(Dal Manifesto di oggi, l’editoriale a firma Tommaso di Francesco)
Il sindaco di Roma Ignazio Marino ha deciso di affiggere in Campidoglio le foto dei tre giovani coloni rapiti nei Territori occupati palestinesi. A quanto pare l’Oriente, estremo e medio, mette i paraocchi all’univoco primo cittadino. Allora gli domandiamo:
1) Perché denuncia il rapimento dei tre ragazzi israeliani e si prepara ad esporre le loro foto accanto a quelle dei marò — (mentre dei due pescatori indiani uccisi nell’operazione anti-pirateria, nemmeno l’ombra in Comune) — ma non prende posizione sui 196 minori palestinesi
(un passo del caliente “Ultima rumba all’Avana”, di Fernando Velásquez Medina, Il Canneto Editore, 2014, 15 Є, nella bellissima traduzione di Marino Magliani)
Il mare scintillava qua e là catturando le luci imprudenti della costa e lo stanco raggio del Morro. Lui camminava al mio fianco, il primo cliente conquistato da quando ero uscita di galera. Ero così nervosa che mi tornò in mente la “prima volta” vera, che fu anni fa, quando il Fato mi sorrise con le labbra di un marinaio greco e io, ingenua come sono, mi sentii una Circe. Oggi ho lo stesso brivido fra le cosce, più voglia di orinare che pulsione sessuale, mentre la sensazione di avere accalappiato un maschio mi fa gonfiare i piedi, vittoria di poco conto sulla concorrenza di ninfette setose, ragazze di scuola media alle quali il clima regala troppo presto forme tropicalmente oscene; mi guardano con ironia dai loro troni di regine della notte cubana, mentre fanno coro intorno ai turisti. Vedo una faccia amica: Yahama, cinesina figlia di una mia amica, quattordici anni spesi male, accarezza l’interno coscia di un signore, gli chiede dollari e chewing-gum. Davanti a noi, nel parco Maceo, un cartello proclama:
I giovani sono in marcia verso il 2000
Ci daranno il cambio: è una certezza
Entrare nell’hotel, in quell’enorme salone che fa le veci di reception e ha quell’aria di lusso anteguerra – la loro guerra, quella degli europei padroni del mondo, e non quella dei nostri scipioni africani, e nemmeno la triste guerriglia pompata che imbibisce i nostri calendari – mi dà un’euforia da alcool mischiato con funghi allucinogeni, un esplosivo che bevvi insieme a un messicano amico – di chi? – pochi mesi prima che mi spedissero in prigione. L’ascensore ci sbarca su un piano di quelli uguali a tutti gli altri, fatti in serie, e percorriamo un corridoio. Me lo ricordo – memoria fotografica – identico a quelli del Palazzo d’Inverno russo. La camera fa calare il mio nervosismo: letto comodo, bevande passabili, un Dom Pérignon che ispira qualche sospetto al Vassari che, immerso nella luce tenue che la luna ci mette a disposizione, si domanda come mai questa facile donna caraibica non beva rum ma preferisca bevande costose e civilizzate.
Ma la nerchia di Giovanni già si rizza, libera dal pur minimo impaccio delle mutande, e mi schiaccia con le chiappe contro il materasso, mica poi tanto morbido, chi l’avrebbe detto. Apro le gambe e afferro la chiave per confrontarla correttamente con la mia toppa, mentre lo sfregamento del vello pubico mi porta alla memoria la lingua della China (non il mandarino, ma proprio la lingua della mia mandarina: la mia sorvegliante in prigione). I movimenti spastici mi sfiorano la coscienza, il ricordo della sergente con i seni penzolanti sulla mia faccia, i capezzoli scuri nella mia bocca, i lievi morsi sul collo e la voce rauca che ordina: «Ficcami dentro un dito, buona a niente!», tutto questo porta la mia mano incosciente alla fossa dell’uomo, e il dito che finora gli aveva solo accarezzato l’ano sprofonda di colpo nella sua intimità. Un odore acre e un grido mi trattengono in allerta: per qualche secondo ogni movimento resta sospeso, guardo il volto alterato dell’italiano, e proprio allora lui comincia a pompare con inaudita forza e sento una gran gioia che percorre tutto il mio corpo per andargli incontro. Adesso sono due le dita che gli ho infilato in profondità; lo faccio stendere, gli mordo il petto, lo accarezzo dentro mentre lui quasi sviene e le dita sono come serpenti allacciati in fondo a una buca stretta che si con trae più volte quando lui viene: «Aaaah!», e resta lì, disarticolato come una bambolina sul letto.
Quand’ero bambino mio padre diceva “vado in piazza” e tutti in casa capivamo, non c’era altro da aggiungere. Andava in Piazza del Duomo, da Quarto Oggiaro. Milano, in fondo, ha sempre avuto una sola piazza, e neppure bellissima. Un progetto nato già obsoleto, incompleto, un invaso enorme che ridimensionava la mole del Duomo facendolo sembrare un modellino fuori scala. Però alla fine i milanesi si sono affezionati all’unica piazza che ancora oggi considerano davvero tale. Fino a pochi anni fa, per capirci, a Milano piazze anche belle, contenute, aggraziate nelle dimensioni e nelle fronti erano utilizzate come parcheggi. Penso a Piazza Sant’Alessandro, a Piazza Belgiojoso, a Piazza San Fedele, ancora oggi, ormai senza macchine, sistematicamente snobbate dai milanesi. Chissà perché.
Fare una piazza è una cosa seria, ha una grammatica precisa che chiede d’essere rispettata. Non basta la qualità edilizia, ci vogliono funzioni e superfici coerenti. Non capisco perciò tutto l’entusiasmo dei media di fronte all’inaugurazione della nuova “Piazza Gino Valle”. “Una piazza più grande ancora di quella del Duomo” c’è stato strombazzato sui giornali. Qualcuno dovrà spiegare a chi smercia queste (non) notizie che in architettura, come nel sesso, le dimensioni non sempre contano.
Non basta chiamare un vuoto “Piazza” perché poi lo sia per davvero. Se non rispetta la grammatica di base è solo un coacervo di parole messe a caso, incapaci di germinare alcunché. Gino Valle, autore e “intestatario” della “piazza”, era un progettista di qualità che io ho molto amato, ma qui bisogna avere il coraggio di dire che ha palesemente toppato. Cos’è questo miscuglio di fronti incoerente, questi monoliti allineati misticamente con le stecche del QT8 che stanno oltre la circonvallazione, cos’è questo confuso spuntare sulla linea d’orizzonte di palazzi e cantieri, cos’è quest’enfasi di mostrare il fronte di uno degli edifici più pretenziosi e trash di Milano, la Fiera Portello di Bellini?
Per quanto grande, per quanto pedonalizzata, per quanto disegnata in ogni recesso, per quanto esibisca un bassorilievo di Emilio Isgrò o un restyling scherzoso della “casa Milan” di Fabio Novembre, ciò che vedo, mentre giro per questo spazio non è una piazza, è un vuoto di senso. Un ritaglio della città che raccoglie le spinte urbane senza organizzarle, lasciandole così, sconclusionate e confuse.
Basti pensare al fronte di panchine allineate nel centro del nulla di quel vuoto, tutte orientate verso la contemplazione della Fiera. Chi mai si siederà, chi avrà voglia di prendersi un’insolazione cercando di leggere un libro o di mangiare un panino nel bel mezzo di questo invaso? Non è una piazza questa, diciamolo, in realtà è la copertura di un gigantesco parcheggio sotterraneo. L’immensa tettoia che troneggia al centro in questa “piazza” (dove mi trovo? A Milano, a Cleveland, a Shangai?) ha la sola funzione di riparare le uscite pedonali dai parcheggi. Bella questa involontaria metafora freudiana. Fingiamo di pedonalizzare, ma il represso, il sommerso, la pancia di questo luogo brulica di automobili. La ragione stessa dell’esistenza di questa “piazza” (scusate, non riesco a togliere le virgolette).
Cosa ci si può fare in questo luogo, oltre a qualche eventuale adunanza dove dichiarare guerra alla perfida Albione? Niente. Nessuno si darà mai appuntamento in un posto come questo, così annichilente, antiumano. Non ostante i divieti presenti ovunque, mi auguro che il posto venga subito colonizzato dagli skater di tutta la Lombardia. La conformazione si presta benissimo. Piani inclinati, gradini, sbalzi. Questo è un posto dove non si può stare, ma solo correre o muoversi su uno skate board.
Oppure ci vorrebbe il coraggio di certi ironici visionari. Penso a Marco Romano che mentre gira sperduto con me in questo vuoto urbano mi suggerisce un’idea ai limiti del geniale. “Trasferiamoci la Fiera di Senigallia”. Massì, ha ragione lui. Riempiamo di bancarelle, di gente, di vita, di confusione e commercio questo nulla cittadino. Riempiamolo di significato, inventiamogli una vocazione. Troppo plebea come soluzione, troppo “low profile”? E perché no? Facciamo come nel medioevo quando ripopolavano le rovine dell’antico impero romano dando loro una nuova funzione. La fiera di Senigallia, sì!, proprio di fronte alla Fiera Portello, come in una “città invisibile” di Calvino. Idea, sia chiaro, mica troppo bizzarra o provocatoria. Le dimensioni ci sono, i collegamenti di trasporto pubblici e i parcheggi privati pure. Potrebbe persino piacermi, in quel caso, potrebbe persino avere un senso. Diventerebbe finalmente una piazza. Senza virgolette.
Che Facebook sia un eccezionale generatore di ossessioni è ormai fuor di dubbio. Fra quelle che riguardano il rapporto tra il singolo utente e il resto della comunità, l’ossessione principale mi pare si articoli in tre bisogni: essere cercati, apprezzati, riconosciuti. Per cui diventa sempre più importante che io mi renda: disponibile, attraente, precisamente identificabile. Il che significa che a) passo sempre più tempo su FB, b) mi sforzo di essere divertente, colta, accattivante e c) mi impegno a restituire ai miei amici l’immagine di me in cui mi piace riconoscermi – e non, ovviamente, quella più veritiera.
[Una lettura di Yves Citton, Future umanità. Quale avvenire per gli studi umanistici?, :duepunti edizioni, 2012 e Mitocrazia. Storytelling e immaginario di sinistra, Alegre, 2013.]
Di Andrea Inglese
Il fascino esercitato da Yves Citton deriva dalla combinazione, nei suoi libri più celebri, di questioni di teoria letteraria, che non interessano praticamente nessuno, con questioni politiche, relative al “cognitariato”, che vanno invece di gran moda, e riscuotono un ampio interesse di pubblico. Questo discorso vale senz’altro per i suoi due saggi pubblicati in Italia, Future umanità. Quale avvenire per gli studi umanistici? (:duepunti edizioni, 2012) e Mitocrazia. Storytelling e immaginario di sinistra (Alegre, 2013).
Roberta Durante, se vuole, frequenta la festa della lingua, e lo sa fare: ne ha dato prova nella piccola raccolta d’esordio (Girini), e in modo ancora più torrentizio in quelle che lei definisce «clipoesie» (al momento s’intitolano Livelli), alcune delle quali si possono fortunatamente ascoltare in rete, nella nenia avvolgente in cui lei stessa le dice. Sono radioechi, le «clipoesie», ci danzano intorno per identificare la sfoglia di carne che dovrebbe supporci contenuti, quando invece siamo imbozzolati altrove. La festa della lingua che ripercorre la soglia fra la veglia e il sonno è sempre una poesia del «tu», e se ripete «io» è perché ricerca nel «tu» il soggetto della sensazione. Vuole insomma ridestare il corpo, ricordandogli che è embricato a un altro. Qui, invece, c’è poco da dire: si punta al rebus del linguaggio (nel quale l’«io» puntualmente si smarrisce), al «bruco perfetto» (27), e si frequenta dunque più sfacciatamente il silenzio del sogno, quello che ci scorge ogni volta desti nel mare del senso, e armati di quell’unico remo che al più ci farà girare in tondo (29).
Dalla postfazione di Gabriele Frasca
6
vedo mille cavalli correre
corrono verso di me tutti bianchi e veloci
una macchia veloce di luce
io sono in mezzo alla strada immobile
con due cestini
pieni di carote
Due mesi esatti dopo la rapina più bizzarra della storia del crimine, quella avvenuta a Milano in un supermercato, sembra essersi diffuso in tutto il Paese un morbo che potrebbe definirsi il morbo di Primavera. Il gesto di un uomo ancora oggi unanimamente ritenuto sconsiderato è stato emulato così tante volte che nessun tentativo di spiegazione più appare sensato.
Riunita per discutere la questione, per decidere che atteggiamento tenere, la nostra redazione ha unanimamente deciso di astenersi da qualsiasi ipotesi che potrebbe renderci il giorno dopo ridicoli agli occhi del nostro pubblico. Continueremo perciò a seguire l’evoluzione del caso con il massimo interesse, ma limitandoci a informare i nostri ascoltatori dei fatti, convinti che i fatti a volte siano ben più importanti delle spiegazioni e che in un caso come questo i tentativi di comprendere le cose le rendano più oscure, invece di aprirci la strada ci conducano in un vicolo cieco.
