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Una scuola di poesia

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[Mi ha coinvolto per un atelier di scrittura su ‘La poesia post-industriale. Rappresentazione del sublime nel postmoderno’, tema per me accattivante e non banale. Gli ho chiesto di spiegare il suo progetto, che si presenta come una “scuola di poesia”.]

Tre domande a Michelangelo Zizzi

1) S’insegna a scrivere sceneggiature, s’insegna a dipingere, s’insegna a scrivere romanzi, a fare fotografia, ecc., ma la poesia, soprattutto in Italia, pare essere incompatibile con ogni forma di insegnamento, che non sia quello storico-letterario o critico letterario, del liceo e dell’università. Come è nata, allora, l’idea di una scuola di poesia?

Nasce per svariati motivi. L’Italia è davvero un paese di Santi, navigatori e poeti. Ma soprattutto di poeti; il che è positivo, ma anche negativo. Intendo dire che c’è caos, confusione, talvolta effettiva ignoranza da parte dei poeti stessi sulla poesia medesima: molti di questi non solo non conoscono Bodini, Calogero, Cattafi, Sbarbaro (per fare qualche nome), ma persino Luzi o Zanzotto. Questi non son mai venuti in Nazione Indiana, che è il miglior sito di Letteratura in Italia, perché non ne ignorano l’esistenza.

Lotta di classe sul palcoscenico

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di Roberta Salardi

Lidia Cirillo Lotte di classe sul palcoscenico, ed.Alegre, Roma 2014

 

C’era una volta il Novecento. Il volume d’interviste di Lidia Cirillo ai protagonisti della vicenda dei teatri occupati in Italia (Lotta di classe sul palcoscenico, ed. Alegre, Roma, 2014) si apre con un capitolo dedicato al movimento operaio: “Si è chiamato movimento operaio l’insieme sinergico che in Europa e nel mondo aveva costretto il capitalismo a cambiare per non morire e quell’insieme aveva solo in parte a che fare con una classe. Certo la classe operaia, soprattutto quella dei grandi complessi industriali, era stata il nucleo intorno al quale si era aggregato tutto il resto. Ma il prodotto finale era stata una costruzione storica, socio-politica e culturale molto più ampia e complessa, dai contorni incerti, fortemente differenziata e conflittuale al proprio interno ma appunto sinergica. Essa era composta da una classe di notevole forza strutturale e capace di farsi centro del conflitto sociale; da strutture burocratiche e clientelari, che concedevano agi e poteri ai settori della piccola borghesia più ambiziosi e dinamici; da entità statali con il loro potere economico e militare, da movimenti di liberazione di Paesi colonizzati, interessati a mettersi sotto l’ala protettrice dell’URSS e che talvolta si avventuravano nella creazione di socialismi nazionali più o meno credibili; da intellettuali creativi attratti dai miti progressivi costruiti sulle vicende rivoluzionarie del secolo; da socialdemocrazie che mantenevano aperti gli spazi in cui i rivoluzionari potevano continuare ad agire e da rivoluzionari che punzecchiavano ai fianchi le socialdemocrazie e gli apparati politici, costringendoli a scatti per recuperare i rapporti con la propria base sociale; da mobilitazioni occasionali e da spessi sedimenti organizzativi, da basi elettorali, da compagni di strada e da alleati… Ora gran parte delle componenti di questo insieme o non esiste più o ha mantenuto nomi a cui non corrispondono le stesse realtà del passato oppure ha subìto dinamiche di disaggregazione, che hanno isolato ciascuno dei pezzi residui dell’insieme demolito negli ultimi trenta ingloriosi anni.” (p 20-21).

Preso atto di una profonda disgregazione del tessuto sociale che in passato aveva consentito l’ottenimento d’importanti risultati, conquiste sempre più soggette a erosione in tutti i campi, dal lavoro alla qualità della vita, dai diritti ai beni collettivi, l’autrice tuttavia osserva che “un’inedita capacità di autorganizzazione è l’altra faccia della frammentazione e delle sconnessioni del corpo sociale. Si tratta di una capacità che riguarda alcuni settori e non altri, ma innegabile, e conseguenza logica dell’impoverimento dell’ex-piccola borghesia intellettualizzata, delle maggiori quantità di conoscenze di cui si serve il profitto e dell’ampliarsi delle possibilità di comunicazione.” (p 23).

Capacità dimostrata per esempio nelle recenti lotte dei lavoratori dello spettacolo.

I luoghi occupati scelti per le interviste risultano essere campioni di un vasto movimento in difesa dell’arte e della cultura, che ha fatto dell’occupazione la sua specifica modalità di lotta. In alcuni momenti l’arte e la cultura hanno assunto agli occhi degli occupanti, e delle migliaia di cittadini accorsi a collaborare e a interessarsi, lo stesso valore dell’acqua pubblica. Rivendicate come pane e come acqua.

Le risposte dei nuclei attivi del Teatro Valle di Roma, dell’ex-Borsa del macello dell’ortomercato oggi museo Macao di Milano, dell’ex-Asilo Filangieri “Comunità dei lavoratori dello spettacolo e dell’immateriale” di Napoli e del Sale Docks di Venezia menzionano spesso analoghe occupazioni, da considerarsi articolazioni del medesimo movimento: il cinema Palazzo e l’Angelo Mai di Roma, il teatro Marinoni di Venezia, il teatro Coppola di Catania, i Cantieri e il teatro Garibaldi di Palermo. Agli intervistati (attori, registi, musicisti, grafici, fumettisti, tecnici video, guardiasala, traduttori, macchinisti e simili) è stato chiesto di raccontare non solo le vicende, le modalità e gli obiettivi delle occupazioni, ma anche le idee e i punti vista politici e culturali che in esse convivono e si confrontano. L’indignazione si sviluppò e prese forma principalmente contro l’abbandono, il degrado, la trasformazione in centri commerciali o la sorte incerta di luoghi che avrebbero dovuto e dovrebbero essere considerati “beni comuni”. E contro la nota frase di un ministro, “con la cultura non si mangia”, che ebbe la conseguenza concreta di tagli alla cultura, responsabili di rendere ancora più difficile l’esistenza di lavoratrici e lavoratori caratterizzati nello stesso tempo da alti livelli di qualificazione e di precarietà. Nell’ampio ma frammentario movimento di resistenza all’austerità e alle privatizzazioni, le occupazioni dei teatri e dei “luoghi di cultura” hanno portato una creatività e una capacità di comunicazione fuori dal comune. Si legga per esempio l’intervista a Macao di Milano, con la divertente narrazione dei primi passi verso l’occupazione di Torre Galfa e più tardi dell’ex-Borsa del macello. La richiesta attraverso il Web di svolgere l’acronimo M.A.C.A.O. ricevette migliaia risposte con possibili ipotesi di svolgimento dell’acronimo (es.: Movimento Autonomo Creativo Autogestito Osmotizzante oppure Maracaibica Astratta Città Arte Ora), così come migliaia di persone furono coinvolte con l’artificio di mettere in giro la voce che esistesse una nuova favolosa realtà, Macao appunto, che ancora non c’era. Oppure si legga nell’intervista al Sale Docks dell’iniziativa del 21 settembre 2013, il tuffo collettivo di cinquanta nuotatori che ritardò per diverse ore il passaggio delle navi da crociera nel canale della Giudecca, con la partecipazione sulle rive del canale di migliaia di veneziani. Ma anche nelle altre interviste è possibile trovare spunti creativi, interessanti soprattutto perché dominati da una preoccupazione feconda: quella di comunicare con un pubblico più ampio possibile per evitare di essere isolati da linguaggi e modalità di élite.

Parte delle considerazioni dell’autrice concernono il confronto fra il movimento italiano e quello francese, dove la mobilitazione degli “artisti intermittenti” ha quasi un secolo di vita e si è manifestata con episodi di lotta, a loro volta intermittenti, che hanno prodotto studi, libri, articoli e documenti vari in quantità molto maggiore che in Italia. All’autrice pare che la differenza tra una situazione e l’altra consista nella mancanza nel nostro paese di un margine di contrattazione sindacale, presente invece in Francia. Lì quel margine ha prodotto la conquista del salario sociale, ridimensionata ma non cancellata negli ultimi tempi. Mentre qui da noi la sua assenza spinge il movimento a una più marcata politicizzazione e a una ricerca di vie d’uscita nell’autogestione e nell’autoproduzione.

les nouveaux réalistes: Angelo de Matteis

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Il documento

di

Angelo De Matteis

 

Prima di arrivare al punto, signori, m’è d’obbligo premettere alcune circostanze così da far comprendere appieno quanto ho scritto in conclusione del presente documento: i fatti prima di tutto, altrimenti si rischia di essere fraintesi.

L’edificio è a forma di staffa di cavallo, ma non è una staffa di cavallo, ha gli spigoli; quindi dire “a staffa di cavallo” è una semplificazione ed in un mondo che soffre di semplificazioni una in più o in meno non farà poi tanto male. E questo è un fatto, mi pare il primo.

Nell’edificio che vi ho descritto per mezzo di una semplificazione, ci sono due piani ed io sono al secondo. Dalla mia finestra si vede il giardino verde ed ampio e si sente tutto quello che la gente si racconta all’aria aperta. Se volete che qualcosa non si sappia, non dovete mai dirla ai quattro venti. Ed anche questo, in un certo senso, è un fatto.

Proprio l’altro giorno, mi sono messo vicino alla finestra e sono venuto a sapere che, in certi paesi, è buona usanza piantare un cipresso ogni volta che muore una persona. Ho fatto una mano di conti. Nel nostro giardino ci sono, ben visibili dalla mia finestra, dieci, al massimo quindici cipressi se mi sono sbagliato, e le cose non tornano se penso a quante persone sono morte qua dentro, sia nel senso che non sono più viventi (figuriamoci se possono essere vive!), sia perché stanno sempre sedute in un posto e si cagano e si pisciano addosso senza accorgersi che si stanno cagando e pisciando addosso. Quelli, secondo me, anche loro sono dei morti, ma forse non hanno diritto ad un cipresso. Mi sono chiesto se, nel caso in cui si usi il catetere si appartenga alla categoria che merita un cipresso, ma non sono riuscito a darmi una risposta. Comunque ho concluso che La Buona Usanza Dei Cipressi, perché ho deciso di chiamarla così, qui non usa. E questo è un altro fatto, se non sbaglio il terzo di questo documento.

La morte, la natura, le semplificazioni; le cose belle e quelle brutte, quelle utili e quelle inutili. Dovrebbe essere proibito non poterne parlare in qualunque momento solo perché qualcuno ha deciso che forma e funzione, contenente e contenuto devono essere efficaci, solo perché le perdite di tempo sono considerate perdite di tempo. La chiave di tutto, invece, potrebbe stare proprio nelle perdite di tempo altrimenti, e per esempio, perché se ci si mette a fissare le fiamme di un fuoco si rimane impalati e incantati senza capirne il perché? Perché è un’attività, come si dice, atavica. Cosa pensiamo facesse l’uomo primitivo, perché è chiaro che lo faceva anche lui, mentre guardava le fiamme del fuoco seduto in mezzo alla savana o in qualunque altra parte del mondo – che per lui non era ancora né piatto né tondo perché doveva ancora avere una coscienza, diventare intelligente e tutto il resto? Secondo me, e secondo gente che queste cose le ha studiate, sviluppava il pensiero, imparava a pensare e ad immaginare. Stava perdendo tempo. E questo è un altro fatto ancora, forse il più importante.

Ma se state pensando che è giunto il momento di capire cos’è il posto che vi ho descritto per mezzo di una semplificazione ed il perché mi trovo qui e, soprattutto, perché vi sto scrivendo questo documento, allo stato mi trovate d’accordo almeno sulla prima parte della questione: mi trovo in un centro di sanità mentale, una clinica, e sono qui perché ad un certo punto la mia testa o memoria o facoltà di ragionamento ha iniziato a girare a vuoto. Avete presente i trapezisti? Ecco, fate conto che ognuno di noi ha nella testa dei trapezisti, i trapezisti della mente, almeno due per coppia e più coppie di trapezisti si hanno meglio è. Ogni trapezista esegue il suo numero, oscilla sul suo attrezzo un paio di volte per prendere velocità e poi salta sull’altro trapezio che può essere vuoto, ed allora glielo ha lanciato l’altro della coppia, oppure è già occupato, ed allora dovrà aggrapparsi alle braccia dell’altro trapezista che, normalmente, è a testa in giù e si tiene appeso con le gambe. Ebbene, a me succede spesso che il primo trapezista resti a dondolarsi, avanti ed indietro, avanti ed indietro, a vuoto e sospeso, senza riuscire a passare sull’altro trapezio perché gli manca il compagno. E quando mi si incaglia la mente con questa Sindrome Del Trapezista – che poi non è corretto dire che mi si incaglia la mente, ciò che avviene, come ho già detto, è il suo girare a vuoto senza progredire, senza chiudere il numero, senza chiudere il ragionamento – inizio a mordermi la mano destra, la stringo a pugno e affondo i miei incisivi sulla falange dell’indice, ci alito sopra, certe volte chiudo anche gli occhi per cercarlo meglio, per vedere che fine ha fatto quel renitente al ragionamento dell’altro trapezista. Quando sono fortunato lo trovo, lo richiamo all’ordine, la coppia riesce a chiudere il numero e smetto di mordermi la mano; ma il più delle volte, soprattutto ultimamente, è in sciopero oppure si nasconde o è scappato o non lo so, non lo trovo e ormai è da qualche tempo che l’altro trapezista non si fa più vedere, ecco perché è ormai da qualche tempo che mi mordo fisso la mano stretta a pugno. In questo posto nessuno si morde la mano bene come me.

L’altro giorno ho chiesto alla mia infermiera particolare, la signorina Tildas, che è sempre avvolta nell’uniforme bianca con bordini blu, ha i capelli di grano lindo e la pelle d’avena – aggiungere una esse finale al nome, o ai nomi, vuol dire conferire loro una gincana di senso, alludere all’indifferenza rispetto ad una rotazione di 180°: la esse è il 69 delle lettere – le ho chiesto: visto che la mia testa non va come dovrebbe andare, e visto che nel mondo ci sono tante cose che non vanno come dovrebbero andare, non è possibile trovare là fuori qualcosa che non va nello stesso modo in cui non va la mia testa? Mi ha sorriso: chissà quanti trapezisti ha nella testa lei!

La signorina Tildas è l’unica che mi fa restare qui. Anche se, a volte, mi fa ingoiare i tappi per le orecchie che si mangiano. Qui la notte urlano e non si dorme. Qualche giorno fa mi sono tappato le orecchie con le dita, poi mi sono stancato; allora mi sono tappato le orecchie con quegli affari che si usano per stappare i lavandini: gli sturalavandini. Non mi ricordo se ha funzionato, se mi ricordassi non sarei qui. Mi ricordo solo che la signorina Tildas, quando mi ha visto nel letto con quegli affari ai lati della testa, ha riso tanto e poi mi ha dato dei tappi per le orecchie che si mangiano. Questo glielo posso rimproverare, ma la perdono la signorina Tildas – Tildas Tildas Tildas come ti chiami?- anche se i tappi per le orecchie che si mangiano mi tappano tutto, vedo e sento ovattato e poi non riesco a mordermi per bene la mano, e addio speranza di rivedere l’altro trapezista.

E’ successo anche che da qualche giorno faccio un po’ fatica a recuperare la sensibilità della mia vescica, soprattutto quando mi fanno mangiare troppi tappi per le orecchie che si mangiano. Per questo motivo l’aumento del ritmo con cui si è presentata la necessità di cambiare le mie lenzuola ha fatto in modo che: a) io mi stia decidendo a rivedere la teoria alla base della Buona Usanza dei Cipressi; b) i dottori inventassero un metodo, alternativo al catetere, per correre ai ripari: mi hanno attaccato un preservativo al pisello con dell’adesivo che non fa male quando lo stacchi e lo hanno collegato ad una sacca con una cannula. Così, ogni volta che piscio, la mia pipì gonfia il preservativo e defluisce nella sacca sotto il letto.

