la protezione umanitaria e dove comincia il controllo poliziesco? Lo stato di permanente emergenza ha sottratto gli stranieri al diritto e ha permesso che, in una continuità inquietante con il passato, si materializzasse in Europa lo spettro del “campo”. Il neorazzismo è la convinzione che ciascuno debba vivere nel proprio paese, la reazione alla mobilità degli esseri umani, la pretesa di bandire gli indesiderabili.)

Crimini_contro_l'ospitalitaNel mondo globalizzato il successo si misura con la possibilità di muoversi liberamente. L’immobilità è invece il segno della sconfitta: chi resta indietro è emarginato, escluso dai luoghi che gli altri possono attraversare, confinato a una dimensione locale.

Non stupisce, allora, che il divieto di muoversi rappresenti la punizione più dura, il castigo più crudele, lo strumento più efficace per neutralizzare i soggetti ritenuti pericolosi.

Anche nel passato la segregazione è stata il modo per risolvere il problema posto da tutti coloro che non erano accettati nel corpo sociale: schiavi, stranieri, ebrei, pazzi, malati, lebbrosi, eretici, vagabondi. Il permesso di uscire dai quartieri, in cui erano relegati, prevedeva tuttavia l’obbligo di esibire in pubblico un marchio di appartenenza che li rinviava a uno spazio diverso. La segregazione, cioè l’isolamento spaziale, ha avuto così nei secoli lo scopo di rendere visibile e di perpetuare l’estraneazione dei diversi.

L’idea della prigione nasce da qui. Incarcerare non è che la forma estrema di restrizione dello spazio. Perciò l’internamento è sempre anche esclusione.

Pur nella continuità che lega il CIE alle forme precedenti e coeve di segregazione, c’è però una differenza che non deve sfuggire. Non solo non vi è alcun regolamento, né sono previsti una disciplina formale, un lavoro produttivo o una attività organizzata. Al contrario di altre istituzioni totali, che hanno una finalità riabilitante e mirano alla guarigione, alla reintegrazione o al recupero, sebbene manchino poi spesso il loro obiettivo ufficiale, il CIE non ha altro scopo che il trattenimento e l’espulsione.

La sorveglianza deve assicurarsi costantemente che gli internati, bloccati in quella mortificante sala d’attesa per il terzo mondo, restino dove sono. Non importa quello che fanno; l’importante è, anzi, che non facciano nulla. L’esclusione passa per quel nulla a cui li assegna la condanna all’immobilità.

In questo senso Ponte Galeria, più che a un campo di concentramento, quel laboratorio della società totalitaria, dove si sperimentava la schiavizzazione dell’uomo, appare un campo in cui, nella società planetaria, si mettono a punto le tecniche per smaltire le scorie umane della globalizzazione.

Al rifiuto e all’esclusione si aggiunge dunque, potenziandoli, l’immobilità forzata che, nell’era dell’illimitato, significa negare le libertà globali a una parte dell’umanità. In campi come questi emerge con chiarezza quello che Zygmunt Bauman ha più volte ribadito, e cioè che la globalizzazione al vertice procede di pari passo con la frammentazione e il disadattamento al fondo.

les nouveaux réalistes: Leonardo Staglianò

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Maggio

di

Leonardo Staglianò

 

 

Lucia è morta all’età di ventun anni. Era maggio.

Una mattina, mentre si truccava, è svenuta. Non è caduta a terra, ma su un divano. Si trovava in salotto, davanti a uno specchio. È rimasta lì mezz’ora, fino a quando non si è svegliata Elena, la sua coinquilina. Elena ha chiamato subito l’ambulanza, e solo più tardi, dall’atrio dell’ospedale, ha avvisato i genitori di Lucia. Non ha avuto il coraggio di informarli che era entrata in coma: ha detto solo che era stata ricoverata.

A volte le persone in coma piangono. È impossibile valutare se ne siano coscienti. Potrebbe essere un modo di chiedere aiuto, o un riflesso incondizionato. Forse è solo la naturale reazione a un brutto sogno. Lucia è rimasta in coma tre giorni, e una notte ha pianto. Le lacrime che bagnavano la guancia destra lasciavano un segno scuro; prima di perdere i sensi si stava mettendo il mascara, ma non aveva fatto in tempo ad applicarlo su entrambi gli occhi.

Il quarto giorno, alle otto e trenta del mattino, ha smesso di respirare. I medici non sono stati in grado di dare un nome al suo male: hanno fatto solo delle ipotesi. Forse un virus, hanno detto; qualcosa di simile a una meningite, ha aggiunto uno di loro.

