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Tariffe

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Di Giorgio Mascitelli

 

Alba di Milano e io lavoro. Alba di Milano e io già in piedi. Alba di Milano in cielo e io già sui mezzi a terra. Alba di lavoro a Milano che io sono qui per questo.

Signora, signora non è che mi si agita? Non è che mi si agita perché quello lì è scappato senza avere il biglietto. Non si preoccupi,  quello lì è un portoghese. Signora, ce l’ ha presente i portoghesi?  Finito, il tempo dei portoghesi è finito, non c’è da preoccuparsi. No problem. Il portoghese ha i giorni contati. I portoghesi sono morti e non lo sanno e camminano e scappano ancora e si ostinano, vitalismo di pretta marca bergsoniana. Certi cadaveri dopo morti continuano a farsi crescere le unghie e i capelli, idem i portoghesi. Canzone preferita del portoghese: mi ritorni in mente bella come sei, ma soprattutto mi ritorni in mente. I portoghesi è come dire i ladri di biciclette. I portoghesi è come dire gli scioperi, sì magari addirittura i tranvieri in sciopero. La statistica dice di quello lì che se non sarà preso oggi, sarà preso domani e pagherà una multa più cara di qualsiasi tariffa di abbonamento. Così dice la statistica e così credo io. Signora,guardi l’alba: alba striata di Milano decorata dall’inquinamento, altro che luce grigia, alla Bigazzi,qui c’è il rossore che si perde oltre l’orizzonte, cioè oltre la città. Dove lo trovano il biancoenero, il grigio, il chiaroscuro, io mi domando, dove? Dove potrà fuggire il portoghese in quest’alba striata di rosso? No, il tempo dei portoghesi è finito e basta. Ma forse lei, signora, è troppo giovane e non ricorda il tempo dei portoghesi.

Cioè lei magari, signora, adesso crede che io sono un controllore:  molto di più di un controllore, signora, io sono dissuasore.  Lei continua a credere che quel portoghese se ne sia andato, scappato, che abbia fottuto il campo, ma in realtà non è andato da nessuna parte. Girerà per un po’, prenderà un’altra linea, scenderà cercando di incrociare qualche altro mezzo che lo porti alla meta, magari sfuggirà ancora a qualche collega ( una giornata fortunata non si nega a nessuno) e alla fine dopo tre ore arriverà alla sua meta, ammesso e non concesso che un portoghese possa avere una meta. Questa città si perde oltre l’orizzonte, ma nell’epoca odierna tre ore è come andare a piedi e lei mi insegna che nell’epoca odierna i tempi di connessione sono tutto. Non c’è città che tenga, non c’è orizzonte che tenga, non c’è tariffa che tenga di fronte a tre ore, probabilmente il tempo che impiegava mio nonno con la cavagna sulle spalle ricolma di prodotti nostrani per andare alla fiera dell’Est. Io sono un dissuasore, se controllo il biglietto, è solo per amore delle tradizioni, per rassicurare lei e gli altri passeggeri onesti. Oggi si fa diversamente: per esempio qualche giorno fa ero di servizio in metropolitana e lì il controllo avviene sul mezzanino. Bene un portoghese scende dal treno mi vede, torna in banchina e prende il treno per scendere alla stazione successiva; io me ne accorgo, avverto i colleghi che lo aspettino lì e lui come li vede, torna di nuovo in banchina e prende di nuovo il treno e così ad ogni stazione fino al capolinea. Al capolinea ci sono anch’io, ma  lui resta sul treno e torna indietro e cerca di nuovo di fare lo stesso gioco, ma anche io faccio lo stesso gioco: alla fine lo acchiappo io all’altro capolinea, a cui lo avevo rispedito, e nel comminargli la multa gli dissi “se lei si ostina a non convalidare il documento di viaggio, in futuro le commineremo altre multe”.

E il portoghese mi guarda storto, ma poi si mette a piangere, quando si accorge che nessun controllore teme più i portoghesi perché l’orologio dello sviluppo li ha superati e che io sono un dissuasore e per un dissuasore non c’è nessuno da temere, semmai da intimorire. Ma il controllo non è che la fase iniziale, la preistoria, della circolazione e delle attività di dissuasione. L’obiettivo è dare un nuovo ordine alla circolazione in cui tutto procederà con naturalezza senza bisogno di alcun intervento censorio e i giovani cederanno i posti a sedere agli anziani, chi deve scendere per ultimo non si metterà stolidamente davanti alle porte, nessuno avrà accessi di flatulenze che disturbano gli altri viaggiatori e i matti in metro staranno zitti. La mia e quella degli altri colleghi sarà semplicemente una presenza amichevole o meglio ancora una presenza e basta. Attraversare la città sarà un sogno dal quale non si vorrà essere svegliati e anche i forestieri resteranno incantati a salire per la prima volta. I tempi di connessione che verranno allora saranno tempi d’oro.E chi non ha i soldi se ne starà a casa sua. Sì, magari qualche portoghese lo terremo in attività, giusto perché i più giovani di noi facciano pratica. Sarà un lieto diversivo anche per i viaggiatori la caccia al portoghese residuo. E con questi mezzi la città non sarà più Milano, ma veramente una nuova Atlantide e dove arriverà un nostro mezzo lì sarà la città e poco a poco allora Milano non verrà più chiamata solo Milano, ma la Milano celeste, sul modello di quella marittima. E tutti  nel prendere il passante ferroviario si compiaceranno di questo curioso ossimoro di un passante celeste che va sottoterra. Una città celeste senza limiti di spazio e di tempo e non so perché quando penso così mi vengono spontanee le parole del poeta: tutta mia la città, un deserto che conosco, questa notte un portoghese piangerà.

Il tempo dei portoghesi è davvero finito e anche loro lo sanno, non vorranno insistere e spariranno come il serpe velenoso al ritorno della nuova età. Nulla è più sicuro: infatti se i portoghesi non esistono più, non potranno certo prendere il tram o l’autobus o il metro senza pagare, giacché se lo facessero, avremmo di nuovo dei portoghesi e abbiamo visto che essi non esistono più. Essendo in meno, si viaggerà più comodamente. Avremo una città bellissima senza limiti di circolazione, con tempi di connessione rapidissimi sostenuti da tariffe vantaggiose e semplicemente i portoghesi non ci saranno.

Signora, non vorrei mai che lei mi prendesse per uno di quegli utopisti dei secoli passati che se la menavano tutto il giorno con i loro sogni. Tutto non accadrà subito. Ci saranno dei problemi. C’è da rimboccarsi le maniche. Signora, proprio ieri su questa stessa linea …. A proposito, signora lei ce l’ha il biglietto? Non è mica per essere malfidenti, però sa anche lei come dice il proverbio: amor ch’al cor gentile ratto s’apprende.

Ecco, infatti a pensar male si fa peccato, ma quasi sempre ci si prende. Lei ha il biglietto valido solo per la tratta urbana e  siamo nella prima semizona extraurbana. Le devo applicare la soprattassa.   Non si rifiuti, non inizi a polemizzare, proprio con me che non voglio far polemiche, piuttosto che far polemiche me ne vado, come quella volta che ho urtato un ciclista con l’auto e quello polemizzava e io me ne sono andato. Guardi lasciamo perdere che è un’ingiustizia che già la parola ingiustizia mi innervosisce. Senta, lo so vedo anch’io che qua dove siamo ci sono case e negozi, come a Milano; senta adesso io stendo il verbale, però non è che mi ripete ogni tre secondi che  è un’ingiustizia,eh? A me non mi interessa niente che questa è un’estensione di case a cui si sono dati per finta nomi diversi. Adesso è colpa mia se la città lì è finita? Magari la città sarà anche unica, ma le tariffe sono differenti. La città ha i suoi limiti che sono le tariffe e questi limiti si possono superare, pagando però. Secondo me, lei continua con questa storia dell’ingiustizia, perché non è una sportiva, se no saprebbe che la lealtà è alla base di ogni sano spirito agonistico.

Ancora? Adesso basta! Oh l’ho dovuta abbattere.

Un frammento, due ritratti

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di Davide Orecchio

Accidenti, lenzuolo!
Mi sveglio, m’alzo e scopro che sei una memoria.

bosco

FRAMMENTO
Ecco gennaio con la pioggia sui vetri e la ghisa che s’intiepidisce nella dimora. L’inverno è il ripostiglio di piccole cose, gesti minuscoli. A. sostiene un esame. S. compra un vestito e un computer. A Maccarese mangiano frittura di pesce. L’inverno è la teoria della vita, l’ansia e il progetto; è scrittura.

Dialoghi per l’anno che verrà

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Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere

Vend. Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi. Bisognano, signore, almanacchi?
Pass. Almanacchi per l’anno nuovo?
Vend. Sì signore.
Pass. Credete che sarà felice quest’anno nuovo?
Vend. O illustrissimo, sì, certo.
Pass. Come quest’anno passato?
Vend. Più più assai.
Pass. Come quello di là?
Vend. Più più, illustrissimo.
Pass. Ma come qual altro? Non vi piacerebb’egli che l’anno nuovo fosse come qualcuno di questi anni ultimi?
Vend. Signor no, non mi piacerebbe.
Paas. Quanti anni nuovi sono passati dacchè voi vendete almanacchi?
Vend. Saranno vent’anni, illustrissimo.
Pass. A quale di cotesti vent’anni vorreste che somigliasse l’anno venturo?
Vend. Io? Non saprei.
Pass. Non vi ricordate di nessun anno in particolare, che vi paresse felice?
Vend. No in verità, illustrissimo.
Pass. E pure la vita è una cosa bella. Non è vero?
Vend. Cotesto si sa.
Pass. Non tornereste voi a vivere cotesti vent’anni, e anche tutto il tempo passato, cominciando da che nasceste?
Vend. Eh, caro signore, piacesse a Dio che si potesse.
Pass. Ma se avestge a rifare la vita che avete fatta nè più nè meno, con tutti i piaceri e i dispiaceri che avete passati?
Vend. Cotesto non vorrei.
Pass. Oh che altra vita vorreste rifare? La vita c’ho fatta io, o quella del principe, o di chi altro? O non credete che io, e che il principe, e che chiunque altro risponderebbe come voi per l’appunto; e che avendo a rifare la stessa vita che avesse fatta, nessuno vorrebbe tornare indietro?
Vend. Lo credo cotesto.
Pass. Nè anche voi tornereste indietro con questo patto, non potendo in altro modo?
Vend. Signor no davvero, non tornerei.
Pass. Oh che vita vorreste voi dunque?
Vend. Vorrei una vita così come Dio me la mandasse, senz’altri patti.
Pass. Una vita a caso, e non saperne altro avanti, come non si sa dell’anno nuovo?
Vend. Appunto.
Pass. Così vorrei ancor io se avessi a rivivere e così tutti. Ma questo è segno che il caso, fino a tutto quest’anno ha trattato tutti male. E si vede chiaro che ciascono è d’opinione che sia stato più o di più peso il male che gli è toccato che il bene; se a patto di riavere la vita di prima con tutto il suo bene e il suo male, nessuno vorrebbe rinascere. Quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura. Coll’anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero?
Vend. Speriamo.
Pass. Dunque mostratemi l’almanacco più bello che avete.
Vend. Ecco, illustrissimo. Cotesto vale trenta soldi.
Pass. Ecco trenta soldi.
Vend. Grazie, illustrissimo: a rivederla. Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi.