La cosa, al di là dell’imbarazzo che ho provato quando l’aggeggio mi è stato applicato purtroppo non dalla signorina Tildas, ha funzionato benissimo, fino a ieri notte. A quanto pare avevo una gran voglia di pisciare, e devo averne fatta un bel po’ perché il preservativo si è gonfiato tantissimo, ma proprio tanto. L’urina non ha defluito e quando l’infermiera della notte, che non ha nulla a che fare con la giustizia, ha visto il grosso rigonfiamento all’altezza del basso ventre, si è precipitata al mio letto. La mancanza di delicatezza di Santina, donna cui non ho mai attribuito una esse finale ne sotto forma di parola ne sotto forma di pensiero, ha fatto sì che venisse meno la perfetta aderenza fra il nastro adesivo, il preservativo ed i bordi del mio pisello, venir meno dell’aderenza che, a sua volta, ha fatto sì che la pressione esercitata dal lattice contenitivo si liberasse in una esplosione di urina che ha inondato in parte il suo volto e schizzato il mio pigiama ed in parte è rimasta in aria a fluttuare, sotto forma di bolle di pipì e schizzi irregolari e mentre io ero fermo sul letto, circondato dalla mia pipì irrispettosa della forza di gravità, e da Santina, irrispettosa di qualunque regola estetica, ho visto e sentito Ronzino che grugniva perché aveva vinto a scopa contro se stesso e mi sono alzato dal letto per abbracciarlo e complimentarmi con lui. E’ stato allora che sono arrivati due inservienti per tenermi fermo, ed è stato allora che la mia pipì si è sottomessa alla forza di gravità e Ronzino è sparito. Santina, invece, è rimasta brutta. Da piccolo mio padre mi portava spesso dalla zia Giovanna. Ci andavamo di sera e c’era sempre un po’ di gente da lei. Erano tutti vicini di casa che sedevano in tondo, affianco al camino acceso o spento, ed a turno, nei frequenti momenti di silenzio, sospiravano inneggiando al signore ed ai santi, al loro aiuto o qualche volta interrogando se stessi ed i presenti sul da farsi, ma poi nessuno dava una risposta che andasse oltre un sospiro ancora più rumoroso dei precedenti.

La sera, dalla zia, la mia attrazione era Ronzino. Ronzino era un uomo che si esprimeva a grugniti e non partecipava ai reciproci sospiri degli ospiti ed al loro vario inneggiare alle divinità e ai santi. Camminava in maniera sparpagliata e doveva essere condotto: la testa gli roteava sul collo in continuazione. Ronzino giocava a scopa contro se stesso e riusciva sempre a vincere – e se ne stupiva ogni volta, lo si capiva dal grugnito che emetteva alla fine della partita: più acuto, pieno di giubilo, quasi privo della sofferenza di non riuscire a esprimersi.

Dopo i funerali della zia non siamo più andati a casa della zia Giovanna ed io non ho più visto Ronzino, tranne adesso quando ogni tanto compare nella mia stanza e si siede al tavolino per a farsi una scopa contro se stesso.

Comunque, finalmene siamo arrivati alla parte della questione cui non ho ancora risposto. Perché riguardo all’identità del posto in cui mi trovo ed al perché sono qui mi pare di essere stato abbastanza chiaro; sul perché vi sto scrivendo adesso ci arrivo. L’altro giorno ho spiegato la mia teoria della Sindrome Del Trapezista ad un dottore che è venuto a trovarmi con la signorina Tildas. Lui mi ha fatto capire che era una teoria simpatica, ma non ci ha creduto e me lo ha proprio detto che non ci credeva. La signorina Tildas, invece, non ha detto niente e mi ha sorriso con gli occhi. Infatti, dopo è tornata con un foglio ed una penna, e mi ha detto che se questo trapezista non riuscivo a trovarlo da solo, allora avremmo scritto una bella denuncia di smarrimento e lei l’avrebbe portata alle forze dell’ordine. Pertanto, questa che state leggendo, cara la mia arma dei Carabinieri, corpo di Polizia e/o Guardia di Finanza, non è altro che l’introduzione, doverosa, alla seguente denuncia di smarrimento:

Il sottoscritto, il cui documento di identità si allega alla presente, denuncia alle competenti Autorità che, in luogo e data imprecisati o forse anche lungo tutto un periodo di tempo e senza accorgersene, ha perso un numero indeterminato di trapezisti della mente. In caso di ritrovamento, anche di uno solo dei suddetti, si prega di avvertire in secundis la signorina Tildas.

                                                                                                 Elio Emme

les nouveaux réalistes: Raul Montanari

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foto di Philippe Schlienger
foto di Philippe Schlienger

 

Il filo ritrovato

di

Raul Montanari

 

 

«Lasciami stare! Basta, basta!»

«Dimmelo, Andrea. Dimmelo, e alla svelta.»

«No!»

«Dillo a me, Andrea. Altrimenti dovrai dirlo a loro.» Oh, sì. Certo che lo dirai, a loro. «Vuoi che chiami loro?»

«Lasciami stare! Lasciami!…»

Continua a muovere la testa, a scatti, disperatamente, per quanto glielo consentono le corde che lo legano alla sedia. Io giro dietro e gli passo un braccio intorno alla gola, tirandolo verso lo schienale.

«Lasciami!» grida ancora lui, e la voce che echeggia sotto il soffitto basso di questa cella sotterranea è davvero la sua ‑ non è un sogno, questo, sta accadendo. Faccio forza con tutto il corpo per tirarlo indietro, premo contro la gola. Alla fine lui deve cedere, sempre urlando e dimenandosi, e allora gli infilo in testa il sacchetto di cellophane, lo stringo intorno al collo.

Lui si dibatte, convulso, cercando il respiro che non viene più. Prima grida, poi ansima senz’aria e infine fa quel verso strano che fanno tutti quando vengono torturati in questo modo, perché la tortura eguaglia tutti gli uomini, spiana le differenze, ma io in questo istante ricordo che da lui l’ho già sentito tanti anni fa, quell’unica estate in cui eravamo riusciti a mettere insieme i soldi per andarcene su un’isola, il nostro sogno fin da quando eravamo bambini – ci eravamo fatti sbarcare là con due ragazze per dimenticarci del mondo che non ci aveva ancora separati, e una mattina lui era scivolato da un ponticello di legno, un vecchio imbarcadero in rovina, e, insomma, io non capisco neanche adesso come poté succedere ma Andrea rimase incastrato lì sotto e stava annegando, e quando riuscii a trovare il modo di tirargli fuori la testa, quasi strappandogli i capelli, anch’io mezzo soffocato dagli spruzzi d’acqua salata mentre le due ragazze strillavano e non facevano niente per aiutarmi, e io piangevo per la paura e l’angoscia, proprio in quel momento sentii quel suono uscirgli dalla bocca – anzi, non dalla bocca. Non è come se uscisse dalla bocca, ma direttamente dalla gola, è il rumore della gola che cerca aria e non la trova, uno strano suono orribilmente morbido, come uno schiocco ovattato, qualcosa che mi fa sempre pensare a un pezzo di carne umida che urta contro un altro. Io non sapevo che l’avrei risentito fatto da tanti altri, e non sapevo – no, mai avrei potuto pensarlo, questo – che l’avrei risentito da lui. Perciò adesso glielo tolgo subito, il sacchetto.

Andrea rovescia indietro la testa, un grido strozzato inspirando aria in fretta, in fretta, proprio come quando lo avevo riportato sulla spiaggia piena di ciottoli che tagliavano le piante dei piedi. Gli afferro il mento, sempre da dietro, e lui si irrigidisce e geme, respirando come se volesse ingoiare tutta l’aria di questo mondo umido e giallastro, intorno a noi. Ha imparato ad avere paura delle mie mani, Andrea. Trema, quando lo tocco. È da due ore che trema così. Ora mi appoggio la testa di Andrea contro lo stomaco, e gli metto una mano sulla fronte sudata.

(Questa è la posizione per il Dentista, ma di solito bisogna essere in due a tenere il prigioniero. Io non l’ho mai usato, quel sistema, perché il sangue mi fa schifo. Nonostante il mestiere che faccio, il sangue continua a farmi schifo. Il mio e quello degli altri. C’è da ridere, no? Cerco sempre di non far buttare sangue a nessuno. I miei sistemi sono il Diavolo Blu, il Sottomarino, l’Acrobata, tutto pur di vedere meno sangue possibile. Una volta mi sono accorto per caso che una ragazza soffriva da pazzi il solletico e l’ho fatta parlare così, una piccola commessa di negozio, magra magra, mi è quasi morta sotto le dita, ma il capitano e gli altri mi hanno dato un soprannome idiota e allora mi sono scocciato e non l’ho fatto più.)

«Lasciami stare… basta…» riesce a dire Andrea, sempre tenendo il collo rigido ma senza cercare di strappare la testa dalle mie mani.

«Non hai capito» mormoro.

«Oh, Cristo, oh, Gesù, ti prego…»

«Andrea, non hai capito. Non uscirai di qui prima di aver detto dov’è lui. Cacciatelo bene in testa, e finiscila di fare l’imbecille. Dimmelo. Dillo a me.»

«Non posso.»

«Sì che puoi. Io lo so che puoi.»

«Non posso, non posso, non posso…»

Andrea ricomincia a piangere. Sento la testa sussultare piano fra le mie mani e contro la pancia. Mi mordo le labbra. Cerco di non guardarlo.

«Io lo so che puoi, e lo sanno anche loro» dico a bassa voce. «È meglio che lo dici a me. Non farmelo ripetere.»

«Va’ all’inferno, bastardo maledetto» mugola lui, e poi alza la voce incrinata dal pianto. «Vuoi che lo dica a te perché così ti prenderai il merito, vero? Cosa ti daranno, una medaglia? Perché sarai stato tu a trovarlo? Cosa ti daranno, bastardo vigliacco? Dei soldi?»

Rimango sorpreso per un attimo, poi la rabbia ha il sopravvento, la rabbia e insieme una pietà che mi disgusta di me stesso. Stacco il mio corpo dalla testa di Andrea e lo colpisco sull’orecchio con la mano leggermente piegata a coppa, più e più volte. Lui si muove e lancia delle grida acute, come quelle di un uccello ferito o infuriato, poi si piega in avanti più che può, e allora lo prendo per i capelli proprio come quel giorno e gli tiro indietro di nuovo la testa, e lo colpisco così forte che la sedia si rovescia. Anch’io grido senza capire quello che dico, gridiamo tutti e due mentre lo prendo a calci come se lui fosse la mia vita che un giorno è diventata un lungo incubo fatto di carne, schifosa e oscena carne di uomo, e occhi senza quiete, e urla, e uomini e donne come cani, sì, come cani che ringhiano e piangono mentre li uccidi e ti mordono la mano mentre li soccorri.

Poi mi lascio cadere a terra, su quel pavimento lurido, la faccia vicinissima alla sua. Andrea ha tutti i lineamenti contratti – la bocca, la fronte, le guance gonfie e chiazzate di rosso e di viola.

«Non lo sai!» strillo per l’ultima volta, con una voce che non è più la mia. «Non lo sai cosa ti faranno!»

«Tanto mi ammazzerete lo stesso» riesce a dire lui, ma io vedo che gli ho fatto troppo male perché senta le proprie parole.

Appoggio la tempia al pavimento e chiudo gli occhi. Nella stanza si fa silenzio. Socchiudo gli occhi per un attimo, poi torno ad abbassare le palpebre.

Quante ore passate così, fianco a fianco sul letto dei miei ad ascoltare le cassette che ci registrava suo zio, il direttore della filarmonica, la gloria di quel paesino scalcinato. Bruckner, Wagner, Stravinskij, Debussy, tutto quel mondo nuovo che ci era venuto incontro e si era fatto conoscere, superando la noia degli inizi, la voglia di ritmo, di allegria, di ferocia, la voglia di un piacere più facile. Gli altri ragazzi non capivano, avevamo provato a far venire qualcuno ad ascoltare la musica con noi, almeno quelli che ci erano più simpatici, ma era stato inutile. Sempre più insieme, sempre più soli. Un paio di ragazze, sì, erano venute per la musica e per noi – ma naturalmente erano brutte. Le altre ascoltavano musica da ballo, e noi le disprezzavamo e intanto ci voltavamo sulla pancia e le sognavamo, premendo piano contro il materasso duro, le sognavamo ballare mentre Fafner e Fasolt costruivano il Valhalla fra immense mazze stamburanti e certe volte io mi mettevo a ridere, o era Andrea. Ridevamo piano, soffocavamo la risata nei cuscini, poi ci prendevamo a pugni mirando alle spalle e al petto, e avremmo dato qualsiasi cosa per averla in mezzo fra noi due, lì, ora, la più bella.

Allungo una mano per toccargli la faccia, ma è davvero molto gonfia. La mano rimase sospesa. Lui non la vede.

Scendo con la mano sulla spalla, e la appoggio piano. Lui ha un lieve fremito, fa per aprire gli occhi, ma non riesce.

«Resta così» gli dico a bassa voce. «Respira a fondo. Mi senti? Cerca di respirare con la pancia.»

Andrea prova a prendere un respiro profondo, lo fa tremando tutto come se questo gli costasse un grande sforzo, poi lascia uscire l’aria e una goccia di sangue gli cola da una narice, scende lungo la guancia e si ferma lì.

Anche il patto di sangue avevamo fatto. Ma certo. Con quel temperino mezzo arrugginito, la lama che sembrava quella di una sega in miniatura, e io mi ero preso una battuta da mia madre. Sorrido, al ricordo. Ma forse è solo un ghigno, ormai. Non sono più capace di sorridere. Il patto di sangue! E dire che a me faceva senso già allora, il sangue. Poi la mamma che mi insegue per tutta la casa con una ciabatta di gomma in mano. Suo padre, lo stesso. Per una settimana ci avevano impedito di vederci, e noi ci mandavamo i bigliettini come due fidanzati. Era suo zio che li portava da una casa all’altra, i biglietti. Nessuno avrebbe mai sospettato di lui… figuriamoci, il Maestro!

Stavolta rido davvero, un paio di sbuffi che sollevano polvere dal pavimento e gliela soffiano in faccia. Andrea arriccia il naso, il sangue riprende a colare. Prima gridava, adesso la polvere gli fa prudere il naso. Prima i calci, ora granelli di polvere, come una carezza. Mi sento svuotare.

«Andrea» lo chiamo, sempre a bassa voce.

Lui non risponde.

È da due anni e mezzo che sto nella milizia. Due anni e mezzo fra un mese. Abbasso gli occhi, come se mi rendessi conto solo ora di quanto tempo è passato da quel primo giorno. I soldati ci disprezzano come io e Andrea disprezzavamo quelli che ascoltavano la musica da ballo, ma siamo noi a fare il lavoro sporco, come questo. Due anni e mezzo. (Sì, mi sento svuotare. Le mie braccia sono vuote.) Da molto, molto più tempo non lo vedevo, Andrea. Forse da cinque anni. Avevamo litigato per una ragazza… proprio lei. La più bella. Ovvio, che finisse così.

Andrea apre gli occhi di colpo, quasi spaventandomi. Sono molto rossi. Non piange più, mi guarda e basta. La faccia è deformata dagli schiaffi che gli ho dato, perché ho picchiato più forte a destra.

Non so se sia il sangue che gli esce dal naso e si è di nuovo fermato, o la guancia tumefatta, o noi due sdraiati così per terra come due cretini, come se lui non stesse per venire torturato a morte, perché io lo conosco e so che non parlerà – è sempre stato un testone maledetto, anche con Anna se l’era voluta lui, si era impuntato su una questione di principio, stupido, idiota, stupido amico, e dire che lei amava te, ma improvvisamente era stata come una grande ondata di rancore, fra noi due, di odio accumulato per anni e anni, di cose non dette, di torti lasciati passare invece di affrontarli subito, lo vedo ancora uscire dalla stanza e chiudere la porta senza sbatterla, Anna lo chiama e io la prendo per un braccio e la fermo, poi il primo giorno, il secondo, e quasi di colpo è passato un anno: da un anno non ci vediamo e non ci sentiamo, allora io provo a telefonargli e lui è partito, sua madre taglia corto, deve avercela con me – e poi gli anni sono due, tre, quattro, tutto cambia intorno a me, lei non c’è più, ormai sono amico solo della paura, la mia e quella degli altri, e ieri portano qui tre prigionieri incappucciati e prima ancora che gli tolgano dalla testa quello straccio ho già capito che è lui, forse il corpo, forse le mani, so già cosa vedrò e giuro, lo giuro su Dio, so già cosa farò, chiederò di interrogarlo io, perché non voglio che siano loro a toccarlo. Ma io adesso non lo toccherò più.