Dunque, ecco i fatti. Fino alle ore 13 di oggi, secondo complemese del gesto di Primo Primavera, si sono registrate cinquemilatrecentosessantacinque rapine tutte con la medesima modalità. Rapinatore singolo, pistola giocattolo, supermercato, casse derubate, spesa pagata, arresto. Un cliché semplice che ogni rapinatore ripete a memoria senza trasgredire mai. Ma novità rilevanti esistono anche nei gesti dei più fedeli replicanti. La più importante: le rapine iniziate a Milano si sono diffuse in tutt’Italia. Nessuna regione, nessuna città capoluogo di provincia escluse. Un dato significativo, inspiegabile senza addurlo alla diavoleria del caso, è che giorno dopo giorno i rapinatori si dividono perfettamente a metà: tanti maschi uguali femmine. Senza bisogno di quote rosa, uomini e donne si avvicendano come in presenza di un meccanismo sessuale automatico dietro le rapine.
I ladri sono persone comuni, disoccupati di varia umanità: senza lavoro dalla nascita, cronici, per convinzione, per costrizione, intermittenti o momentanei, italiani o stranieri, disoccupati tutti non si conoscono tra di loro se non a piccoli gruppi, senza che tali gruppi abbiano nulla a che fare con gli altri.
Escluso tra di loro vi sia un unico legame politico, ideologico o di qualche altra affinità sia pure di semplice comunicazione.
Pare partecipino a un’onda, mossi da un richiamo insopprimibile, trasportati da un morbo, il morbo di Primavera.
A sei mesi dal suo inizio, il morbo di Primavera sembra non avere confini. Ha già varcato le Alpi, in Italia non si conosce supermercato che non sia stato rapinato. Nei primi mesi sembrava infettare solo disoccupati, poi ha colpito i cassintegrati, quindi gli impiegati, ultimamente si sono visti all’opera, come rapinatori di Primavera, anche poliziotti, guardie carcerarie e ottuagenari in pensione. Non c’è più carcere che possa contenerli. Le autorità hanno predisposto come luoghi provvisori di detenzione tende e casette prefabbricate destinate alle emergenze calamità. Ma non sono state sufficienti. Poi hanno riempito gli stadi, requisito i palazzi sfitti e le fabbriche abbandonate. Ma l’impresa è vana. Ci sono più persone in galera che fuori. Non è più problema di carceri insufficienti. Non è più problema di polizia. Ciò che occorre fare, urgentemente, immediatamente, prima che sia troppo tardi, posto che già troppo tardi non sia, è tentare di capire. Capire cosa?
Primo. Cosa accomuna così tante persone? Ci siamo posti migliaia di volte la stessa domanda. Escluse le risposte che giorno via giorno sono state ridicolizzate dall’evolversi della situazione – sono buontemponi, fanno parte di un’organizzazione politica, vogliono incendiare le carceri, sono eteroguidati, inconsci replicanti imbottiti di droghe sintetiche, seguono una strategia nata strada facendo, si muovono senza strateghi e senza regia, sono semplicemente l’onda di un movimento di emulazione i cui risultati sono andati ben oltre le attese, tra l’altro inesistenti– occorre avere l’ardire di formualare altre ipotesi.
Secondo. Scartate le congetture ontologiche, dobbiamo optare per un’ipotesi fenomenologica. Cosa significa? Significa che dobbiamo seguire attentamente i fatti perché solo allo specchio dei fatti potremo osservare la verità.
Terzo. Se osserviamo i fatti, la verità ci appare più vicina che mai. Da che cosa sono accomunati allora tutti i rapinatori di Primavera? Non certo dalla pulsione di fare i ladri, ma da un altro desiderio, assurdo quanto si vuole, ma evidente nella natura reale dei fatti. Tutti i ladri di Primavera, nessuno escluso, desiderano andare in galera. Questo dato di realtà ci pare incontrovertibile.
Quarto. Il problema vero allora diventa: perché mai così tante persone – così tante che potremmo azzardare di definirle non più così tante, ma le persone nella loro generalità – anziché desiderare la libertà, preferiscono finire di loro spontanea volontà in prigione?
Quinto. Da tutti i punti di vista – psicologico, sociale, giuridico, economico, filosofico – il problema vero è proprio questo: capire perché nel ventunesimo secolo la prigione è preferita alla libertà. Se e solo se riusciremo a dare risposte soddisfacenti a questo quesito potremo tentare di trovare qualche rimedio in grado di bloccare il morbo di Primavera prima di venire definitivamente sommersi.
Sesto. Noi di Telespiego, dopo innumerevoli trasmissioni sull’argomento durante le quali abbiamo ospitato il fior fiore della cultura italica, senza presumere di avere tutte le ragioni, abbiamo provato a fornire qualche spiegazione partendo sempre dalla natura fenomenologica della realtà. Ci sembra di capire che il morbo di Primavera abbia intrinseche capacità di mutazione che estendono via via le sue capacità di aggressione senza tuttavia abbandonare il campo iniziale di propagazione. Inizialmente ha afflitto solo disoccupati. Ora: un disoccupato potrebbe avere valide ragioni per preferire la galera alla libertà. In galera gli sono assicurati senz’affanno i viveri, un letto e le altre minime incombenze materiali della vita. Fuori, di questi tempi, tutto è più difficile. Poi ha afflitto i lavoratori intermittenti preoccupati più di ogni altra cosa della caducità della propria situazione, della mancanza di sicurezze che da economiche si trasformano via via in insicurezze sociali, esistenziali, addirittura sessuali. Tutto ciò è ancora facilmente spiegabile.
Ma quando a preferire la galera sono pure operai, impiegati, insegnanti, poliziotti vuol dire che il morbo di Primavera distrugge le immunità psico-sociali di quasi tutta la popolazione. Ciò significa che non è solo questione di possibilità o di lavoro. Il morbo di Primavera ci dice che la vita per le persone di questo secolo non può avere altro intrinseco connotato della prigione e che la prigione nella sua natura diretta, di punizione e insieme di protezione dei rei, è una forma di vita preferibile alle mille catene in cui siamo costretti nella nostra quotidiana, apparente libertà. Ecco degli esempi.
Quante persone vivono e lavorano in uno spazio perimetrato più angusto di una prigione? Quante persone hanno visto le proprie sicurezze sgretolarsi una dietro l’altra, senza fine? Quante altre credono vano qualsiasi resistenza alle difficoltà della vita? Quante persone pur abituate alla comunicazione in tempo reale con il mondo intero si sentono in verità sole, solipsisticamente più sole? Quante altre bisognose d’aiuto si vedono respingere da parenti, da amici, dalla società intera che non ha mai né tempo né soldi per loro? Mettete tutte queste persone insieme, aggiungete le altre che vi verranno in mente a proposito, e il quadro del morbo di Primavera diventa più leggibile.
Se il gesto inconsapevole di uno sprovveduto viene emulato da un esercito infinito di soldatini deve essere successo qualcosa d’incredibile.
Un qualcosa che non ha a che fare solo con la giustizia, ma con l’interezza della vita.
Il nostro secolo ha formalmento rotto ogni barriera, le persone a noi contemporanee appaiono le più libere mai vissute sul pianeta terra, ma tutto ciò è solo una patina d’ipocrisia, una vetrina piena di superstizione. Nonostante la facciata, le persone di questo pianeta avvertono che la galera offre più certezze della vita libera, che le costrizioni della reclusione sono preferibili a quelle che ci impone il mondo di fuori o che ci imponiamo da soli noi stessi, che il mondo delle prigioni, un mondo fino all’altro ieri che in molti anelavano di distrugere, appare oggi il più solido edificio tra le tante macerie sociali di cui siamo circondati. Per questi e tanti altri motivi, la contemporaneità sente il richiamo irresistibile del morbo di Primavera, avverte che l’unica forma autentica di libertà, l’unico desiderio effettivamente esperibile è quello della galera, luogo in cui tutte le preoccupazioni, le ansie, gli affanni, le competizioni e le cooperazioni per diventare sempre qualcuno che non si diventa mai, vengono sopite, attutite, annichilite. Le persone di questo pianeta sembrano dirci che una prigione vera da reclusi sia preferibile all’infinita gabbia delle persone falsamente libere.
Meglio reclusi in galera che nella prigione di tutta la vita: ecco dunque il motto del morbo di Primavera.
Decreto del Presidente della Repubblica
Viste le preliminari deliberazioni del Consiglio dei Ministri, adottate nelle riunioni del 16 febbraio e del 4 aprile 2014;
Sentita la Conferenza unificata ai sensi dell’art. 9, comma 3, del decreto legislativo 28 agosto 2014, n. 281;
Udito il parere del Consiglio di Stato espresso nella sezione consultiva per gli atti normativi nell’adunanza generale del 29 marzo 2014;
Acquisito il parere della competente commissione della Camera dei deputati e decorso inutilmente il termine per il rilascio del parere da parte della competente commissione del Senato della Repubblica;
Vista la deliberazione del Consiglio dei Ministri, adottata nella riunione del 24 gennaio 2015;
Vista l’assenza di spazio disponibile per ulteriori centri di detenzione
Preso atto inoltre di questo e di quello
Visti gli atti così e cosà
Letti i fatti colì e colà
Su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri e del Ministro della Giustizia, di concerto con i Ministri degli interni, della difesa e dell’economia;
E m a n a
il seguente decreto:
1) Si depenalizzano i reati di rapina e di rapina a mano armata.
2) Tutte le persone coinvolte in rapine e in rapine a mano armata non sono perseguibili né penalmente né amministrativamente.
3) I processi, le denunce, le indagini e i provvedimenti giudiziari a carico di persone accusate di rapina e di rapina a mano armata sono annullati.
4) Gli Istituti di pena, le Forze dell’Ordine devono rilasciare ogni persona sottoposta a provvedimento d’arresto o di fermo con l’accusa di rapina e di rapina a mano armata.
La legge in ogni suo articolo ha valore immediato da oggi 27 Febbraio 2015 e valore retroattivo per i reati di cui oggetto nel presente decreto compiuti da Sabato 8 Febbraio 2014.
Per effetto del tanto atteso Decreto del Presidente della Repubblica, ieri a più di un anno dalla sua ormai storica rapina, Primo Primavera è uscito dal carcere di San Vittore.
La domanda che si pone il mondo intero è: quest’uomo è davvero com’è sembrato fin dal primo momento, come risulta dalle testimonianze sulla sua vita precedente la rapina, come attestano le informazioni trapelate sull’anno appena trascorso in galera? È davvero sufficientemente illetterato e abbastanza sprovveduto, totalmente incapace di pensare a qualsivoglia strategia, sfornito di carisma, indifferente a ciò che gli succede attorno, inconsapevole del marasma che ha causato, refrattario a qualsivoglia sensata discussione su qualsiasi argomento, interessato solo alle partite di calcio del Porta Cicca, il suo quartiere milanese, e alle novele seriali trasmesse in tv?
Per rispondere a questo quesito, una nostra troupe l’ha atteso fuori San Vittore. Abbiamo tentato d’intervistarlo, ma Primo Primavera è incapace di dire molto altro di diverso da sì, no, non lo so. Impossibilitati a capire qualcosa dalle sue parole abbiamo deciso di tentare di comprendere le sue azioni. Lo abbiamo seguito. Risultato: alla fine della giornata sappiamo esattamente solo ciò che conoscevamo già prima.
Cosa ha fatto? L’uomo si è recato al Bertarelli, la scuola che ha frequentato fino al giorno prima della rapina, è entrato nella sua classe, ha partecipato alle lezioni fino all’intervallo, poi è sceso al bar, ha preso un caffé che il barman gli ha offerto, poi è uscito, si è recato a piedi a casa, ha salutato i genitori, quindi si è recato nello stesso supermercato di quel famoso sabato 8 Febbraio. Ha rapinato le casse aiutandosi come la prima volta con una pistola giocattolo. Ha prelevato un carrello. Ha girato per gli scaffali per riempirlo. Si è messo in fila alla cassa. Quando è arrivato il suo turno, ha allineato ordinatamente la merce sulla pedana mobile della cassa, ha riempito i sacchetti, ha atteso che la cassiera gli declinasse il conto, ha cavato fuori dai pantaloni 100 euro, ha posato il carrello lasciandovi la pistola giocattolo, ha ritirato i suoi sacchetti e ha atteso che lo andassero ad arrestare. Fuori lo attendevano i poliziotti ma per effetto del decreto firmato ieri dal Presidente della Repubblica, Primo Primavera non è stato fermato. L’uomo non ci credeva. Al momento di scarcerarlo gli avevano parlato della nuova legge, ma non ci aveva fatto caso. I nostri giornalisti gli hanno chiesto ma adesso che nessuno potrà arrestarla cosa farà? Lui ha detto non lo so. È la prima volta che non mi arrestano dopo una rapina.