Giacomo Leopardi

“Dicono che repetita iuvant;
che il primo bacio è insipido, ma è il secondo che conta;
che il bis d’un minuto radioso
s’insaporisce d’un miele che ci sfuggì quella sera …
Ma l’anno che ritorna col suo rauco olifante
a soffiarci dentro le orecchie
l’ennesima Roncisvalle,
e ingrossa i fiumi, impoverisce gli alberi;
l’anno che nello specchio del bagno consegna
a uno svogliato rasoio la barba sempre più bianca;
l’anno che cresce su sé con l’ingordigia dei numeri,
sgranando sul calendario
il recidivo blues del Mai più …
chi oserebbe dire che meriti la festa del Benvenuto?
chi potrebbe giurare che non sia peggio degli altri?
Il male si moltiplica e repetita non iuvant.
Eppure … Eppure nella tombola arcana del Possibile
fra i dadi e il caso la partita è aperta;
gonfiano fiori insoliti il grembo d’una zolla;
lune mai viste inonderanno il cielo,
due ragazzi in un giardino
si scambieranno i telefoni, i nomi,
stupiti di chiamarsi Adamo ed Eva;
verrà sotto i balconi
un cieco venditore d’almanacchi
a persuaderci di vivere …
Crediamogli un’ultima volta”.

Gesualdo Bufalino

I poeti appartati: Anna Santoro

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Poesie

di

Anna Santoro

Fare mattoni con parole

usarle come pezzi di cemento

concrete – pazientemente poste

le une accanto alle altre

a (de)costruire senso

 

Parole da toccare, assaporare

Alfazeta per Alfabeta: P come Poesia

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Francesco Forlani in Alfazeta per Alfabeta2

Elektro-poetry a Milano (Libreria Popolare di via Tadino)
All’interno degli incontri di Tu se sai dire dillo

LIBRERIA POPOLARE DI VIA TADINO
via A.Tadino 18 3 ottobre 2013, giovedì ore 21

Andrea Inglese e Stefano Delle Monache presentano il libro Lettere alla reinserzione culturale del disoccupato + cd There’s a choir in the straw stack (ed. ItalicPequod, 2013), in una performance per voce e live electronics insieme con Giovanni Cospito.

Migreurop e la carta dei campi chiusi per stranieri

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[Dal sito Migreurop: osservatorio di frontiere pubblico questo intervento, che chiarisce gli intenti dell’osservatorio militante e fornisce un aggiornamento sulle campagne contro la detenzione dei migranti nei campi chiusi.]

393. E’ questo il numero di campi chiusi per stranieri che appaiono sul sito closethecamps.org, online da oggi. Recensiti nei paesi dell’Unione europea (UE), quelli candidati all’adesione all’UE, elegibili alla politica europea di vicinato (PEV) o ancora negli Stati che collaborano alla politica migratoria europea, questi campi erano tutti operativi tra il 2011 e il 2013.

Note per un Romanzo che non scriverò

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di Francesco Forlani

(progetto settembre 2013)

con immagini  di Salvatore Di Vilio

« Perché realizzare un’opera quando è bello sognarla soltanto? »
(Pier Paolo Pasolini nel ruolo dell’allievo di Giotto- Decameron)

 

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La Reggia custodita

Per Jean-Michel Gardair

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Jean-Michel Gardair, professore e letterato, scrittore e traduttore, è morto lo scorso agosto nella solitudine della malattia (http://etudesitaliennes.hypotheses.org/4456). Tra i molti ricordi, il più intenso è la presentazione che abbiamo fatto, in una piccola libreria parigina, oltre dieci anni fa, del suo libro Jean-Michel Gardair legge Il fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello (Metauro, 2001); è una straordinaria e personalissima lettura del romanzo pirandelliano. Questo il primo capitolo.

 

 

Il fu Mattia Pascal
romanzo del fu Luigi Pirandello

Quid amabo nisi
quod aenigma est?
G. De Chirico, Autoritratto, 1911

 

Il fu Mattia Pascal è l’autobiografia postuma di un suicida e, in quanto tale, idealmente dedicata ai «fratelli» suicidi («fratelli miei», p. 87, li chiama appunto il narratore protagonista) di tutti i paesi e di tutti i tempi, suicidi veri o finti, o presunti, o falliti, o semplici candidati al suicidio, a tuti coloro, insomma, che hanno il suicidio per pensiero dominante; se non addirittura riservata a loro, così come Jean Genet aveva apertamente (ad apertura di libro) riservato agli «invertiti» la lettura di Querelle de Brest.

Ma è anche un giallo. Un giallo ontologico di un morto latitante. Un giallo in cui non si tratta di scoprire chi sia l’assassino, ma chi sia morto, e dove sepolto; addirittura se sia vivo o morto, o risuscitato: la sua tomba potrebbe essere vuota, e il presunto morto, suo latitante ospite, potrebbe essere il narratore che, specchiandosi nella lapide del proprio cenotafio, esclama in extremis: «Io sono il fu Mattia Pascal». O perfino l’autore, se, scherzando – ma non troppo – in una lettera dell’autunno 1904 (ossia tra la pubblicazione del romanzo a puntate e l’imminente edizione in volume), può suggerire il seguente frontespizio: Il fu Mattia Pascal / romanzo del fu Luigi Pirandello. Il giallo ontologico diventa, prima, ontologia del romanzo (di questo romanzo, e della narrativa in genere), poi, ontologia della scrittura.

Ma la tabula rasa del frontespizio e della lapide, la lapidaria eleganza del tombeau letterario non deve far dimenticare né il lungo intricato romanzo del dolore, cui attinge il «pensiero dominante» del suicidio, né il lampo accecante dell’ultima sofferenza che spinge all’ultimo salto nel buio.

(…)

La lettura che segue è stata ispirata e scandita da quotidiane passeggiate tra due tombe, nel parigino cimitero di Montparnasse, entrambe intestate a Baudelaire, lungo un percorso idealmente parallelo a quello che porta Mattia Pascal, dall’affollata scena della sua alienazione giovanile, fino alla pace del soliloquio con la lapide di se stesso. La prima, ad ovest, modesta e perfino meschina, defilata in seconda fila, piena, anzi strapiena in un angusto spazio, quasi un monumento all’infelicità familiare di Baudelaire, strozzato dall’odioso amore per la madre, risposata col Generale Aupick, che si pavoneggia in eterno nella vanitosa pompa di una lapide piccolo borghese:

 

Jacques Aupick
generale di divisione, senatore,
già ambasciatore
a costantinopoli e a madrid,
membro del consiglio generale
del dipartimento del nord, grand’ufficiale
dell’ordine imperiale della legione
d’onore, insignito da numerose
onorificenze estere,
deceduto il 27 aprile 1857
all’età di 68 anni
___________
 
Charles Baudelaire
suo figliastro, deceduto a parigi
all’età di 46 anni, il 31 agosto 1867
 
___________
 
Caroline Archenbaut Defayes
vedova in prime nozze di
Mr Joseph François Baudelaire
in seconde nozze
del generale Aupick
e madre di Charles Baudelaire
deceduta a Honfleur (calvados)
il 16 agosto 1871, all’età di 77 anni.

 

All’altra estremità, lungo il muro di cinta, ad est, la lapide sepolcrale, segnata dal solo nume del poeta, del cenotafio di Baudelaire, che vi giace sopra, ad occhi chiusi, fasciato da strette bende di pietra, vegliato, in cima a un piedistallo a forma di pipistrello, da un genio meditabondo e scontroso che potrebbe essere il poeta stesso, o il suo doppio, l’ipocrita lettore, «(son) semblable, (son) frère».

Sulla diagonale contorta che porta dall’una all’altra, s’incontrano pure, volendo, le tombe di Ionesco e Beckett.

Ma oltre alle indubbie affinità –psicologiche e formali–, tutt’altro è il singolare percorso di Mattia Pascal; tutt’altra l’originalità del fantasticare pirandelliano, oggetto primo della nostra indagine.

Zuppa di testa di capra

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goatsdi Gianluca Veltri

 

Sì, sì, ora comincerete a dire: “Ah, il disco di ‘Angie’”; “Ma i veri Rolling Stones sono quelli di ‘Jumping Jack Flash’”; “Ma i dischi migliori dei Rolling sono ‘Let It Bleed’ e ‘Beggar’s Banquet’”, e via disprezzando. Non lo troverete mai nelle discografie consigliate, ma fermatevi un attimo: perché “Goats Head Soup è un album straordinariamente sottovalutato, che merita attenzione a quarant’anni esatti dalla sua uscita. È stato considerato il classico vaso di coccio in mezzo a un vaso di ferro (“Exile On Main Street”, 1972) e a un altro, se non di ferro comunque di qualche metallo (“It’s Only Rock’n’Roll”, 1974). Ma a essi “Goats Head Soup”, la “zuppa di testa di capra”, non ha nulla da invidiare. Anzi, ci offre una versione per molti versi inedita degli Stones, interessante, che non va trascurata. Un unicum.