No, non so se sia il sangue o la guancia gonfia o i ricordi o noi due sdraiati, oppure tutto quello che ho fatto e visto da quando sono qui, ma io non ti toccherò più. Andrea. Non so cosa succederà, perché loro verranno presto. Una calma che non conosco mi riempie a poco a poco. Mi fa quasi paura.

Sento già aprirsi una porta, in fondo al corridoio. Guardo l’orologio. Arrivano, Andrea. Ha richiuso gli occhi.

«Arrivano, Andrea.»

Ascoltami, idiota! Stanno arrivando!

«Andrea!»

Muove le labbra come se avesse sete. Ma certo che ha sete. Tutti chiedono da bere, dopo un po’. Un giorno una donna ne ha morsa un’altra sul seno, era il prezzo per avere un bicchiere d’acqua, continuava a morderla e il capitano rideva più di me e più di tutti. Il capitano sta arrivando, ora. La riconoscerei dovunque, questa voce.

«Andrea! Mi senti?»

«Va’… all’inferno…»

Rimango ancora un attimo a guardarlo, mentre i passi risuonano ormai appena fuori dalla porta. Andrea, Andrea. Ce l’ho davanti agli occhi, tutto, quello che ti faranno.

Poi smetto di pensare.

Smetto di pensare, all’improvviso.

La calma è totale, adesso, e la mia mente non c’è più. Niente pensieri, e niente ricordi. Bussano forte alla porta.

Mi alzo. La porta è chiusa a chiave dall’interno. Apro.

«Allora?»

Sono venuti tutti e tre, il capitano e i suoi due maiali tirapiedi. Stranamente grassi, stranamente simili. Li guardo come se li vedessi per la prima volta. Il capitano ha una bella faccia, ma è davvero molto grasso. Ora abbassa lo sguardo su Andrea, che ha aperto gli occhi.

«Allora, questo povero scemo?» Il capitano si volta verso di me. Io non rispondo. Lui ghigna. «Niente? E sì che ti sei dato da fare. Mmh?»

«Magari non abbastanza» dice uno dei maiali. L’altro ride.

Chiudo la porta e ci appoggio la schiena. I due maiali sollevano Andrea, lo mettono dritto.

«Va’ a mangiare» dice il capitano, senza nemmeno guardarmi. «Ci pensiamo noi, qui.» Si volta verso uno dei due e accenna alla rete metallica, nell’angolo. «Là» dice. «Lo facciamo ballare un po’. Eh? Ti piace ballare? Balli con le ragazzine, tu?»

La faccia di Andrea rimbalza indietro, colpita dal pugno del capitano. I due maiali cominciano a slegarlo dalla sedia. Quando si piegano, il grasso trabocca dai loro fianchi e gonfia le camicie. Andrea tiene gli occhi chiusi.

«Di’, sveglia!» alza la voce il capitano, poi scende con la mano e fa qualcosa. Andrea grida. Ormai è quasi slegato. Ecco, ora è libero. I due maiali lo sollevano di peso per portarlo sulla rete. Il capitano si volta e mi guarda. «Va’ a mangiare, ti ho detto» ripete, e si ravvia i capelli.

Il primo colpo lo prende alla pancia, e l’esplosione è assordante. I maiali lasciano cadere Andrea mentre il secondo colpo apre un buco nella fronte del capitano, che crolla in avanti. Ho un sibilo tremendo nelle orecchie. Il maiale più vicino cerca di estrarre la pistola, ma io ho fatto due passi avanti e lo prendo in pieno alla gola, poi subito l’altro, due colpi, uno sulla mammella destra e uno sotto la sinistra. L’automatica sobbalza nella mia mano. Il maiale allarga le braccia e cade sul pavimento. La sua testa urta le gambe del capitano.

Ora c’è fumo, qui dentro, e un odore diverso. Andrea ha aperto gli occhi fin dal primo colpo, e mi guarda. Io forse sorrido, non lo so. Il capitano e i due maiali sono carne morta sul pavimento. Andrea dice qualcosa che non sento.

Mi porto la pistola alla bocca, lecco il metallo, annuso la polvere da sparo. Scuoto la testa una, due volte.

Devo svegliarmi. Devo rimettermi a pensare, e in fretta.

Perché credo proprio che adesso bisognerà trovare un modo per uscire tutti e due da qui.

 

Tre prose da Oggettistica (testi inediti)

1

di Marco Giovenale

Tutta vita

Dopo il semaforo è tutta campagna. Dopo il semaforo è tutta enciclopedia. Da qui in poi è tutta campagna, da qui in poi è tutta enciclopedia. Da qui in avanti è tutto cambiato, è tutto cambiato negli ultimi trent’anni. Da qui in avanti è tutta enciclopedia, da trent’anni è tutta enciclopedia. Passata l’enciclopedia è tutta campagna. Dopo l’enciclopedia c’è soltanto la campagna, la campagna con il suo sapere enciclopedico diretto, eterodiretto, le erbe, gli uccelli, gli insetti. È tutta campagna. Poi dopo trent’anni non c’è più campagna. Da qui in avanti è solo enciclopedia. I nomi, da qui in avanti cominciano i nomi, gli insetti, le erbe, cominciano le ruberie, cominciano i ti faccio vedere, gli assessori, da qui in avanti è tutto assessori, trent’anni, tutto assessori, trent’anni fa non c’era neanche qui. Prima qui era tutta campagna. Città con macchie di campagna. Nella preistoria, prima, lo dice la parola. Prima neanche a parlarne. Prima della parola, neanche a dirlo, o a parlarne. Adesso nel cortile ci sono le galline, razzolano in sei sette. Sono grasse e marroni. Solo adesso. Da qui in avanti è tutto cenozoico, animali ibridi, pezzi di vegetali, staccati mischiati, una spora lì un ramo qui, un corallo nel becco, una scansione inattuabile irrealizzabile, dei pezzi, pezzi che restano sconcertati sul tavolo, il tavolo anatomico, sull’inameno tavolo anatomico. Tra i pezzi respirano, c’è il respiro grosso, nel cenozoico, si respira male, ballano le galline, bollono, nella campagna, passano il vitto, passa uno, due, è tutta enciclopedia, c’è poco cibo, si stanca, tre. Si vede come intorno. Come fosse intorno, saranno sei sette, saranno quattro. Si vede come intorno a un disco tutto è diventato enciclopedia. Forse anche in meno di trent’anni. Il disco si vede come intorno al disco.

§

Nel cielo si formano delle figure

Nel cielo si formano delle figure alcune volte
Questo gennaio questo deve essere deciso
Gli dispiace approfittare della loro fiducia
C’è un immenso valore nel loro lavoro ogni giorno
È alle otto e trenta

La prima stanza del corridoio è senza porta
Ci sono delle sedie per sedersi
È assai gentile e ha una bella firma quando spiega la spiegazione
Sul tavolo esterno in ordinata sequenza
Ogni foglio può essere piegato e ha la sua busta

Il numero di figure e il numero di interpreti sono in proporzione
Se ci si impegna si può vedere un naso
Cambia la disposizione e grandina, ci dobbiamo riparare
Il bar è riscaldato
Andando assai lentamente vedi che assapori i dettagli

Da questo viaggio impareremo molto
È una domanda solo esplorativa, non ci impressioniamo
Quando il celeste si riapre scorgiamo la scia di un aereo
Le sere d’estate ci avviciniamo alla vittima con minor cautela
A volte la quantità di sale è scoraggiante, ma noblesse oblige

Una volta fuori, non resta che seguire la procedura
La carta crocchia nella tasca
Come sei arrivato incolume fin qui, tu
Un punto di svolta è visibile per via della trasparenza
Gran cosa la tradizione

Vedi, attraverso gli strati, gli strati
Un rumorino di lacerazione
Quel che fanno gli avambracci
È assai gentile da parte sua
Si formano tutte delle figure, come delle figure

Seguendo si esce, si può uscire in teoria incolumi
Sedersi per rassettare la borsa e i fogli contenuti
La gentilezza è tutto in questi frangenti
Poteva andare molto peggio
Per dire non davamo ombra

§

N.

È seduta in giardino compostamente
Non è un giardino

È un orto
Ci sono piante da frutto
Con i loro frutti
Non la vedo seduta

Sta dietro lo steccato in piedi
Osserva i polli i pulcini le galline
No sono oche

Osserva le oche
Fanno un verso impettito
E vanno impettite da un capo all’altro
Quasi veloci per il becchime
Non sono veloci

È la loro andatura
Non so se è la loro non si può dire

Potrebbe essere il passo del video
È l’andatura che hanno oggi
Neanche questo è certo

Se fosse la stessa di ieri
Chi può mai dirlo non eravamo qui ieri
Non saremo qui domani

Lei dallo steccato lancia bocconi
Era prevedibile
Qualcosa
Le oche si avvicinano
Non sembra anzi le sfuggono

Hanno paura allora
Forse e non sono bocconi ma sassi lanciati

Ha in sé dello schietto sadismo forse
Sembrava seduta con le gambe accavallate
Invece è ritta allo steccato osservando lo spettacolo
Sembrava piegata
Deprimente sciatta semmai
Forse uno spettacolo ambiguo
Non direi anzi chiaro forse

Donna nel sole con oche
È nuvoloso e peggiora
Non sono oche se vedi bene

Nel sole
È un film dunque sono filmate
Ma il film fa riferimento al vero
Chi può verificarlo
Sinceramente

§

Da domani a domenica, Marco e molti altri leggeranno qui.

L’umanità generica, Kant e i rifugiati: un collage e qualche riflessione

21

profughi italiani in_fuga-caporetto Di Andrea Inglese

1.
Il profugo è un uomo?
pròfugo s. m. (f. -a) e agg. [dal lat. profŭgus, der. di profugĕre «cercare scampo», comp. di pro-1 e fugĕre «fuggire»] (pl. m. -ghi). – Persona costretta ad abbandonare la sua terra, il suo paese, la sua patria in seguito a eventi bellici, a persecuzioni politiche o razziali, oppure a cataclismi come eruzioni vulcaniche, terremoti, alluvioni, ecc. (in questi ultimi casi è oggi più com. il termine sfollato).”

Cosa fa sì che il profugo sia un uomo, e non un peso morto, e non una quantità di umanità residua, destinata a cadere – il cui destino fatale è la caduta? Cosa fa sì che un profugo non debba inevitabilmente e più facilmente morire, di chi non è profugo? Perché un profugo non dovrebbe suscitare, quando muore, le lacrime che gli altri esseri umani, morendo ingiustamente, suscitano? È possibile che l’umanità sporga da quell’essere fuggitivo, senza scampo, che è il profugo?

les nouveaux réalistes: Barbara Gozzi

1

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La prima persona

di

Barbara Gozzi

 

Erano anni che non usava la prima persona e non le viene granché bene.

L’ultima volta era il 1997 anche se poi aveva dovuto riprendere tutto nove anni dopo quando era sbucato l’editore, ma non le va di ricordate per filo e per segno di quando aveva creduto davvero che un suo libro potesse essere scovato in libreria.

La prima persona – comunque – non è adatta a chi vuole scrivere di cose importanti, negli ultimi quindici anni lo hanno detto in tanti, lei l’ha solo lasciato entrare nella sua testa. E ora che deve scrivere in prima persona non sa bene come muoversi, dove mettersi, come impugnare la penna, come sistemare il bloc-notes sulle ginocchia. Con cosa iniziare.

Perché può scrivere solo in prima persona, a un morto si scrive in prima persona, la si potrebbe chiamare lettera. A lei non sembra di voler scrivere una lettera, comunque.

 

Quando è morto il cielo era bianco, è stato bianco per alcuni giorni, e lei ha creduto che sarebbe rimasta immobilizzata a fissarlo per sempre. Naturalmente non è andata così altrimenti non sarebbe in riva al mare, ora.

Quando è partita stavano crescendo le prime piante sul balcone, in particolare un rampicante s’era messo in testa di colonizzare tutta la ringhiera e spargeva campanelle d’un viola scuro brillante, qualcuna tendeva al rosa e bordeaux. Ogni tanto se lo chiede ancora, come se la cavano le piante sul balcone, non abbastanza da fare una telefonata, comunque.

 

La prima persona non la aiuta per niente. L’aria è fresca, il mare davanti a lei sonnecchia vagamente nervoso, e scrivere non le viene proprio. La testa è rimasta intrappolata nei programmi per il resto della giornata, oggi al bar ha il turno che inizia alle venti e ci sarà un continuo andirivieni ne è sicura, turisti in vacanza, i soliti gruppi di zona in cerca di qualcos’altro di nuovo da ieri, l’altro ieri, e tutte le precedenti notti di quest’estate che procede a singhiozzi. Daniel è il proprietario del bar ed è sempre nervoso, prima di assumerla sua moglie aveva avuto un ictus, da allora si assenta spesso, e lui detesta assentarsi perché al bar tiene molto, l’ha ereditato, non serve aggiungere altro.

Stasera Daniel ci sarà perché l’aiuto cuoco s’è beccato l’ennesimo virus intestinale e non potrà tornare prima di una settimana. Le imprecazioni di Daniel sono sonorità che alle sue orecchie italiane arrivano sottoforma di musica, fanno torciglioni e s’incurvano lungo il canale uditivo.

 

La morte è sorprendente, ma il silenzio è destabilizzante. Credeva di conoscerlo, quasi le va di traverso un grumo di saliva. Non sapeva un bel niente. Il più delle volte non sa granché delle cose poco importanti della prima persona. Dopo la sua morte s’è messa a correre. Ha corso in ogni azione che ha fatto, e se non c’era niente da fare se l’inventava o trovava nuovi lavori, avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di non fermarsi. Il silenzio – ovunque fosse – era bloccato tra una contrazione muscolare e la necessaria reidratazione periodica via cannula.

Alla fine s’è fermata, comunque.

Il lavoro non bastava più, le hanno mandato i solleciti dei solleciti per i mancati pagamenti delle bollette e le è venuta una bizzarra reazione che a ogni nuova chiamata che riceveva il cuore prendeva a batterle direttamente in gola, martellava sulle corde vocali, e non le riusciva di articolare suoni scomponibili in parole di senso compiuto. Niente, a parte sibili e versi che potevano anche sembrare imprecazioni o pernacchie.

 

La faccenda del lavoro non era nuova anche prima che lui morisse, comunque.

Che nemmeno è una faccenda, in effetti. Pochi soldi ovunque, non serve aggiungere altro.

 

Alla testa arriva direttamente in prima visione l’ultima volta che si sono visti. L’abbraccio. L’odore di colonia. Un vago strofinio tra i tessuti dei vestiti.

Sul volto le si forma una smorfia istantanea.

Da ragazza era genuinamente romantica, ora le danno fastidio un sacco di cose, compresi i pensieri come quello. Compreso l’esser toccata. E non ci si può abbracciare senza toccarsi. Ma all’epoca era tutto lontano, inimmaginabile, comunque. Che lui morisse era inimmaginabile. Non prima di lei, comunque.

