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lo stato terrorista

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di Antonio Sparzani

che cosa vada esattamente inteso con il termine terrorista può essere oggetto di discussione e di interpretazione; io proverò a dire, cautamente e minimalmente, che, se applicato a uno stato, l’aggettivo indica uno stato che, incurante di leggi interne ad altri singoli paesi e di convenzioni internazionalmente sottoscritte, eserciti un potere derivante soltanto dalla propria potenza militare con il preciso e unico fine di perseguire propri interessi nazionali, economici e politici, e proprie aspirazioni di conquista e di controllo di sempre più estese aree del pianeta. L’aspetto terrorista deriva ovviamente dal fatto che il resto del pianeta, data questa prassi, non si sente più protetto da leggi e convenzioni, e vive nel terrore di finire nel mirino dello stato supposto militarmente più potente.

WATT Magazine: la fucina senza alternativa

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WATT Magazine

di Alessandro Chiappanuvoli Gioia

Qualche mese fa, Giuliano, il mio pusher di fiducia, mi molla in mano questi due volumi, diversi tra loro ma di egual peso, uno grigio e grande con un pallino rosso al centro della copertina, l’altro nero, copertina rigida e un bel ragnetto blu preciso nel mezzo. Erano i primi due volumi della “rivista” WATT Magazine, pubblicati rispettivamente nel 2011 e nel 2012, il numero 0 e in numero 0,5. Rivista l’ho obbligatoriamente messo tra virgolette perché WATT non è una vera e propria rivista, è una fucina piuttosto, un laboratorio dove si elaborano scrittura e illustrazione, si fondono insieme, dove si creano nuove armi di culturalizzazione di massa. A capo di questo innovativo progetto ci sono – spulciando un po’ internet – due “vecchi volponi” del mondo dell’illustrazione e grafica e di quello dell’editoria, Maurizio Ceccato e Leonardo Luccone. L’innovazione non sta certo nella dicotomia disegna/racconto, quanto nella forma, sempre nuova e spiazzante, e nell’idea generatrice essenziale. Quando li tenni in mano, da feticista librofilo quale sono, ebbi una strana sensazione in basso, un leggero gonfiore proprio in prossimità del cavallo dei pantaloni. Mi scoprii barzotto, come si dice a Roma, in procinto di avere un’erezione. Me ne feci subito uno, a distanza di qualche settimana, comprai anche l’altro.

Qualche giorno fa, sempre Giuliano, il mio pusher di fiducia, mi telefona e mi chiede se voglio presentare il terzo volume di Watt, il 3,14. Io l’avevo già visto a Torino, alla Fiera del Libro, e l’avevo subito desiderato, poi le sue dimensioni, 33X33 cm, il peso, i soldi che sono quelli che sono, desistetti. Mi dissi, lo comprerò in seguito. E quale occasione migliore allora? Ma c’è dell’altro, Giuliano aggiunge, vieni a prenderlo quando vuoi, te ne metto da parte una copia. Questo significa gratis, questo significa una cazzo di dose gratuita, significa viaggio pagato all inclusive. Capite ora perché Giuliano è il mio pusher di fiducia? Spaccia letteratura e lo fa indipendentemente dalle grandi distribuzioni, dai cartelli, lo fa da dentro la sua piccola libreria, il Polar, lo fa con grande rispetto per il consumatore. Giuliano spaccia prodotti di qualità, WATT ne è un esempio, prodotti che puntano sulla qualità, e lo fa perché…beh, perché anche lui è un dannato tossico di libri.

E Ceccato e Luccone? Ecco, loro invece è come se fossero dei piccoli chimici, al posto di molecole e atomi, maneggiano parole e disegni. Il risultato è il medesimo, alla fine ottengono comunque una reazione chimica, una droga, per i più “deboli” una dipendenza.

Quindi, eccomi venerdì 12 luglio, alla “Festa della Cultura” organizzata dal Partito Democratico, in piazza San Basilio all’Aquila, con il mio volume 3,14 sotto braccio, questo libro grande come un vinile e cromato di bianco, nero e oro, che stringo la mano a due degli autori che hanno contribuito alla sua realizzazione. Sono Pier Franco Brandimarte e Mario Sammarone, sono abruzzesi, sono due di quei pazzi che affollano sempre più le nostre bacheche di Facebook con quella malsana idea di voler fare gli scrittori – «chi è senza peccato scagli la prima pietra». Sono simpatici, alla mano. Viene fuori un bel dibattito. Presentiamo il terzo volume di WATT, poi i loro rispettivi racconti, L’interno della Mercedes e Purificazione, due lavori diametralmente opposti, ma solo di primo acchito. Discutiamo dell’idea di fondo del 3,14, questo numero irrazionale chiamato Pi Greco. Ed ecco che pian piano affiora il fil rouge: l’irrazionalità, la Grecia, e quindi la mitologia, e quindi, rapportato ai giorni nostri, la crisi culturale oltre che economica, l’incertezza che ne consegue, la decadenza (qui per saperne di più); il punto di partenza e i vari snodi dell’avventura wattiana per il 2013.