Il tono solenne, grave, con una punta di compiacimento, come si addice a chi in questa serata sta mangiando per la prima volta i panini e i piatti dell’Hamburgeseria Burger di Piazzale Flaminio, quella nuova, “quella che ha aperto da poco”. Le birre, gli sfilacci di pollo, le patate croccanti, gli anelli di cipolla, i bastoncini di mozzarella panati, la cameriera e i suoi jeans aderenti che i commensali fissano con golosità fagocitante, con le bocche semiaperte e i bocconi ancora nodosi e sfibrati, impastati tra i denti e le gengive.
«Quello di T-bone è molto meglio».
Sulle pareti del ristorante ci sono le foto in bianco e nero di pugili che si allenano, che combattono, che alzano al cielo un trofeo o una cintura, foto di palestre e di ring del passato, di sacchi consumati e guantoni usurati, spellati. Il ristorante si allarga per tre sale una contigua all’atra, il vociare dei clienti è un flusso continuo e condiviso, modulato, un dedalo di chiacchiere rizomatiche e frammentarie, risate improvvise, gridolini striduli, bocche mosce masticanti e pastose.
«Io l’hamburger migliore l’ho mangiato a New York».
La conversazione procede per accumulo di immagini, di parole, di intuizioni subito convertite in verbo, un sovrapporsi di idee e lemmi che ricorda i regoli colorati con cui i bambini giocano sovrapponendo i tasselli policromatici fino ad arrivare in cima alla piramide, l’estremità architettonica su cui poggia il più piccolo tra i pezzi: il regolo bianco. La costruzione verbale divora ogni tassello precedente e le parole divengono pesanti come pietre, come sassi fiondati nel vuoto.
«Io l’ho mangiato a Londra. Troppo buono».
Si arriva al regolo bianco senza troppi indugi, di fretta, senza verificare l’esattezza del regolo marrone, la solidità di quello arancione, la coerenza e la profondità di quelli verdi e gialli, il piacere della loro comunione, della loro narrazione concatenata, condensata; una percussione a pressione, un presente battente che ingurgita ogni tentativo di continuità comunicativa. In questa conversazione si può solo esordire.
«Dobbiamo provare quello a Piazza Cavour».
L’esperienza culinaria come unica militanza possibile, il discorso sul cibo come anestetico e sedativo, una zona franca in cui potersi rifugiare, a cui potersi abbandonare, un territorio neutro dove chiunque è autorità e prestazione. A questo tavolo hanno ordinato quattro Bacon Cheeseburger con formaggio Cheddar e insalata, maionese e ketchup a parte; un panino per quattro persone, un esercizio di condivisione gastronomica, un’esperienza unica e multiforme per un giudizio finale che deve essere netto e definitivo. “Che voto gli dai?”
«M’hanno detto che quello a Piazza Cavour non è niente di che».
Ogni incursione, anche la più partecipata, la più attiva, si risolve in se stessa, si esaurisce nel suo ritmo e respiro, e subito dopo essere stata pronunciata, annunciata, sembra un’esperienza lontana, inutile, trascurabile. I regoli si ammucchiano, la piramide cresce e l’impianto narrativo si scarnifica fino all’essenzialità e all’imprecisione. Invece di avvicinarsi all’esattezza, ogni parola si allontana dal suo significato, dalla sua levigatezza formale, dalla sua esplosività. Ogni parola si accontenta.
«Vi porto qualcos’altro ragazzi?»
L’improvvisa irruzione della cameriera – alta, dai fianchi corti – è come se polverizzasse in pochi secondi l’impalcatura verbale edificata nei momenti precedenti alla sua invasione; la ragazza crea nuovi percorsi possibili (“qualcosa ce lo potresti dare sicuramente”), nuove incertezze culinarie (“forse un dolce me lo prenderei”), ma soprattutto proietta il tavolo e i suoi convitati verso l’atto conclusivo di questo cenacolo serale: il regolo bianco (“Vabbè, va’, portaci il conto”).
Al tavolo cominciano i riti del dopocena, le dita sui telefonini per controllare gli ultimi messaggi, le mail, le mani sui portafogli, tra le banconote, previsioni e scommesse sul toto-conto; qualcuno si alza per andare in bagno, smania per fumarsi una sigaretta, gli altri rimangono seduti con le gambe stese lungo il tavolo, le braccia allargate, la lingua che mulina sotto le labbra in cerca di residui pastosi, organici, in attesa del verdetto finale, del pezzetto di carta con la propria porzione di conto da pagare, il contributo doveroso a questa prestazione alimentare, a questa cena tra amici.
Faccio la commessa all’Esselunga di via Bazzi, a Milano. Sabato 8 febbraio 2014 intorno alle tredici e trenta non c’era tanta gente, non quanta ce ne sarebbe stata un paio d’ore più tardi né quanta ce n’era stata ore prima. La fila scorreva senz’affanno alla mia cassa. Avevo il tempo di salutare le persone, di guardarle in faccia, di augurare buona domenica e di chiedere loro come stavano i figli, i mariti, le sorelle e i fratelli se erano clienti abituali. Era uno di quei rari momenti in cui una cassiera non dico che ama il suo lavoro, ma la mansione che svolge le appare un po’ più lieve. Non puoi dire di essere contenta, ma almeno ti illudi che lavorare in quelle condizioni sia forse un granellino meglio che fare la schiava in catene o la schiavetta del maritino tuo.
Dura poco, il tempo che le masse finiscano di pranzare e sciamino felici nei supermercati più per fare qualcosa, forse per dimostrare di essere in vita, per compulsione abitudinaria, che per necessità di spesa.
Il tempo straordinario di respirare appena prima di entrare in apnea nel vortice accelerato della normale attività di bancomat, carta di credito, tessere fedeltà, ritiro contanti, sistemazione ordinata di banconote e monete, resto, buonasera grazie, arrivederci senza mai sollevare la mente da quella cassa. Anche quando gli occhi fanno finta di guardare altrove, devi stare concentrata là, guardiana impassibile di quel flusso di denaro che non è tuo ma che almeno in parte lo potrebbe diventare se sbagliassi operazione. Quando eccedi nel resto quel denaro diventa come tuo. Lo devi restituire.
Maneggiare tanto denaro e non avere i soldi per il caffé a noi cassieri crea sempre qualche problema. Io sogno ogni notte di pulire la casa e di gettare la spazzatura, ma invece della polvere scopo soldi che si annidano ovunque e vanno scovati per essere raccolti e gettati tutti nei rifiuti altrimenti la casa rimane sporca, sudicia, sozza, putrida, fetente maledetta. Gettati tutti i soldi nell’imondizia la casa mi si riempie di polvere che cerco di snidare mentre la polvere diventa denaro che io ributto e la polvere si riforma e io continuo a pulire e poi ancora in un processo senza fine.
Minuto più, minuto meno, alle tredici e trenta sento urlare all’ingresso. Il guardiano entra con alle spalle qualcuno che grida calmi, è una rapina. Si mettono tutti a urlare. Pure io urlo dalla paura, ma sinceramente sono anche eccitata un pizzichino. È la prima volta che capito in una rapina. Chissà se succede come alla tv mi dico.
Un uomo giovane, sui venticinque, a volto scoperto, pistola nella mano sinistra, mette a sedere il guardiano, chiama a sé l’unico cassiere maschio, gli intima di legarlo. Poi si avvicina. Il cuore batte forte. Il rapinatore ci ordina di aprire le casse e di consegnargli i soldi. Ci sono cinque casse aperte. Io e le mie colleghe eseguiamo. Nessuno di noi tenta di resistere. Prima d’iniziare a lavorare ci avevano spiegato che non ne vale la pena. Ogni cosa che avviene dentro e fuori il supermercato viene ripresa. Nelle casse ci sono sempre pochi soldi, massimo 500 euro a postazione. Superata quella cifra, contiamo, registriamo, impacchettiamo e consegniamo i soldi alla direzione che li blinda in cassaforte.
Rubare poco per avere la quasi certezza di essere beccato non è un grande affare. Capito, ragazze. Se qualcuno è così scemo di tentare una rapina, non fate le eroine. Così ci aveva detto il capo.
Fra tutte le casse aperte avrà recuperato al massimo 1500 euro.
Il rapinatore si mette in tasca i soldi, tu tieni la cassa aperta mi urla, poi anziché guadagnare l’uscita, si avvicina ai carrelli, inserisce una monetina nell’inserto, ne prende uno e si dirige verso gli scaffali con la pistola dimenticata in mano. Tutti i clienti si mettono a urlare. Lui riempie lestamente il carrello di carne, pane, latte, frutta, formaggi. Ci ficca pure un colluttorio, il filo interdentale e un deodorante per le ascelle. Quindi punta dritto alla mia cassa. Mette tutto sullo scorrevole e mi chiede faccia presto per favore. A me tremano le mani, punto con l’occhio sinistro la pistola e con il destro il suo volto. Non capisco cosa devo fare. Mi faccia il conto, presto. Ancora non capisco, ma meccanicamente faccio scivolare la merce lungo il rilevatore prezzi mentre lui riempie i sacchetti. Ancora più meccanicamente dico 77 euro e 33 centesimi, paga contanti? Lui mi guarda come a dire ma sei scema?, cava dalla tasca due banconote da 50 euro, me le porge, attende il resto, se lo assicura nel posteriore dei pantaloni, mi saluta buongiorno signorina, si dirige verso il portacarrelli, preleva i sacchetti lasciando la pistola nel carrello, spinge il suo dietro gli altri, ritira la moneta di un euro e si avvia all’uscita. Fuori, erano già in attesa i carabinieri che lo hanno arrestato.
Certo che è stata una rapina strana. Non si era mai visto che un rapinatore, dopo aver prelevato i soldi dalle casse, invece di mettersi a correre prenda un carrello, lo riempia di merce come un qualsiasi altro cliente e si diriga alla cassa pagando con i soldi della rapina. Non contento della sceneggiata, lascia la pistola nel carrello e viene sufficientemente tranquillo verso di noi che lo aspettiamo all’uscita – non abbiamo fatto irruzione prima per non gettare i clienti del supermercato nel panico. Se siete qui per me, fate pure.
Noi gli mettiamo le manette e lo portiamo in caserma. Non oppone resistenza alcuna. Lo interroghiamo, ma lui nulla ci dice del suo comportamento bizzarro. Gli abbiamo chiesto mille volte perché non sei scappato. Perché dovevo fare la spesa. Ma ti sembra normale che un rapinatore faccia la spesa, pagando pure, nel supermercato in cui sta facendo una rapina? Non lo so. É la prima volta.
Noi ci crediamo davvero. Sarà stata la prima volta. Avrà qualche serio problema psichiatrico. È certo. Non si spiega altrimenti.
La pistola? Era un giocattolo, ma forse lui non è in grado di distinguere il vero dal falso. Non crediamo sia pericoloso, solo fuori di testa.
Si chiama Primo Primavera, ha venticinque anni, è nato a Milano da genitori lombardi, fino a due mesi fa lavorava in una fabbrichetta chimica, è iscritto al corso serale dell’Istituto Tecnico Turistico Bertarelli. Risulta fidanzato di una studentessa della sua stessa scuola.
Adesso scusate. La conferenza stampa è finita. Grazie.
Il nostro quotidiano si è occupato due settimane fa di un tipo bizzarro, tale Primo Primavera, che ha rapinato le casse di un supermercato, poi, anziché fuggire, ha ritirato un carrello, si è diretto abbastanza lestamente all’interno, tra gli scaffali del negozio, ha preso la merce che gli necessitava, si è recato alle casse, ha pagato come fa normalmente qualsiasi altro cliente, ha infilato il carrello al suo posto dopo avervi prelevato i sacchetti con la spesa e lasciato la pistola giocattolo usata per la rapina, infine tranquillo si è consegnato ai carabinieri che lo attendevano all’uscita.
Tutti, carabinieri per primi, hanno pensato a uno squilibrato e anche noi, allora, confinato nella cronaca di Milano, abbiamo trattato così il caso.
Torniamo a parlare di Primo Primavera, qui, in prima pagina, perché nelle due settimane trascorse il suo gesto ha lasciato il segno. Nella stessa città, Milano, altri cinque supermercati, in cinque giorni differenti, sono stati rapinati da ladri altrettanto singolari che hanno emulato quasi alla perfezione il gesto del Primavera. Tutti come lui dopo la rapina, anziché fuggire hanno fatto regolare spesa pagando alle casse e consegnandosi alle forze dell’ordine. In tre dei recenti casi i malviventi erano attesi fuori; negli altri due, le forze dell’ordine non sono state abbastanza leste, ma i rapinatori non si sono persi d’animo. Invece di darsela a gambe, hanno pazientemente atteso, uno venti minuti, l’altro quarantesette minuti, che si presentasse qualcuno per arrestarli. Intanto, hanno chiacchierato con i passanti o con i clienti del supermercato riversatisi fuori mossi dal morbo della curiosità più che dal morso della paura. Nessuno dei rapinatori ha voluto spiegare le motivazioni del proprio assurdo gesto.