 

Dov’è ora gli sarebbe piaciuto, è uno di quei posti che assembla ingredienti di cui avevano anche parlato, anni prima, le tipiche immaginazioni dei luoghi da vistare che poi evaporano ogni giorno un po’. Se socchiude gli occhi sta proprio lì, in piedi davanti a lei a oscurarle il sole prossimo a congedarsi. Si sta lamentando, non basta il vento a portarsi via il borbottare continuo che sempre aveva. La sabbia dentro le scarpe, l’aria sul collo, se si siede il culo per terra gli si raffredda, i ragazzini laggiù finiranno per centrarlo col pallone, s’annoia, gli servono un paio di caffè e in questa stramaledetta spiaggia i locali stanno tutti sul lungomare, bisogna rifare a piedi tutto il tragitto tra la sabbia, è stanco, o il caffè o se ne va, non gli riesce di tenere aperti gli occhi, sta salendo un certo umido è impossibile che lo senta solo lui.

Infatti lei ha i piedi freddi. Le ciabatte se ne stanno scomposte poco distante. Se l’è sfilate di fretta prima di sedersi col bloc-notes in mano, l’acqua del mare le sfiora appena le dita dei piedi quando le onde raggiungono il bagnasciuga. Niente telo, se lo dimentica sempre (è diverso vivere vicino al mare, quando ci andava in vacanza aveva una sacca di quelle enormi, di plastica colorata, con tutto l’occorrente per la spiaggia, viverci invece azzera ogni programma, non importa più cosa ricorda di portarsi uscendo di casa). Fa più freddo, hai ragione. Se ti muovi rientriamo. Ancora un minuto.

 

Non le viene in mente l’incipit. Non scrive da prima che lui iniziasse la vita medica. Ha avuto un anno intero di vita medica, lui, lei no, ha avuto qualcos’altro che non le riesce di qualificare. Ha aspettato, ogni tanto ha chiesto, per lo più comunque ha aspettato. Nel frattempo son tornati i figli, gli amici di quando lavorava, perfino l’amante è tornata, e quell’altra che per un po’ ci aveva creduto. Poi è morto. E son continuati a tornare in tanti, su di lui. L’orizzonte ora gioca con alcune tonalità di blu, il cielo presto si venerà di altri colori. Ha lasciato tutti gli oggetti nella casa col balcone, in Italia. I libri. Le fotografie. Il quadro con la dedica sul retro. I regali. Perfino le mail e i messaggi, sono rimasti in Italia, dentro il pc e il cellulare. Tutto è rimasto dov’era stato riposto quando morì. Quando iniziò il silenzio. Quando ancora ignorava che la prima persona ha una vita propria, che rivendica, e le impedisce di barare o tentare scorciatoie.

Non può comunicare con lui senza parlare a lui.

Il bloc-notes è pieno di scarabocchi, parole storte e cancellate, simboli e immagini disegnate senza un perché, alcune forme si son fatte largo mentre fissava il mare.

Non può parlargli senza ricordare che è morto.

Non può ricordarsi che è morto senza assistere al frastuono di qualcosa che le scoppia dentro.

 

Dovevi lasciarmi prima, anziché aspettare di saperlo. Prima, molto prima.

 

Quando è partita non l’ha detto praticamente a nessuno. Una bella storia da raccontare, lasciare tutto, paese natale compreso, e non avvisare nessuno. Proprio una bella storia, se solo la prima persona le desse tregua. Ha le dita rattrappite per il freddo. Il turno al bar inizierà fra meno di un’ora, le resta il tempo per una doccia e un trucco leggero.

Abbassa lo sguardo sulle ultime frasi scritte.

Cancella quasi tutto con movimenti curvi della penna, lavora di polso.

Osserva le nuvole fresche di inchiostro poi le uniche parole rimaste. molto prima.

È arrabbiata.

Son parole senza senso, le sue. Vuote. Inutili. Le legge e si sente ridicola, ridicola comunque.

Raggiungere la via del lungomare le sollecita i polpacci, le ciabatte scivolano sulla sabbia dura, il ragazzino con la palla la saluta, ha un ciuffo gonfio e scuro sulla fronte, il suo amico sta parlando al cellulare. C’è una melodia nell’aria, forse suonano già lungo la strada, di solito aspettano l’imbrunire. Alcune pagine del bloc-notes finiscono nel grosso cestino grigio lucido al limite della spiaggia, accanto ai resti di alcune coppette di plastica fosforescenti, pezzi di tovaglioli di carta e noccioli di frutta.

Le parole che cerca non esistono, non serve aggiungere altro.

La laica religione (2/2)

1

di Giacomo Sartori

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Un amico poeta

filosofo radicale

scrive che la scienza

è venduta al capitale

nonché serva

di ideologie padrone

queste sono verità astratte

lui non scava negli occhi

di questi apostoli

les nouveaux réalistes: Emmanuele Bianco

1

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Acconciature

di

Emmanuele Bianco

Non era solo per i cinquant’anni di acqua, sole e vento; per il fascino di una cosa che invecchia con sfrontatezza, per una nota di armonia acidognola rimasta sotto la pelle del rione, né per quell’angolo, girato il quale si staglia, come un bambino smascherato, l’anfiteatro Flavio; e né, tantomeno, per l’atmosfera da limbo romantico di passeggiatine nei vicoli che furono di ubriaconi, cantinieri, ladri, puttane e schiavi. Non era solo per quell’insegna – Antonio acconciature per signora – tirata a lucido tutti i lunedì pomeriggio da un ragazzino senza voglia di studiare, forse neanche per la sedia imbottita che sembrava una chiave appena fuori dal salone. S’incazzava e bestemmiava, il mite Antonio, se qualcuno s’azzardava a chiamarlo negozio o, più nobilmente, bottega. A dispetto delle sue venti sigarette quotidiane le analisi del sangue non avevano neanche un asterisco e i suoi dieci decimi erano una provocazione ai quasi ottant’anni. Antonio era lì, fuori dal proprio salone, dal 1968. E prima, da quando era un ragazzino, gironzolava nei vicoli del rione e intorno a suo padre. Era lì quando gli americani cagarono due stronzi atomici a Hiroshima e Nagasaki, e sempre lì quando le signore più audaci entravano nel salone con una foto di Marylin Monroe, Audrey Hepburn o Gina Lollobrigida e si abbandonavano – Virgilio mio bello me devi fa na goccia d’acqua uguale uguale a Marylin… che c’assomiglio ‘n po’, ve’? – all’arte paziente del padre.

 

Ricorda perfettamente quando nell’immediato dopo Beatles il vecchio Virgilio, suo padre, si mise a studiare le acconciature afro: treccine, rasta, permanenti esagerate. Era la seconda metà dei settanta e Bob Marley rivoluzionò il mondo ammettendo di aver sparato allo sceriffo, dicendo alle donne di non piangere e cantando libertà e redenzione. Le donne entravano nel salone cercando più che altro consigli su come sembrare il più hippies possibile senza beccarsi pulci e pidocchi. Poi Virgilio morì, ma fu una bella morte: di vecchiaia, senza sofferenza, con tutta la famiglia intorno e un bel funerale nella chiesetta poco distante dal salone. Antonio e gli anni ottanta si ritrovarono da soli, in un abbraccio che provava a far finta di niente. Il rione cambiava pelle per l’ennesima volta. La società pacifista, gli spinelli, gli acidi e le adunate rock subirono una scissione. Con gli anni ottanta i vicoli del rione si popolarono di punk e yuppies. Nel salone entravano donne di ogni rango: col mito di Wall Street, di una parata militare o delle tribù Mohawk. Antonio passava le giornate ad agghindare chiome con fasce colorate, a cotonare lunghissimi capelli in onde sinuose, a spennacchiare folte criniere per farle assomigliare a una palma da cocco, a rasare e colorare di rosa, verde, blu, ciuffetti di capelli: segnali di una resistenza urbana fatta di cultura e controcultura.

 

Fu in quel periodo, con qualche anno di ritardo, che Antonio s’innamorò di Linda e, senza rendersene conto, in un anno si trovò sposato con una figlia di tre mesi piuttosto bellina e dall’indole quieta. La piccola Sara viveva la sua infanzia dando fondo agli anni ottanta, in un quartiere di Roma che stava per diventare la roccaforte dell’aristocrazia fricchettona, del cambio generazionale di vecchie e solide borghesie. Fu in prima media che ebbe il suo primo vero confronto col padre – ma non capisci, non è sciatteria è stile – e fu dentro al salone, mentre Antonio massaggiava sapientemente la cute della figlia. Gli anni novanta furono dei tossici: i Nirvana e la campagna Obsession di Calvin Klein proclamarono Kurt Cobain e Kate Moss re e regina di un impero che sembrava iniziato col boom degli anni cinquanta, sembrava aver resistito ai settanta e rinato negli ottanta, salvo poi capire che l’unico vero impero era finito qualche centinaio d’anni dopo Cristo e pazienza per la rassegnazione nostalgica e rabbiosa dei fascisti se poi made in Italy significava evadere il fisco. Gli anni novanta furono gli anni delle teste a lampadina. Tutte volevano essere bionde, anche i ragazzi, al mare, si schiarivano i capelli con la birra. In periferia tanti si versarono bocce di acqua ossigenata in testa. La legge, quella sì era uguale per tutti: ogni tonalità di biondo, ricrescita di un paio di centimetri all’attaccatura, occhiaie, pallore, tuta di felpa e All Star. Gli 883 spopolavano e più che a Max Pezzali molti si appassionarono alla figura del biondino mezzo matto. Si scivolò lentamente verso gli anni zero. La multinazionale Nike assunse il ruolo di comando al timone di generazioni di adolescenti. Ormai la moda non la dettavano più i tempi ma i testimonial. Non più la società, le guerre, la musica ma ricchissimi personaggi sportivi.
Ora Antonio siede sulla sedia imbottita a forma di chiave fuori dal proprio salone, sua figlia Sara ha ormai quasi quarant’anni, sua moglie Lidia sta al cimitero di Prima Porta nel settore nuovo, quello fatto di palazzine a tre piani che sembrano condomini senza ascensori. Non ha voluto imparare il mestiere del padre ed è rimasta senza lavoro. Adesso è Antonio il vecchio. Guarda il rione, è tutto cambiato. I giovani calzano scarpe da barca sui sanpietrini sconnessi, sembrano essere sempre pronti alla pesca delle vongole; hanno barbe lunghissime come se dovessero nasconderci qualcosa o nascondersi da qualcuno. Ora i giovani del suo rione praticano il buddismo, in alcuni casi, gli avanguardisti, studiano per diventare imàm di qualche moschea. Oggi i trentenni e i quarantenni del rione fanno aperitivi biologici a chilometro zero, mangiano solo frutta e verdura, i più estremi solo frutta caduta dall’albero, quindi non uccisa. Oggi questi giovani si muovono per la città con biciclette senza cambio, come Gianni Morandi nei suoi musicarelli. Hanno cellulari fuori moda, passano molto tempo a leggere poeti francesi e a ricordarne le migliori citazioni, si lamentano della vita veloce alla quale possono permettersi di sottrarsi, comprano orrendi abiti usati ma mai per necessità, infatti li pagano tre volte il loro valore, si agghindano di chincaglierie etniche purché artigianato comprato in loco, vanno lunghi di tre o quattro anni fuori corso per una laurea al Dams o Scienze politiche – no materie scientifiche, no medicina, no robe troppo impegnative – e quando non ci vanno, comunque, il lavoro inteso come stress, fatica, problemi a pioggia e salario sindacale non è tra le loro priorità e tuttavia mai, in nessun caso, rientra tra le loro esigenze primarie.

 

I giovani che vivono il rione del vecchio Antonio, ormai, arricciano tabacco e guai a trovarne uno con una sigaretta confezionata dalle orride multinazionali. Sognano per lo più di scrivere e dirigere e a tal proposito è difficile beccarli in giro senza che nelle tasche bucate delle loro giacche di tweed non ci sia un’agendina – in genere moleskine ma, in alternativa, qualche accozzaglia di fogli alla rinfusa purché riciclati e ciclostilati in un artigianalissimo handmade di cuoio – per non perdere la suggestione di un attimo folgorante e rielaborarlo con il genio di Proust o la capacità indagatoria di Dostoevskij, abbozzare piani sequenza alla Sokurov o movimenti di macchina alla Hitchcock o alla Kubrick. Questi strani giovani che il vecchio Antonio osserva ormai da anni non hanno la televisione, guardano ciò che gli interessa direttamente online, non seguono il calcio, sono apparentemente poco attenti all’estetica, non indossano profumi – anzi! – non cucinano, si lavano il giusto indispensabile, parlano dei loro viaggi in Cambogia, Vietnam e Laos dove la vita costa pochissimo, dove tutti sono poverissimi e vivono nelle baracche ma sono anche tutti tanto felici ed è lì, esattamente lì, che si sono sentiti vivi per la prima volta – ma pensa che vita de merda, aveva rimuginato più volte Antonio parlando con qualcuno di loro. Pretendono di avere un’idea su tutto forti del loro punto di vista che non è né di conoscenza né di esperienza ma piuttosto un banale e sciatto indottrinamento che li conforma nell’indipendenza di una riserva. Scambiano sorsate di sangue fresco con gelati trovati per terra perché la loro battaglia assomiglia più a quella di un bambino capriccioso che a quella di un vampiro sotto mentite spoglie. Non hanno un conto in banca – tutt’al più banca etica – ma erediteranno un minimo di tre case che sfiorano il milione l’una, girano senza soldi ma come lo faceva l’avvocato Agnelli, credono in una società più giusta ma il 740 del papi fa acqua da tutte le parti.

 

Antonio guarda tutto questo, si mette seduto fuori dal salone e prova a capire quest’ennesimo avvicendamento del rione. È rimasto solo, non ha più alleati con i quali passare la giornata, le clienti sono calate e i bottegai storici sono sotto terra, o su qualche panchina. Staccò un pezzetto del proprio cuore il giorno che attaccò il cartello vendesi fuori dal salone. Pensò che forse, a conti fatti, il cuore manco gli sarebbe più servito appena due settimane dopo quando, come sciacalli acquattati tra le fronde della crisi, molti di questi strani nuovi giovani avevano sventagliato proposte, contanti e fideiussioni bancarie. Antonio ora deve pensare a Sara, lui la sua vita l’ha fatta. E anche il mio rione, pensa con un certo orgoglio, ce ne andiamo insieme. Se cercate borse di pelle cucite a mano, scarpe fabbricate nel pieno rispetto di qualunque cosa e camicie su misura; se il vostro motto è – come quello dei giovani abitanti del rione – “i soldi non mi servono” allora andate in quello che era il salone Antonio acconciature per signora. Vi offriranno un bicchiere di vino biologico, dei crostini di pane di segale con salsa di verdure e vi regaleranno un libro usato, a patto che facciate altrettanto.

Dopo sta mostra potemo annà a vedè sto negozietto nuovo che ha aperto.
– Daje sì. Oh ma sta mostra de che è?
– Boh, tipo de un ragazzino che dipinge tutte cose strane d’alienazione, sangue, nudi, tormento.
– Mah…
– Daje, n’amo che nun ce sarà nessuno.
– Daje!

Il colpo di biliardo

15

di Michelangelo Zizzi

Poesia per il Padre

Quando s'incagliò il treno di sud-est
nel letame
tu del sud
all'insegna di bar intermittente
sapesti che la vita allotria invecchia
come nella resistenza di fanghiglia
una chiglia d'antiquario
mentre tu la trama disfatta ricuci
e non da sarto di contrada
perché davvero possiedi congruo filame di carne
nella tessitura d'occhio di rosone d'iride
di donna che ami
mentre i rami i rami
nella palude la fossa stigia 
sbruga
e il Novecento tutto
sfiaccola sulle candele scivolanti
verso il buio democratico e vano
per questo risali la china la corrente 
e di te l'origine trova
l'ascendente delle tue nascite celesti
e stai nel vestito pure cucito
alla domenica mattina
il suolo strusciando con cuoio di suole
su stradoni di paese.

Così io del grave inno d'imperio cartesiano
delle metropoli canto la fine
perché della lima che il cuore corrode
fui supremo fabbro
e un'urgente ferita slaccio.