Ed eccoci a “Angie”, una canzone che gioca sull’ambiguità. È dedicata a una donna (e se sì a quale? Alla fatale Anita Pallenberg o ad Angela, la signora Bowie?), o forse alla droga, l’eroina che stava dilaniando Keith Richards? Proprio attorno a lui ruotano diversi aspetti che riguardano questo disco dalla copertina gialla del 1973. “Angie” è soprattutto sua, anche se Richards partecipò poco alle session: stava tentando di riabilitarsi dalla tossicodipendenza. Non prese parte neanche alle session fotografiche, infatti si nota facilmente che la sua foto, sul retrocopertina, è diversa dalle altre ed è stata rabberciata alla meno peggio. È dovuto essenzialmente alla sua presenza a mezzo servizio, il volto inedito che la band assume: più spazio all’altro chitarrista Mick Taylor, Mick Jagger in forma strepitosa, la solita formidabile sezione ritmica della premiata ditta W/W (Wyman/Watts) e largo ai tre storici tastieristi stonesiani: Bill Preston, Ian Stewart, Nick Hopkins. Richards suona poco, ma c’è: il suo modo di comporre era cambiato, in quello scorcio di anni. Richards stravedeva per Mick Taylor come chitarrista, tanto da scrivere i pezzi prevedendo gli spazi che Taylor avrebbe riempito. Salvo rimanerne molto deluso sul piano umano, a causa della scarsa comunicativa dell’allievo di John Mayall. Ma questa è un’altra faccenda.

Qual è la sostanza di cui è fatto “Goat’s Head Soup”? È un disco decadente. Un miscuglio in cui si rileva una forte matrice blues, spruzzate di rock’n’roll – e fin qui… − ma anche ingredienti decisamente più sorprendenti. Il mantra chitarristico di “Dancing With Mister D”, la traccia iniziale del disco, è qualcosa più di un riff: incessante per tutta la durata del brano, diventa un ostinato che nella strofa danza sull’armonia di un solo accordo (La). Quasi un sabba modale. Quel modulo sembra parente di certe formule minimaliste alla Terry Riley, già entrate nel rock in quegli anni (tra gli altri, si pensi agli Who di Pete Townshend). “Dancing With Mister D”, laddove D dovrebbe essere d’iniziale di Devil, il diavolo, rimanda ovviamente al brano di qualche anno prima “Sympathy For The Devil”, del quale riprende, seppur con approcci differenti, un senso di possessione incalzante, dentro un crescendo dal vago sapore voodoo. I brani più sostenuti sono di ottima fattura: “Star Star”, il cui titolo originario “Starfucker” fu censurato; l’ovattato e ossessivo blues ferroviario “Silver Train”; il rhythm and blues di “Heartbreaker”. Il tono fondamentale dell’album, il colore prevalente, è dato però dalle ballad lente, pervase da un senso di malinconia invernale, di spoglio disfacimento. “Coming Down Again” è un pezzo ispirato (d)al vortice tossico di Keith Richards: ballata pianistica, di caduta e sperdimento, cantata dallo stesso Richards, il quale non si è mai ritagliato il ruolo di vocalist per brani men che rimarchevoli. Lenta e struggente, “Coming Down Again” inaugura un’ideale spina dorsale del disco, che prosegue con una romantic song un poco più convenzionale come la citata “Angie”, e soprattutto, sulla seconda facciata, da “Winter” e “Can You Hear The Music”. È un gioiello assoluto, “Winter”: una perla atmosferica, impressionista, con una chitarra ritmica sotto, utilizzata come bordone, un tappeto riverberato costante, e la chitarra solista usata in funzione fortemente vocalizzante (come già in “Coming Down Again” e in diversi altri episodi del disco). Introdotta da un flauto orientaleggiante, “Can You Hear The Music” è un’altra ballad ambientale, insistente, ipnotica. Le melodie ondeggiano su una base armonica che si mantiene mono-accordo (Do) per tutta la strofa, prima di intraprendere un ritornello a scala discendente fortemente melodico.

L’ascolto di questo disco, registrato in Giamaica e uscito giusto quarant’anni fa, ci mostra un volto meno noto dei Rolling Stones. Osservarlo con la lente del tempo attribuisce un fascino onirico ancora maggiore a questi solchi.

Le cose cambieranno

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Lande 7di Andrea Inglese

Eravamo immersi, da anni, e così in tanti, che ci sembrava fosse normale starcene lì accucciati, in mezzo a chiazze di calce, cherosene, plastica carbonizzata, pensando al cibo, a come procurarselo, con chi andarne in cerca, e come estrarlo, macerarlo, triturarlo, cucinarlo.

Newton alchemico

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di Antonio Sparzani
Sir Isaac Newton by Sir Godfrey Kneller
Isacco Newton nacque il 25 dicembre 1642: la faccenda del calendario usato (giuliano e non ancora gregoriano) l’ho già spiegata qui, con tutti i dettagli del caso, quindi non sto a soffermarmi oltre.
Noto invece che, mentre la sussiegosa wikipedia inglese descrive così: «he was an English physicist and mathematician who is widely regarded as one of the most influential scientists of all time and as a key figure in the scientific revolution», sostanzialmente seguita dalla wikipedia catalana e da quella tedesca che parla di “filosofo” nel senso più ampio della parola, le wikipedie romanze, eccetto appunto quella catalana, comprese quelle in sardo, in romeno e in friulano, recitano tutte più o meno così: «è stato un matematico, fisico, filosofo naturale, astronomo, teologo e alchimista inglese.».
Ovvero i neolatini apprezzano la componente alchemica che senza alcun dubbio è stata una delle componenti importanti nella formazione di questo gigante della riflessione sulla scienza. Dico “gigante” non a caso, perché la metafora fu da lui stesso usata in una lettera a Hooke del 1676 (“Se ho visto più lontano, è perché stavo sulle spalle di giganti”), col quale peraltro litigò furiosamente. Ma la cosa che intendo sottolineare è questa parte non menzionata dalle wikipedie anglosassoni, e cioè la componente alchimistica. Come mai?
Comincio col tradurvi qui di seguito il prologo del libro di Jean-Paul Auffray, Newton ou le Triomphe de l’alchimie, Le Pommier-Fayard 2000, che racconta in breve la rocambolesca vicenda delle carte alchemiche di Newton.

«Tre mesi prima della nascita di suo figlio, destinato a diventare il grande sir Isaac Newton, Hannah Newton perde suo marito. Tre anni più tardi sposa in seconde nozze il reverendo Barnabas Smith, al quale dà tre figli ― un figlio, Benjamin, e due figlie, Hannah e Mary.
Venticinque anni dopo Hannah Smith sposa il reverendo Robert Barton, dal quale ha una figlia nel 1679. Intelligente e di grande bellezza, Catherine Barton conduce una vita avventurosa prima di sposare, all’età di trentotto anni, John Conduitt, di dieci anni più giovane. Essi hanno una figlia, Catherine, che Newton, che è negli ultimi anni della sua vita [morirà nel 1727], chiama affettuosamente Kitty.
Nel 1740, tredici anni dopo la morte di sir Isaac, Catherine «Kitty» Conduitt sposa il visconte Lymington. Il loro figlio diventa il secondo conte di Portsmouth.
Passano gli anni. Nel 1872 il suo discendente fa dono all’università di Cambridge dei libri e degli scritti lasciati da sir Isaac e conservati a cura della famiglia. Il bibliotecario compila un catalogo di tutti questi documenti e quindi restituisce al donatore un certo insieme di manoscritti che egli considera come «non di natura scientifica».
Nel 1936 il visconte Lymington apre la valigia che contiene i manoscritti e restituita a suo nonno e chiede all’illustre istituzione londinese Sotheby & Co. di metterli in vendita. Viene redatto un catalogo descrittivo nel quale i manoscritti sono suddivisi in 121 lotti. Con la vendita i manoscritti si disperdono. Lord John Maynard, barone Keynes, si ribella al fatto che questi documenti scritti dalla mano di Newton siano stati sparpagliati ai quattro venti e si prefigge il compito di recuperarli al più presto.
Arriva a ricomprarne una sessantina. Li esamina, ed è sconvolto da quanto scopre. Nell’occasione del terzo centenario della nascita di Newton [1942] annuncia, tra la sorpresa generale: «Newton non è stato il primo del secolo della Ragione, è stato l’ultimo del secolo dei Magi, l’ultimo dei Babilonesi e dei Sumeri, l’ultimo grande spirito ad aver penetrato il mondo del visibile e dello spirito con gli stessi occhi di quelli che cominciarono a edificare il nostro patrimonio intellettuale poco meno di diecimila anni fa.
Mi propongo qui di raccontare la storia vera di Isaac Newton, ultimo dei grandi Sumeri, che non vuol dire insultare la sua memoria, dato che egli stesso si fece apostolo del culto di Vesta e che considerava che gli Antichi detenevano, meglio di noi, il segreto della verità.»

Del contenuto parleremo la prossima volta.

video arte #26 – masha godovannaya

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(Masha Godovannaya, Untitled #1, 2005.)

Racconto di Natale

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di Ivan Ruccione
TitreMenuNoel
Sono tre giorni che guardo un pezzo di Vigevano da uno schifo di finestra di uno schifo di cucina, e il mio schifo di commìs de cuisine sembra remarmi contro, sembra che voglia mandare alle ortiche il tanto atteso cenone di Natale.
E Dio solo sa quanto ci tenga a questa ricorrenza, quanto sia importante per me, Vladimiro Strizzacapra., chef del ristorante “Cavoli Amari”, fare bella figura.
Non lo sa lui, macché, e no che non lo sa quanto sia stata dura per me passare notti insonni sui fogli dei ricettari cartacei e su quelli virtuali di internet, con gli occhi crepati dalla stanchezza e da uno schifo di whiskey, per studiare un menù che soddisfacesse il mio schifo di esigenze: ripulire i frigoriferi dalle materie prime deperite.

C’è un sacco di roba da non so quanto tempo, congelata e non congelata, marcita e non marcita, e l’etica professionale me lo proibirebbe, ancora di più le norme H.A.C.C.P. , ma vallo a dire tu agli ispettori sanitari che c’è la crisi, che il mio capo non c’ha più un soldo, che a lavorare siamo solo in due, che la tredicesima non la becco come non ho beccato la dodicesima, l’undicesima, la decima e la nona, che l’ottava giusta l’ho beccata quando ho urlato dietro al somaro di aiutante che mi ritrovo, tutto intento a saltare le verdure in un rondò troppo piccolo:
Quante volte te lo devo dire? Tromba nello stretto ma lavora nel largo!