Ma che i cinque ladri abbiano qualcosa a che fare con Primo Primavera è palese. A parte la meccanica dell’emulazione, risulta infatti che i sei personaggi si conoscessero più o meno bene. Come Primavera, anche gli altri cinque risultano iscritti al corso serale dell’Istituto Tecnico Turistico Bertarelli, hanno un’età compresa tra i 22 e i trenta anni, sono disoccupati più o meno a intermittenza. Curioso che una delle tre donne del gruppo a domanda lavori? Ha risposto. Non sempre. Quando lavori? Fino all’anno scorso lavoravo ogni volta che pioveva. Da quest’anno lavoro ogni volta che nevica.
Degli altri cinque, una è italiana di Calabria, il secondo egiziano, il terzo filippino, le due altre donne provengono dall’ Ucraina e dal Perù.
Le rapine sono dunque opera di una multinazionale dell’assurdità i cui membri si conoscono, sono accomunati da tre fattori – frequentare la stessa scuola, essere disoccupati, possedere sufficienti audacia e freddezza – e sicuramente hanno concordato come quando e dove realizzare le proprie gesta.
Ciò che rimane oscuro è l’elemento più importante: perché? Quale motivo può spingere degli individui a organizzarsi per compiere delle rapine che li conducono inevitabilmente, per volontà certa, in galera?
Preso da solo, Primo Primavera era sembrato a tutti un matto. Ma alla sesta rapina che avviene con le medesime modalità anche il più matto tra gli uomini capirebbe che c’è della ratio in quell’apparente follia. In attesa che gli inquirenti diano chiare e pronte risposte in merito, la congettura più accreditata tra i nostri colleghi è che si tratti di un gruppo di buontemponi mosso ad assurdi gesti dalla ricerca di facile notorietà. Non soddisfatto da una così banale spiegazione il nostro giornale ha avviato un’inchiesta. Ci siamo recati per diversi giorni al Bertarelli, abbiamo intervistato Dirigente, personale in servizio, studenti. Abbiamo scoperto diverse cosette interessanti. Tra queste, due in particolare. La prima: nel corso serale dell’Istituto insegnano diversi vecchi arnesi della sovversione che non solo non hanno mai abiurato ma non perdono occasione di aizzare i loro studenti contro preside, provveditore, ministro. Secondo: nell’Istituto si sono svolte tutte le assemblle territoriali dei COBAS da quando il sindacato di base è nato.
Magari non sono elementi importanti, ma potessimo dare un consiglio agli inquirenti, diremmo loro di lanciare un’occhiatina in quella direzione.
Se non si tratta di balordi o di buontemponi, è chiaro che siamo di fronte a un gruppo organizzato con una strategia ben precisa. Quale è forse presto per dedurla, ma a noi sembra che alla sesta rapina un primo indizio ci sia: questo gruppo organizzato, ancora senza nome, non è interessato a fare le rapine. Le rapine sono solo un strategia per andare in galera con il minimo del danno. Il problema vero allora diventa: perché un gruppo organizzato ha interesse a far arrestare i propri militanti? Nessuno lo sa, ma alla fine della nostra inchiesta ci pare d’obbligo fare una congettura. Ci può essere una sola ragione per la quale un’organizzazione così coesa si comporta in tal fatta. Evidentemente ritiene che la sua azione politica debba essere svolta in carcere, non fuori. Così fosse, nel giro di poco tempo ci capiterà di assistere a rivolte, evasioni di massa, atti di insubordinazione che ci faranno rimpiangere il vecchio rapinatore, quell’uomo forse deprecabile ma tutto sommato simpatico che tentava di rubacchiare qualcosa ma colto sul fatto accettava di buon grado di farsi qualche annetto di galera.
#iostoconlunita: Come da comunicato del CDR dell’Unità, prossimamente l’intero gruppo operativo del giornale avrà un incontro con i liquidatori della testata.
Da piccolo, e per anni, qui nella mia terra non c’era molto da fare, se eri un bambino un po’ troppo sveglio e con tanta vitalità dentro. Per tenermi a bada, i miei genitori quando non mi compravano giocattoli mi regalavano dei libri. Storie da leggere con cui distrarmi e sfogare quel mio essere un bambino frenetico e con i nervi spesso in tensione. Oggi, che non leggo solo libri e non sono più un bambino, scrivendo storie accade più o meno la stessa cosa: sto meglio, mi sento più vivo e meno arrabbiato con il mondo.
Azione di popolo per il centenario della settimana rossa
di Matteo Cavezzali
[NOTA: Il testo è stato scritto facendo fedele riferimento alle testimonianze dell’epoca: gli atti dei processi, i diari e le lettere inviate dai preti al Vaticano per chiedere il risarcimento dei danni arrecati alle chiese. Lo spettacolo è stato messo in scena dal TeatrOnnivoro dal 9 al 12 giugno per il centenario della settimana rossa. Alcuni zelanti cittadini, in particolare il prete di uno dei paesi della settimana rossa si sono opposti alla rappresentazione. Il parroco ha scritto una lettera aperta pubblicata su un giornalino del paese contro chi vuole ricordare questi vandali di anarchici… A dimostrazione che in cento anni la storia ancora è vissuta come cronaca odierna. Le rappresentazioni si sono alla fine svolte in un’ atmosfera festosa in ogni paese: Mezzano, Villanova di Bagnacavallo, Alfonsine e Fusignano, tutti in provincia di Ravenna. ]
Per chi non c’era, per chi non ricorda o soprattutto per chi vuol dimenticare questa è la storia della Settimana Rossa. Sette giorni in cui tutto fu possibile. Il vero comunismo fu messo in pratica ad Alfonsine, a Fusignano, altro che in Russia! Ma durò solo una settimana. Tutto iniziò a seguito dello sciopero antimilitarista che si svolse ad Ancona del 7 giugno 1914. Gli anarchici protestarono contro l’esercito per richiedere l’abolizione delle compagnie di disciplina, la liberazione dell’anarchico Arturo Masetti. Cercarono di bloccare la parata militare, seguirono violenti scontri e tre ragazzi furono assassinati. Furono uccisi dai militari Nello Budini di 24 anni, Attilio Giambrignani di 22 e Antonio Casaccia di 17. Quando la notizia si diffuse scoppiarono sommosse in tutta Italia. Fu la Settimana Rossa un’ insurrezione popolare che coinvolse repubblicani, socialisti e anarchici nelle Marche, in Romagna e in Toscana per sette giorni. Dal 7 della protesta di Ancona fino al 14 giugno dell’anno 1914.
Giovanni Capucci – Era sera, il 10 giugno, eravamo alla casa del popolo, come tutte le sere. A Fusignano, ovviamente. Allora è arrivato di corsa Pino Grossi e mi dice che a Ravenna è successo un ’48, che durante un comizio organizzato dei compagni repubblicani, socialisti e anarchici assieme sono arrivate più di diecimila persone. Hanno dato fuoco alla Prefettura… Pino diglielo mo tè che c’eri cosa hai visto.
Pino Grossi – C’erano fiamme alte sei o sette metri. La Prefettura prendeva fuoco come una catasta di fieno secco d’estate. Quel coniglio del Prefetto aveva anche tentato di darsela a gambe, ma i compagni l’hanno fermato e l’hanno arrestato. L’avete mai visti voi dei contadini che arrestano un Prefetto? Allora è partita una raffica di fucili, ma non ho capito chi sparasse a chi, perché non ha colpito nessuno. Solo un gran botto. E poi coi tizzoni ardenti via a dar fuoco anche alla Chiesa.
G – E al pretaccio? Gli avete dato fuoco alla tonaca?
P – Il prete? Quello era volato via come un fulmine ancora prima che si cominciasse a fare sul serio. Si era messo una gabbana sopra per camuffarsi, ma due calci nel sedere se li è presi!
Don Luigi Tellarini – Ah! Che disperato dolor nel core mi preme a ricordare questi momenti!
G – E questo chi è?
P – Che vuole?
Don – Sono don Luigi Tellarini, parroco di quel demoniaco territorio che è la città di Alfonsine. Più volte avevo sollecitato le forze dell’ordine a setacciare queste terre di blasfemi. Basti pensare che in Alfonsine ci sono ben 180 biciclette per capirlo! Era logico che fosse una terra del diavolo! Perché altrimenti il bisogno di andare così di fretta se non per rubare e fare attentati! Quanto dolore, vergogna e raccapriccio per quello che accadde in quelle giornate. Iddio, nella sua infinita misericordia tocchi il cuore di quei sacrileghi iconoclasti e li conduca pei sentieri del ravvedimento e alla salvezza… Ero in canonica a lavorare, come ogni anno, in questi giorni fervono i preparativi per la processione del Corpus Domini previsto per l’11 giugno. Nel silenzio della chiesa nulla lasciava presagire ciò che di sinistro sovrastava il paese di Alfonsine. Quando verso sera un gruppo di banditi iscritti alla fazione degli anarchici, si scagliò verso il portone della sacrestia come degli animali abbattendola con una spallata. Il pianto disperato di bambini non bastò a sedare i loro animi. Il Cappellano, don Mario ebbe una vivace discussione con loro e finì con il prendere uno scapaccione e una spinta talmente violenta che dal limite della sagrestia fu scagliato in mezzo al cortile a piedi all’aria. La porta era allora spalancata. Uno sguardo secco lanciò uno di loro alla folla in piazza e via entrarono di gran corsa all’assalto. La posta, il telegrafo e il telefono furono le prime vittime. Fracassano gli apparecchi. Uno si arrampica sulle impalcature della casa accanto e taglia i cavi dell’elettricità. Certo! Ci vogliono isolare. Altri entrano nel circolo monarchico. Forzano il portone con un palo di ferro. La turba furibonda si dà all’assalto e al saccheggio. Vidi volare fuori dalla finestra le immagini di Re Vittorio e anche della regina d’Italia! Poi sedie, tavoli di marmo, bottiglie, bicchieri. Come un’ orda di selvaggi che non ha più leggi né freno. Urlavano “compagni, lavoratori, finalmente Vittorio Emanale è caduto. Andate nelle casa e tirate in pieno petto alla borghesia. Evviva la rivoluzione”. Io ero ad origliare dietro le tende della canonica, però udivo e vedevo ogni cosa. Si vedevano giovinetti con un accanimento indescrivibile, afferrare bottiglie con liquori di ogni colore e sbatterli contro le colonne della casa con gioia pazza e tale ironia che faceva fremere d’orrore… e l’aria era talmente satura di alcol da non potersi descrivere.
G – come stavamo dicendo…
Don – Non ho finito. Il giorno seguente constatai che il busto di gesso del defunto parroco don Riccibiti era ormai senza naso, senza un occhio e senza un orecchio. C’erano lampade rotte, brandelli di statue, candelieri spezzati e addirittura crocefissi e immagini sacre gettate a terra. I cancelli in stile gotico della graziosa cappella di Lourdes affissi al muro erano spaccati. Avanti ancora: Mio Dio!! Che si vede là a terra? La statua di San Luigi era stata d-e-c-a-p-i-t-a-t-a e il tronco… giaceva a terra senza testa! (Mi ha confidato il cappellano don Serafino che il carnefice di questo povero santo fu il signor Massimiliano Maiani il quale ce l’aveva a morte con lui perché è il santo della purezza!) Era rimasto intatto ancora, perché inosservato, il bell’organo costruito dalla ditta Strozzi di Ferrara: in un baleno un gruppo sale nell’orchestra, con bastoni si comincia a percuotere la tastiera d’avorio e il meccanismo interno, riducendo il tutto a un informe groviglio di ferri, poi si tolgono dal loro posto le magnifiche canne di stagno della facciata e poi quelle di piombo e di zinco, in tutto circa 800, e si danno ai bambini, i quali suonando a tutto fiato, corrono nella piazza e incomincia allora quella musica barbara, quella nenia che i poveri selvaggi dell’Africa sogliono fare durante le loro feste cannibalesche!
G – Quando ci raccontò questa formidabile storia alla casa del Popolo esplose un fragoroso applauso. Erano cinquant’anni che noi si aspettava l’inizio della rivoluzione. Non abbiamo neanche dovuto fare una riunione per parlarne, era già tutto pronto! Tutto! Sapevamo esattamente cosa fare per cacciare via quelle fecce monarchiche dalla Romagna e dall’Italia intera! Ci erano arrivate rassicurazioni su quello che stava accadendo nel resto d’Italia. E poi gira quella voce… A pensarci adesso sembra impossibile, ma ci credevamo tutti. A quella cosa. Me lo avevi detto te Pino!
P – Mé? Ma va là! A me quella vicenda lì me l’aveva detta Olindo.
Olindo Masetti – Mo propì! era stato Ultimo, no, non Ultimo, … coso… coso dai quello che abita là in fondo al borgo. Non quello che ha tirato giù la statua di San Giovanni, quell’altro, coso. Non Primo, no… coso, coso. Quello che c’ha tutta quella fila di prosciutti appesi nella cantina… Vituperio! Non Vituperio, l’altro. Coso…
P – Sì, ma dillo se hai il coraggio, dillo cosa andavi a dire in giro…
O – Tempesta! Ecco come si chiamava. Ma non era lui, era l’altro. Coso…
G – Andava a dire in giro, sto patacca qua, che Vittorio Emanuele III era stato spodestato, che il Re d’Itala era dovuto fuggire in Francia a causa della rivoluzione. Vigliacca di una vigliacca! Ma come si fa a dire una roba così se non si è sicuri come si è sicuri che c’è il sole di giorno!