Ama pertanto nella vita che bruciacchia
e alla resistenza di ristoppia di campi andati
resta
nel magistero di occulta fiamma che ti arde
come il mistero di essere venuto fuori
al mondo in vagito in sala d'ostetricia
alla luce cimmeria d'ogni nascita
in grido cesario
e sfiacca della monotona allegria
ogni inutile scusa
ma riposa in cuore
ma torna alla cura della rosa
che spinge cinabrina risalita di petali
torna risalendo nel vincolo di sangue di un paese antico 
il vicolo 
e ricuci pure il tempo perfetto del '39
e se pure fosse un tugurio il mondo
un incrocio mercatale
alla fine della fiera
anche accendi ogni tanto la sigaretta al crocicchio
o alla contrada
al bar dirotto dove vecchi a biliardo stanno
sfiaccando le buche
o con le scope in mano restano
sbalorditi dei punti
ricordando la neve del '56.

Insomma ritorna in alcove sempiterne
che il fulvo pelo
d'amante di volpe adorna
e svia la via imperfetta
e della palude il brago stura
e all'angolo ben vestito di sola carne resta
e alla sera ferina resta
come creatura mortale
resisti sul Novecento tutto
e soffia ora sulle candele sfiaccolanti
perché smodelli la cera
in formula vana
non vera
e torna pertanto all'angolo
all'albore
all'evento
alla stanza di giochi
e la corrente risali destrorso
sversa della sinistra riva ogni opificio 
e rimani come l'esule non allagato
scorna sul duro cozzo della morte 
che a questa latitudine è una bara
riuscita nel pomeriggio
col lucore di tintinnanti campane
e come Giuliano fece ritirati
in rara via.

Ora ritira ogni dado
mentre la questione meridionale naviga
per icone futili fino al mare del caso
e ricompare nella pigna lasciata 
nell'atrio dei basiliani presso al cortile molti anni fa
con mio padre che disse riprendila
la riprendo padre
nell'orto inconcluso che naviga per rotte di monaci benedettini
dove siedo
all'allotria vita lasciando gli episodi di cose morte.
Qui per ventura devono ancora passare garibaldini
e giubbe rosse ben bardate
e forse non passeranno
e io riposo per troppo amore
nel letto d'aghi di pino
al caldo governo di sole d'aprile
e chiedo che la resistenza che arranca
sia più lieve della carezza di nonna
tornata a casa dopo le compere
e stanca
più grave dello sguardo di nonno maestro nel '50
in contrada di rossa mora.

Per questo sto nel retro del retrò
nel bistrò
dove fiaccheggio sfiascando vino
e saccheggio parole inutili e vane
del radical chic
e vi vedo che passa  
il fantasma del moderno
ma con un cartografia immateriale
utopia di città silenziose
e vi vedo la mappatura della terra incognita
del giornale che uscirà domani
e che ha il confine delle ferraglie al silicio
e un bituminoso ottimismo
di cose socratiche e ridette.

Per il resto rimango nella resistenza dell'Impero
nella desinenza
nella risulta
come fosse un cesto senza fasto
o cado nella paglia fratta d'alcova
fino ai baci che le giovani attrici dei boschi
mi davano nel pelo non lavato

Fino a te padre
quando la questione meridionale è lo squalo
che con trafile d'uguale dentiera azzanna
per bere invece le risulte d'olio
consunto della storia.


Ma tu padre il fato azzardasti come Cesare
nel dado ben tratto e gettato all'azzardo
di verde panno di tavolo
ed io che nella pozzanghera condominiale sosto
che insomma sto nel trionfo
medicale della teoria della salvezza
dell'evoluzione occidentale
nella retta cartesiana
io lo raccolgo e lo cifro col mio sangue
ben lavato e marchiato
nel fato dell'essere nato
e per quanto l'Impero stia sfatto
quanto la talpa che in terriccio rincula 
in franata tana
oh padre io per l'amore di Plato
tutto a te consacro
e nel tempo delle cose che se ne vanno
nel rosone rivedo come in iride
il colore che in infanzia mi davi:
la giulia azzurra nei campi verdi
la nera 1750
truccata quanto alla sera la puttana 
nei tratturi di murgia affranta. 

*
(da La resistenza dell’Impero)

les nouveaux réalistes: Annarita Briganti

2

briganti

Lettera a un bamboccione

di

Annarita Briganti

 

Io a una donna ho dato il male e preso il bene (Claudio Baglioni)

 

Prologo

 

«Sono arrabbiata. Sono furiosa. Mi ha mostrato come avrebbe potuto essere, mi ha amata per ciò che ero. E poi… È un dolore fisico. Mi chiude la gola. Di notte mi sveglio e credo che sia tutto un sogno». Letto mentre preparavo un’intervista, il giorno dopo la tua scomparsa.

 

*

Non ti ho detto che anche mio padre ha perso suo padre da piccolo #manonèdiventatocomete

Non ti ho detto che stare con te era come cercare #oronelfango

Non ti ho detto che la bambina non vuole vederti. Quando te la porto, la riempio di pasticche di camomilla, dicendole che facciamo il gioco delle #caramelle

Non ti ho detto che con i tuoi cento euro al mese #noncelafacciamo

Non ti ho detto che Eva ti ha definito una merda, proprio così. Devi fargli terra bruciata attorno #urlava

Non ti ho detto che tua moglie mi ha cercato su facebook #unapazza

Non ti ho detto che una volta sono andata a casa di un avvocato e stavo per tradirti. Poi mi hai chiamato per annunciarmi che ti trasferivi per un mese a Tokyo #esonotornatadate

Non ti ho detto cos’ho risposto #allapazza

Non ti ho detto che i miei genitori stanno morendo #èlavita??

Non ti ho detto che mio fratello è scoppiato a piangere parlando di #noi

Non ti ho detto che le foto con cui ti paghi il pane quotidiano non sono un granché #artistidenoantri

Non ti ho detto che sono sensibile. L’ha notato sabato sera a cena #Giorgio

Non ti ho detto che a Tokyo ho sentito quello che dicevi di noi ai tuoi colleghi, quando sono tornata a tavola e vi siete zittiti #dicolpo

Non ti ho detto che il tuo socio mi ha baciato sulla bocca davanti al birrificio di Lambrate, mentre fumavamo una canna e tu, all’interno del locale, giocavi con i messaggini #piccolino

Non ti ho detto chi è #Giorgio

Non ti ho detto che voglio un altro figlio #nondate

Non ti ho detto che la cosa che mi manca di più è dormire insieme, non il sesso o l’amore, ma il puro contatto #fisico

Non ti ho detto che sei un #mostro

Non ti ho detto che sto per #innamorarmidinuovo

Non ti ho detto che tornare sui luoghi del delitto #miammazza

Non ti ho detto, o forse sì, che #noncelafaccio

Non ti ho detto che non ho più messo i tuoi #profumi

Non ti ho detto che sono piena di #debiti

Non ti ho detto che ho cambiato #gusti

Non ti ho detto che ho chiesto aiuto a un astrologo e a un gigolò #sgrammaticato

Non ti ho detto che ti stai perdendo #tutto

Non ti ho detto che non ti perdonerò #mai

 

https://www.youtube.com/watch?v=zUT0h4XcfGc

Epilogo

A Capodanno avevo preparato un tubino argentato, è rimasto appeso alla maniglia della camera da letto. Il forno, e quell’immagine della testa di Sylvia dentro, con un bicchiere di latte sul comodino dei figli. Nella metropoli da cui sto per andarmene era tutto così silenzioso, tranquillo. «Ho dovuto confrontarmi con la tristezza, fare pace con quelle cose e pensare ad andare avanti. Non possiamo tornare indietro. È la nostra fortuna, che possiamo solo andare avanti», mi ha scritto Alma, prima che interrompessi i contatti con il mondo. Mai dire mai, ha tatuato lei sul polso sinistro. E un ultimo pensiero: «Esistono solo due giorni dell’anno in cui non si può fare niente. Uno si chiama ieri e l’altro domani. Pertanto oggi è il giorno migliore per amare, crescere, agire e soprattutto vivere», Dalai Lama.

 

 

 

4 O’Haras

13

sardines

Frank O’Hara

Perché non sono un pittore

Non sono un pittore, sono un poeta.
Perché? Penso che mi piacerebbe
di più essere pittore, ma così non è. Bene,

per esempio, Mike Goldberg
comincia un nuovo dipinto. Arrivo io.
“Accomodati e bevi qualcosa” fa lui.
Io bevo; noi beviamo. Io alzo lo sguardo
“C’hai messo SARDINE.”
“Sì, ci mancava qualcosa in quel punto.”
“Ah.” Vado e passano i giorni
e càpito ancora. Il dipinto
va avanti, e io vado, e i giorni
passano. Ricàpito. Il dipinto è
finito. “Dov’è finito SARDINE?”
Tutto quello che è rimasto sono solo
lettere, “Era troppo,” dice Mike.

Ma io? Un giorno penso a
un colore: arancione. Scrivo un verso
sull’arancione. Presto diventa tutta una
pagina di parole, non versi.
Poi un’altra pagina. Ce ne vorrebbero
di più, non di arancioni, ma di
parole, di come terribile sia l’arancione
e la vita. Passano i giorni. Diventa
prosa, sono un vero poeta. La mia poesia
è finita e non ho ancora nominato
l’arancione. Sono dodici poesie, le chiamo
ARANCE. E un giorno in una galleria
vedo il quadro di Mike, chiamato SARDINE.

 

 

 

Autobiographia literaria

Quando ero bambino
giocavo per mio conto in un
angolo del cortile della scuola
solo soletto.

Odiavo le bambole e io
odiavo i giocattoli, gli animali erano
per niente amichevoli e gli uccelli
volavano via.

Se qualcuno mi cercava
io di mio mi nascondevo dietro un
albero e gridavo “sono
un orfano.”

Ed oggi eccomi qua, il
centro di tutta la bellezza!
A scrivere queste poesie!
Ma pensa te!

 

 

 

Poesia

Essere idiomatici nel vuoto,
ecco una cosa splendida! Io

la vedo, è come essere dentro
un uccello. Dove vivi?

sei malato?
Respiro la sfera pura

della solitudine, mi disseta.
Conosci il giovane René Rilke?

Lui è una rosa, è insieme, tutto
insieme, come una galleria del vento,

e il resto di noi stiamo testando
le nostre ali, i nostri passi ambiziosi.

 

 

 

Mio cuore
Non piangerò tutto il tempo
né riderò tutto il tempo
non preferisco una tendenza all’altra.
Vorrei avere l’effetto immediato d’un film brutto,
non solo barboso, ma tipo quelle grandi
superproduzioni. Voglio essere
almeno tanto vivo quanto il kitsch. E se
qualche aficionado del mio caos dicesse “Non è
da Frank!”, tanto meglio così! Io
non metto mica il doppiopetto tutto l’anno,
vero? No. Indosso la tuta da lavoro all’opera
spesso. Voglio che i miei piedi siano spogli,
voglio la mia faccia ben rasata, e il mio cuore…
non puoi fare programmi sul cuore, ma
la sua parte migliore, la mia poesia, è aperta.

 

*

 

Frank O’Hara (1926-1966) fu brillante rappresentante della cosiddetta New York School, arguto, casual e coltissimo, fine conoscitore delle arti, comprese la musica e la danza, spesso ispirato dal lavoro degli amici pittori, attento a cogliere le molteplici esuberanti voci dalle strade della metropoli, un talento puro con – nelle parole di Donald Allen – un modo tutto suo di “sentire e fare, come se essere un artista fosse la cosa più naturale del mondo. In confronto a lui tutti gli altri sembravano sempre un poco consapevoli, imbarazzati, megalomani.” Le sue poesie sono animate da questa miscela di verve, intelligenza naturale e ispirazione e hanno avuto una influenza enorme sulla successiva generazione di poeti. Molte poesie di O’Hara si possono leggere qui (in lingua originale). Le quattro qui sopra si possono leggere in Frank O’Hara, Selected Poems. Ed. D. Allen, Carcanet, 1991, o sono rinvenibili in rete (Why I Am Not a Painter, Autobiographia Literaria, Poem, My Heart). La traduzione è di chi scrive. rm

 

Nell’immagine il quadro di Mike Goldberg, “Sardines” (1955).

 

 

 

les nouveaux réalistes: Stefano Felici

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Il progetto Ms

di

Stefano Felici

 

«Ma il meccanismo è un’illusione, e consiste proprio in questo: ti compare una schermata di parametri e linee, grafici senza senso, percentuali di completamento, e poi, sempre con tutto bene in vista, come se un’infinità di ingranaggi avesse trovato l’allineamento perfetto, finalmente uno, due, tre, quattro messaggi che in sequenza ti dicono che ora funziona, che è tutto a posto, che si può cominciare: davanti a te hai il superamento dell’intelligenza umana e non hai che da chiedergli qualcosa; ma dietro, in tempo reale, ci siamo noi e quelli di sopra, più quelli di sopra a quelli di sopra, e così all’infnito. È ovvio, sì, non me lo devi nemmeno dire; ma tu hai capito qual è il magma, il vibrante di tutta l’illusione?»

Sono quattro ore diagonali e il sole picchia duro alla finestra. A me non va più di lavorare. E ho una sete preoccupante.
Sopra i muri bianchi hanno appeso le stampe stilizzate dei quadri dirigenziali. «Sono dei Mondrian orrorifici, e se li guardi bene riesci a leggerci persino com’è che finirà il mondo.»
Io, a queste cose, dette dalla gente ironica per bella mostra, ci credo. Ne spiego la ragione: non penso che parlino per bocca propria. Sono terminali di un flusso, una parobola di ritorno messa in circolo da lontano, che arriva quando deve. E chi pensa di scherzare è solamente attraversato.
Chi mette in circolo queste cose, alla fonte, è il maligno. Io ci credo. E dal momento che in queste cose ci credo, penso corrispondano alla verità. E perché il maligno dovrebbe dire la verità, se è maligno?, mi si chiederebbe; e io risponderei: gioca. Ha così tanto vantaggio che ormai la partita è vinta. Anche se non c’è alcuna partita. Eppure, la vittoria esiste.
Così, da uno scompartimento all’altro, ci passiamo bigliettini di auguri, oppure ci congratuliamo per un giorno in più trascorso nell’edificio e non a casa. Un altro collega ironico, di quelli attraversati, mi racconta spesso – e quando racconta, forse non se ne accorge, ma ha una scarica di spasmi ai muscoli facciali da far vomitare per il terrore – tutta una storia che finisce con un uomo che passa a casa cinque giorni di fila, senza mai uscire, e siccome capisce che uscire di casa non ha più alcun senso, e non avendo alcun senso nemmeno la sua casa, alla fine si suicida. E io gli dico che una volta ho trascorso a casa tre giorni filati, e lui mi dice che cinque non è tre, e poi arriva un altro che sul piatto dei giorni ne mette quattro, ma quattro non è cinque, e per gradi prende corpo il terrore, in tutti, ma lo nascondiamo, o forse alcuni non hanno capito che questa storia dei cinque giorni non è ironia, è presagio, squarci di futuro offerti dal maligno. E chi parla è parlato.

I pavimenti dell’edificio sono viola cangiante. È stata la scelta di un lungo consiglio amministrativo, durato due giorni. In quei due giorni, nessun dirigente o rappresentante è mai uscito dalla sala riunioni. A noi impiegati è arrivata una mail. Oggetto: pavimenti viola cangiante. Io non l’ho nemmeno aperta.

Quando sento i racconti sul reparto programmazione, capisco che le star sono loro. In pratica, sono al centro del progetto. I pavimenti? Opera loro.
Ho una vaga idea che il maligno sia una manipolazione dei programmatori. Di sicuro, hanno peso decisionale su tutto. Mi è stato detto: «I pavimenti viola cangiante li hanno voluti i programmatori. Si sapeva dall’inizio. È stata una guerra titanica fra il loro rappresentante e l’amministratore delegato. Tutti gli altri sono rimasti a guardare. Esclusi. A fare i testimoni, al massimo. L’amministratore delegato voleva un bianco giallastro, i programmatori il viola cangiante. I programmatori l’hanno spuntata per il loro peso politico, non c’è nemmeno da dirlo. Ma senti qua: il viola cangiante, su certe persone che hanno una non so quale area del cervello particolarmente sviluppata, ha lo stesso effetto della cocaina. È una droga, in pratica. Questa cosa è uscita fuori nel mezzo del consiglio. E il bello è che forse si è rivelata la carta vincente.»