Una semplicissima panna cotta, non gli ho chiesto tanto, una semplicissima e modestissima panna cotta con panna fresca scaduta da un mese. È vero, ha una consistenza e un gusto che si avvicinano più al formaggio stagionato d’alpeggio che altro, ma Jesu Christi: una bella bollitura con due buste di vanillina in più e chi se ne accorge?
Stavo cercando di aggiustare il manico di un coltellino quando l’abbattitore di temperatura ha avvertito con un suono il termine del raffreddamento, e quindi ho tirato fuori i pirottini di alluminio sistemati su un vassoio d’acciaio. Con il coltellino scassato ho fatto per sformare una porzione per assaggiarla, ma la panna si è riversata sul banco come una secchiata di smalto bianco sulle mie sporche intenzioni.

Augusto! – chiamo.
Dica, chef!
La colla.
Augusto molla le verdure che sta mondando e corre verso un mobiletto pensile, apre l’anta, ci rovista dentro, e poi mi viene incontro col suo faccione lentigginoso che sembra un uovo di quaglia.

Ecco, – dice. E sorride.
Mi metto a braccia conserte. Lo fisso dritto negli occhi.
Bravo, – mi congratulo.
– ‘Via, non c’è n’è biFogno, chef! Dovere. Anzitutto piacere.
No no. Bravo.
– Non ce n’è biFogno, davvero!
No no. Quel che è giusto è giusto: bravo.
È Ftato lei ad inFegnarmi di guardare Fempre intorno per avere il controllo della Fituazione. E coFì ho visto che il coltello era rotto e Fubito ho capito coFa le Ferviva. – Mi strizza l’occhio, con aria boriosa.
Cos’è quella?
Colla!
Ribadisco: bravo. Bravo pirla!

L’angolo della sua bocca inizia a tremare in preda a un tic nervoso. – Che ho fatto?
La colla, idiota che non sei altro!
– Ma eccola!
– Di pesce! La colla di pesce nella panna cotta!

Prendo dal contenitore di plastica appoggiato sul piano della plonge i fogli di gelatina in ammollo.
– Perdoni, chef! Mi Fono dimenticato!
Gli dico: – Apri.
Obbedisce, e le labbra si schiudono di colpo come se il guscio di quell’uovo di quaglia l’avessi sbattuto sul bordo di una bastardella. Poi gli ficco in bocca i fogli. – Magari è la volta buona che ti si aggiusta quella maledetta esse blesa!
Dopodiché, come tutte le volte che Augusto fa una cazzata, lo sbatto a calci in culo fuori dalla cucina. – Avanti, tre giri del perimetro, di corsa.

Dallo schifo di finestra guardo le nuvole di vapore dei suoi respiri accartocciarsi nel freddo, i suoi vent’anni e il suo metro e novanta allampanati pesticciare a ritmo di corsa blanda la neve mista al fango nel cortile del ristorante.
Al traguardo del terzo giro lo richiamo.

Sono le 18. Mo’ mangiamo, ché anche per noi è Natale.
– Che Fi mangia?
– ansima contento Augusto, massaggiandosi lo stomaco.
Pasta al burro.
– Wow, che cenone!
– Poi serviamo quei cento bastardi che hanno prenotato e ce ne andiamo a casa. Ok?
– Ok, –
dice tamponandosi i capelli biondi sudati che sbucano da sotto la bandana.
Dove sono le polpettine che ti ho detto di preparare stamattina?
– Chef, non ci Fono le polpettine…
– Come non ci sono?
– Mi rifiuto. Mi vergogno. Non poFFiamo dare alla gente quella roba là! Ha viFto in che Ftato era quella Fpalla di maiale?
– Tutti uguali. Tutti uguali siete voi altri aspiranti cuochi! Sapete qual è il problema? Che pensate troppo e male! Con cosa credi siano fatte le polpettine? Con filetto di manzo fresco?
– Non dico queFto, chef. Però…

Sono in cucina da quando ho quindici anni. Come già dissi a un mio vecchio sottoposto: non hai visto ancora niente. Se vedessi tutte le porcate che si fanno in cucina non andresti più a mangiare nei ristoranti. Hai presente la lavagna che si usa mettere all’entrata con scritto “Lo chef consiglia”?
– Altroché!
– Ecco: mangia tutto tranne quello che consigliano. Nella maggior parte dei casi ci si pulisce il frigorifero, con quella storia. Non stiamo facendo niente di più e niente di meno di quello che fanno tanti nostri concorrenti. E sfruttando il numero considerevole dei commensali nelle festività ce lo puliamo alla svelta, il frigorifero.

Camminando verso casa ripenso al buon servizio svolto, mentre il gelo della pianura padana mi sta aprendo le nocche con sottilissimi tagli. Sotto il chiarore pallido dei lampioni ammiro il luccichio dei cristalli di brina che un leggero vento scrolla dagli alberi e dalle case, e mi fermo, alzo il naso al cielo, chiudo gli occhi, e lascio che quei coriandoli fiabeschi mi inciprino il viso.
E penso ai sorrisi delle famiglie che ho visto entrare nel ristorante, alle madri che incalzavano la camicia ai bambini, alle mani dei bambini piene di regali che si stavano godendo quei momenti inconsapevoli che un giorno niente sarà più così, che un giorno si troveranno tristi come i loro nonni. E poi penso alla stronza di mia madre e alla buon’anima di mio padre.

Entrato in casa mi spoglio e il freddo del silenzio mi squarcia le nocche più in profondo. È passata da un’ora la mezzanotte.
L’albero di Natale non l’ho fatto. Figuriamoci il presepe. Faccio un giro per le stanze e guardo alcune immagini sacre che la vecchia inquilina aveva inquadrato ai muri. La vergine Maria è stupenda: giovane, bionda, occhi azzurri da fare un baffo al cielo. Ho tramestato con gli occhi temendo la firma di Hitler, in quel capolavoro ariano. Vi è poi un quadrettino raffigurante tre santi. Ho atteso con ansia il 25 dicembre. Li metto in un sacchetto e li porto in cantina. Proprio come hanno fatto loro con me. Con molti di voi. Con molte persone nel mondo.

Tornato dalla cantina vado a sedermi subito vicino alla finestra. La mia famiglia è nient’altro che l’odore della scorza di mandarino sul termosifone.
Se domani non lavorassi vedrei Anna, potrei abbracciarla, farle gli auguri.
Anna è la mia ragazza, e di bello c’ha solo il culo. Tutto il resto è meraviglioso.

https://www.youtube.com/watch?v=4eC2X8Dw0YI

La fila

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di Giovanni Dozzini

«Più che altro l’ho fatto perché per una volta vorrei vincere. Non che non abbia avuto dei dubbi, altroché, soprattutto all’inizio, ma oramai è talmente chiaro che non ci resta più alcuna scelta. Il passato è stato sconfitto, hanno ragione, ma in questo modo credo sia possibile guardare in avanti senza archiviarlo del tutto. Perché, diciamocelo chiaramente, anch’io faccio parte del passato».

Les saltimbanques de la Révolution selon Albert Cossery

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cossery
L’insurrezione della pigrizia

di JB Thomas e Jamila M.H. Mascat

Il 7 novembre 2013 Albert Camus avrebbe compiuto 100 anni.
Albert Cossery ne avrebbe compiuti altrettanti il 3 novembre.
Albert l’uno, Albert l’altro. A.C. A.C.
Amici di lunga data, avrebbero potuto brindare insieme.

“L’unica cosa che prendo sul serio è la letteratura”, disse una volta, o più di una, Albert Cossery. Si fatica, però, a dar retta alle parole di chi della dérision ha sempre fatto un antidoto formidabile contro l’insensata ricerca del senso della scrittura, o in ogni caso il migliore che avesse a disposizione.

Henry Miller, che lo fece tradurre e conoscere negli Stati Uniti, apprezzava gli effetti collaterali dell’ “umorismo crudele” di Cossery, capace di suscitare il riso e il pianto allo stesso tempo. Quel riso amaro, che fermenta lentamente e poi a tratti sonoramente tra le sue pagine, precipita la lettura in un vortice paradossale, in cui non c’è più niente da ridere − eppure non ci resta che ridere. Così vuole la dialettica in stato sinistro che sovrasta le mésaventures dei suoi romanzi.
Nel 1945 Cossery, poco più che trentenne, lascia il Cairo, dove è nato e tornerà solo di rado. Da Parigi, dove si trasferisce per studiare – invano, perché non studierà e farà invece voto di letteratura e povertà − continuerà comunque a raccontare le strade e le piazze d’Egitto che abbiamo visto esplodere da tre anni a questa parte. La strada ritratta da Cossery non ha niente a che vedere con i mosaici edificanti della società cairota immortalati nella trilogia di Naguib Mahfouz, ed è anni luce distante dagli affreschi militanti di Sonallah Ibrahim. Cossery cattura piuttosto il marciapiede, su cui i ragazzini scorazzano, gli anziani zoppicano e i mendicanti mendicano, mentre nei canali di scolo tutto scorre tra le esalazioni maleodoranti. Come il giovane Ossama, elegante ladruncolo di belle speranze protagonista dell’ultimo dei suoi sette romanzi, Les couleurs de l’infamie (1999), che contempla affacciato al parapetto di una sopraelevata la circolazione scomposta dei pedoni in mezzo al traffico di piazza Tahrir, Cossery si lascia intrattenere dal chiasso della strada: le chiacchiere sgarbate, le rimostranze fantasiose, le invettive astruse e «quel miscuglio di insolenza e di orgoglio che la miseria concede ai suoi eletti».

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Gli « eletti » di Cossery sono appunto Les hommes oubliés de Dieu, titolo della sua prima e unica raccolta di racconti pubblicata in Egitto nel 1941. Lustrascarpe, squattrinati, maitresses e prostitute, ambulanti, scalzacani, ladruncoli, antieroi, parassiti, sordidi e abietti. Ma anche artigiani senza clienti e impiegati senza ufficio, diplomati senza diploma e lavoratori senza lavoro, intellettuali vanitosi e prolissi, brevettatori professionisti di ingiurie e bestemmie. Fuori legge, senza credo e senza fede, pur essendo spesso devoti, i personaggi di Cossery difendono una filosofia radicale dell’esistenza all’insegna dell’insubordinazione, coltivando la pigrizia e il rifiuto del lavoro.