E il punto di arrivo invece? Beh, facile. Il punto di arrivo è la consistenza qualitativa e materiale dell’oggetto, questo volume grande come un vinile, bello da vedere, da tenere tra le mani, con il suo odore particolare, e ancora queste illustrazioni bianconere e dorate che erompono dalla pagina e si stampano nell’iride, e poi queste voci, queste diverse interpretazioni narrative di echi mitici così lontani e, al contempo, di paure quotidiane così incipienti. Una goduria insomma, per tipi strani come me, per tossici disperati, l’arrivo di un vero e proprio orgasmo.

 

Ho buttato lì un paio di domande per Maurizio Ceccato e Leonardo Luccone, ecco cosa ne è uscito fuori:

A tre anni dalla nascita, cos’è diventata oggi Watt? E come sono cambiati i suoi due “papà”? Quali nuove consapevolezze avete maturato sul vostro “bambino” e quali sul mondo nel quale crescerà?

MC: WATT non ha cambiato sostanzialmente la sua natura autarchica. Quello che affliggeva il mondo della comunicazione quando siamo nati editorialmente era la domanda secolare se nella battaglia per la sopravvivenza si dovesse scegliere tra carta o digitale. Ora direi forbice. E intanto WATT ha continuato ad uscire superando questi dilemmi. Per quello che riguarda IFIX, lo studio continua a interpretare il presente con lo stesso spirito di quando si incartavano fanzine con la spillatrice davanti a un camino.

LL: non è cambiato niente.

Facciamo finta che voi due abbiate risorse infinite e che il mercato editoriale italiano sia grande come quello americano, qual è la prima cosa che fareste? Come diventerebbe Watt magazine? In definitiva, quali sono i vostri desideri più “perversi”?

MC: La perversione del sottoscritto è quella di non stancarsi mai di sperimentare e di raccogliere lo stupore di chi guarda e legge. WATT non potrebbe essere meglio di così anche se lo producessimo su Marte in assenza di gravità.

LL: WATT sarebbe stampata in più esemplari, costerebbe di meno e avrebbe un meccanismo di promozione e distribuzione ancora più organizzato e capillare. Tutto il resto non presenterebbe differenze.

È già in cantiere il prossimo numero? Avete già in mente il filo conduttore per il quarto volume? Dobbiamo aspettarci altre sorprese dal punto di vista stilistico?

MC: no comment. Senza alternativa.

LL: Sì.

http://www.wattmagazine.it/

Overbooking: Antonella Anedda

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Una delle questioni chiave della nostra letteratura va sicuramente cercata negli itinerari degli autori, nelle loro preziose e soggettive cartografie così diverse dalle bibliografie tonanti che si leggono in fondo ai cataloghi delle manifestazioni, dei festival, delle rassegne, insomma di quell’agghiacciante, spesso, fenomeno che potremo definire delle festività letterarie. Premesso che il più delle volte la letteratura non ha un bel niente da festeggiare, ci sono dei libri che quando escono, quasi presupponendo uno stare dentro, prima, da qualche parte, non possono che essere accolti con gioia, felicità, libri che si vorrebbero insomma festeggiare anche quando la voce che li dice è grave e soprattutto se quel libro ha voluto il suo tempo. C’è un passaggio nel libro di Antonella Anedda in cui rivolgendosi alla sua editrice scrive:
Domani scrivo ad Anna e le mando altri brandelli di libro. È stata molto paziente e io invece lenta come una lumaca. A volte ho scritto a memoria, chiudendo gli occhi e ricordando le strade, le cale, le acque, le case, altre volte ho scritto a poca distanza da quello che avevo visto. Non è comunque una garanzia.