Ora: io sono agnostico, e nonostante il bruciore sulla nuca di quando penso a una vita consegnata alla volontà altrui, non ho proprio voglia di crearmi un olimpo di oggetti filosofici. Quindi la mia condotta per contrastare il maligno, semplicemente, è scandagliare il mio vissuto con un gioco di sponde, e in differita.
Spero comunque di scovare il bene. È ovvio. Ma lascio filare. Vorrei godere del contrasto dei due opposti che si sfidano per sancire chi ha la meglio, nel minor tempo possibile, come nello sport e nei racconti.

In camera resistono ancora due testoline di gambero in decomposizione. Emanano un fetore tagliente. Stanno dentro una vaschetta di plastica, per terra, sotto la finestra. Con una folata di vento, sono costretto ad andarmene in bagno.
Mi servono, credo sia superfluo dirlo, come indicatori di attinenza al reale. Se scompaiono, è la fine. Io non esisto, il maligno si è insediato, e tutto ciò che ne consegue.

«Il progetto Ms, in pratica, ti offre l’opportunità di tornare a credere in qualcosa di, capisci, di spesso, duro, compatto; Ms è il marmo sui cui camminerà chi ha paura delle sabbie mobili, se rendo l’idea. È stato creato da chi non ha bisogno che delle propria catarsi intellettuale, e questa, anche se non può essere rivelata a un utente Ms, è allo stesso tempo la sua garanzia a vita per il reale, per il reale come vero, come utile, per il reale come unica cosa che serve a chiunque. Parlare di illusione vale solo per noi, che facciamo un discorso su Ms. Ma Ms è progettato per esser fruito come un discorso. Per starci dentro. E ha dei firewall di concetto, lasciami dire, praticamnte inattaccabili.»

Ho passato l’ultimo mese a farmi domande, e ho rischiato sul serio di dimenticare la parte più difficile dei percorsi amministrativi. Mi servono quindi dei feticci di riferimento in cui poter salvare il groviglio delle mie intuizioni, dei miei ragionamenti. Faccio piccole sculture.
Sono ancora dell’idea di rimanere agnostico, ma il pensiero è il pensiero, e fa sì che io non sia un qualsiasi altro animale. È un’attività costante e necessaria, mio malgrado.
Pensare porta a domande, farmi domande mi è deleterio, quindi, come accade a tutti prima o poi, ho costruito un ponte di alleggerimento tra pressione psichica e realtà.
La prima scultura l’ho creata incollando una banconota da cento, vera, su un paralume merlettato. È una scultura elementare. Mi è venuta fuori, banalmente, perché ho pensato di dover eliminare i soldi dalla mia concezione di presente. E il paralume era lì.
La seconda scultura mi serve tutt’ora per allontanare l’ossessione del maligno: è una forchetta di plastica piantata in un vasetto di terriccio, che annaffio ogni mattina facendo pipì. Nel terriccio c’è il seme di una mela. Il dispositivo è semplice: finché la scultura rimane com’è, non ho alcun tipo di preoccupazione esistenziale.

Sono cinque ore diagonali e ancora non è tornata la voglia di mettermi a lavoro. Il lancio delle nuove serie di architetture per software aziendali è in preparazione. Ogni mattina, trenta fra dirigenti, informatici, psicologi e filosofi d’industria si riuniscono per degli interminabili brainstorming nella sala riunioni B, quella più piccola e calda. Gira voce che le idee migliori arrivino a un passo dalla crisi isterica.
Noi, del sedicesimo piano, facciamo il nostro. È il classico lavoro di routine. Siamo visti come i miracolati dell’azienda, e in un certo senso passiamo per quelli che sanno viversela: posto sicuro, guadagno modesto e poche rogne in generale.
Sappiamo così tante cose sull’edificio. E soprattutto di chi ci sta dentro. Perché sono gli altri a venire da noi a raccontarcele. Siamo la latrina per le loro congestioni psicologiche. Forse, ma non a ragione, pensano tutti che neanche sappiamo cosa farcene di queste storielle senza senso, che invece, decriptate, sono informazioni letali sui movimenti di questo o quel flusso di contingenze, questa o quella testa che si vuol tagliare: l’arazzo composto dalle storielle è, in poche parole, la diagnosi segreta della stessa azienda, che a sua volta è il totem del paese. E io l’ho capito.

Ho fatto altre sculture, ma devo essere sincero: non bastano.
Comincerò a scrivere un diario. No: una silloge. Ma romanzata.
Lo so, che cazzo, che è tutta un suggestione momentanea. E che mi tradisco. Ma non posso ignorare lo scarto tossico che continua ad ammucchiarsi sulle nostre teste, qui, in questi scomparti. I miei colleghi cominciano ad avere più di qualche sospetto sul fatto che gli altri ci vengono a dire, nascosti dal piglio aneddotico, com’è che falliremo. Questi narratori incontinenti sono come i colleghi ironici che parlano parlati, i mediatori del maligno, ma loro, gli altri, i narratori, lo fanno con coscienza – e con intenzioni diverse: metterci in salvo. (Sono loro il benigno?)

«Sì. Qualcuno che proprio non sopporta il progetto Ms, e intendo proprio nella sua essenza, mettendone in discussione le fondamenta, c’è. Si potrebbe dire che è una fazione nella fazione. Nel senso che quella dei programmatori è, a tutti gli effetti, una fazione; e al loro interno c’è un gruppetto, diciamo, di dissidenti. E questi non sono mica gli ultimi arrivati: sono esperti, hanno voce in capitolo. Sono pochi, questo sì, ma il loro pensiero è ascoltato, soppesato, e spesso non lo si può ignorare. Se qualcosa va a rilento – e finora è stato così – è a causa loro. Ma la questione importante è un’altra.
La questione è l’impatto che Ms avrà su questa realtà. Se hai studiato la storia, sai quali sono i meccanismi delle forme a scala globale calate dall’alto: qualcosa non si incastra, eccede, e viene amputato. Però, stavolta, la responsabilità percepita è oltre l’umano: e intendo, per responsabilità, l’impatto sul reale con causa ed effetto constatabili, consultabili, tangibili. Prendi la prossima asserzione come il proseguimento di quanto detto, e non come qualcosa da poter estrapolare: sarà la materializzazione di Dio. Le colpe verranno sganciate su Ms come bombe, e a loro volta fatte brillare.»

Ci sono, quindi, questi programmatori dissidenti che ci vengono a raccontare dei loro reflussi gastrici, delle partite a tennis interrotte da una pioggia improvvisa, e dei malori improvvisi appena svegli.
Ho messo insieme un po’ di queste storie, negli ultimi giorni. Ho un quadro e un abbozzo di teoria. Ve la dico in breve.
Il progetto Ms non è mai esistito. Non nei termini in cui se ne parla di nascosto in azienda. Esiste un progetto Ms, ma non è una soluzione: è una tappa. E avrà parecchio bisogno, ma davvero tanto, sul serio, dell’apporto più consistente che sia mai stato dato da parte del marketing. I brainstorming non vengono fatti per la nuova serie di software di architettura aziendale: vengono fatti per Ms.
Se Ms fallirà, a fallire sarà l’azienda. Il paese intero, non credo.
Questo, secondo la mia tesi, decentra il maligno dai confini del progetto Ms. I programmatori dissidenti, allora, non operano per il bene. Non direttamente. È proprio un’altra battaglia. Ma dei nessi, questo non lo escludo, possono anche esserci.

«Senti, questo proprio non dovrei dirtelo. Eppure non riesco a trattenermi. Non con te, almeno. Va bene. Dunque. Il progetto Ms non è interamente dell’azienda. Ne stiamo sviluppando solo una parte, ed è di quella parte, e solo di quella parte, che ci occuperemo nella fase operativa.»

È sparita una testa di gambero. Una sola.
Credo si sia intrufolato un topo. O magari è stata smembrata dalle blatte. La scultura del vasetto è sempre lì, uguale agli altri giorni. Però quella testa di gambero è scomparsa.
Metto una telecamera, fissa, sulla testa di gambero rimasta.
Sono preoccupato. Non riesco ad andare avanti se non per poche parole alla volta. E sconnesse. Le teste di gambero avevano una funzione precisa: eccola.

«Entrerà in funzione a ottobre del prossimo anno. È tutto pronto. A marzo cominceranno i test, quelli veri. Tra una ventina di mesi, tutti calati dentro Ms.»

Per i corridoi c’è il fermento delle guerre. Suonano anche piccoli allarmi a onde quadre. Tra gli scompartimenti si è smesso di parlare, e una strana paranoia sibilante ha cominciato a strisciarci intorno al collo.
Non riesco più a vedermi col mio informatore. Avrei voluto fargli leggere la mia silloge romanzata. L’ho intitolata: “Intrigo a palazzo”. C’è del sarcasmo, ma è del tipo auto-disinnescante: opera su se stesso, e leggendo la silloge si capisce perché, ci si impossessa della chiave, insomma.
La silloge è una premonizione di quanto accadrà: sono pensieri miei, aneddoti dei programmatori dissidenti e relative interpretazioni. Anche se sarebbe meglio chiamarle decriptazioni.
La chiave di volta della silloge è la combinazione di due aneddoti, di cui uno assente: quello assente riguarda me. E si capisce quale. Riporto dal testo:

È andato in vacanza per due giorni in questo paesino sul mare, dove non tornava da vent’anni. Ha trovato un paio di amici dei vecchi tempi e li ha convinti ad andare a pesca con lui, una domenica. Non sono riusciti a pescare nulla; ma hanno chiacchierato molto. Uno di loro ha un ristorante vicino al porticciolo, e all’ora di pranzo ci si sono diretti con grande appetito. I suoi amici hanno preso entrambi un branzino, mentre lui si è fatto portare dei gamberi belli grossi, ha detto. Erano una decina, e li ha spolpati di gusto, succhiandone le teste, nelle quali risiede quella poltiglia al tempo stesso amarognola e dolciastra. Il suo amico, il proprietario del ristorante, gli ha detto che i gamberi erano surgelati. Lui ha risposto che se l’aspettava, e che non era un problema; ha anche aggiunto che di gamberi ne mangerebbe, per quanto gli piacciono, di vivi, di crudi, e di morti in decomposizione.

Non dovrei aggiungere altro, ma la situazione, ora, è questa: c’è una voce su alcuni test clandestini condotti dai programmatori di Ms. E non solo quelli della nostra azienda. Anche di altre che, per quanto ne sapevo io, sono nostre concorrenti. Usano una rete privata per contattarsi. Inespugnabile, si dice.
Uno dei risultati di questi primi test clandestini, pare, ha provocato la svalutazione istantanea del mercato di una piccola area del centro america, che comprende alcuni stati come Belize, Honduras e Nicaragua. Nessuno sa spiegarsi quali possano essere i passaggi, la sequenza logica. Si è toccato un nervo a caso e si mosso un arto.

La testa di gambero decomposta, quella rimasta, è ancora lì. Ho visto il video degli ultimi tre giorni a velocità quadruplicata, e in effetti qualche blatta si avvicina a rosicchiare. Ma non tanto e non così avidamente da riuscire a farne fuori una intera in mezza giornata.
Se il maligno si manifesterà tra poco, non so se ritenermi fortunato: mi ritroverei morto, ma comunque su un picco del tempo.

La meravigliosa vita di Jovica Jovic

1

jovica di Gianni Biondillo

Moni Ovadia, Marco Rovelli, La meravigliosa vita di Jovica Jovic, Feltrinelli, 187 pag.

 

Cos’è esattamente La meravigliosa vita di Jovica Jovic? Un romanzo? Un memoire? Un saggio? Una chiacchierata fra amici? Chi è per davvero l’autore del libro? Moni Ovadia, l’attore? Marco Rovelli, lo scrittore? Jovica Jovic, il musicista? Il libro, come s’è capito, rifugge tutte le categorie, è un oggetto narrativo non identificato, che racconta la vita vera di un fisarmonicista rom. Vita ancora in atto, per capirci. Una sorta di biografia di un personaggio “non” illustre.

Fra frammenti di scrittura sconclusionata del fisarmonicista, fotografie ricordo, dialoghi, fiabe e leggende, attraversare la vita di quest’uomo, con i suoi sogni modesti e il suo amore smisurato per la famiglia e la musica, significa, inevitabilmente, attraversare la Storia. Guardata però dalla parte degli ultimi, dei negletti. Significa conoscere come i genitori di Jovica abbiano conosciuto i campi di sterminio nazista, come grazie alla sua fisarmonica il giovane Jovica abbia girato l’Europa, come il crogiuolo di etnie dove viveva la sua famiglia, nella ex Yugoslavia, si sia consumato in una guerra fratricida, come l’uomo, il padre, abbia dovuto trovare il modo di sfamare i figli, di nazione in nazione, fino a giungere in Italia. La terra dei campi.

Lo stupore di Jovica è palese quando osserva le condizioni dei suoi fratelli rom e sinti in Italia. Quasi vivessero in un far west selvaggio, a un paio di chilometri dal duomo di Milano. Ma Jovica non recrimina. I rom sono un popolo pacifico, dice, non hanno mai dichiarato guerra a nessuno.

Fra fiabeschi ricordi di Jovica Jovic e dotte dissertazioni di Moni Ovadia (c’è persino una lettera della fisarmonica di Jovic!) il libro, ricucito pazientemente assieme da Marco Rovelli,  a tratti pare confusionario nel suo tentativo di imbrigliare una esistenza larger than life, ma è talmente colmo di micro narrazioni, degne di interi romanzi, che merita la lettura. Per restare umani, depurandoci dai pregiudizi che ci soffocano.

 

(pubblicato su Cooperazione, n° 52 del 23 dicembre 2013)

Qui si possono leggere le prime pagine del libro. 

 

La laica religione (1/2)

3

di Giacomo Sartori

alberi caduti_2014_07_14-18 198

 

 

 

 

 

 

Per tutta la settimana

David ha contato i lombrichi

e Miguela la spagnola

ha spigolato fogliami fracidi

per la metagenomica

io misuravo con Brad

gli abeti schiantati

les nouveaux réalistes: Olga Gambari

2
Sophie Calle, Exquisite Pain, Countdown - 67, 2000
Sophie Calle, Exquisite Pain, Countdown – 67, 2000

 

I peli nel letto

di

Olga Gambari

 

 

Sta nel letto, è sveglia, a occhi chiusi. Lentamente, in punta di polpastrelli sfiora le lenzuola, la federa del cuscino, la lana della coperta. Ne sente le trame, gli spessori, le superfici. Poi odora, girando leggermente la testa, appoggiandovi sopra una guancia, e inspirando. Quel letto è un organismo vivente che la accoglie e la culla, la protegge, i suoi sonni, il suo corpo, il suo amore con Gabriel. È un proseguimento di lei, di lui.

Apre gli occhi, si scosta le lenzuola di dosso, le arrotola al fondo e si siede, nuda, a gambe incrociate, con i palmi sul materasso, osservando il territorio del letto aperto. È un paesaggio, fatto di grinze, onde, piccole fosse e dune. Sembra ci spiri sopra il vento.

Vede due peli, vicini al ginocchio destro. Li fissa, li studia. Non pensa a nulla, semplicemente, guarda quei due peli. Di chi saranno? Suoi o di Gabriel? Sono neri, corti, un po’ ricci. Peli che sanno di sesso, di quelli che rimangono dopo che ci si azzuffa per desiderio, urgenza e piacere. Secondo lei sono dell’uomo con cui dorme e fa l’amore in quel letto, con cui ci ride, legge, beve caffè e vino, mangia dolci e patatine. Chissà da quale parte del corpo provengono? Stanno lì, uno parallelo all’altro, uno più in alto rispetto all’altro, veramente, distanti almeno dieci centimetri. Sembrano delle frecce. Sono vettori, indicano movimenti, testimonianze di forze fisiche che si sono manifestate proprio in quel luogo ore?, giorni prima? Energie invisibili ma potenti che si sono sprigionate dalle loro masse fisiche, dai loro corpi di innamorati, di amanti. Carne animata.