Nessuno di loro combatte per la rivoluzione né l’aspetta, innanzitutto perché tarda a venire e poi perché dei rivoluzionari spesso non c’é da fidarsi . A volte le rivoluzioni fingono. Si spacciano per mutazioni fulminee, terremoti, eruzioni che scoppiano dalle viscere del popolo e poi si rivelano congiure feroci e perverse orchestrate dall’alto, perfino da despoti sadici come Ben Kadem, il primo ministro del Dofa, che in Une ambition dans le désert (1984) scatena una serie di attentati pseudo-sovversivi per attirare l’attenzione dell’Occidente sul suo piccolo emirato desertico e esangue, in cui del petrolio non c’è nemmeno l’ombra. Quando invece i rivoluzionari si prendono troppo sul serio, la serietà rischia di nuocere anziché giovare alla causa, e un’ironia senza sorte condanna i militanti severi a inciampare nei tranelli del potere e ritrovarsi al posto dei nemici che combattono. Alla rivoluzione gli sfaticati protagonisti di Un complot de saltimbanques (1975) preferiscono gli intrighi effimeri e la cospirazione goliardica. La politica affatica e il lavoro è fatica. Qualsiasi lavoro, dixit Imatz, un attore così miope da non poter calcare le scene senza provocare effetti indesiderati di comicità, non è altro che schiavitù. E gli schiavi, secondo l’amico Teymour, che ha lasciato l’Egitto per andare in Europa alla ricerca di un titolo di studio ed è tornato senza, del resto non sono mai innocenti, perché contribuiscono alla propagazione di quell’ “immensa truffa universale” che è la società moderna del lavoro. Meglio allora disobbedire, civilmente o incivilmente, ma sempre con indolenza.
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Dal lavoro si tengono alla larga anche i Fainéants dans la vallée fertile (1948). Hafez, il vecchio patriarca dà l’esempio al resto del clan, alzandosi soltanto raramente dal letto. Mentre Serag, suo nipote, si è messo in testa di cercare un lavoro, la famiglia insiste in ogni modo affinché lasci perdere, perché il lavoro di uno sarebbe la vergogna di tutti. Qui come altrove il rifiuto del lavoro, che non vuol essere solo apologia dell’ozio, rivendica il “droit à la paresse” − eco al pamphlet omonimo del genero di Marx, Paul Lafargue, − per contrastare l’imperativo borghese dell’operosità. Nell’inerzia delle loro vite modeste, condotte senza far niente, i fannulloni di Cossery, agitatori pigri e rivoltosi oziosi, cercano una strategia per sottrarsi agli ingranaggi della compravendita capitalista. Gohar, il professore-filosofo di Mendiants et orgueilleux (1951), si accontenta di poco − un giaciglio fatto di vecchi giornali e un po’ d’hashish sotto i denti − perché sa che nessuno al mondo potrà mai privarlo di quello che non ha. Nulla, oltre al proprio sarcasmo insolente. L’otium, a cui Gohar sceglie di votare la sua mite esistenza, respinge gli affanni tremendi del negotium svelandone le aberrazioni crudeli e inumane. L’inerzia fa più dell’attività; il sonno batte la veglia, perché nel sogno consente di guardare il mondo altrimenti.
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Mai in piedi prima di mezzogiorno, al pari dei suoi personaggi, Cossery optò per una vita parca e inoperosa. Orare, laborare e militare esulavano dai compiti della sua regula. Assai poco prolisso − sette romanzi e una raccolta di racconti completati in quasi ottant’anni tra il 1931 e il 2008, e una media dichiarata di due frasi a settimana, ma senza ripensamenti né cancellature − alla scrittura prediligeva il passeggio, nei giardini del Luxembourg o tra le terrazze dei cafés del 6ème arrondissement, dove a volte sedeva per interi pomeriggi, ovviamente senza far niente. Ai camerieri − abituati eppure ancora sempre stupiti alla vista di questo dandy enigmatico dai modi frugali − che gli domandavano se non si annoiasse a starsene con le mani in mano, rispondeva laconico: “Non mi annoio mai in compagnia di me stesso”. In realtà la noia − di un’esistenza flemmatica e solitaria (nonostante un matrimonio di sette anni con l’attrice Monique Chaumette, le sue numerose amicizie e le sue immancabili accompagnatrici) − di tanto in tanto lo assaliva. Non avendo altre risorse – “Scrivere è l’unica cosa che so fare” – si dedicava alla scrittura. Però per buttare giù qualche pagina a volte gli occorrevano mesi; questione di trovare le parole giuste, diceva, in polemica con un’industria editoriale avida di parole qualsiasi.

Negli appunti annotati nei quaderni sparsi, in cui si rifugiava quando era a corto d’ispirazione, ritorna di frequente una domanda sulla memoria (“Qui se souviendra d’Albert Cossery?”) che testimonia di un desiderio insistente di lasciar traccia senza tramandare nulla. Del resto possedeva poco o niente. Nella sua stanza in affitto all’hotel La Lousiane, 60 rue de Seine (la chambre 78, che oggi è diventata una suite) dove ha soggiornato per quasi sessant’anni dal 1951, Cossery conservava, insieme ad alcuni libri e pochi vestiti, una statuetta di Giacometti e un quadro di Pomerand, che alla fine si trovò costretto a rivendere per avere di che vivere. Come Karl Radek, il rivoluzionario polacco segretario del Comintern poi liquidato dalle purghe staliniane, che − si narra – nel congedarsi dai ricevimenti aveva spesso l’abitudine di confondere i soprabiti, infilandosene uno a caso tra quelli che gli sembravano più caldi e più signorili, Cossery durante le soirées parigine coltivava un atteggiamento altrettanto bolscevico. A pranzo e a cena, al café de Flore o da Lipp, nelle migliori brasseries del boulevard Saint Germain, senza mai pagare il conto, provava e riusciva sempre a farsi invitare dalle sue facoltose compagnie. Sfoggiava un’eleganza aristocratica nelle occasioni mondane, con Camus, Miller, Genet e l’anticonformista di destra Roger Nimier, prendendo in prestito i suoi migliori abiti dai suoi migliori conoscenti.

Dopo le frequentazioni giovanili del milieu trotskista-surrealista cairota animato dalla rivista Art et Liberté negli anni Trenta, Cossery si tenne sempre a distanza dai fasti altisonanti della politica con la P maiuscola (il PCF o l’apparato gaullista) e si mantenne fedele all’universo subalterno delle creature letterarie che metteva in scena nei suoi romanzi. Impermeabile alle seduzioni dell’impegno politico quanto alla gloria del successo letterario, la penna di Cossery preferiva la satira alla denuncia, la caricatura alla dottrina, prendendosela con la Ragion di Stato che ha spesso torto, desacralizzando istituzioni e progresso, destituendo giustizia e santità. Gli restavano a disposizione solo l’arte di arrangiarsi, il gusto della ribellione nonchalante e quel riso amaro di cui si diceva all’inizio, che vale come unica arma della sovversione esercitata quotidianamente contro il potere e i suoi abusi.

Così ne La violence et la dérision (1964), per sbarazzarsi del governatore della città ridotta a un “covo di imbecilli e canaglie che si danno da fare per farla prosperare”, un gruppo di giovani rivoluzionari sprovveduti decide di mettere in moto un’agguerrita lotta di classe e di ridicolaggine. Prima costringono le forze dell’ordine, impegnate in una spietata caccia ai mendicanti per ottemperare agli ordini del regime, ad accanirsi contro clochard-fantoccio, truccati e esposti per strada al solo scopo di trarre in inganno e umiliare i garanti dell’ordine pubblico. Poi lanciano un’inattesa campagna di propaganda a colpi di manifesti ossequiosi che celebrano i meriti e le virtù del dittatore con toni così tanto lusinghieri e inverosimili da suscitare il riso di tutti. E il riso non è certo una via di scampo, piuttosto il segno che non ce n’è nessuna. Non si tratta di un atto liberatorio, infatti, ma solo di un momento rivelatore: la derisione opera in Cossery come il pathos nelle tragedie di Eschilo, come viatico della conoscenza e della coscienza. Ridere è per comprendere.

Quando morì, nel 2008, Cossery non poteva più ridere come si deve (né parlare) già da alcuni anni a causa di un’operazione alla laringe. L’artrosi oltretutto aveva contribuito a diradare il ritmo già assai disteso della sua scrittura. Il pensiero della fine, accolta con una pacata disposizione d’animo, l’accompagnava serenamente nelle sue promenades rituali, insieme al foulard immancabile nel taschino.
Come Chehata, il falegname de La maison de la mort certaine (1944), che insieme agli altri inquilini dell’edificio fatiscente dove alloggia vive nell’attesa che la gigantesca crepa che li sovrasta ceda da un momento all’altro e il palazzo frani sulle loro teste, Cossery sapeva che il male viene per nuocere, ma alcuni mali, quelli più grandi, hanno la capacità di nuocere meglio di altri, una volta per tutte. Chehata confida con impazienza in quest’unica sciagura imminente − il fracasso del palazzo − che incombe sull’avvenire di tutti i condomini: “Da quando so che finirà per crollare, non ho più paura. Prima ero perseguitato da mille disgrazie, ora invece ce n’è una sola. È meno dura da sopportare. Una sola disgrazia, una di quelle formidabili, e poi soltanto la morte!”. Cossery, con altrettanta impazienza, in silenzio – “ça ne me gêne pas du tout : je ne suis plus obligé de répondre aux imbeciles” – aspettava di concedersi al sonno più lungo. E la leggenda vuole che sia morto nel sonno, sorridendo.

 

 

PS. In Italiano sono stati pubblicati La violenza e il riso (Barbès, 2009); Mendicanti e orgogliosi (E/O, 2009); Gli uomini dimenticati da Dio (Rizzoli, 2008); Ambizione nel deserto (Spartaco, 2006). Si consiglia di leggerli tutti, pigramente, in omaggio all’autore.