Ho cominciato questa mia nota con un’indicazione geoletteraria. Molti narratori del nostro paesaggio, del paesaggio di questi anni, vengono dalla poesia. Beppe Sebaste, Tiziano Scarpa, Massimo Rizzante, Franco Arminio, Gianluca Favetto, solo per citare qualche esempio. Il contributo dei poeti alla narrativa mi sembra fondamentale e questo libro, secondo me, imprescindibile. Ho chiesto così alla casa editrice Laterza l’autorizzazione a pubblicare un estratto che ho amato molto e che, ne sono certo, amerete anche voi (effeffe)

Isolatria
Viaggio nell’arcipelago della Maddalena

di
Antonella Anedda

Cap.4. Villaggio Piras

Vento forte di maestrale in rotazione verso ovest

Oggi siamo andati a fare un bagno al Villaggio Piras. È un centro residenziale tra l’uscita del paese e l’insenatura di Spalmatore, fatto di ville, bouganville, strade curate, molte zanzare. Credo sia il primo villaggio di questo tipo nell’isola, costruito durante il boom economico e faticosamente conservato in seguito. Si arriva superando il Comando della Marina e, girando a sinistra, imboccando la strada con il segnale che recita «Panoramica». Gli edifici brulli e disordinati fanno dubitare del nome quando ecco, quasi a sorpresa nei varchi lasciati dalle case, si spalanca un panorama di acque diverse mischiate dalla luce, fatto di rocce che affiorano e rocce appiattite, grigio scuro e rosso. Tutto l’arcipelago sembra un giardino giapponese appena posato sull’acqua. Spariti nella distanza i condomini con le piscine vuote, le ringhiere scrostate, i mattoni a vista. Man mano che si sale, e le presenze umane si diradano, ci sono solo molti mari diversi moltiplicati dalle insenature. Pochi chilometri e appare la prima baia di Spalmatore, chiamata così perché essendo riparata dai venti veniva usata per calatafare le barche con il catrame. Chi non conoscesse il resto dell’isola e le spiagge di Caprera potrebbe comunque restare abbagliato. Soprattutto al mattino, quando è intatta, si può fare il bagno e prendere un caffè al bar sotto una tettoia di paglia. È uno dei rari posti con un po’ di acqua. Lo si deduce dal canneto e dai pioppi e dalle dalie nelle aiuole. L’ora perfetta di Spalmatore si ferma alle nove e mezza-dieci. La cala è tanto facile da raggiungere da diventare la meta preferita delle famiglie. Da qualche anno ci sono gli ombrelloni e i lettini, i bagni e persino gli spogliatoi.

Tra Spalmatore e quello che chiamo Spalmatore Due, con una spiaggia attrezzata per i disabili e un fondale tra i più belli dell’arcipelago, ci sono piccole, a volte minuscole, cale segrete, nascoste dalla vegetazione. Basta addentrarsi anche poco e si arriva all’acqua bassa e limpida come se tra i lecci ci fosse una fontana.

Ci si può sedere all’ombra, il tempo si azzera, il corpo è nascosto quel poco che serve a scoraggiare altri turisti. Sono cale monouso, chi arriva prima le occupa e generalmente non viene disturbato. Ho trascorso intere mattine così, a volte leggendo, il più delle volte dormendo. Un sonno interrotto solo dai bagni che avvenivano quasi per inerzia, in uno slittamento dalla terra all’acqua.

Con la macchina facciamo la rotatoria all’altezza di Spalmatore Due ed entriamo nel Villaggio. Le ville più alte hanno la vista più bella. L’insenatura ha davanti la punta sud dell’Isola di Giardinelli e a ovest, davanti, l’isola di Caprera. Le rocce da cui tuffarsi si raggiungono attraverso un sentiero che parte da un platano e finisce con un’agave. Riconosco il lentisco, il ginepro, l’erba santamaria; la mia amica Pia, che scrive di orti e di giardini, mi dice che ci sono anche piante di lantana (rinfrescante e diffusa in India), hanno colori diversi: gialle, bianche, arancio. Riconosco le campanule color latte che si chiudono di notte e che ho sempre chiamato belle di giorno.