O – Il Vendetta! Era stato il Vendetta a dirmelo, che poi a lui glielo aveva detto però un altro. Coso…
G – Fin dalle prime ore dell’alba, che il gallo non aveva ancora cantato, eravamo già tutti al circolo Socialista dove il comitato dava gli ordini per far procedere la manifestazione come doveva senza disperdere energie…
P – La prima regola fu il divieto delle osterie di servire il vino. Altrimenti si sa come sarebbe andata a finire! Per festeggiare i compagni si sarebbero subito infilati alla prima osteria e poi col fischio che si faceva la rivoluzione da ubriachi!
Don – Oh Vergine Santa! Questa regola fu tradita da coloro i quali si macchiarono dell’orrenda strage di sacre immagini e di regali effigi! Ho visto con questi occhi un anarchico ubriaco indossare la sacra tonaca e dopo aver simulato una benedizione ai suoi compari gettare una croce tra le fiamme in mezzo alle risa generali!
G – Va beh, ci si divise in squadre. Una doveva assicurare cibo agli ammalati, un’altra avrebbe imposto la chiusura a tutte le chiese e ai pubblici negozi e ad esporre la bandiera abbrunata. Tutto chiuso, tranne le farmacie. Anche dal municipio fu annodata la bandiera in segno di rivolta. La folla di manifestanti si aggirava per le strade del paese, mentre il sole splendeva alto nel cielo azzurro, in attesa di buone notizie, le quali non tardarono. Un gruppo di sconosciuti, giunto in bicicletta, riferì dell’incendio del Palazzo Comunale di Alfonsine, du quello della stazione di Castel Bolognese, di Imola, della chiesa di Mezzano e delle altre conquiste della rivolta. A quel punto tutta la cittadinanza si unì a noi!
O – L’idea fu di Emilio o di Carlo, non ricordo, fatto sta che arrivò a quel punto una delegazione del comitato che era stata mandata nel bosco del Marchese Calcagnini. Trasportavano un frassino lungo quindici o sedici metri… Erano dieci a tenerlo. Lo portammo fino in piazza Corelli e lì, di fronte alla chiesa del Suffragio, lo tirammo su. In cima, là a quindici o sedici metri d’altezza sventolava la bandiera rossa! L’idea di Giovanni o di Palmiro, si rifaceva a un disegno che avevano visto incorniciato alla sede del partito Socialista. Era una raffigurazione della Rivoluzione Francese, quella dell’albero della Libertà. Eretto l’albero tutto il paese era in piazza. Molti gridavano “evviva” e a quel punto iniziammo a cantare la Marsigliese, poi l’Inno dei lavoratori e l’Inno di Garibaldi e la banda si unì spontaneamente alla festa. Non so nemmeno come fecero a recuperare gli strumenti così velocemente. Accadde tutto spontaneamente. Fu una gran festa!
Luigia Bertozzi – Gli uomini si lanciarono subito in grandi ragionamenti sulla Rivoluzione Italiana, come niente sarebbe più stato come prima, come quella grande avventura sarebbe stata ricordata dai posteri. Arrivò persino il vecchio Valentino Badeschi, di novant’anni, che quella stessa piazza avevano fatto il 1848 e nel vedere rinnovato il sogno rivoluzionario si commosse e pianse. Strano per un uomo d’ordine e religione come lui.
G – La foto di noi sotto l’albero scattata da Antonio Preda, maestro della scuola elementare e dilettante fotografo, fu pubblicata dai più illustri giornali da La Domenica del Corriere a L’Illustrazione Italiana!
O – Per non parlare di quanto circolò negli uffici della Pubblica Sicurezza…
G – Poi, visto che si era fatta l’ora di pranzo, la folla si disperse e ognuno tornò a casa propria per mangiare. Di Carabinieri in giro non ce n’era neanche l’ombra. Sarà che in tutta la caserma di Fusignano ce n’erano appena quattro e quando hanno capito che tirava una brutta aria si erano chiusi dentro ben bene.
O – Benedetto Gessi! Ecco come si chiamava. Il repubblicano di Alfonsine che arrivò in moto tutto trafelato e con gli occhi congestionati, in preda a evidente agitazione. Fu lui a dire che gli era appena arrivata notizia da un concittadino alfonsinese appena giunto da Roma che il re era fuggito e anche parte dell’esercito si era ribellato. Che tutte le grandi città italiane erano insorte e che a Ravenna la casa del popolo gremita da un migliaio di dimostranti era assediata dai soldati ed ora era per noi doveroso intervenire, armarci e marciare alla volta di Ravenna.
G – Fu a quel punto, radunate le armi che avevamo a disposizione, che partì la marcia verso Ravenna. Eravamo 500 persone e gridavamo “Viva la rivoluzione” e “Abbasso la monarchia!”. Altri come noi erano partiti da Mezzano, da Alfonsine e da altre città della provincia. Intanto in paese venivano erette barricate per mantenere il presidio. Però dovevamo avere velocemente notizie sicure da Ravenna, in bicicletta ci avremmo messo troppo, allora venne l’idea di sequestrare un auto. Proposta che fu votata all’unanimità. Le auto disponibili in città erano un paio, si scelse di sequestrare quella del Dottor Carlo Piancastelli, ricco fusignanese. Immediatamente una colonna di dimostranti si recò alla villa del Piancastelli, ma dopo aver bussato ripetutamente alla porta nessuno ci aprì, allora la porta fu atterrata a pedate. L’auto fu allora presa, con promessa di non arrecarvi danni, e guidata dal autista del dottor Piancastelli. Non è che ci fossero altri capaci di governare un’ automobile sulla strada!
Luigia Bertozzi – Intanto a Villa Savio i compagni avevano catturato il generale Agliardi! In realtà non fu proprio catturato. Era in un giro di perlustrazione, senza sapere quasi niente di cosa stava accadendo che si imbatté in un manipolo di socialisti in rivolta. Non ebbe molta scelta e si dichiarò prigioniero. I compagni non sapevano bene come comportarsi. Certo a qualcuno era capitato di essere arrestato dai militari, ma il contrario… un s’era mai vist… Allora dato che loro dovevano andare a fare le barricate ce lo diedero a noi: trattoria caffé Torsani. Che non era il massimo come prigione, ma lì in zona non c’era nient’altro… Due donne e tre anziani a badare al prigioniero Generale Luigi Agliardi, pluridecorato bersagliere di Cina e di Libia. Lo mettemmo lì a sedere, ma non sapevamo come comportarci. Iniziammo a parlare e finì che l’Ivana tirò fuori un po’ di Sangiovese… dopo qualche bicchiere Vittorio iniziò a tagliare il salame e finimmo a giocare a beccaccino. Poi fecero anche le tagliatelle, coniglio con patate arrosto e portarono anche altro vino. Solo la sera mi accorsi che non gli avevamo nemmeno tolto di dosso la sciabola…
O – Mentre la macchina sfrecciava alla volta di Ravenna in città c’era chi parlava di assalire i magazzini dei ricchi per distribuire le loro sostanze al popolo… Ma arrivò la grandine che spense gli animi e tutti si ripararono al coperto. Ma la vera pioggia ghiacciata che ci cadde in testa fu quella che arrivò di lì a poco quando tornarono loro da Ravenna…
G – Quando arrivammo a Ravenna non c’era più niente… I negozi erano aperti, la gente passeggiava per le strade… Che succede? Dove sono tutti?
P – La Confederazione del Lavoro ha deliberato la fine dello sciopero. Non c’è più nulla. È finita.
G – Che sciocchezze! E la rivoluzione? Il re fuggito? L’esercito in subbuglio?
P – Ma di che parli. Le sommosse sono state solo qui nelle campagne romagnole e marchigiane. Già a Ferrara non ne sapevano nulla.
G – Smettila di dire stupidaggini! Dove sono i compagni! Abbiamo le armi!
P – Tanto era stata grande e generale l’illusione della sommossa dell’intero popolo Italiano e l’instaurazione della Repubblica che non si volle crede alla notizia.
G – Che dici! Dobbiamo lottare, questa è la volta buona!
P – Vi fu anzi chi tentò di smentirla e dire che fosse stata divulgata da agenti governativi. Mentre altri esortavano la massa a non disperdersi.
G – E voi che fate!? Non mettete via le armi! Non ascolterete questo traditore di un monarchico! La vittoria sarà del Movimento Rivoluzionario! Viva la Repubblica! Viva la libertà!
P – La vita era già tornata alla normalità. I giovani deposero le armi e tornarono a casa. Ad aspettare che giungessero le ritorsioni. Era stato bello, ma in quei pochi giorni molti di loro erano stati schedati a vita come anarchici, pericolosi repubblicani e socialisti. Molti furono riconosciuti e arrestati. Ma la fine fu per loro ancora peggiore. Pochi mesi dopo scoppiò infatti la Prima Guerra Mondiale. I prigionieri politici, anarchici e insurrezionalisti furono liberati dalle prigioni e inviati nelle prime linee. Non gli fu dato il cambio guardia, mai. Rimasero là, a combattere una guerra decisa dallo stesso re contro cui avevano lottato. Gli misero un fucile in mano e li mandarono sulle Alpi. Gente che non aveva mai visto nemmeno una collina. Cresciuti nei campi e nella sconfinata pianura. Morirono tutti là. Quasi nessuno fece ritorno. Ma erano riusciti a compiere un’ impresa unica. Un’impresa che non ripeté più con quel candido fervore che li aveva animati. Avevano combattuto per la più nobile ed effimera delle cause perse. Erano stati liberi. Anche se solo per una breve settimana. Erano stati veramente liberi.
Camuffandosi di continuo dietro personaggi molto simili fra loro, per sensibilità e scenari, da circa un decennio Cristiano Cavina stila per noi una personale saga familiare ed esistenziale. Inutile Tentare Imprigionare Sogni è (vedasi l’acronimo) la storia del faticoso superamento della linea d’ombra di un adolescente imprigionato nella gabbia illogica di un Istituto tecnico. Non ci si muove mai dal piccolo mondo di Cavina – Casola Valsenio, Romagna collinare – persino Imola sembra, in questo libro, una terra esotica. Ma non c’è claustrofobia nelle sue pagine. Mai come con questo scrittore per raccontare l’universale occorre passare dalla provincia profonda.
Attorno a Creonti, un Dylan Dog grasso indaffarato a evitare interrogazioni come soldati in trincea evitano proiettili vaganti, vive una pletora di personaggi più che probabili se s’è cresciuti nella provincia contadina: ragazzi sradicati dai campi per un sogno di emancipazione sociale che, agli occhi dei genitori semianalfabeti, passa dal tornio o dall’officina. C’è Maria, fumatore dagli occhi di brace, c’è Oscar, bello e pluriripetente, il Conte Vlad, professore allo sfascio, e tanti altri. Tutti maschi, esclusi per destino classista (le ragazze stanno al liceo o a ragioneria), dal mistero del sesso.
Scrivere degli anni di scuola è terreno limaccioso. Lo dice lo stesso narratore: i racconti delle avventure altrui, così minime, divertono solo chi li racconta. È un errore tipico di ogni scrittore esordiente. Quello che per fortuna Cavina non è: non ostante pagine davvero esilaranti, non ostante una lingua colma di similitudini vertiginose, lo sguardo sul passato è completamente privo di nostalgia. Affiora invece un sentimento di melanconia crudele. Quelli dell’adolescenza sono gli anni dove ci giochiamo tutto, senza saperlo. Impreparati alla vita che verrà. Aperta la gabbia della prigione scolastica, quando saremo finalmente liberi, sapremo davvero spiccare il volo o resteremo con le zampe affondate nel nostro stesso guano?
(pubblicato precedentemente su Cooperazione, n 41 del 8 ottobre 2013)
di Giorgio Morale Per alcuni le cose inutili sono indispensabili
Emoziona già la dedica, nel nuovo libro di Chandra Livia Candiani (“La bambina pugile ovvero La precisione dell’amore”, Einaudi 2014, già su Nazione Indiana qui), che dice l’amore per tutto quanto costituisce il nostro essere nel mondo.
“… A chi amo, a chi mi ama, ai monaci della foresta, agli indifferenti e agli spaventati dell’amore e dell’amicizia, ai vivi, ai morti, e ai mai nati, ai sopravvissuti, a tutti gli oggetti del lavoro umano, tavoli, sedie e letti, e pane e vino, e orti, e a tutti i cari, furiosi o delicati, animali,… agli alberi vecchi e giovani, solitari e socievoli, al fondo del mare, alle onde una a una, ai granelli di sabbia, alle nuvole, alle montagne, ai sassi, alle conchiglie, ai fiumi, alla terra terra,… alla notte, alla luce, all’universo che non finisce…”.
(il brano fa parte dei testi che accompagnano la prima traduzione italiana di “Il loro sangue è forte”, di John Steinbeck, abbinata a fotografie di Dorothea Lange, Pentagora, 2013, 12 Є)
Questa fotografia, nota col nome di Migrant Mother (Madre Migrante), è l’immagine identificativa della Grande Depressione: mostra una donna che incarna la sofferenza di un’intera nazione, ma anche una madre che è ancora in grado di proteggere i suoi figli, nonostante tutto.