Aspettando Superman

2

Copertina F.Santi(ancora indecisi sul libro da regalare a Natale? Senza ombra di dubbio Aspettando Superman di Flavio Santi, pubblicato da Gaffi.  Una – come scritto nel sottotitolo – “storia non convenzionale dei supereroi”. Saggio colto e pop, divertente e profondo. Di seguito l’autore ci regala un capitolo e noi qui lo ringraziamo di cuore. G.B.)

I soliti noti: il supereroe italiano

di Flavio Santi

Forse il supereroismo era una specie di tossina, come uno steroide, che obbligava il corpo a pagare un prezzo punitivo.

Jonathan Lethem

Il fatto che una recente indagine riferisca che si preferiscono i personaggi del pacioso Carosello a quelli di Hollywood la dice lunga sul bisogno di eroi nell’immaginario italico. Figuriamoci di supereroi.

Lo canta molto bene Zucchero Sugar Fornaciari: «Non credo ai supermen».

È tipico dei popoli a sangue caldo, dei paesi mediterranei in cui prevalgono canicola e accidia avere degli eroi spesso a regime minimo, in furbesco stand-by, pigramente cialtroni e astutamente imbonitori.

Prendete uno dei nostri eroi per eccellenza, il prode Giuseppe Garibaldi: è l’esempio perfetto. Lui che aveva la «divina stupidità dell’eroe» secondo il poeta inglese Alfred Tennyson. Lui che fu un abile promotore (e manipolatore) della propria immagine, arrivando a paragonarsi a Gesù Cristo. Lui che incarnava al meglio un certo spirito esibizionistico e cialtronesco (un ministro francese disse che sembrava «un vecchio comico», e Karl Marx – non un monarchico quindi – vide nel personaggio una certa dose di «deplorevole imbecillità»). Lui che fu forte con i deboli e debole con i forti (quell’Obbedisco del dispaccio da Bezzecca, di cui tanto si va fieri, è un atto di grande conformismo, ammettiamolo). Ma sopratutto lui che alla fine abbracciò il compromesso: voleva l’Italia repubblicana e la servì monarchica su un piatto d’argento (che è come dire voglio bianco ma ottengo nero). Dire che da quel gesto al fascismo il passo è breve forse è fare ardita fantapolitica, eppure qualche elemento di protofascismo si nasconde: nel 1849 Garibaldi venne eletto all’Assemblea romana con dei brogli, aiutato illegalmente dai suoi garibaldini; nel 1862 Garibaldi organizzò bande armate di cittadini sul modello degli antichi fasci romani; arrivò a dire che «A volte bisogna forzare la libertà del popolo per il bene futuro»; un ex commilitone gli scrisse: «Non sei l’uomo che credevo, ti sei posto sopra il Parlamento, oltraggiando i deputati che non la pensano come te; sopra il Paese, guidandolo secondo i tuoi desideri»; i seguaci lo chiamavano «Il Duce». Non è poi un mistero che Mussolini si sentisse una specie di secondo Garibaldi. Se fin da subito l’Italia fosse nata – come doveva del resto – repubblicana e mazziniana, chissà… Che i Savoia fossero dei re travicelli lo si sapeva, e gli italiani lo scopriranno amaramente all’indomani della Marcia su Roma. Ma nei frangenti decisivi Garibaldi fu più travicello di loro. Insomma, l’intuizione di Piero Gobetti di un «Risorgimento senza eroi» è plasticamente vera.

E andando ancora più indietro nel tempo che dire di Pietro Micca? In sostanza un incapace assurto ai più inaspettati onori civili, insignito di fulgide statue bronzee. Nel pieno rispetto della famigerata legge di Peter che vuole che in una gerarchia ogni membro raggiunge il proprio livello di incompetenza. Nella gerarchia degli eroi italiani essere un non-eroe è il culmine della carriera… (questo spiega molte cose dell’attuale decadenza del nostro Paese). Per chi non si ricordasse la sua storia esemplare, nella notte tra il 29 e il 30 agosto 1706 Torino è sotto assedio da parte dei francesi, le forze nemiche riescono a entrare in una galleria sotterranea della Cittadella, uccidono le sentinelle e cercano di sfondare una delle porte che conduce all’interno. Pietro Micca è di guardia a una delle porte insieme a un commilitone. I due soldati sentono dei colpi di arma da fuoco e capiscono di non poter resistere a lungo, così decidono di far scoppiare un barilotto da 20 chili, posto in un anfratto della galleria, per provocare il crollo della stessa e bloccare il passaggio alle truppe nemiche. Non potendo utilizzare una miccia lunga perché avrebbe impiegato troppo tempo per far esplodere la polvere da sparo, Micca decide di usare una miccia corta, conscio del rischio che correva. Allontana quindi il compagno con una frase che sarebbe passata alla storia: «Alzati, che sei più lungo d’una giornata senza pane», e senza esitare dà fuoco alla miccia, cercando poi di mettersi in salvo correndo lungo la scala che porta al cunicolo sottostante. Viene travolto dall’esplosione e il suo corpo scaraventato a una decina di metri di distanza. Muore da eroe. Sicuri? A quanto pare no: semplicemente Passepartout, questo il suo nome di battaglia, aveva calcolato male la lunghezza della miccia. (E ci pensate com’è beffardo il destino? Nel suo stesso cognome portava la causa della propria morte: Micca è una “miccia” più breve, senza la “i”!) A essere asini in matematica si rimediano onori eterni… Oppure, secondo la spassosissima versione di Umberto Eco nell’Intervista con Pietro Micca, qualcuno ai piani alti aveva risparmiato sulla qualità della polvere da sparo e della miccia: «tanto chi ci rimétte le pénne è il Micca Piètro […] Perché léi crède che l’erôe sia una profesione col diplôma? Guardi che con lo stato in cui erano le polveri e la lunghéssa delle micie chiunque sarébbe môrto da erôe lo stésso, sa?».

E il brigante calabrese Giuseppe Musolino, il re dell’Aspromonte? Attivo alla fine dell’Ottocento, commette una serie di omicidi, si dà alla latitanza, viene infine catturato nelle Marche in modo rocambolesco: fuggendo inciampa nel filo di ferro di un filare di viti. «Quello che non poté un esercito, poté un filo» commenta in stretto dialetto calabrese. Il processo, celebrato nel 1902, è un evento mediatico, seguito dalla stampa italiana e internazionale. Musolino pronuncia una celebre autodifesa: «Se mi assolveste, il popolo sarà contento della mia libertà. Se mi condannaste, fareste una seconda ingiustizia come pigliare un altro Cristo e metterlo nel tempio». Viene condannato all’ergastolo, per poi essere trasferito gli ultimi anni di vita nel manicomio di Reggio Calabria. Ma chi è stato davvero? Un ribelle vendicatore dei poveri del sud alla Ernani, il portabandiera anarchico delle lotte presocialiste, oppure uno spaccone di paese, un paranoide sbandato e irresponsabile? Achille Beltrame lo dipinse in una delle sue famose tavole della Domenica del Corriere. Giovanni Pascoli, ammirato, gli dedicò una poesia incompiuta:

O fragor d’acqua che scorre

buia, e che gemea ai piedi di un errante

piccolo e solo, mentre per forre

silenziose, sotto rupi infrante,

lungo gli abissi

saliva ai monti, a dare pace, oppure

l’oblio della notte eterna!

E che dire del film del 1950 con il grande Amedeo Nazzari nei panni del brigante e Silvana Mangano in quelli della bella fidanzata Mara? Ne esce fuori il ritratto romantico di un eroe contadino, puro e semplice.

Ancora oggi in Calabria non hanno dubbi: «lu briganti Giuseppi Musulinu» è un eroe, un autentico mito. Peppinu non si discute, ’ndi capimmu?

Siamo nei paraggi del cosiddetto «eroismo delinquente» alla Corrado Brando, il protagonista della tragedia di D’Annunzio Più che l’amore. La pièce messa in scena nel 1906 con il celebre Ermete Zacconi fu un autentico fiasco: racconta di Corrado Brando, un «Ulisside», una specie di superuomo esploratore che desidera tornare in Africa, e pur di farlo arriva a uccidere. Questo sembra il destino incancellabile dei nostri eroi: macchiarsi, prima o poi, di qualche colpa che ne oscura il profilo.

Per trovare degli eroi senza macchia non resta che rivolgersi alle pagine del nostro «padre degli eroi» per citare la famosa biografia di Giovanni Arpino e Roberto Antonetto, Emilio Salgari: Sandokan, Yanez de Gomera, il Corsaro nero, Capitan Tempesta, Testa di pietra ecc.

Certo, ogni tanto qualcuno in carne e ossa appare: prendete il mitico asso dell’aria, l’«asso degli assi» Francesco Baracca (famoso perché la sua insegna sulla carlinga dell’aereo, il cavallino rampante, diventerà il simbolo della Ferrari). Un intrepido pilota, morto a soli trent’anni, un autentico cavaliere, con una precisa etica: «è all’apparecchio che io miro» era solito dire «non all’uomo». Dopo aver abbattuto un aereo, poteva capitare che atterrasse per sincerarsi che il nemico fosse sano e salvo e congratularsi con lui per il bel combattimento. La sua specialità era la caccia: la tattica preferita l’attacco dall’alto, sfruttando la propria eccezionale abilità nella manovra dell’aereo e delle armi di bordo. Nella sua folgorante carriera abbatte trentaquattro aerei nemici, l’ultimo della serie il 15 giugno 1918. Il 19 giugno esce al tramonto con altri due aerei della squadriglia per un’azione di mitragliamento a volo radente sul Montello, ma a un certo punto il suo Spad precipita in fiamme. L’equipaggio di un biposto austriaco sostenne di averlo abbattuto, mentre gli italiani dissero che era caduto vittima di un colpo sparato da terra da un ignoto fante. A quasi cento anni dalla sua morte, le circostanze della fine del più grande pilota da caccia italiano della Prima guerra mondiale sono ancora avvolte nel mistero.

A ognuno il suo: da Musolino a Mussolini.