Quando arriviamo agli scogli l’acqua è azzurro cupo. L’accesso non è difficile, qualcuno ha scostato i ricci. Metto la maschera e come ogni volta di colpo c’è silenzio, il mondo è verde, grigio chiaro per le spugne, solcato da pesci trasparenti. I ricci scalzati dalla riva sono migrati più in basso tra gli scogli sommersi e sembrano note nere sul pentagramma mobile delle correnti. Da quando ho scoperto l’uso della maschera non faccio mai il bagno senza. Mi garantisce la vista e mi accentua la sordità. Vado al largo senza sentire più le voci, affondo il viso nell’acqua, mi volto e immergo tutta la testa. Forse c’è della verità nella frase di Darwin secondo il quale i pensieri migliorano (diventano sublimi, scrive) immergendo la testa nel freddo, ma il motivo è fisico: la pressione si alza e la mente si schiarisce. So a memoria la fine della poesia di Elizabeth Bishop, un’altra delle mie preferite, intitolata At the Fishhouses. Bishop, che ammirava Darwin, mette in relazione acqua e conoscenza. Nulla di astratto, anzi legato al sapore e al tatto. Dopo aver osservato una foca che emerge dall’acqua gelata Elizabeth Bishop parla dell’acqua e della conoscenza usando lo sguardo e poi, appunto, il tatto e il sapore. L’acqua è «cold, dark, deep and absolutely clear». Appartiene al mare, visto tante volte: «I have seen it over and over, the same sea», e tanto spesso visto fluttuare con indifferenza sulle pietre. Quest’acqua però non ci è indifferente. Elizabeth Bishop si rivolge a chi legge e dice: se tu immergessi la mano, il polso ti farebbe male – «your wrist would ache» – fino a bruciare come fuoco in una metamorfosi dell’acqua, se tu l’assaggiassi ti sembrerebbe amara, poi salmastra e poi di nuovo brucerebbe come fuoco. C’è un ritmo di risacca, il fluttuare con il suo movimento è reso da un infittirsi di effe che si trattengono nelle dentali. È la nostra sete di conoscenza? È quello sconsiderato desiderio di bere che ci assale davanti all’acqua particolarmente limpida, anche se sappiamo che è salata?

Shaft (una bracciata) If you tasted it would first taste bitter: se l’assaggiassi (l’acqua) prima ti sembrerebbe amara.
Shaft (seconda bracciata) Then briny, than surely burn your tongue: poi ti brucerebbe certo la lingua.
Shaft e shaft (una bracciata dopo l’altra) It is like we imagine knowledge to be: è così che immaginiamo sia la conoscenza.
Dark, salt, clear, moving, utterly free: scura, salata, limpida, in movimento, completamente libera.
Drawn from the cold hard mouth: estratta dalla dura fredda bocca.
Of the world, derived from the rocky breasts: del mondo, scesa da seni di roccia.
Forever, flowing and drawn, and since: per sempre fluttuante e inesauribile, e finché
(sul dorso, facendo il morto) our knowledge is historical, flowing and flown: la nostra conoscenza è storica, scorre ed è trascorsa.

I versi affiorano insieme alla testa e alle braccia con una traduzione approssimativa, di servizio al mare, mentre mi immergo e risalgo non diversa dalla foca della poesia o da una delle foche, che ho visto nuotare in Irlanda nel mare vicino a Dublino e a cui ho dato anche io da mangiare.

Quando esco definitivamente dall’acqua è primo pomeriggio. Si è alzato vento, le raffiche si allontanano verso Caprera, le onde soffiano. Sono apparse le barche della scuola di vela, bianche su scafi rossi. Si vedono solo le sagome degli allievi, ma arrivano le loro voci e quelle degli istruttori. Sembra non ci sia altro da fare oggi che guardare quei due colori contro il blu, dal verde polveroso dei cespugli.

Al tramonto invece il vento cade, il braccio di mare si trasforma in lago, l’acqua si è illimpidita, rivela ogni roccia, ogni sasso, i pesci, le scie dei motoscafi. L’azzurro è diventato verde ghiaccio. Si può nuotare senza maschera, tutto è sollevato in superficie, si vede ogni particolare. Un cane si butta per seguire la padrona, due bambini siedono sul pontile con le dita dei piedi che sfiorano il mare. Il cane non abbaia, i bambini parlano piano. È una tregua: senza grida, senza strappi, acqua, bestie, adulti e bambini. L’aria è tiepida, il vento fresco ha un tintinnio di campana. Per un momento sembra che la parola cura abbia un senso e sia possibile scostare la paura, accantonare la morte.

Risaliamo il sentiero per tornare a casa. Il tempo di arrivare sul terrazzo e di voltarci. L’acqua è di nuovo scura, le onde hanno bagliori rossi. Il mare davvero è color vino. Quando scendiamo di nuovo in paese, alle otto e mezza, c’è ancora un po’ di luce, ma le candele nei ristoranti, i lumi delle case e i lampioni del lungomare sono già accesi. Ogni volta mi chiedo se, non sapendo l’ora, riusciremmo a distinguere quest’ora dall’alba. Ci riusciremmo: nel tramonto c’è un elemento di stanchezza, di accumulo, assente nella luce mattutina.

Ceno e mi addormento facilmente. Nuotare è il migliore dei sonniferi.

Trovo l’appunto di un sogno, ma chissà se di quella notte. È solo un pezzo di frase incomprensibile che dice: «Sogno l’inizio delle stelle».