Ha scosso le coscienze individualiste degli americani e li ha obbligati moralmente a una reazione positiva di fronte a quello che stava accadendo: in altre parole, è diventata uno strumento politico di straordinaria efficacia.
Fu scattata dalla Lange a Nipomo, nell’Imperial Valley, nei primi giorni di marzo del ‘36: la fotografa stava transitando con la sua auto nei pressi di un campo che ospitava oltre duemila braccianti impiegati nella raccolta dei piselli precoci.
Il gelo aveva appena distrutto gran parte della produzione e la situazione stava peggiorando di giorno in giorno.
Appena fuori dal campo, in una tenda improvvisata sul bordo della strada, la Lange nota una donna con alcuni bambini; riprende la scena da lontano, poi si avvicina e dopo aver scambiato qualche parola con lei scatta ancora quattro foto: “Non ho chiesto il suo nome né la sua storia”, dirà molti anni più tardi la Lange. Del resto la FSA non aveva interesse a conoscere i nomi delle persone ritratte dai suoi fotografi.
Sul San Francisco News del 10 marzo vengono pubblicati un paio di quegli scatti. Li accompagna un articolo dal titolo eloquente: Cenciosi, affamati, falliti: i raccoglitori vivono nello squallore.
Il giorno successivo sullo stesso quotidiano appare un altro articolo con il ritratto ravvicinato della donna, dal titolo: Cosa significa New Deal per questa madre e i suoi bambini?
L’effetto è immediato. Al campo arrivano generi alimentari e vestiti, dottori e medicinali: la Migrant Mother aveva cominciato a manifestare il suo potere comunicativo.
Quel volto sofferente ma dignitoso negli anni successivi diventa familiare a milioni di americani: dapprima finisce sui pannelli illustrativi della FSA (si veda sotto, ndr), in giornali e riviste, successivamente viene riprodotto nei libri di scuola e diventa persino un francobollo.
Ma nel 1970 un giornalista scova la Migrant Mother e qualcosa nella storia si incrina.
Il suo nome è Florence Thompson, è nata nel 1903 nel territorio indiano della nazione Cherokee. Dunque non discende da eroici pionieri, ma da pellerossa deportati in Oklahoma dal governo americano nel 1838 lungo un cammino di sofferenza che verrà ricordato col nome di Sentiero delle Lacrime, costato ai Cherokee 4000 morti, altro che dust bowl!
Riguardo alla celebre fotografia, la versione che Florence dà dell’incontro con la Lange avrebbe creato a quest’ultima qualche imbarazzo: la Migrant Mother nota un’automobile nuova che si ferma davanti alla tenda e da cui scende una donna ben vestita che comincia a scattare fotografie. Le bambine si vergognano e si rifugiano dalla madre voltando le spalle alla fotografa.
Anche Florence è a disagio e si sente, come diremmo oggi, violata nella sua privacy: forse è per questo che in tutte le immagini ha un’espressione così dura.
Secondo Florence, la Lange avrebbe promesso di non pubblicare le foto, sostenendo che le sarebbero state comunque utili per ottenere degli aiuti per la gente del campo.
Per tutta la vita la donna aveva odiato quelle fotografie che le ricordavano un momento di grande difficoltà, da cui però era uscita con le sue forze e non con l’aiuto del governo americano: in altre parole, quegli scatti avevano fatto la fortuna della fotografa ma non quella del suo soggetto.
Solo nel 1983 la popolarità di quell’immagine porterà a Florence qualche tardivo beneficio: in pochi giorni di raccolta fondi i familiari ricevono oltre 25.000 dollari, necessari per offrire alla donna, malata di cancro, l’assistenza medica di cui ha bisogno e un funerale dignitoso.
Nel 1998 una copia della Migrant Mother autografata dalla Lange è stata venduta da Sotheby’s per 244.500 dollari.
(“Their Blood is strong”, ora tradotto da Pentagora, riunisce otto articoli di Steinbeck del periodo 1936-38 sui lavoratori migranti in California, e costituisce una specie di lavoro propedeutico a “Furore”. Il volume, molto bello e ben curato, riporta anche molte fotografia della Lange scattate per conto della “Resettlement Administration”, poi “Farm Security Administration”, in particolare documentando la fuga e la vita seminomade dei contadini che avevano perso la terra a causa della “Dust bowl”, catastrofica erosione del suolo dovuta alle lavorazioni con i trattori, e del loro conseguente indebitamento)
Questo film è nato dal sogno di tre persone, senza nessun produttore alle spalle. E ora quel sogno, per essere realizzato, ha bisogno del vostro aiuto.
Il verbo simultanare, coniato da Marinetti con il significato di rendere o evocare la bellezza della velocità e la magnificenza della frenesia, non ha goduto di grande fortuna: assente o quasi da vocabolari e repertori anche dell’epoca in cui il gran capo del futurismo era accademico d’Italia, tra gli scrittori usato sporadicamente o forse solo da Gadda per prendere in giro lo stesso Marinetti, perfino nel mio programma di scrittura appare sottolineato in rosso come un errore di battitura. Eppure la nostra società non solo simultana, ma simultana alla grande, continuamente, indefettibilmente.
Con l’esclusione di una piccola cerchia di tecnologi, di ricchi ( perché il denaro fa aggio anche sul simultanare) e di anestetizzati affettivamente, ciò oggettivamente fa di noi dei passatisti , ciascuno in misura maggiore o minore a seconda delle sue caratteristiche. Sicuramente il disadatto è più passatista dell’integrato, l’apocalittico più del riformista e il chiaro di luna più della tempesta perfetta, ma chi può dire in tutta coscienza di essere in grado di reggere il ritmo della simultanazione?
Il passatista guarda alle cose con pessimismo, ma questo non è un difetto del passatista, ma della situazione: infatti il passatismo si sviluppa con più frequenza quando il mondo futuro sembra richiedere un enorme sforzo di adattamento, anziché presentarsi come un mondo in cui sarà più facile adattarsi. Il difetto più grande del passatista non è dunque il suo pessimismo perché uno stato d’animo è un difetto passeggero, ma il fatto che, nostalgico del passato o costretto ad arroccarsi su di esso, non ne vede quegli aspetti che già richiamavano quel futuro che tanto gli spiace. Il suo difetto è cioè non capire il passato. Il vantaggio di questo difetto è che esso, a differenza del pessimismo, è emendabile, soprattutto ora che siamo quasi tutti passatisti.
Oggi ci troviamo a vivere in un mondo, come scrive Marc Augè nel suo L’antropologo e il mondo globale, in cui “l’ubiquità e l’istantaneità diventano l’ideale esplicito del mondo globale. Ora, lo spazio e il tempo sono la materia prima di ogni costruzione simbolica, di ogni impalcatura sociale e di ogni elaborazione individuale: l’organizzazione dello spazio e l’impiego del tempo definiscono e riassumono, fin dalla notte dei tempi, l’elemento essenziale delle attività umane.”. Se consideriamo questa osservazione sotto l’aspetto letterario e segnatamente narrativo, è possibile interpretarla come una forma di crisi dell’esperienza o meglio della possibilità del soggetto di fare esperienza e quindi di raccontarla. L’esperienza presuppone un tempo non istantaneo e una spazio non ubiquo. La crisi dell’esperienza, o addirittura la sua distruzione secondo Agamben, è un portato della costruzione della modernità ben prima che essa assumesse la forma globalista che oggi conosciamo.
Quello che l’ideale dell’ubiquità e dell’istantaneità porta con sé non è dunque un salto qualitativo, bensì un’accelerazione o un’intensificazione, che però rende più facile l’incontro con la realtà nella forma dello choc o della contemplazione fantasmagorica. L’esperienza con la sua lentezza narrativa fatica a trovare spazio, come se, dopo essere stata espulsa dall’ambito dei saperi scientifici e positivi, essa non trovasse più posto neanche nell’ambito della costruzione simbolica o culturale del rapporto del soggetto con il mondo. D’altra parte la costruzione di un senso, individuale o collettivo, dell’esistenza ha bisogno di questa elaborazione narrativa di ciò che si vive, che classifichiamo come esperienza.
Ovviamente questo stato di cose non ha una ricaduta immediata e meccanica sulla narrativa propriamente detta, però se prendiamo in considerazione alcuni autori come Houellebecq e Wallace, tra i più significativi della nostra epoca, è possibile notare tracce di tutto ciò. Nei romanzi di Houellebecq per esempio il protagonista vive una fase di pienezza di solito erotica, ma per il nostro discorso potrebbe essere di qualsiasi altro genere, che segue una fase di frustrazione e di cui in seguito viene privato dai capricci del caso, che siano la malattia oppure il terrorismo o l’intraprendenza di una ragazza troppo intraprendente. Caratteristica comune a questi personaggi è l’incapacità di uscire dallo stato di prostrazione in cui versano e di elaborare narrativamente la propria sconfitta, cioè di farne esperienza. Se vi è una qualche rielaborazione, essa è per così dire postuma e proviene da qualcuno che nella storia non c’entra.
Nel caso di Wallace abbiamo personaggi che letteralmente sono condotti al guinzaglio dai ritmi ossessivi di una società che fornisce in quantità industriale emozioni, attrattive, choc ed eventi di ogni genere, senza che sia possibile trovarne un senso o un filo conduttore. Sembra quasi che tutto cominci per la prima volta anche alla centesima. E in effetti essi si rapportano alla loro propria vita come un turista distratto al paese che sta visitando.
Anche nell’attuale successo della narrativa non finzionale o del romanzo documento è possibile ritrovare un riflesso indiretto della crisi dell’esperienza. La sottovalutazione da parte di questi autori dell’elemento finzionale e immaginativo della letteratura, notata da Paolo D’Angelo nella postilla contemporanea al suo Le nevrosi di Manzoni, e la contestuale fiducia nel fatto che la verità della letteratura risieda nel suo incorporare elementi del reale sono segni di una sfiducia nella narratività come elemento di comprensione del mondo. Infatti in letteratura la verità della narrazione non sta nella sua letteralità documentale, ma nella capacità di elaborazione simbolica del testo.
Mi sembra di poter dire che una delle contraddizioni più acute che vive la letteratura nella nostra epoca è quella tra le necessità di elaborare simbolicamente un senso della nostra vita oggi, e dunque verificare le possibilità dell’esperienza, e un’organizzazione sociale che attraverso la predominanza della virtualità ubiqua e istantanea tende a vanificare la possibilità e soprattutto la dicibilità dell’esperienza. Il sintomo dell’urgenza di questo lavoro narrativo è riscontrabile nella diffusa percezione del mondo come un caleidoscopio impazzito in cui tutto accade contemporaneamente perché appunto non c’è più esperienza della dimensione spaziale e temporale lente.
Tale percezione non è falsa in senso stretto, anzi ha una sua parziale verità, ma è solo una delle percezioni possibili e invece tende a diventare un assoluto. E’ assolutizzandola che diventa ingannevole. In questo senso la consapevolezza di non potere tenere il ritmo di questo mondo simultanante e l’accettazione del fatto che siamo superati continuamente mi sembrano le basi da cui un’esperienza può essere vissuta consapevolmente e può essere narrata. Questa consapevolezza è consapevolezza della propria finitudine. Solo nella consapevolezza della propria finitudine è possibile cogliere pienamente che, come nota ancora Augè, l’ubiquità e l’istantaneità non sono che due metafore di un dover essere irrealizzabile perché la vita invero continua ancora nei tempi e negli spazi che le erano propri.
Spero che mi si perdonerà la debolezza di concludere queste righe con l’auspicio che la narrativa diventi un terreno d’incontro tra lettori e scrittori non sprovvisti di o almeno in cerca di questa consapevolezza. Sarebbe la più attuale di tutte le circostanze inattuali.
Esplorando percorsi di acqua e di terra nella città metropolitana
Parco Media Valle Lambro. sabato 21 e domenica 22 giugno 2014
passeggiate guidate, spettacoli e concerti itineranti, presentazioni, lezioni.
Gli Esercizi di Psicogeografia sono stati previsti come momenti di sosta in un viaggio che, con il prossimo ampliamento del PMVL a Milano e Monza, ha come obiettivo la realizzazione di un parco metropolitano sul fiume Lambro di 6,6 milioni di mq. Gli Esercizi hanno lo scopo di dilatare i nostri sensi, di ampliare i nostri orizzonti, di costringerci a guardare “dritto negli occhi” ciò a cui abbiamo sempre voltato le spalle.
Saranno protagonisti del WE: gli scrittori Gianni Biondillo e Michele Monina, l’architetto Sebastiano Brandolini, il regista Giuseppe Baresi, il giornalista Saverio Paffumi, la paesaggista Elisabetta Bianchessi, i comici Rafael Didoni, Germano Lanzoni e Flavio Pirini reduci dal recente successo allo Zelig, l’attore Walter Leonardi con la band Rom-brianzola dei Gogol borghezio e la fanfara più originale, i Contrabbanda.