Benito Mussolini si pone come gaglioffo supereroe, mima espressioni da Arsène Lupin, non perde occasione per celebrare la propria prestanza fisica, mascella e petto all’infuori. Postura che già nell’antichità caratterizzava l’uomo superiore («incedeva maestosamente col capo indietro e il petto in fuori» dice il greco Luciano di un tiranno) e che, in epoche più recenti, ricorda Superman.

Vedere per credere.

Superdux

 Del resto Mussolini era un assiduo consumatore di romanzi popolari, come testimonia l’amante e biografa Margherita Sarfatti all’inizio del suo Dux:

Una copia dei Miserabili in pessima edizione italiana, stampata fitta su due colonne, unta e slabbrata, portò Jean Valjean, Cosetta e Monsignor Vescovo a vivere nella cascina di Doria, tra le figure familiari di quest’infanzia. Occhi grandi sbarrati, il bambino ascoltava i loro casi letti ad alta voce nella stalla.

La passione è così forte che ne scrive anche uno: L’amante del cardinale. Claudia Particella, pubblicato a puntate sul giornale socialista Il Popolo nel 1910. È la torbida storia d’amore tra il principe-vescovo Emanuele Madruzzo e la cortigiana Claudia Particella, nella Trento controriformista del Seicento. Ecco, immaginate se lui avesse continuato a scrivere romanzi d’appendice e Hitler a dipingere acquarelli… Magari l’uno avrebbe potuto anche illustrare i libri dell’altro…

Mussolini è a tal punto imbevuto di cultura popolare che queste sue parole sembrano anticipare la comparsa dei moderni supereroi: «Solo il mito dà a un popolo la forza e l’energia di forgiare il proprio destino». Una frase del genere sarebbe perfetta per commentare Superman. Oppure una formula come «Molti nemici molto onore» è il perfetto presupposto per il supervillain che contrasta il supereroe. Proprio così si pone Mussolini: un supereroe mitico, esito ultimo dell’immaginario popolare, che combatte acerrimi nemici per il bene degli italiani.

Nella raccolta Man and cartoons lo scrittore americano Jonathan Lethem ci dà il ritratto impietoso di un supereroe fallito, Super Goat Man (vale a dire Super Uomo Capra):

Non solo era invecchiato, ma si era anche rimpicciolito: forse non arrivava nemmeno al metro e cinquanta. Era come al solito a piedi scalzi, e portava un pigiama di mussolina bianca, con i bordini viola. Sulle ginocchia i pantaloni del pigiama erano macchiati di fango. Mentre entrava nella stanza, sgusciando in mezzo a noi che stavamo lì coi cocktail in mano, capii rapidamente il motivo delle macchie: il suo passo esitante cedette, e per un attimo cadde a quattro zampe. Lì, a terra, si scrollò quasi come un cane bagnato. Poi si rialzò sulle gambe da paralitico.

Super Goat Man come i nostri supereroi rigorosamente made in Italy: nel 1968 esce Vip. Mio fratello superuomo di Bruno Bozzetto, film d’animazione che racconta della stirpe supereroica dei Vip. A un certo punto Baffovip, ingannato dalla scritta “Supermarket”, sposa una commessa, per niente super; dall’unione nascono Supervip, supereroe muscoloso e invulnerabile, e Minivip. Minivip però ha un corpicino fragile, vulnerabilissimo, occhiali da nerd e due piccole ali insignificanti che lo sollevano al massimo a mezzo metro da terra. Ma Minivip, per quanto fantozziano (Fantozzi nasce lo stesso anno, non a caso), riesce a sventare il folle piano di Happy Betty, proprietaria della catena di supermercati HB, che vorrebbe trasformare i clienti in automi, e conquista anche l’amore di Nervustrella. Interessante notare come il personaggio di Supervip – di cui in effetti sfugge l’utilità nella logica complessiva del film – sia stato voluto dai produttori americani: in origine l’unico personaggio doveva essere Minivip. Ma per gli americani un supereroe loser è inaccettabile.

Nel 1969 è la volta di Paperinik: forse non tutti sanno che si tratta di un personaggio italiano, e diversamente non poteva essere, vista la nostra idea di un eroe sempre un po’ indolente e incapace. La figura di Paperino è ideale.

E che dire di Superciuk di Alan Ford? In un paese di evasori fiscali un panzone che come arma segreta ha l’alito di un pessimo barbera, ruba ai poveri per dare ai ricchi è perfetto. Siamo nel 1971.

E Rat-Man? Solo noi italiani potevamo pensare a un ratto come supereroe. Non solo: Rat-Man risulta tra i personaggi più amati dal pubblico dei fumetti. Nato nel 1989, è la negazione totale del supereroe, brutto, sgorbio e senza poteri. Ma tanto simpatico.

E per venire ai nostri oggi, fateci caso: Silvio Berlusconi sembra Clark Kent. Berlusconi è il Clark Kent della Brianza. Vedere per credere.

superberlu

Berlusconi è l’uomo di titanio che sfida i mostri del comunismo. Si pone come una sentinella. Come un supereroe. (Ricordate i Fantastici Quattro che nel primo episodio devono battere i russi nella conquista dello spazio? O Iron Man che opera in piena guerra del Vietnam? Berlusconi fa lo stesso, soltanto con qualche decennio di ritardo…) Il «ghe pensi mi» è la versione brianzola della fuga nella cabina di Clark Kent.

Anche Berlusconi è un supereroe. È il «superleader» per usare la formula di Federico Boni. Eugenio Scalfari precisa: «quel corpo trasuda energia, ottimismo, capacità taumaturgiche, muscolatura mentale, umori, buona fortuna, sicurezza».

Del supereroe possiede alcune caratteristiche. Intanto il costume: spesso sfoggia una mantella, che gli era valso il titolo di «Cavaliere mascarato» da parte di “Striscia la notizia”. Altro elemento imprescindibile sono i vari copricapi, dalla bandana al colbacco, a seconda degli scenari operativi; la villa di Arcore è il suo quartier generale; il biscione di Mediaset il suo iconogramma inconfondibile; Letta il suo fido sidekick; stuoli di donne lo adorano; possiede superpoteri – di tipo economico e mediatico, dici niente. Inoltre, fedele alla linea supereroica classica, propone «soluzioni impossibili per problemi insolubili»: si va dall’abolizione dell’Imu e di balzelli vari alla creazione di milioni di posti di lavoro, passando per ponti di Messina e mirabolanti interventi mai visti (all’Aquila ne sanno qualcosa).

Con i precedenti supereroici che abbiamo visto (Minivip, Paperinik, Superciuk, Rat-Man), non stupiamoci del successo di Berlusconi.

Ma Berlusconi non è il solo. Tra le fila dei nostri supereroi ruspanti come non annoverare Roberto Calderoli? Che del gesto del supereroe per eccellenza si è appropriato. Il momento è solenne: il 15 febbraio 2006 durante un’intervista televisiva al Tg1 il politico mostra una maglietta raffigurante una caricatura di Maometto. Il gesto, da supereroe nell’ottica dell’allora ministro delle Riforme, suscita aspre reazioni, soprattutto in Libia, con la protesta davanti al Consolato di Bengasi. Calderoli si deve dimettere – la sua carriera da supereroe dura proprio poco.

Anche qua, la migliore dimostrazione è visiva.

supercalde

Ed ecco cosa dice Maurizio Crozza di Mario Monti in uno dei suoi seguitissimi sketch a Ballarò: «Un anno fa sembrava un supereroe, adesso quando passa c’è gente che finge di parlare al telefono».

Come ricorda George Bernard Shaw «il bisogno del Superuomo è […] un bisogno politico». Il vero politico dovrebbe essere davvero una sorta di supereroe – della moralità, della giustizia, della sobrietà. Purtroppo a noi italiani, visti i precedenti, toccano più che altro dei Super Uomini Capra.

E non va certo meglio se ci spostiamo nella vicina Spagna. Anche i cugini iberici rimangono decisamente ai nostri livelli quanto a gestione cialtronesca degli eroi. L’esempio più clamoroso è quello di Rodrigo Díaz de Vivar, il celeberrimo Cid Campeador (1043-1099), l’eroe nazionale dell’identità castigliana e della Reconquista: ebbene il Campione (questo significa Campeador) altri non era che un sanguinario masnadiere. Nella battaglia di Golpejera vince con il sotterfugio, violando gli accordi. Ad Alcocer massacra la popolazione inerme. Entrando a Valencia il 15 giugno 1094 si appropria di tutti i beni gestendoli a suo uso e consumo. Uccide gli uomini più giovani, per evitare che si riorganizzino. Non rispetta gli accordi presi per la resa della città, così tortura il qadi Ibn Jahhaf – a cui aveva promesso, fra l’altro, di lasciare il governo della città – per farsi dire dove si trova il tesoro di re al-Qadir. Poi lo uccide in un modo che sconvolge anche i suoi più stretti collaboratori: Ibn Jahhaf viene sepolto fino alle ascelle in un fossato e bruciato vivo. Il celebre teologo Alvaro Pelagio lo accusa di essere senza scrupoli e di pensare solo ai propri interessi.

Simbolo ambiguo, fu ammirato anche dal Generalissimo Franco, che sostenne il film del 1961 di Anthony Mann con Charlton Heston nei panni dell’eroe.

«Non è un crociato, né un valoroso cavaliere. È un bandito», così la studiosa Lucy Hughes-Hallett.

Su “Di questo mondo”

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di Tommaso Di Dio

Daniela Attanasio, Di questo mondo, Nino Aragno Editore, 2013.

Il quinto libro di Daniela Attanasio si offre ai suoi lettori con la forza di un’opera matura e al contempo coinvolta in una ricerca ancora da scrivere.

Nelle liriche della prima parte, così come nei racconti per sequenze poetiche della seconda, la poetessa romana ha raggiunto una naturalezza espressiva così aperta e scabra che le sue pagine si offrono non solo come bilancio di una lunga attività di scrittrice, ma anche come scaglie di una saggezza umana tutta da vivere nel tempo che resta fuori dal breve orizzonte della lettura.

Il Quadrato nero di Max Frisch

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(Mi trovavo in questi giorni a riflettere su alcune considerazioni di Quadrato nero, un libro che raccoglie due lezioni del tardo Max Frisch, un anno fa tradotto in italiano da Gaffi, e ho pensato che la cosa migliore – per render merito alla pubblicazione nonché come omaggio a un autore che è stato per me tanto importante – sia riprendere alcuni passi salienti del volume. A.B.)