Quando mi sveglio c’è una luce livida, il cielo e il mare sono color fucile. Per la prima volta provo un senso di desolazione legato al ricordo di alcune mattine simili a queste quando partivamo dal mare per andare in Continente, a scuola. Ma almeno allora sembrava chiaro da che parte fosse il paradiso: nell’isola, d’estate.

Da allora invece nessun posto mi placa. Amo sempre di più i luoghi di transito, gli alberghi e gli aeroporti, perfino le sale di attesa. Non che mi piaccia viaggiare. I giorni prima del viaggio sono inquieta e durante sono ansiosa, ma appena arrivata mi rassereno e apprezzo quello che ho. Se fa freddo il fatto di potermi scaldare, se ho sonno di dormire.
La lingua non mia, almeno all’inizio, mi culla. Essere stranieri rende il nostro linguaggio precario. Vivere in un paese non nostro costringe alla povertà ma evita le frasi scontate. Contempla l’allerta quasi continua del corpo e della mente. Parlare un’altra lingua ci spella vivi e ci scaccia proprio nell’angolo in cui pensavamo non saremmo più tornati e dove – conosciamo il terreno – ci sono sabbie mobili, smottamento, fango e la nostra voce che muore. Esistono punti della nostra vita in cui affondiamo per metà inghiottiti e agitiamo le braccia e le gambe per risalire, ma quando finalmente risaliamo con quel pugno di parole cominciamo a sopravvivere, sopravviviamo.

L’italiano vero e l’omosessuale

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di Silvia Contarini

Quando nel 2010 uscì la biografia di Maurizio Serra su Curzio Malaparte, recensendola sul Sole 24 ore, Emilio Gentile si augurava che essa fosse definitiva, ossia tale da “consentire di proseguire l’esame critico dello scrittore senza doversi porre nuovamente le domande alternative sull’uomo”. Non conosco gli studi critici più recenti sull’opera di Malaparte per sapere se l’augurio di Gentile abbia avuto seguito; mi chiedo in particolare se Mamma marcia sia stato oggetto di attente letture. Perché mi è capitata fra le mani l’edizione originale di questo  libro pubblicato postumo (Vallecchi 1959), un “romanzo” nelle intenzioni di Malaparte, un insieme composito di testi nel volume edito a cura di Enrico Falqui. Buona parte dei due capitoli finali, intitolati Lettera alla gioventù italiana e Sesso e libertà, sono dedicati a quella che Malaparte chiama “epidemia di inversione sessuale”. L’ossessione era già presente nella Pelle, ma Malaparte sviluppa qui, su decine di pagine, una complicata e a tratti contraddittoria tesi: nella marcescenza generalizzata dell’Europa, si assisterebbe al diffondersi della “corruzione omosessuale”, che non sarebbe il prodotto della guerra, della decadenza borghese, né un “morbo fisiologico”: sarebbe un fatto politico-culturale-psicologico, una reazione alla mancanza di libertà: “In sostanza – scrive Malaparte – lo Stato moderno, tirannico, totalitario, la tirannia sotto tutti i suoi aspetti, genera l’omosessualità”. L’omosessualità è “difesa contro la tirannia […] reazione inconscia alla mancanza di libertà”. Malaparte non si riferisce a personalità come Gide o Proust, ma a un tipo di gioventù comune in tutta l’Italia e in tutta l’Europa, a quello che considera un fenomeno dilagante, prima e dopo la guerra (“Dall’America era sbarcata in Europa una folla enorme di omosessuali di ogni classe sociale”). Non che tutti i giovani fossero pederasti, riconosce Malaparte, “quel che conta è che si atteggiassero tutti a pederasti”; si riferisce soprattutto ai maschi, ma sono incluse le femmine. Malaparte dice di provare una “avversione istintiva” per gli omosessuali, di aver sempre evitato la loro compagnia “sgradevolissima”, del resto per parlare dell’omosessualità usa espressioni come “focolaio d’infezione”. Si sofferma soprattutto sulle “ostentate tendenze comuniste nei giovani omosessuali” che lo preoccupano molto: per “salvare” i giovani da questa “aberrazione”,già negli anni ’39-’40 avrebbe voluto dedicare un numero della rivista Prospettive al tema “Pederastia e marxismo”; ne viene dissuaso da Moravia e Guttuso, dice, perché, in quel tempo, il comunismo era una forza antifascista e non la si doveva discreditare. Malaparte spiega poi che i fascisti hanno tentato di attribuire agli ebrei la “tendenza dei giovani al Comunismo e all’omosessualità […] forse anche per trovar ragioni efficaci all’antisemitismo ufficiale”, affrettandosi a precisare, per essere onesti, dice, come l’accusa fosse ingiusta dato che “gli Ebrei italiani sono stati, fino al 1938, ferventi fascisti nella quasi totalità”. Insomma, per Malaparte, da qualunque parte stia, “l’omosessuale è sempre da temersi, da diffidarne”; e “quando si farà la storia del ‘collaborazionismo’ europeo, si vedrà che la maggioranza degli omosessuali ne facevano parte”. Perfino la ribellione di Roehm contro Hitler viene spiegata come una reazione sessuale inconscia del pederasta Roehm contro la tirannia.