Questo le dà l’idea di appartenere a un ordine, a un cosmo in cui ogni cosa ha il suo posto, il suo perché. Soggiace a leggi universali, quelle che regolano e muovono l’esistenza, dalla terra fino alla luna. Poi, al di là della nostra galassia, chi lo sa…forse le regole cambiano, ma nessuno di noi ci arriverà mai per poterlo sapere, per esserne spaventato, stupito. Per domandarsi altro…

Intanto eccoli lì quei due piccoli peli, millimetri di cheratina, ripieni di dna, che sono, che dicono.

Si sporge in avanti e scosta i cuscini, li lancia a terra, libera completamente il materasso, che ora appare un’immensa landa. Va alla ricerca di altri reperti umani, di sue, loro tracce. È a quattro zampe, come un animale in caccia, con vista e olfatto all’erta.

Trova un capello, sicuramente suo, lungo e scuro, e poi un altro, corto e corposo, nero, di Gabriel.

Si risiede, mette i quattro i reperti vicini, allineati, su un cuscino che recupera da terra. Li deposita con cura, come su un vetrino da laboratorio, su un altare.

Le fanno tenerezza, sono orfani, fragili, spersi. Moribondi. Eppure archivi eterni delle loro identità.

Prende il cuscino e con grande calma, tenendolo appoggiato sulle braccia distese, si avvicina alla finestra aperta. Si ferma, l’aria fresca la lambisce, le restituisce la percezione di tutta pelle del corpo.

Miriam soffia sopra il cuscino, un lungo soffio che è un respiro caldo, pieno di particelle di saliva polverizzata. I quattro fili organici volano via, liberi, nel vuoto. Sembrano coriandoli, ma lei non riesce più a vederli, ne sente solo già una piccola nostalgia. Come degli attimi che passano, che si sprigionano da noi e nello stesso istante sono già altrove, sono già un mai più inafferrabile. E allora meglio non provare a trattenere, ma lasciar scorrere la vita come un’emorragia inarrestabile, viva finché dura.

 

Prospect Cottage. Il giardino di Derek Jarman

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di Rinaldo Censi

 

Il primo di gennaio del 1989 è una domenica. Ed è forse il giorno giusto per iniziare un diario. Derek Jarman si trova nella zona costiera del Kent, a Dungeness. Lì, nel 1986, ha acquistato una casa in legno, notata durante i sopralluoghi per The Last Of England. Prospect Cottage. Amore a prima vista. Gli basta poco più di una pagina, quella che apre Modern Nature. Diario 1989-1990 (Ubulibri, 1992), per circoscrivere il luogo, fargli prendere vita su carta, descrivere i ciottoli appiattiti, levigati dal sole e dal vento del mare, il faro, le travi nere della costruzione, gli basta poco per ricordare le tempeste marine che, in passato, hanno rischiato di portarsi via la casa. Lo sguardo di Jarman ruota sugli assi cardinali. Ad est alcune capanne di pescatori, qualche barca, costruzioni in rovina, abbandonate da tempo. Luoghi antichi, come le usanze di chi vi abitava («Lì, molti anni fa, le reti dei pescatori venivano bollite nell’ambra, per conservarle»). Sul retro della casa, la finestra della cucina getta sulla centrale nucleare. Il suo reattore somiglia ad una scultura postmoderna. Questo blocco verticale grigio acciaio viene addolcito dal verde della ginestra che lo incornicia, insieme a un gruppo di salici e frassini provati dalle tempeste.

Bastano insomma pochi tratti per gettare le fondamenta, disegnare lo spazio, quello spazio che sì è deciso di abitare: il rumore del mare, i gabbiani, il vento, il ciottolato desertico, la luce violenta del sole, i resti delle mareggiate. E un giardino da inventare, curare, accostando specie, piante e fiori, i loro colori. E il fish and chips del Pilot Inn, il migliore di tutta l’Inghilterra. Sarà l’effetto della centrale nucleare?

Durante la vernice in una galleria, un’amica lo sfotte dicendogli che ha finalmente scoperto la natura. Eppure, le cose non stanno proprio così. Per Jarman la natura è un ricordo d’infanzia. Nel 1946 vola con la famiglia in Italia, sul Lago Maggiore. La famiglia alloggia a Villa Zuassa*. Il padre di Derek è comandante del campo di aviazione di Roma e testimone nei processi di guerra a Venezia. Giardini rigogliosi costeggiano la sponda del lago. Il piccolo Derek, che ha da poco compiuto quattro anni, sfoglia Beautiful Flowers and how to Grow Them, un trattato di botanica che i genitori gli regalano. Cammina lungo i sentieri del giardino: «Il giardino di Zuassa correva per un miglio intorno alle sponde del Lago Maggiore. Sconfinava sui pendii pietrosi – una cornucopia di cascate di fiori». E a proposito del libro: «Chi può guardare un’illustrazione di un magnifico giardino senza provare l’impulso di coltivare fiori, e quali risultati se ne possono trarre!».

E’ dunque un “ricordo d’infanzia” a spingere Jarman verso Prospect Cottage? Forse. Non solo. Il giardino che Derek Jarman cura amorevolmente non è solo il sintomo di un ricordo d’infanzia che preme e riaffiora, ma è insieme una mossa, una sorta di posizionamento. E’ il giardino di un poeta, e sembra rimandare a un dettato orientale, a quei giardini cinesi del “poeta-scolaro” che funzionavano come luogo di ritiro dalle pressioni del mondo ufficiale e insieme come appropriazione poetica dell’universo. Per quanto l’esperienza dei giardini orientali sia unica e irripetibile, uno studioso come Stephen Bann (si veda “The Poet’s Garden: Notes on British Tradition”, Rivista di Estetica, XXI, n. 8, Rosenberg & Sellier, 1981) sospetta che si trovi proprio lì la fonte d’ispirazione, il germe di quella serie di “poet’s garden” rintracciabili in Inghilterra a partire dal diciassettesimo diciottesimo secolo. Nessun parallelismo. Il giardino inglese si configura piuttosto come la loro contro-immagine frammentaria, di cui trattiene almeno un elemento legato a quella tradizione: un luogo isolato, appartato e insieme un’appropriazione poetica. Il giardino e la villa di Alexander Pope, Twickenham, o di Ian Hamilton Finlay, Stonypath, ne sono due esempi.

Seppur isolati dal mondo, questi luoghi non devono essere considerati come il buen retiro degli sconfitti. Sono piuttosto una mossa ardita, inattesa. Derek Jarman potrebbe fare sua questa frase di Ian Hamilton Finlay: «Alcuni giardini vengono descritti come luoghi di ritiro quando invece sono vere aggressioni». Sono gesti politici. (Bussy-Rabutin, congiunto di Mme de Sévigné – ricorda Stephen Bann – forzato all’esilio dal Re Sole nel suo castello in Borgogna, lavorò per diversi anni ad un notevole schema di decorazione di interni che ritraevano la sua brutta situazione attraverso gli emblemi – una reminiscenza del culto delle imprese –, dichiarando, nello stesso tempo, la sua personale rivalità rispetto al monarca assoluto che l’aveva espulso.) I giardini di Pope, Hamilton Finlay o di Jarman sono di dimensioni più raccolte, in opposizione a quelli dei magnati Whig. Sono gesti di contrapposizione. E rispecchiano totalmente la loro opera poetica. Compresa l’eccentricità come marchio distintivo. Compreso, a volte, il cattivo gusto.

Contrasti cromatici, metallo recuperato dal mare, detriti, pietre: il giardino di Jarman è un luogo in perenne metamorfosi, e rispecchia colui che ha realizzato film per tutta una vita, in maniera libera: «Deborah al Working Title mi ha domandato perché appaio sempre così felice. Perché sono il cineasta più fortunato della mia generazione, ho fatto sempre solo quello che ho voluto. Ora che filmo semplicemente la mia vita sono un megalomane felice, ho aggiunto. Realizzare film a modo nostro fa apparire prefabbricati tutti gli altri; la maggior parte dei registi non è nemmeno capace di prendere in mano una macchina da presa, una volta posata la penna. E la pretenziosità!» Opposizione rispetto al mondo ufficiale del cinema, aggiungiamo. The Garden è il film che Jarman gira lì, a Prospect Cottage, Dungeness, con le persone a lui care.

Tutto, nel Diario, mette in luce questa ambivalenza: il mondo, la città, gli affari, le riunioni, le vernici, la socialità insomma, e dall’altra il Cottage, il giardino, la lotta contro gli agenti atmosferici, gli innesti di piante e fiori, come fossero rime a verso libero, o semplice materia cromatica naturale per un dipinto senza tela e cavalletto. Eppure ogni cosa viene alterata, erosa dal vento, dalle nuvole rigonfie di pioggia, e il sole battente: impossibile armonia, perenne stato di metamorfosi. Quella di Jarman è in fondo un’impresa folle, in pura perdita: far crescere un giardino tra i ciottoli della spiaggia. C’è tutto Jarman in questa immagine.

«A Dungeness non puoi dare per scontata la vita: ogni fiore che sboccia attraverso i ciottoli è un miracolo della natura. Derek lo sapeva più di ogni altro», ricorda Howard Sooley, che ha conosciuto Jarman sul set di Edoardo II. A volte i fiori emanano un odore forte, colto nelle sue diverse gradazioni, compreso quello della decomposizione. Ci sono erbe mediche, dal potere quasi magico. Howard Sooley ha fotografato il giardino di Prospect Cottage. Ne ha fatto un libro, intitolato Derek Jarman’s Garden (Thames & Hudson). Derek Jarman è morto per complicazioni dovute all’Aids, nel 1994. Il giardino e il cottage sono ancora lì. In perenne lotta contro gli agenti atmosferici.

 

* Un amico, Alberto Saibene, mi segnala che Villa Zuassa dovrebbe in realtà essere Villa Quassa, vicino a Ispra (Jarman ricorda forse male il nome?). Ora è un luogo di matrimoni. Lo ringrazio.

 

 

 

 

les nouveaux réalistes: Luca Ricci

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roma ricci

L’ultimo uomo di Roma

di Luca Ricci

Per La nuit di Guy de Maupassant

Un giorno assolato può inquietare quanto la notte più nera . Mi svegliai a quell’ora in cui l’oscurità non ha ancora ceduto il passo alla luce: un brutto sogno, o forse un cattivo presentimento. E’ strano, pensai. Di mattina presto anche il caldo più accanito concede una piccola tregua. Invece sdraiato sul letto vedevo sorgere un sole turgido di fuoco, fissavo un’alba incandescente che faceva sudare come a mezzogiorno. Decisi di uscire perché in casa mi sembrava d’impazzire. Che ore potevano essere? Le sette, le otto?
Per strada, la prima cosa che notai fu la penosa e straordinaria assenza di vita. D’estate è normale che la città sia un po’ meno caotica, ma lo spettacolo a cui stavo assistendo era di tutt’altra natura: d’improvviso mi parve di essere l’unico uomo che stava percorrendo piazza Cavour. Il caldo era terribile. Non si trattava soltanto di afa- in fondo chiunque abiti a Roma è avvezzo al suo inconfondibile microclima tropicale-, piuttosto di un caldo che prendeva i nervi, che diventava qualcosa d’angoscioso. Procedevo accecato dalla luce sul lato sinistro della piazza. Davanti a me, come un miraggio, si ergeva la facciata bianchissima della chiesa Valdese, un puntino sperso nell’asfalto che già ribolliva e s’incollava alle suole delle scarpe. Sul lato opposto il retro del Palazzaccio scorreva lentamente, al ritmo dei miei passi esitanti.
Camminai fino a piazza del Popolo. Attraversarla mi parve un’impresa al di sopra delle mie possibilità- un po’ come affrontare il Sahara-, perciò mi limitai a percorrerne il perimetro fino a via del Corso. Le serrande dei negozi erano tutte abbassate, così riflettei che doveva essere ancora molto presto. Eppure il caldo si depositava sulle cose come uno strato di polvere.

A piazza Venezia l’Altare della Patria era abbandonato a se stesso, non un passante, non un turista, non un’automobile. D’improvviso ebbi una furibonda nostalgia di tutto ciò che di solito detestavo: mi mancò perfino il pizzardone che in genere dirigeva il traffico sopra la pedana. Mi affacciai sui Fori Imperiali giusto il tempo per intravedere il Colosseo immerso nei vapori bollenti. Sembrava un vulcano, o uno scolapasta. Ma dov’erano tutti?
Al Quirinale incontrerò almeno i corazzieri di picchetto al Presidente, mi dissi. Sapevo che per essere presi in quel reggimento speciale bisognava essere alti almeno un metro e novanta, e da un momento all’altro mi aspettai di vedere baluginare un elmetto tirato a lucido. Ma niente, a presiedere il palazzo erano rimaste solo le bandiere d’ordinanza- il tricolore e il vessillo dell’Unione Europea-, afflosciate come fiori senz’acqua. Scrollai la testa e proseguii.

A via Veneto i bar erano tutti inesorabilmente chiusi, con le sedie incatenate una sopra l’altra vicino agli ingressi sprangati. Dagli hotel di lusso non usciva o entrava nessuno, e non c’era l’ombra neanche di un facchino.

Mi ributtai a capofitto nel dedalo di stradine del centro storico. Da quando ero uscito non avevo ancora incontrato anima viva, possibile? Certamente d’estate esisteva una sorta di sospensione temporale nel bel mezzo della giornata, un particolare coprifuoco pomeridiano che spopolava la città, ma non era ancora presto, troppo presto?
Improvvisamente avvertii un rumore inconfondibile. L’allegro getto d’acqua di un nasone, una di quelle fontanelle di cui Roma è tappezzata, e che rappresentano il suo sistema idro-vascolare segreto, ciò che le permette di sopravvivere nei giorni di canicola. Sentivo distintamente lo scroscio d’acqua, non poteva essere a più di qualche passo… Non trovai niente di niente, forse mi persi, cominciai a girare a vuoto.
Di sicuro avevo preso un colpo di sole, avrei dovuto rincasare. Poi mi resi conto che ero arrivato proprio nei paraggi dell’abitazione di un mio caro amico. Chiederò riparo a lui, mi dissi. Una volta che ebbi raggiunto il portone, però, notai un cartello con su scritto “Affitasi”. Come se non bastasse il palazzo sembrava aver subito un cedimento strutturale, e una ragnatela di crepe si stendeva da finestra a finestra. Ero stato a cena da quell’amico giusto un paio di settimane prima, e la casa mi era sembrata fresca e ospitale, e per di più non avevamo parlato di un suo imminente trasloco. Che mi fossi confuso, che avessi sbagliato strada?

Ma ormai mi era presa come una smania, la voglia di sapere di non essere solo. Cominciai a bussare a tutte le porte che circondavano piazza Santa Maria in Trastevere. Nessuno mi aprì, tutto rimase ostinatamente chiuso, ostinatamente inaccessibile, ostinatamente morto. D’istinto presi il cellulare e chiamai mia moglie e mio figlio. Erano già partiti per le vacanze e io avrei dovuto raggiungerli quella sera stessa. Niente, i loro cellulari erano staccati.

Nel frattempo il caldo, se possibile, si era fatto ancora più minaccioso. Sentii, o mi parve di sentire, il rumore di un altro nasone, ma ancora una volta non riuscii a trovarlo. Volli sapere se almeno l’acqua del Tevere scorresse ancora. Raggiunsi il fiume, scesi le scale. Sarei stato pronto a tutto, anche a buttarmici dentro.

Poi, dal basso, intravidi il chiosco di un venditore di grattachecche che apriva i battenti. Mi rianimò il colore delle varie bottiglie di sciroppo- la menta verde d’un verde smeraldo, la fragola rossa d’un rosso rubino, il limone giallo d’un giallo canarino-, e allora urlai: – Cos’è successo a Roma?

Il grattacheccaro si sporse un poco dal muraglione: – Dotto’ che vole che sia successo, stai sereno, oggi è feragosto.