“Informazione non è conoscenza, conoscenza non è saggezza, saggezza non è verità, verità non è bellezza, bellezza non è amore, amore non è musica. La musica è il meglio”.
— Frank Zappa
1970
22 gennaio: viene collaudato il primo volo commerciale del Boeing 747 da parte della Pan Am.
17 aprile: l’Apollo 13 della Nasa rientra a terra con uno splashdown sull’Oceano Pacifico e salvataggio dell’intero equipaggio.
8 maggio: esce Let It Be, ultimo album dei Beatles.
13 ottobre: negli Stati Uniti viene arrestata Angela Davis, già assistente del filosofo Herbert Marcuse e militante delle Black Panthers.
A dicembre in Italia è approvata la legge 898 “Fortuna-Baslini” che introduce in Italia il divorzio.
Il 21 dicembre Frank Vincent Zappa compie 30 anni.
Qualche mese prima, in agosto, viene dato alle stampe il nono album di Zappa e settimo con le Mothers of Invention. Registrato pressoché dal vivo e quasi interamente strumentale, possiede oltre alla solita ironia (Prelude To The Afternoon Of A Sexually Aroused Gas Mask, con il lungo assolo di risata e il singolo My Guitar Wants To Kill Your Mama), un omaggio a Eric Dolphy (The Eric Dolphy Memorial Barbecue) e una strepitosa copertina firmata da Neon Park.
Nato Martin Muller, il 28 dicembre 1940 (sette giorni dopo Zappa), cresciuto a Berkeley, come tutti gli adolescenti ama la lettura (On the Road di Jack Kerouac lo lesse tredici volte) e la musica rock. Inizia a lavorare come pittore con i Family Dog, un gruppo di design di San Francisco che produce poster per i concerti dei gruppi psichedelici degli anni Sessanta. In onore del suo affetto per i colori incredibilmente elettrici gli viene dato il nome di Neon Park. Mentre lavora a questa serie riceve una telefonata da Frank Zappa che gli chiede di scendere a Los Angeles. Zappa era rimasto impressionato dai disegni di Park realizzati per un gruppo chiamato Dancing Food. Così invitò l’artista a disegnare la copertina per l’album delle Mothers of Invention Weasels Ripped My Flesh. Il titolo viene da un articolo apparso nel 1956 su una rivista maschile, «Man’s Life», che Zappa mostra a Park. La copertina raffigura un ragazzo che si trova a torso nudo in uno stagno d’acqua brulicante di donnole, tutte arrampicate su di lui mentre lo mordono e gli squarciano la pelle. Così Zappa disse: “Questo è quanto. Cosa si può fare peggio di così?”
Cover di «Man’s Life», 1956Pubblicità dei rasoi elettrici Schick, «Saturday Evening Post»,Ottobre 1953
Park prende spunto da quell’immagine e frulla insieme una pubblicità degli anni Cinquanta sui rasoi da barba elettrici Schick, le donnole assetate di sangue, una pittura di ispirazione anni Quaranta (Gil Elvgren divenne un suo riferimento iconico in più riprese) e la pop art con i balloon di Roy Lichtenstein. Lo stile di Neon Park ricco di elementi popular e riferimenti surrealisti è accomunato al movimento della Lowbrow Art, sorto proprio attorno al 1970 a Los Angeles, da un mix di autori di fumetti underground («Zap Comix»), musica psichedelica e hot-rod, intriso di umorismo malizioso e sarcastico che ha dato vita, in seguito, alla corrente pittorica del Pop Surrealism.
Articolo di «Man’s Life»,Weasels Ripped My Flesh, 1956.
Il dipinto di Park, per il quale è stato pagato 250 dollari, rischia però di non vedere la luce. Zappa si scontra con la Warner Bros. per l’idoneità della copertina.
Frank Zappa e Mothers Of Invention Weasels Ripped My Flesh, 1970, cover di Neon Park
“Evidentemente”, dice Park in un’intervista degli anni Ottanta “ci fu un bel confronto su questa copertina. Non doveva essere nei loro standard anche se oggi sembra abbastanza addomesticata”. Anche dopo che la Warner Bros. acconsentì ad usarla, ci furono molti problemi. “Il disco stampato fu ritenuto offensivo ma io sono rimasto molto soddisfatto e divertito dal risultato della copertina, e così è stato per Frank”, dice Park. “Voglio dire, abbiamo ridacchiato molto”.
Roy Lichtenstein Drowning Girl, 1963Gil Elvgren Your Favorite, 1957
John Williams (amico e collaboratore per quindici anni di Zappa) ha dichiarato recentemente che la copertina originale come prevista da Zappa era l’immagine dipinta da Neon Park con la sola parola “Rzzzz” nel balloon. I dirigenti della casa discografica avevano preso le distanze sostenendo che non potevano investire sull’album senza un documento di identità per la band e Zappa andò al tappeto. Così i discografici cercarono un compromesso tra l’immagine considerata oltraggiosa e l’aggiunta di altri balloon con dentro altre scritte identificative, “The Mothers of Invention” e “Weasels Ripped My Flesh”. In Germania il disco venne pubblicato con una copertina differente perché, appunto, ritenuta offensiva. Disegnata da Dieter Boé, la cover, tutta argento e verde, raffigura una bambola di metallo incastrata in una trappola per topi (German “Doll” Cover) che non venne mai approvata ufficialmente da Zappa.
Cover tedesca di Weasels Ripped My Flesh disegnata da Dieter Boé detta German “Doll” Cover
Park proseguirà la sua carriera senza più incrociare Zappa. Disegnerà copertine e grafica per David Bowie, Dr. John, Beach Boys, ma la sua collaborazione più proficua sarà con i Little Feat e il suo leader Lowell George, per i quali dipinse tutte le copertine a cominciare da quella per l’album Sailin’ Shoes, che nel 1991 è stata nominata da «Rolling Stone» tra le migliori 100 copertine nella storia del rock.
Little Feat Sailin’ Shoes, 1972, prima cover disegnata da Neon Park per il gruppo di Los AngelesCover del volume Somewhere Over The Rainbow: The Art of Neon Park (2001, Last Gasp)
Nel 1992, dopo un peggioramento durato un decennio, gli verrà diagnosticata la sclerosi laterale amiotrofica (SLA conosciuta anche come morbo di Lou Gehrig). La risposta al medico che gli comunicò la malattia fu: “Non ho mai giocato a baseball”. Park ha continuato a lavorare fino a quando la sua malattia non gli permise più di dipingere, così si è concentrato sulla scrittura di poesie, digitando con un dito sulla tastiera, quando non poteva più tenere in mano una penna.
Martin Muller muore il 1° settembre 1993, all’età di 53 anni; tre mesi dopo, il 4 dicembre, se ne va anche Frank Zappa.
Tre anni più tardi, in suo onore i Little Feat pubblicano l’album Live from Neon Park. Nel 2001 esce Somewhere Over the Rainbow: The Art of Neon Park edito da Last Gasp di San Francisco e La Lus de Jesus Gallery di Los Angeles, un libro che rende omaggio a uno dei più grandi pittori del periodo d’oro del rock’n’roll. La copertina del volume è Weasels Ripped My Flesh.
Quarta di copertina del primo numero di «Frigidaire», 1980 disegnata da Tanino Liberatore
In un cerchio infinito, come un nastro di Moebius, nel 1980, Tanino Liberatore rende omaggio, sulla quarta di copertina del primo numero di «Frigidaire» allo stile e all’idea di Park per l’album di Zappa. Lo stesso Zappa contatterà Tamburini e Liberatore (creatori di Ranxerox) per la cover di The Man From Utopia. Ma questa è un’altra storia.
Frank Zappa The Man From Utopia 1983 cover disegnata da Tanino Liberatore
Lei mi chiede di dirle qualcosa di me. Intanto la ringrazio per l’interesse e la disponibilità; poi, come si fa spesso quando ci si presenta, le dico cosa faccio per campare: sono un operaio meccanico, aggiusto auto, o almeno ci provo (proprio ora, le sto scrivendo dal computer dell’officina, mentre fingo di eseguire una diagnosi a una Xsara Picasso). Lavoro a Roma e vivo fuori dal Raccordo, sono sposato e non ho figli. Ho una laurea in Teoria della Letteratura, conseguita tanti anni fa, in un pomeriggio di Luglio, un Luglio maligno che mi bruciava la pelle e mi faceva sudare.
Il presidente della commissione era un tizio piccolo e sorridente, aveva baffi folti e grigi, e un gilet pieno di tasche, tipo quello dei pescatori o dei cercatori di funghi. Inoltre, indossava un paio di pantaloni color avana e sandali consumati che mostravano alluci grossi e fastidiosi.
Io rimasi sorpreso da tanta sciatteria, e rimasi sorpreso anche da questa parola che mi venne in mente, sciatteria appunto, una parola che non usavo mai, che quasi mi sembrava classista, ma poi mi venne in mente che, insomma, uno non può mettersi a controllare anche i propri pensieri.
Pensai “Cazzo, questo è un presidente di commissione, perché io sono qui con una camicetta e righe mentre lui sembra uscito da Easy Rider?”
E mi scusi, mi scusi sul serio signore se uso parolacce e se getto fango su uno che potrebbe essere un suo collega… Almeno credo insomma; in fin dei conti cos’è che separa un editore da un professore universitario? Magari il metodo; possibile?
Ad ogni modo, lui se ne stava lì, con questo suo volto simpatico e accogliente, così tanto che non fui capace di sentirlo antipatico, oppure ostile. Pensai “Va bene, lui è il presidente, e i presidenti si sa che comandano, io devo solo trovare una fine sensata, una fine burocratica, che dia una ragione a cinque anni di solfeggi mentali, e questa fine si chiama laurea”. Così passai una mano sulla mia fronte e asciugai il sudore di quel mese di Luglio bollente.
Allora quando venne il mio turno, penultimo della giornata, non pensai troppo a Robbe-Grillet, e nemmeno a Butor e al romanzo in seconda persona. No, mi concentrai sulle tasche del gilet del presidente, e la cosa più incredibile fu che questo mi aiutò a fare una figura decente, a superare l’ansia e i timori, a pronunciare in maniera credibile quelle formule che mi permisero non solo di sostenere il gioco, ma anche di simulare una specie di brillantezza che, in realtà, non mi è mai appartenuta.
Arrivai quasi al centodieci, e mi sentii in gamba, mi sentii promosso, pronto, preparato per qualcosa di buono.
Capisce signore? Non so riesce a intendermi, è una sensazione particolare… voglio dire, almeno per me lo è stata. Se ci penso ora, dopo tanti anni e tanti cambiamenti, spiegare non è facile.
Poi, devo essere sincero, so bene che tutto questo sa di ricordo, malinconia, quasi rimpianto; ma vorrei trovarne una, di persona, una soltanto in questo emisfero occidentale e grasso, che non rimpianga certi trascorsi, o che non li abbia idealizzati almeno un po’.
Ognuno si costruisce la sua filosofia, una visione della vita, ed è tutto da dimostrare che quella di un professore sia migliore di quella di un commesso di Ikea; anche perché, vede, i tempi sono cambiati, e capita sempre più spesso che i due siano la stessa persona.
Pressappoco è quello che è successo a me, che da dottore in lettere e filosofia sono passato magazziniere, poi redattore in una minuscola casa editrice, quindi docente per scuole e sottoscuole, e infine, ormai da tanti anni, operaio riparatore-manutentore in un’officina di Montesacro, Roma.
Meccanico, signore… in poche parole, un meccanico. E anche qui mi ci è voluto il titolo di studio, che il Gruppo ’63 non bastava come credenziale, e nemmeno tanti anni di apprendistato nell’officina di mio padre: no, m’hanno detto che per avere la qualifica ci vuole il corso, proprio come in Germania, lì sì che sono civili, lo sanno tutti, anche un mio amico me lo diceva sempre, che in Germania c’è un corso per qualsiasi cosa, anche per pulire il culo ai vecchi, usava quest’espressione. Infatti, poi, è andato a finire a Berlino e nelle e-mail mi dice sempre che le mignotte per strada hanno una specie di divisa e rilasciano una ricevuta. Io non so se credergli, ma è un amico, e pare che agli amici si debba credere.
Ad ogni modo, mi scusi per la divagazione, signore; riprendo il discorso dicendo che sono finito meccanico perché non ho trovato nulla di meglio da fare e perché amavo una donna e detestavo l’idea di avere un padrone per tutta la vita. Ecco, di questo vado orgoglioso, posso affermarlo, del mio orgoglio, appunto.Detto questo, però, che coglione che sono stato! Il lavoro, l’ho capito troppo tardi, non nobilita l’uomo, lo rende debole e arrabbiato. E impotente, soprattutto di questi tempi. E allora ci vuole un attimo a sentirsi schiavo e a passare un’esistenza sognando bombe e attentati mentre ogni giorno si prende il treno alle sette e dieci di mattina.
Per quel che ne so una volta non era così: raccontano – i libri, le riviste, i film – di una fierezza e di una felicità da tute blu, di una dignità da sberleffo, di schiena dritta e sguardo consapevole… Con l’idea che un’ideologia, o magari due, possano essere speranza e futuro, progetto, emancipazione e libertà.