Sarei tentata di liquidare quanto sopra come deliri di un Malaparte fascista e omofobo, deliri che appartengono a un passato senza incidenza su noi e i nostri tempi. Mi sembra troppo semplice. Intanto, perché Malaparte gode fama di intellettuale addirittura prototipico, “arcitaliano”, un “italiano vero malgrado l’Italia” lo definisce Giordano Bruno Guerri, il quale vede gli intellettuali e gli italiani in un modo che mi ricorda tanto il “brava gente”: compiacimento e tolleranza per un popolo di simpaticoni e furbi dei quali si tollera l’intollerabile (http://www.ilgiornale.it/news/curzio-malaparte-italiano-vero-malgrado-litalia.html)

E poi perché da alcune rappresentazioni, da certi qualificativi, viene fuori qualcosa di rivelatore. Per esempio, Malaparte descrive così il comportamento dei giovani che si fanno tentare da comunismo e omosessualità: “Al disprezzo dichiarato per la donna, si accompagnava in loro una tendenza assai chiara a vivere in compagnie femminili, a considerare la donna come una compagna, una camerata, e a dilettarsi della sua compagnia senza sottintesi di natura sessuale, come appunto è proprio degli omosessuali”. Disprezzare la donna, insomma, significa non farla oggetto di attenzioni sessuali, trattarla alla pari, oserei dire considerarla uguale, cosa che un uomo vero – italiano vero – non farebbe mai; l’omosessuale invece sì. D’altronde, l’omosessuale viene aborrito proprio perché si femminilizza, occhi languidi, gesti lenti, movenze femminee, debolezza: “la morale effeminata è la morale dei deboli”. Correlativamente, la donna coraggiosa di fronte al pericolo “si mascolinizza, si virilizza per meglio lottare”. In altri termini, ci sono caratteri femminili (debolezza, languore, corruzione, passività, gelosia) che si addicono alla donna e caratteri maschili (forza, coraggio etc.) che si addicono all’uomo; l’indistinzione e la confusione di genere sono un’aberrazione da combattere.

Formulate così le cose, siamo sicuri che Malaparte sia un caso isolato? Che rappresenti un passato ormai superato? Maurizio Serra, commentando l’amalgama di Malaparte tra comunismo e omosessualità, ricorda che in realtà, a quei tempi era diffusa l’idea che il socialismo avrebbe sconvolto la morale borghese e permesso ogni libertà sessuale: alla repulsione dell’indistinzione sessuale si affiancava il terrore della libertà sessuale. Oddio: tutti liberi di aver l’orientamento e il comportamento sessuale di predilezione! oddio, ruoli e prerogative potevano ribaltarsi! Si capisce meglio la repulsione dei “veri italiani”, quelli di ieri e quelli di oggi.

Conversarii

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luzi

Mario Luzi e Valerio Nardoni
La ferita nell’Essere.
di
Alessandro Vincenti

“Valerio Nardoni è un fortunato incontro che questi tardi anni della mia vita mi hanno regalato. Ho potuto conoscere direttamente in lui alcuni aspetti vivi e franchi della gioventù di oggi e in più una tutta sua personale genialità. Quando le circostanze lo misero, per così dire, sulla mia strada, sapeva poco di me. Coscienziosamente volle acquisirne qualche notizia da conversazioni e letture; poi sollecitato da stimoli sempre meno casuali, decise di esplorare sistematicamente il mio lavoro poetico assai più che semisecolare, e poco più tardi di organizzarlo intellettivamente a suo sogno e libido. Nacque allora l’idea di una antologia non canonica, ma libera e attiva – spiritualmente e fantasticamente attiva – quale soltanto Valerio poteva concepire.” 
Così scriveva Mario Luzi, in prefazione, di Valerio Nardoni, curatore de La ferita nell’Essere. Un itinerario antologico, uscito per Passigli Editori nel 2004 (in occasione dei 90 anni del poeta) e poi distribuito nel 2005 con il quotidiano “La Repubblica”.