La sorella di Lucia, all’epoca dei fatti, aveva sedici anni. Frequentava l’Istituto d’Arte, leggeva poesie, ed era contenta che fosse primavera perché poteva andare in giro in motorino. Aveva iniziato da poco ad ascoltare Bob Marley, e anche se non voleva ammetterlo questa novità aveva a che fare con un ragazzo conosciuto a una festa. Si chiamava Ettore, aveva i capelli rasta e frequentava l’ultimo anno del Liceo Scientifico.

La sorella di Lucia usciva da scuola all’una e mezza e subito dopo passava in motorino davanti al Liceo Scientifico nella speranza di vedere Ettore. Il più delle volte ci riusciva. Un giovedì era arrivata all’una e quaranta e tra i pochi ragazzi rimasti lui non c’era; sperando di incontrarlo per strada aveva fatto un giro più lungo del solito, ma le era andata male.

Quella mattina la sorella di Lucia era tornata a casa dopo le due e non aveva trovato né la madre né il padre; nell’appartamento c’era solo la zia, una donna magra e pallida.

 

Sono passati cinque anni; è di nuovo maggio, e la sorella di Lucia è la mia ragazza. Il suo nome è Cristina.

Dieci giorni fa è stata celebrata la messa per l’anniversario della morte di Lucia. Mi sono seduto sulla prima panca, accanto a Cristina e ai suoi genitori, e come gli anni precedenti mi sono sentito a disagio. Le persone che passavano a salutarli porgevano la mano anche a me, eppure io Lucia non l’ho mai conosciuta.

È stata una cerimonia sobria: nessuno ha pianto, neanche Cristina. Ogni tanto mi cercava con lo sguardo, oppure mi stringeva la mano, come ad assicurarsi che i suoi occhi non l’avessero tradita, che io fossi davvero lì. Usciti dalla chiesa siamo saliti in macchina. Guidava lei. Ho capito solo a metà strada che stavamo andando al mare. Quando siamo arrivati abbiamo abbassato i finestrini e abbiamo ascoltato le onde. È una cosa che facciamo d’inverno, quando c’è troppo vento per sdraiarsi in spiaggia: restiamo seduti in macchina e ci concentriamo sul rumore del mare. Spesso chiudiamo gli occhi. Non so se sia lo stesso per Cristina, ma a me, dopo un po’, sembra che l’acqua si avvicini. Se ascolto le onde senza guardarle ho l’impressione che siano sempre più alte, e mi preparo a essere travolto. A volte immagino un caldo abbraccio; altre, un urto che mi toglie il fiato.

Quel giorno faceva caldo ma Cristina non si è mossa dal sedile, e io non ho fatto domande. Siamo rimasti immobili, in silenzio, a fissare il mare. Una nave nera, una petroliera forse, ci è passata davanti. Lentamente. Infine è scomparsa all’orizzonte. Cristina mi ha messo la mano dietro la testa, mi ha spinto verso di lei e mi ha baciato; una, due, tre volte. Mi ha morso il labbro. Voleva fare l’amore.

Il ricordo di Lucia suscita in Cristina due reazioni: a volte si chiude in se stessa; altre diventa frenetica, come se si sentisse in dovere di vivere la vita all’ennesima potenza: quello che le spetta unito a tutto ciò che la sorella non ha avuto. Parla, molto e molto in fretta, e si muove: se siamo seduti si alza; se stiamo camminando, accelera; se siamo stesi sul letto, inizia a spogliarmi. È strano detto da un ragazzo, da un maschio, ma ci sono stati momenti in cui mi sono sentito un burattino nelle sue mani. Come dieci giorni fa, in macchina. Ha ficcato le unghie nella mia schiena. Mi ha morso sul collo. Ho anche gridato. Per fortuna non c’era nessuno intorno. Siamo rimasti abbracciati lì, sul sedile, seminudi. Cristina rivolta verso dietro, io in avanti. Ho visto il sole scomparire nell’acqua. Un’immersione lenta, e dolce.

 

Ieri Cristina mi ha telefonato piangendo. Era tardi, stavo studiando, e leggendo il suo numero sul cellulare mi sono sentito in colpa: avevo promesso di darle la buonanotte, sapevo che aspettava la mia chiamata per addormentarsi. Ho risposto, ma non capivo quello che diceva: parlava a bassa voce, singhiozzava, e tirava su col naso. Ho chiesto cos’era successo, e lei ha iniziato a ripetere il mio nome: Ettore, Ettore… Le ho detto di aspettarmi a casa.