Lettera alla lettera di Mario Sechi

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Gentile Lettera al Rettore di Mario Sechi,
quando ti ho letta per un attimo ho pensato a quei generali della Grande Guerra che, in nome della loro alta concezione dell’onore, rifiutavano di chinarsi nelle trincee, si ergevano dritti e alteri, forti del loro grado, e finivano ahimè accoppati dai proiettili.
Non nego, Gentile Lettera, che di questi tempi volgari e confusi, in questa “società sciapa e infelice” (1), distinguersi per dignità e compostezza non è cosa da poco. È che nel tuo stile – perdonami – un poco ampolloso e prolisso, io, semplice Lettera alla Lettera, Lettera derivata, dipendente atipica, Lettera disagiata, sento echeggiare una fumosità che fa, tuo malgrado, il gioco di un “disegno strategico” oramai ben chiaro: lo smantellamento di una università pubblica e libera. Apparentemente in nome del risparmio del denaro pubblico, nella sostanza come negazione del diritto allo studio per tutti (tutti quelli che vogliono e meritano, certo), per salvare il salvabile, ovvero: salvare alcuni pochi eletti e lasciar affossare i molti disgraziati. Io sospetto che questa distruzione non sia il frutto di un piano, ma del panico delle nostre classi ‘dirigenti’. Economisti, professoroni, esperti – ma anche svariati avventori di bar – non fanno che ripeterci che non c’è bisogno di laureati, che si spende troppo nell’istruzione, che l’Italia deve investire in camerieri e gondole (2), non nella formazione dei suoi giovani e nello sviluppo delle sue idee. Cara Lettera, non sarà il caso di dire molto, molto chiaramente che l’Italia ha la percentuale minore di laureati in Europa? (3) Che spendiamo meno di tutti gli altri Stati europei per l’istruzione? Che per rapporto numero di studenti per docente siamo tra gli ultimi? Che il denaro pubblico sovvenziona scuole e università private? (4) Come si fa a dire che il problema dell’università italiana sono i (presunti) troppi laureati o le (presunte) troppe università? Non il nepotismo, non la corruzione, non la burocrazia, non la mancanza di strutture, non l’indifferenza, non il cinismo? Gentile Lettera, qui c’è in gioco molto più della “onorabilità”. Sta affondando una conquista aurea del passato recente: la mobilità sociale. Insieme al progetto di una società democratica.
Tu mi dirai che esagero, cara Lettera. Intuisco che il tuo estensore ha alle spalle decenni di Senati Accademici, Consigli di Facoltà, Consigli di Dipartimento, Progetti e Sessioni di questo e quello, e così via, che ne avrà viste, insomma, delle belle, che sarà ormai convinto che anche se molte cose cambiano nulla cambia mai veramente, e ci si può affidare a Rettori e Ministri con tranquillità, sapendo che nessuno vuole veramente buttare alle ortiche il diritto alla conoscenza.
Io invece, Lettera di terza classe, insieme a tante compagne lettere scritte negli ultimi anni (5), ti confesso che faccio fatica a fidarmi, per via di tutte le cose che ho visto da quaggiù: ho visto facoltà dove gli studenti sono chiamati “i nostri clienti” e promossi in massa in quanto tali, ho visto inviti a limitare il carico di studio per ciascun insegnamento a “300 pagine”, ho visto ricercatori segati perché pubblicavano o osavano fare concorsi senza il benestare del professore di ‘appartenenza’, ho visto precari lavorare gratis dodici ore al giorno nell’illusione di essere riconosciuti come lavoratori veri (!), ho visto biblioteche far bruciare – BRUCIARE – i libri e le pubblicazioni di candidati a concorsi perché all’impresa di facchinaggio scadeva il contratto di servizio esternalizzato e aveva bisogno di recuperare le proprie casse e i bibliotecari non sapevano dove mettere “tutta quella roba”.
(Tra l’altro, Lettera, come fai a dirmi che i “baroni” non esistono più? Certo, non essendoci più trippa per gatti, pardon, risorse economiche, i tipici potenti narcisisti e intrallazzatori si sono ridimensionati. Ma il baronato, le sue logiche e i suoi effetti, in verità si è istituzionalizzato, è diventato ufficiale: cosa altro sono i contratti di insegnamento “a titolo gratuito”? (6) O le sanzioni disciplinari per chi osa protestare? (7))
Tutte cose tipiche, certo; sulla bocca dell’ultimo dei forcaioli come del primo attore di Striscia la notizia. Diciamocelo: molti italiani, compresi tanti laureati scottati dalle logiche accademiche, preferirebbero far marcire l’università che mantenere in vita le pratiche che l’hanno animata finora.
Dovrò aggiungere, allora, che ho visto, incontrato, conosciuto tanta gente in gamba, studiosi dedicati e sottopagati, ho visto dei puri, degli insegnanti amatissimi, degli studenti appassionati, progetti e convegni che all’estero se li sognano, la possibilità di far realizzare ragazzi e ragazze provenienti dai ceti sociali più umili, e, infine, quel misto di competenza, trasversalità e unicità che fa la fortuna dei tanti colleghi che decidono di andarsene dall’Italia.
Il problema è quello che vediamo tutti e due, tu, Lettera professorale, e io, Lettera precaria: che la classe dirigente di questo paese sta distruggendo il meglio delle università, senza intaccare i suoi malcostumi. Uno dei dei quali consiste nella mancata assunzione di responsabilità da parte di chi ha il potere, piccolo o grande che sia. Uno dei quali consiste nella mancata trasparenza nel reclutamento (o la mancanza totale di esso). Uno dei quali consiste nel disprezzo verso gli studenti. Uno dei quali consiste nel pensare per corporazioni e gerarchie, e non per qualità delle idee, della didattica, dei progetti e dei prodotti di ricerca. Uno dei quali consiste nel tacere, tacere a oltranza, il fatto che le università vanno avanti grazie al lavoro sottopagato e irregolare di un vasto numero di precari (non esistono anagrafi, ma alcuni dicono che siano all’incirca il doppio degli incardinati) (8). Uno dei quali consiste nell’ignorare che gran parte dell’università è fatta di insegnamento, una attività così screditata e passé, che persino tu, Lettera, preferisci parlare di “comunità di studiosi e studenti”, e ovunque, dalla Camera dei deputati al talk-show televisivo, si gloria l’immenso valore della ricerca – mentre la si va depauperando – e si tace quello della docenza. Ma, Lettera, non voglio parlare della cibernetica o dei bosoni, con cui né io né tu abbiamo famigliarità, ma che cos’è la ricerca umanistica se non condivisione delle conoscenze, trasmissione, partecipazione e trasformazione dei saperi?
Lettera, dici di non avere voce, ma hai molte parole. Una in più ne servirebbe, a me pare, ed è basta. Che a farla vibrare insieme nelle facoltà produrrebbe tavoli di discussione trasversali, informazione agli studenti, assemblee aperte, blocchi e scioperi, consapevolezza che in un paese piccolo, antico, popoloso e con poche risorse primarie come il nostro occorrono più laureati, più sinergia, più reti, più pensiero. Produrrebbe, forse – sempre che non sia già troppo tardi per andarcene nelle trincee – resistenza.

Sinceramente,

Lettera di Renata Morresi

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Note

1) Società sciapa e infelice

2) Camerieri e gondole, le fantastiche ricette di Luigi Zingales: http://www.youtube.com/watch?v=tHpIgkw4ZwU

3) Laureati in Europa

4) Quanto spendiamo. Per chi ha pazienza, qui le tabelle OCSE su università e istruzione.

5) Tante compagne lettere, come questa.

6) A titolo gratuito.

7) Sanzioni a chi protesta.

8) Quanti sono i precari all’incirca (al minuto 2:00):  http://www.youtube.com/watch?v=rlVPcVR-_lk

Qui un recente sondaggio on-line per contare quanti sono i precari all’università:

http://www.ricercarsi.it/

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Lo spirito dei miei padri si innalza nella pioggia

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Patricio-Pron

di Gianni Biondillo

Patricio Pron, Lo spirito dei miei padri si innalza nella pioggia, Guanda, 2013, 197 pagine, traduzione di Roberta Bovaia

 

L’io narrante è quello di un giovane scrittore argentino che è – e non è (magia del romanzesco) – Patricio Pron. Intellettuale transfuga, con alle spalle otto anni fuori dal suo paese, in Europa, immerso in un quotidiano annebbiato da alcol e droghe. Un modo forse di vivere il momento, come a scrollarsi di dosso un passato, personale e storico, che non si vuole a tutti i costi ricordare. Però il passato torna, inevitabilmente. Il padre del protagonista è ricoverato in ospedale, in fin di vita. Allo scrittore tocca tornare in Argentina,  al capezzale del genitore.

Ottundere la memoria, sembra dirci l’autore di Lo spirito dei miei padri si innalza nella pioggia, non significa davvero dimenticarla. Il rimosso, freudianamente, torna sempre a farci visita, spesso nei modi più inaspettati. Il giovane scrittore, nei suoi giorni argentini, riscopre nella biblioteca paterna, un dossier di articoli di quotidiani che raccontano una squallida storia di cronaca nera. Perché il padre giornalista era interessato a questa vicenda?

La scrittura del romanzo è ossessionata dalla vertigine dell’elenco. Pron elenca e descrive sogni, articoli di giornale, titoli di libri, nomi di scrittori, avvenimenti minuti, fotografie, ricordi, medicinali. A tratti questa tecnica narrativa appare fin troppo stucchevole e compiaciuta, ma è anche il modo che ha l’autore per cercare di fissare, anche solo con un accenno, la realtà alla oggettività delle cose.

Questo è il romanzo di un giovane uomo che cerca il padre che sta per perdere, il quale cercava, prima della malattia, di ricostruire la vita di un uomo, il quale a sua volta era fratello di una ragazza desaparecida negli anni del regime militare. I legami con le persona, insomma, sono così profondi che non possono spezzarsi mai per davvero e gli insegnamenti di una lotta per la democrazia non possono e non devono essere dimenticati, pena, appunto, l’ottenebramento della volontà. La droga della quotidianità.

 

(precedentemente pubblicato su Cooperazione, n° 25 del 18 giugno 2013)