L’antologia raccoglie l’amplissima opera poetica di Mario Luzi, uno dei massimi esponenti, insieme a Oreste Macri,  Giansiro Ferrata e Luciano Anceschi dell’ermetismo fiorentino, suddividendola secondo le tre parti in cui il poeta stesso aveva diviso la sua opera: “Il gusto della vita”, dove si trovano poesie della primissima produzione luziana, appartenenti a raccolte poetiche come La barca (1935), Avvento Notturno (1940), Un brindisi (1946), Quaderno gotico (1945), Primizie del deserto (1952) e Onore del vero (1957); nella seconda parte, “Nell’opera del mondo”, sono raccolte poesie che vanno dal 1957 al 1978, appartenenti a  Dal fondo delle campagne (1965), Nel magma (1963), Su fondamenti invisibili (1971), Al fuoco della controversia (1978); la terza parte, dal titolo “Frasi nella luce nascente”, raccoglie poesie dell’ultima fase della produzione del Luzi, con poesie appartenenti alle raccolte Per il battesimo dei nostri frammenti (1985), Frasi e incisi di un canto salutare (1990), Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini (1994).  Alle tre parti se ne aggiunge una quarta – titolo fino a quel momento inedito e concordato con il poeta, come ci dice Valerio Nardoni – “Rigenerazione dell’aria”, che contiene le poesie dell’ultimissima fase della produzione luziana, aperta con la  raccolta  Sotto specie umana (1999).

La ferita nell’Essere – titolo ripreso da un verso della poesia Bimbo, parco, gridi – esplora l’intera produzione artistica del grande poeta fiorentino, attraverso un’operazione di scavo e di dissodamento di vaste zone dell’esteso terreno poetico luziano, per giungere alla faticosa e suggestiva emersione di veri e propri lussureggianti giardini galleggianti dove la poesia di Luzi incontra la suggestiva  prosa dei commenti di Nardoni, liberamente costruiti sullo scrosciare impetuoso della parola di uno dei più grandi e fecondi poeti del ‘900 italiano.
L’impossibilità di riassumere secondo un criterio uniformante una così vasta vicenda poetica, che attraversa più di cinquant’anni di attività letteraria, costringe questa antologia ad affidarsi, per tenere fede al suo compito, alla ricerca delle tracce che la parola ha disseminato su terreni più disparati, seguendo come unico criterio quello dell’Essere in rapporto alla sua esistenza, scandita da avori, orizzonti inquinati di provvisorietà, realite rugueuse, ferite; fino a giungere, a conclusione di questo rapporto, con la rigenerazione dell’aria, “perché la parola del suo significato in divenire possa volare e respirarsi, entrare in altri canti ancora, perché non è più parola di un uomo, ma necessità della sua imperturbabile origine”, come scrive lo stesso Nardoni.

Valerio Nardoni, oggi  vive e lavora a Firenze, ed è un apprezzato critico e traduttore letterario di prose (Miguel de Cervantes, Javier Marías) e raccolte di poesia spagnola (Pedro Salinas, Federico García Lorca, Pablo Neruda, ecc.). Nel 2010 ha fondato il premio di poesia internazionale Premio Ciampi – Valigie Rosse, di cui dirige la rispettiva collana. Nel 2012, per le Edizioni E/O, ha pubblicato il suo primo romanzo Capelli blu (titolo di luziana memoria, dal primo verso della raccolta Un brindisi, che recita: “Ma i tuoi capelli blu dimenticati”). Dal 2003 fino alla morte del grande poeta di Castello, avvenuta nel 2005, ne è stato uno dei più stretti collaboratori.

1) Valerio, ci vuoi parlare di questo incontro con il maestro Mario Luzi?