Mi sono infilato le scarpe e sono uscito. Ho guidato male, grattando le marce e tagliando le curve, ma le strade erano vuote. I semafori erano tutti gialli e lampeggianti: solo uno era rosso, e l’ho rispettato. Quando sono arrivato sotto casa sua erano le due. Cristina vive ancora con i genitori, e svegliarli era l’ultima cosa che avrebbe voluto: non avrebbe sopportato di farsi vedere da loro in lacrime. Ha un orgoglio tutto suo quella ragazza: con me si sfoga e si dispera; con loro è tosta, impeccabile: piange solo in chiesa, durante la messa in memoria della sorella, e da quest’anno neanche lì.

Sapevo che prima di farmi entrare si sarebbe assicurata che i genitori stessero dormendo, per cui ho spento l’auto, le ho mandato un messaggio e ho aspettato. Ho pensato che la cosa strana, in tutta questa faccenda, è che il padre e la madre di Cristina sono persone comprensive; se sapessero delle sue crisi, l’aiuterebbero. Ma lei non vuole che sappiano. La sua stanza è accanto alla loro, eppure ieri notte ha cercato me, e dopo avermi fatto aspettare in macchina per un quarto d’ora ha voluto che varcassi furtivamente la soglia della loro casa. Era scalza, e anche se non me lo aveva chiesto mi sono tolto le scarpe; non so perché l’ho fatto: le mie scarpe non fanno rumore.

L’ho seguita su per le scale, fino alla sua camera. Ci siamo seduti sul tappeto e mi ha raccontato della mattina in cui Lucia è entrata in coma. La sua era una cronaca più che un racconto: parlava di se stessa in terza persona, come se si trattasse di qualcun altro. Era la prima volta che sentivo quella storia. Mentre parlava fissava il vuoto: quando ha terminato non si è voltata a guardarmi, e neanche quando mi sono alzato e me ne sono andato. Mi sono accorto solo in macchina di aver dimenticato le scarpe a casa sua.

Mentre guidavo, scalzo, per la città, si è messo a piovere, e mi è venuta in mente quella volta che ho accompagnato Cristina a una lezione di cinema. Abbiamo visto “Blade Runner”: macchine volanti, luci al neon, replicanti che scoprono di avere sentimenti e uomini dal cuore di ghiaccio. Al termine della proiezione il professore aveva chiesto come mai pioveva così spesso in quella pellicola. Creare la pioggia sul set non è impossibile, ma comporta un gran dispendio di tempo ed energie: se un personaggio esce di casa e si bagna nel percorso fino all’auto, ogni volta che si rigira la scena saranno necessari abiti di ricambio asciutti. Perché complicarsi la vita? Deve esserci un motivo per avere tanta acqua in un film, aveva detto.

Tutti tacevano, e così alla fine era stato lo stesso professore a dare la risposta. Quello era un mondo corrotto dal male; la pioggia lavava lo sporco visibile; le lacrime quello invisibile. Nell’ultima sequenza c’era finalmente il sole, e i protagonisti – un uomo e una replicante – se ne andavano via in auto, verso la felicità.

Cristina, che per tutto il tempo aveva fissato lo schermo vuoto, aveva rotto il silenzio per fare una domanda: e le lacrime dei replicanti, lo cancellavano il male?

 

5 inedite (ossessioni)

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di Pasquale Vitagliano

Non so come dire
ma in alcuni momenti
ho paura
anche della mia ombra.
Ci penso e mi sembra strano.

La Grande Guerra dell’Italia, cent’anni dopo.
Intervista a Emilio Gentile

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Bersaglieri marciano verso il fronte.   (“The people’s war book; history, cyclopaedia and chronology of the great world war”, 1919, p. 177). Internet Archive Book Images

di Davide Orecchio

(Una versione ridotta dell’intervista è uscita all’interno di un servizio più ampio sui musei europei e la Grande Guerra, pubblicato da pagina99 nel numero 57 del 30 agosto – 5 settembre 2014).

«Quando ci occuperemo del centenario della Prima guerra mondiale, nel commemorarlo dovremmo tenere conto di un fatto: l’Italia è il Paese che con l’ingresso in guerra mise in atto un programma di espansione territoriale, mentre nell’agosto 1914 tutte le potenze proclamavano di essere state costrette a dichiarare guerra per difendersi da un’aggressione o da una minaccia di aggressione».