*Questo racconto è uscito per la prima volta sul Messaggero.it mercoledì 15 agosto 2012

 

Appello di Desmond Tutu al popolo di Israele

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di Desmond Tutu

Il mio appello al popolo di Israele: liberate voi stessi liberando la Palestina.

(L’Arcivescovo Emerito Desmond Tutu, in un articolo in esclusiva per Haaretz, ha lanciato un appello per un boicottaggio globale di Israele, chiedendo con urgenza a israeliani e palestinesi di essere migliori dei loro leader, nel cercare una soluzione sostenibile alla crisi in Terra Santa.)

di Desmond Tutu
14 Agosto 2014 | 21:56

[ Originale pubblicato qui – Traduzione realizzata dalla Comunità di Avaaz. ]

Le scorse settimane hanno visto una mobilitazione senza precedenti della società civile di tutto il mondo contro l’ingiustizia e la brutalità della sproporzionata risposta israeliana al lancio di razzi dalla Palestina.

Se si contano tutte le persone che si sono radunate lo scorso fine settimana a Città del Capo, a Washington DC, a New York, a Nuova Delhi, a Londra, a Dublino, a Sidney ed in tutte le altre città del mondo per chiedere giustizia in Israele e Palestina, ci si rende subito conto che si tratta senza dubbio della più grande ondata di protesta di sempre dell’opinione pubblica riguardo ad una singola causa.

Circa venticinque anni fa, ho partecipato a diverse grandi manifestazioni contro l’apartheid. Non avrei mai immaginato che avremmo rivisto manifestazioni tanto numerose, ma sabato scorso a Città del Capo l’affluenza è stata uguale se non addirittura maggiore. C’erano giovani e anziani, musulmani, cristiani, ebrei, indù, buddisti, agnostici, atei, neri, bianchi, rossi e verdi… come ci si aspetterebbe da una nazione viva, tollerante e multiculturale.

Ho chiesto alla gente in piazza di unirsi al mio coro: “Noi ci opponiamo all’ingiustizia dell’occupazione illegale della Palestina. Noi ci opponiamo alle uccisioni indiscriminate a Gaza. Noi ci opponiamo all’indegno trattamento dei palestinesi ai checkpoint e ai posti di blocco. Noi ci opponiamo alla violenza da chiunque sia perpetrata. Ma non ci opponiamo agli ebrei.”

Pochi giorni fa, ho chiesto all’Unione Internazionale degli Architetti, che teneva il proprio convegno in Sud Africa, di sospendere Israele dalla qualità di Paese membro.

Ho pregato le sorelle e i fratelli Israeliani presenti alla conferenza di prendere le distanze, sia personalmente che nel loro lavoro, da progetti e infrastrutture usati per perpetuare un’ingiustizia. Infrastrutture come il muro, i terminal di sicurezza, i posti di blocco e gli insediamenti costruiti sui territori Palestinesi occupati.

Ho detto loro: “Quando tornate a casa portate questo messaggio: invertite la marea di violenza e di odio unendovi al movimento nonviolento, per portare giustizia a tutti gli abitanti della regione”.

In poche settimane, più di 1 milione e 600mila persone in tutto il mondo hanno aderito alla campagna lanciata da Avaaz chiedendo alle multinazionali che traggono i propri profitti dall’occupazione della Palestina da parte di Israele e/o che sono coinvolte nell’azione di violenza e repressione dei Palestinesi, di ritirarsi da questa attività. La campagna è rivolta nello specifico a ABP (fondi pensionistici olandesi); a Barclays Bank; alla fornitura di sistemi di sicurezza (G4S), alla francese Veolia (trasporti); alla Hewlwtt-Packard (computer) e alla Caterpillar (fornitrice di Bulldozer).

Il mese scorso 17 governi della UE hanno raccomandato ai loro cittadini di astenersi dal fare affari o investimenti negli insediamenti illegali israeliani.

Abbiamo recentemente assistito al ritiro da banche israeliane di decine di milioni di euro da parte del fondo pensione olandese PGGM e al ritiro da G4S della Fondazione Bill e Melinda Gates; e la Chiesa presbiteriana degli Stati Uniti ha ritirato una cifra stimata in 21 milioni dollari da HP, Motorola Solutions e Caterpillar.

Questo movimento sta prendendo piede.

La violenza genera solo violenza ed odio, che generano ancora più violenza e più odio.

Noi sudafricani conosciamo la violenza e l’odio. Conosciamo la pena che comporta l’essere considerati la puzzola del mondo, quando sembra che nessuno ti comprenda o sia minimamente interessato ad ascoltare il tuo punto di vista. È da qui che veniamo.

Ma conosciamo anche bene i benefici che sono derivati dal dialogo tra i nostri leader, quando organizzazioni etichettate come “terroriste” furono reintegrate ed i loro capi, tra cui Nelson Mandela, liberati dalla prigione, dal bando e dall’esilio.

Sappiamo che, quando i nostri leader cominciarono a parlarsi, la logica della violenza che aveva distrutto la nostra società si è dissipata ed è scomparsa. Gli atti di terrorismo iniziati con i negoziati, quali attachi ad una chiesa o ad un pub, furono quasi universalmente condannati ed i partiti responsabili furono snobbati alle elezioni.

L’euforia che seguì il nostro votare assieme per la prima volta non fu solo dei sudafricani neri. Il vero trionfo della riappacificazione fu che tutti si sentirono inclusi. E dopo, quando approvammo una costituzione così tollerante, compassionevole e inclusiva che avrebbe reso orgoglioso anche Dio, tutti ci siamo sentiti librerati.

Certo, avere un gruppo di leader straordinari ha aiutato.

Ma ciò che alla fine costrinse questi leader a sedersi attorno al tavolo delle trattative fu l’insieme di strumenti persuasivi e non violenti messi in pratica per isolare il Sudafrica economicamente, accademicamente, culturalmente e psicologicamente.

A un certo punto – il punto di svolta – il governo di allora si rese conto che preservare l’apartheid aveva un costo superiore ai suoi benefici.

L’interruzione, negli anni ’80, degli scambi commerciali con il Sud Africa da parte di aziende multinazionali dotate di coscienza, è stata alla fine una delle azioni chiave che ha messo in ginocchio l’apartheid, senza spargimenti di sangue. Quelle multinazionali avevano compreso che, sostenendo l’economia del Sud Africa, stavano contribuendo al mantenimento di uno status quo ingiusto.

Quelli che continuano a fare affari con Israele, che contribuiscono a sostenere un certo senso di “normalità” nella società Israeliana, stanno arrecando un danno sia agli israeliani che ai palestinesi. Stanno contribuendo a uno stato delle cose profondamente ingiusto.

Quanti contribuiscono al temporaneo isolamento di Israele, dichiarano così che Israeliani e Palestinesi in eguale misura hanno diritto a dignità e pace.

In sostanza, gli eventi accaduti a Gaza nell’ultimo mese circa stanno mettendo alla prova chi crede nel valore degli esseri umani.

È sempre più evidente il fallimento dei politici e dei diplomatici nel fornire risposte e che la responsabilità di negoziare una soluzione sostenibile alla crisi in Terra Santa ricade sulla società civile e sugli stessi abitanti di Israele e Palestina.

Oltre che per le recenti devastazioni a Gaza, tante bellissime persone in tutto il pianeta – compresi molti Israeliani – sono profondamente disturbate dalle quotidiane violazioni della dignità umana e della libertà di movimento cui i Palestinesi sono soggetti a causa dei checkpoint e dei posti di blocco. Inoltre, la politica Israeliana di occupazione illegale e di costruzione di insediamenti cuscinetto in una terra occupata aggrava la difficoltà di raggiungere in futuro un accordo che sia accettabile per tutti.

Lo stato di Israele si sta comportando come se non ci fosse un domani. Il suo popolo non potrà avere la vita tranquilla e sicura che vuole – e a cui ha diritto – finché i suoi leader continueranno a mantenere le condizioni che provocano il conflitto.

Io ho condannato quanti in Palestina sono responsabili dei lanci di missili e razzi contro Israele. Soffiano sulle fiamme dell’odio. Io sono contrario ad ogni manifestazione di violenza.

Ma dobbiamo essere chiari che il popolo palestinese ha ogni diritto di lottare per la sua dignità e libertà. È una lotta che ha il sostegno di molte persone in tutto il mondo.

Nessuno dei problemi creato dagli esseri umani è irrisolvibile, quando gli esseri umani stessi si impegnano a risolverlo con il desiderio sincero di volerlo superare. Nessuna pace è impossibile quando la gente è determinata a raggiungerla.

La Pace richiede che israeliani e palestinesi riconoscano l’essere umano in loro stessi e nell’altro, che riconoscano la reciproca interdipendenza.

Missili, bombe e insulti non sono parte della soluzione. Non esiste una soluzione militare.

È più probabile che la soluzione arrivi dallo strumento nonviolento che abbiamo sviluppato in Sud Africa negli anni ’80, per persuadere il governo della necessità di modificare la propria linea politica.

Il motivo per cui questi strumenti – boicottaggio, sanzioni e disinvestimenti – si rivelarono efficaci, sta nel fatto che avevano una massa critica a loro sostegno, sia dentro che fuori dal Paese. Lo stesso tipo di sostegno di cui siamo stati testimoni, nelle utlime settimane, a favore della Palestina.

Il mio appello al popolo di Israele è di guardare oltre il momento, di guardare oltre la rabbia nel sentirsi perennemente sotto assedio, nel vedere un mondo nel quale Israele e Palestina possano coesistere – un mondo nel quale regnino dignità e rispetto reciproci.

Ciò richiede un cambio di prospettiva. Un cambio di mentalità che riconosca come tentare di perpetuare l’attuale status quo equivalga a condannare le generazioni future alla violenza e all’insicurezza. Un cambio di mentalità che ponga fine al considerare ogni legittima critica alle politiche dello Stato come un attacco al Giudaismo. Un cambio di mentalità che cominci in casa e trabocchi fuori di essa, nelle comunità, nelle nazioni e nelle regioni che la Diaspora ha toccato in tutto il mondo. L’unico mondo che abbiamo e condividiamo.

Le persone unite nel perseguimento di una causa giusta sono inarrestabili. Dio non interferisce nelle faccende della gente, ha fiducia nel fatto che noi cresceremo ed impareremo risolvendo le nostre difficoltà e superando le nostre divergenze da soli. Ma Dio non dorme. Le Scritture Ebraiche ci dicono che Dio è schierato dalla parte del debole, dalla parte di chi è senza casa, della vedova, dell’orfano, dalla parte dello straniero che libera gli schiavi nell’esodo verso la Terra Promessa. Fu il profeta Amos che disse che dobbiamo lasciar scorrere la giustizia come un fiume.

La giustizia prevarrà alla fine. L’obiettivo della libertà del popolo palestinese dall’umiliazione e dalle politiche di Israele è una causa giusta. È una causa che lo stesso popolo di Israele dovrebbe sostenere.

Nelson Mandela disse che i Sudafricani non si sarebbero potuti sentire liberi finché anche i Palestinesi non lo fossero stati.

Avrebbe potuto aggiungere che la liberazione della Palestina libererà anche Israele

Due testi per scopare il mare

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di Davide Orecchio

I'm a donkey
A.

La portiera m’ha detto che presto questa mattina uno stormo di neonati ha preso il volo e che «migravano al Nord». Capita solo nel mio quartiere, difatti è dal tetto di questo palazzo che han decollato, metà di loro con le piume corvine, l’altra metà dalle penne di latte. «Erano trenta, forse quaranta». Il capo era biondo col piumaggio nero e gli altri lo chiamavano (perché si parlavano) Orca, anche Horcynus Orca. Lui ha fatto colazione col Campari e l’Ovomaltina e mezza rosetta spalmata di burro con lo zucchero sopra. Stavano tra la pece, la malta, le erbacce e le muffe che crescono intorno a comignoli e antenne dov’era stato il loro bivacco, credo per diversi giorni. Ma io sulla testa non li avevo sentiti. Era un bivacco lieve di levitazione. Scarabocchiavano disegni sul muro, m’ha detto la donna, per lo più padri simili ad alci e madri tondissime, e nuvole gonfie. Mangiavano biscotti col cioccolato, scaglie di cioccolata, pollo nel sugo rosso di cioccolato. Un paio di volte hanno intonato un coro da branco per darsi coraggio e il canto spargeva una storia come acqua tirata dal pozzo, la fiaba lontana del dadoveveniamo e doveandiamo. Erano seri. Avrebbero potuto esser padri, più che figli neonati. Horcynus era il silenzioso di loro ma al mattino, dopo lo zucchero il burro e il Campari, ha detto: «Adesso si va per non finirecrepàti in questodeserto abbiamo un mese abbiamo cent’anni ne abbiamo duecento senz’aver creato nulla le storie cipèsano la storia ciopprìme» Ha fatto una puzza e poi s’è librato. Nell’attesa degli altri, cui dava il la, s’è divertito con le capriole, ha impaurito un gatto, schiaffeggiato un’antenna, svolazzato tra i tappeti stesi lassù, i cavi di rame e di plastica. «I gabbiani non lo spaventavano e per questo era il capo», suggerisce la portiera che qui vicino m’imbecca (forse è gabbiana?), «allora gli altri si sono rizzati e l’hanno raggiunto», e tutti insieme hanno infilzato le nuvole. Ora sono lontani. Giusto uno stormo di neonati può volare lontano così. Credo vadano talmente veloci da precedere la vita assegnata, ossia che superino le biografie e quanto faranno e in chi cresceranno; già lo sono e lo fanno, prima di esserlo; perché rapidissimi. Hanno attitudini da troposfera, forse da sprawl. Con la donna poi sono sceso in cantina, non so il motivo, a pernottare in eterno, e qui ho scoperto che lei dev’essere un geco: succhia zanzare, ne fa cacchette, non è gabbiana ma è un rettile, e mi accompagna – succhia zanzare, ne fa cacchette, non è gabbiana ma è un rettile, e mi accompagna – succhia zanzare, ne fa cacchette, non è gabbiana ma è un rettile, e mi accompagna (ad libitum)…

Entri in scena la compagnia che rappresenta i miei sogni. In un teatro di provincia della psiche, ed è notte. Palco e sedili sono di sughero. Il sipario è di carta di riso. Il primattore è il suggeritore. Il regista vende i biglietti. I personaggi appariranno stonati, sfocati. Non loro. Loro. Non il mio gatto. Il mio gatto. Non l’amica, la madre, il padre. L’amica, la madre, il padre. La piccola compagnia non s’immedesima né strania, piuttosto usa il metodo dell’impaludarsi. Gli attori anche sono di sughero. Gli abiti di scena son sugherati. Gli attori in realtà sono di soia. È noto che la soia è doppiogiochista. La soia è capace di sembrare un hamburger (non è un hamburger). Nella periferia dei teatri dei sogni, dov’è in scena il mio sogno, la soia è il gatto, l’amica, il padre, la madre. Ma la soia non è il gatto né il padre. Materna non sarà mai, la soia. Sospetto che il primattore, il suggeritore, sia di sushi; il più falso dei cibi. Non puoi impersonare il padre col riso, le alghe, il mirin, il salmone. Il padre era crudo, ma non così crudo. La compagnia si condanna indigeribile alla periferia dei teatri dei sogni. In città non ci arriva. Reciterà per sempre tra i sugheri. Questa notte, domani notte e poi ancora. Col sapore di soia da filodrammatica. Nel più parrocchiale dei sogni, io non crederò al mio ennesimo sogno. Vedo la toga del prete. Vedo la gonna al ginocchio della parrocchiana. Sughero, soia, sushi? Compagnia, la vita passa per la cartilagine, le ossa, la carne. Non sei verosimile. Compagnia dei miei sogni: vuoi debuttare in città?, vuoi i sedili di stoffa?, il velluto al sipario? Prova a convincermi. La verità può convincere, e indossa la carne. Qui c’è il tuo impresario, il tuo pubblico, io. Mostrami il gatto. Il gatto davvero.