Però, signore, perché tutto questo ormai suona così male, ormai, quasi ridicolo e amaro?
E io, io che vivo questi anni, non so che farmene di mitologie e fumetti… E quando scendo dal treno, alla stazione Nomentano, non ho pensieri profondi per la testa, e nemmeno coscienza di classe… Forse, addirittura, nemmeno più una classe; al massimo, l’immagine precisa della ragazza schiacciata addosso a me, in piedi, tra un vagone e l’altro, in mezzo alla calca, in una specie di erotismo da pendolare.
La verità è che, dopo appena dieci minuti a piedi, arrivo in officina e indosso anche io una tuta, ma non è detto che sia blu, e non è detto nemmeno che sia della taglia giusta… Poi, soprattutto, ho un’espressione stanca e irritata, anche se non sono ancora le otto. Dovrebbe vedermi… o forse no… insomma faccia lei. Sono lì che indosso un paio di guanti, di quelli usa e getta, lattice mi sembra, o qualcosa del genere, e mentre ragiono di bestemmie con me stesso mi viene in mente la poetica degli oggetti, la realtà materiale e fenomenologica, Husserl e compagnia bella, insomma un sacco di cose di cui in realtà non importa una mazza né a me né a quelli con cui lavoro. Qui di oggetti ce ne sono fin troppi, e non c’è bisogno che venga un filosofo a dirci che essi sono la realtà: lo sappiamo benissimo, ce ne accorgiamo quotidianamente, ma l’unica cosa che interessa, in fin dei conti, purtroppo o per fortuna, è il maledetto stipendio.
Proprio come alle elementari: ricavo meno spesa, uguale guadagno.
Questa è l’unica questione da tenere sempre alla ribalta, che merita una discussione, e magari anche un’alzata di voce.
Un meccanico, un operaio, vive di oggetti, o almeno vive con loro, e che essi stabiliscano una specie di dialogo con lui è una cosa ovvia, scontata, che non ha nemmeno bisogno d’esser ricordata. Si combatte con gli oggetti, oppure ci si affida completamente a loro, proprio come accade con gli amici in carne e ossa, secondo dinamiche molto simili. Parlo di attrezzi, macchinari, computer, centraline e pezzi di ricambio.
Toccare è fondamentale in questo mestiere, ma magari è la stessa cosa per molti altri lavori… In fin dei conti mitizzare qualcosa, raccontarlo come unico e inafferrabile, è il modo migliore per neutralizzarlo e renderlo anonimo e innocuo. Ora sono qui e non faccio mica nulla di eccezionale, e mi pare evidente l’errore sostanziale di Marx: come poteva sperare che qualcosa di buono potesse venir fuori da gente come me?
Faccio avanti e indietro sotto la pancia di una Polo, il guanto sinistro ha uno sgarro sull’indice e a terra la segatura si mescola con gocce di olio e polvere; sotto le scarpe anti-infortunio sento scricchiolare una poltiglia grumosa che, appena avrò finito qui, spazzerò via con la scopa.
Per staccare la testina del braccio oscillante dal fusello della ruota, bisogna svitare il dado da diciannove, di solito con una chiave a occhio. Io lo faccio, in piedi sotto al ponte sollevatore; ho la mano sinistra posata sul fianco e fischietto un motivo di Santo e Johnny, molto popolare all’inizio degli anni ottanta grazie al film per cui faceva da colonna sonora, un film con Bud Spencer di cui ora non ricordo il titolo. Ero poco più di un neonato allora, ma conosco perfettamente questo brano perché anche mio padre ha passato la sua vita a fischiettarlo mentre lavorava.
Ecco una perfetta rappresentazione della scalata sociale nel nuovo millennio. Sarà per il post-moderno, per questa cosa della storia che è finita, o per la natura barbara di ogni persona che svolge un lavoro manuale, come il sottoscritto. Intanto il dado è uscito completamente dalla filettatura della testina, lo poso sul carrello e prendo due mazzette. Questo, tra tanti e molto diversi tra loro, è il lavoro che maggiormente detesto: schiodare una testina.
Il motivo è che mi è successo di farmi male, all’incirca due anni fa, proprio svolgendo questa operazione. Una volta tolto il dado, infatti, la testina resta infilata nel fusello, con una pressione enorme, “ammappata” come diciamo in officina, con un linguaggio che non so se definire slang, dialetto, codice o chissà cos’altro. Per staccarla, dunque, è necessario colpirla molto forte in un punto preciso, stando attenti a non colpire altro, ad esempio il disco. Per fare ciò è necessario usare due mazzette: una, più piccola, da tenere appoggiata con la mano sinistra sul punto da battere; e un’altra, più grande, da usare per colpire violentemente sull’altra. Ed è qui che subentra il fottuto problema, il motivo per cui, appena posso, evito di fare questa cosa.
Perché vede, signore, mazzetta contro mazzetta rischi che parta qualche scheggia di metallo da una delle due. Pezzi acuminati e veloci che nemmeno li vedi. È proprio in questo modo che mi sono fregato il dito, qui dove ormai c’è un perenne formicolio: io battevo e battevo, perché non è che venga tutto al primo colpo… Battevo e battevo, un po’ mi piaceva sinceramente, c’è sempre questa cosa che abbiamo noi uomini di poter sfogare fisicamente un po’ di aggressività… che cazzata che è, lo so bene, ma a volte quanto ci piace fare le cazzate… Comunque sono lì che mi diverto a colpire quando all’improvviso sento una schicchera sul dito, nulla di troppo doloroso, ma come un sassolino che ti pizzica la pelle. Poso le mazzette e guardo la mano, il guanto è bucato e c’è un po’ di sangue. Allora lo sfilo per vedere meglio, e sembra solo un taglietto, nulla di importante insomma. Impreco un po’, come è giusto che sia, mentre vado a mettere la mano sotto l’acqua fresca. Infine, applico un cerotto sul dito, dopo averlo pulito col disinfettante.
Riprendo a lavorare, anche se ho un po’ di fastidio. E a fine giornata, dopo essermi lavato e cambiato, ho un dito che sembra un panino, gonfio e livido, e io lo guardo mentre pulsa come se ansimasse. Sono costretto ad andare al pronto soccorso, anche se so che dovrò aspettare per ore.
Infatti me ne sto seduto in sala d’attesa dalle otto di sera fino a mezzanotte e mezza. Ogni tanto Sara mi telefona per chiedermi come vanno le cose, se è il caso che debba venire a farmi compagnia. Io le dico che va tutto bene e che no, è meglio che non venga, che se ne vada a dormire e ci vediamo più tardi.
Io sono un codice verde, e allora vedo passarmi davanti quasi tutti. Quello conciato peggio è un tizio che arriva sulla sedia a rotelle, con la testa fracassata e il corpo pieno di sangue. Il padre è dietro di lui che piange, ma è un pianto preoccupato, non disperato, di quelli che in qualche modo nascondono la presenza, ancora, di speranza. Il figlio è cosciente, ma bianco come la neve. Lo osservo e credo di non aver mai visto tanto sangue in vita mia. Come cazzo fa a non svenire, mi chiedo. Nell’aria si diffonde, dopo pochi minuti, l’odore del sangue che si va seccando sui suoi vestiti.
“Ma non vi fanno entrare subito?” chiedo al padre.
Lui mi guarda con gli occhi ancora lucidi e lo sguardo stralunato, come se uscisse da una dimensione in cui si era infilato perfettamente.
“Sì” mi dice, “hanno detto che è questione di pochi minuti”. Nemmeno finisce di pronunciare queste parole, che subito arriva un infermiere che afferra la carrozzina e porta dentro il ragazzo.
Dice al padre di restare fuori. Lui prima guarda l’infermiere, poi torna a sedere e guarda me con rassegnazione. Mi dice qualcosa, ma stavolta sono io a essermi isolato. Rispondo con un sorriso di circostanza e mi alzo per andare fuori. Penso che vorrei non aver mai smesso di fumare, e avere sigarette adesso, con questo dito gonfio e sonnolento, goffo e impacciato, pronto per una fine ingloriosa e anonima, in un pronto soccorso di periferia, a mezzanotte.
Nel frattempo la gente continua a entrare e uscire, è incredibile quante persone si facciano male… oppure no, è perfettamente credibile, invece. Arrivano donne e uomini di tutte le età, e soprattutto un sacco di stranieri, tutti dell’Europa dell’est.
In sala d’attesa si chiacchiera: si raccontano gli incidenti e soprattutto si parla di malasanità, di comportamenti scandalosi e raccapriccianti di medici e infermieri, di quanto siamo tutti trattati di merda nonostante paghiamo le tasse.
Io penso che delle tasse non me ne frega niente; penso, piuttosto, che all’essere umano piace raccontare, e questo non è né un bene né un male. Penso che ovunque, anche qui dove siamo tutti acciaccati e doloranti, la gente non fa altro che raccontare, inventando pure un sacco di stronzate, mentendo insomma, e tutto questo per rendere migliore il proprio racconto. A cosa serve tutto questo, mi chiedo, mentre il dito mi formicola e si addormenta sempre di più.
Non lo so, magari a niente, ma è esattamente così.
A mezzanotte e mezza, finalmente, mi fanno entrare. Dopo avermi fatto una lastra, la dottoressa mi dice che ho una scheggia di quasi mezzo centimetro infilata nel dito indice, nel punto in cui questo si attacca al palmo della mano.
Mi dà un foglio da firmare e mi dice di tornare due giorni dopo per una piccola operazione in cui la scheggia mi sarà estratta. Poi mi dà dell’antibiotico da prendere due volte al giorno.
Io dico che non ci torno tra due giorni, che voglio che la scheggia mi venga tolta adesso e che non posso mica lavorare con un dito conciato in quel modo.
Lei risponde che non può farci nulla, che toglierla adesso non è possibile, perché si tratta di una cosa delicata, che bisogna fare in ambulatorio e bla bla bla.
Io dico che cazzo.
Lei nemmeno mi guarda.
Io dico allora facciamola domani, non posso aspettare due giorni. Facciamola domani.
Lei, di nuovo, nemmeno mi guarda. E mi dice domani no. No perché è già tutto pieno.
“E si renda conto”, conclude, “che lei è anche fortunato: avrebbe potuto aspettare anche molto di più”.
“Certo”, rispondo, “sono proprio fortunato, io”.
Scendo dal lettino sui cui ero seduto e me ne vado pensando di avere un gran culo.
Vede signore, cosa significa mazzetta contro mazzetta?
Due giorni dopo mi tolsero una scheggia tozza e squadrata da questo dito indice, questo dito indice che non si è più svegliato del tutto, che continua a rimandare, pigro e svogliato come in un pomeriggio di luglio. Io ogni tanto penso beato lui, che può dormire o almeno riposare, sonnecchiare come i gatti sui pavimenti dei salotti.
Lo penso anche adesso, mentre batto di nuovo mazzetta contro mazzetta; ma questa volta non mi faccio male, al secondo colpo la testina si schioda e io posso estrarla dal fusello. Posso abbassare il braccio oscillante e far uscire il semiasse, finalmente. Lo poso sul bancone e chiamo il ricambista per ordinare il pezzo. Mentre aspetto, prendo la scopa e inizio a pulire. Al contrario di ciò che la gente crede, in un’officina la pulizia è fondamentale.
Arriva una Opel Astra vecchia e ammaccata. Entra di retromarcia e si ferma al centro dell’officina.
Miralem, il ragazzo dello sfascio, scende e lascia lo sportello aperto. Va verso mio padre e gli dice: “Oh, sciao, ho portato cambio che tu volevi. Quello Nissan Micra… Alla fine abbiamo trovato”. Nel dire queste parole sorride e compie un gesto esplicativo: porta la mano destra all’altezza del petto, di taglio, e l’abbassa velocemente verso il basso, come a spingere qualcosa.
Ripete il gesto un paio di volte, per essere chiaro, e noi capiamo tutti che non serve fare domande sulla provenienza di quel cambio.
Io finisco di spazzare, mentre Miralem, mio padre e un altro operaio tirano giù il pezzo dal portabagagli dell’Opel Astra.
Adesso, signore, ho un momento di pausa, fino a quando non arriverà il semiasse nuovo che ho ordinato. Allora dovrò riprendere il lavoro.
Ora posso uscire un attimo da questa officina di lampade al neon, appoggiarmi sulla porta e magari guardare un sole primaverile che litiga con le nuvole. Ma, devo essere sincero, non fa per me: non ho nessun particolare affetto per il cielo, e non trovo nessuna particolare consolazione nei raggi del sole. Al massimo, la promessa di un buon umore, questo sì.
Per oggi è questa la prosa, oppure la poesia maldestra e rimandata, dipende dai punti di vista; è questa comunque la letteratura: di braccia e gambe, di olio e semiassi, di parolacce e scontri sulla leva da scegliere per estrarre un iniettore. Fino al fine settimana e al sospiro di sollievo. E poi di nuovo un lunedì nero, e mazzetta contro mazzetta cercando e sperando di evitare le schegge.