Ho raccontato in più occasioni del mio incontro con Mario Luzi, in quanto si tratta di un evento davvero straordinario e non senza un lato comico, che permette in qualche modo di rievocarlo con umiltà, secondo quello che è stato veramente: l’incontro fra uno dei più grandi poeti europei del secolo scorso ed uno studentello appena laureato. Cercherò di essere breve, il fatto è questo: per pagarmi gli studi universitari, una volta arrivato a Firenze (da Livorno, la città dove sono nato) ho svolto vari lavori, molto umili, ma anche divertenti, come quello di fare le pulizie in casa di un alcolizzato, proprietario di un ristorante. Intanto, avevo iniziato a studiare spagnolo e come sempre, quando si inizia a scrivere in una lingua straniera, si deve cimentarsi con le cose più semplici, raccontando – come alle elementari – del proprio gatto, della propria stanza, e così via. Io raccontavo delle mie avventure nella casa di quell’eccentrico uomo con la barba bianca fino all’ombelico. La lettrice di spagnolo, per questo ed altri motivi (certo, anche il fatto che alla fine mi sono laureato a pieni voti), dopo la laurea mi propose un lavoro, ovvero mi chiese se fossi stato disponibile a fare assistenza ad un anziano, per qualche ora al giorno, arrotondando così le mie magrissime finanze.
Non sapevo che la stessa persona aveva tradotto in spagnolo delle poesie di Mario Luzi e che fosse amica della più stretta collaboratrice di Luzi in quel momento, così mi presentai per il colloquio pensando che, detta signora, fosse la figlia dell’anziano signore.
Tirai fuori tutte le mie doti più incredibili: so dare la cera, pulire una persiana, intonacare una parete… lei intanto mi diceva che ero perfetto per quel lavoro… e io proseguivo: so portare quattro tazzine da caffè con una mano… finché non mi chiede: ma tu sei laureato? Al che mi stizzisco: so fare di tutto, lavo, asciugo, stiro, ma anche laureato? Ma che vecchietto è?
“E’ Mario Luzi”.

2)Da dove nasce l’idea di “un’antologia non canonica”, ma  attiva, pensante, dove ad ogni poesia fai coincidere una sorta di parafrasi che è può essere considerata pura ricerca delle tracce disseminate del testo ?

La stessa mattina che mi presentai a casa di Mario Luzi, dopo una lunga chiacchierata, scendemmo a fare una passeggiata, e non appena giunti alla fine delle scale, non potei più trattenermi e gli dissi in tutta sincerità: “io so chi è lei, è il più importante poeta vivente italiano, mi deve scusare, ma non posso non dirle questo: io non mai letto una sua poesia”.
Luzi mi abbracciò commosso, un po’ – credo – per la tenerezza della mia spontaneità, e un po’ per il fatto che, come naturale, era circondato da migliaia di petulanti che lo contattavano solo per chiedere, appellandolo di “maestro” e cose varie… sebbene, come me, non avevano forse mai letto un verso suo: alcuni gli inviavano delle lettere scrivendo Luzzi con due zeta!
Ebbene, da quel giorno, con estrema tenacia ed umiltà, ho letto poesia per poesia tutta la sua opera poetica, commentando insieme a lui le varie cose e i miei molti dubbi durante le nostre molte passeggiate…

3) Puoi parlarci del tuo rapporto con Luzi, e in particolare della genesi di questa antologia scritta a stretto contatto con il poeta?

In parte ho già risposto a questa domanda. Per dire ancora del mio rapporto con Luzi, voglio aggiungere soltanto che, nella vita, quando si incontra un uomo grande veramente, ci se ne accorge: a me è successo solo quella volta. Luzi era grande, oltreché nella poesia, in ogni altro singolo istante della sua giornata. Parlando, trasformava il mondo che io mi vedevo davanti agli occhi. Una volta, per fare una cosa carina, piantai due pinoli, da cui nacquero due pini e gliene regalai uno (il mio ce l’ho ancora). Mise il suo sulla sua bella terrazza e un giorno, che commentavamo insieme quanto fosse cresciuto, mi chinai per togliere un filo d’erba che era nato nel vaso. Mi fermò stupito e mi disse: perché lo togli? Non sapevo cosa rispondere, forse rimasi in silenzio a guardarlo, ma ricordo che lui disse ancora: come fai a sapere chi ha più diritto di stare in quel vaso? Dell’antologia voglio dire proprio questo: Luzi ha voluto che il lavoro fosse pubblicato per lo stesso motivo. Era un filo d’erba a fianco dei molti amici, critici e studiosi che lo circondavano, ma era verde.

4) Derrida dice che nella parola scritta non c’è l’essere, ma ci sono le tracce e le assenze dell’essere, che si disseminano nel e dal testo scritto. L’operazione di ascolto di queste tracce/assenze si sono trasformate in un altro testo, nella fattispecie le poesie di Luzi sono riecheggiate in te nella forma della prosa poetica. Una concatenazione potenzialmente infinita, dove lo scarto tra l’essere e il testo e tra testo e testo non potrà mai essere colmato. È questa la ‘ferita nell’essere’ a cui fai riferimento nel titolo dell’antologia?  O meglio, se condividi il fatto che ci sarà sempre una distanza fra ciò che si è e quello che si scrive, una distanza tra quello che si vuole scrivere e quello che effettivamente si scrive, tra quello che uno scrive e quello che un altro legge, perché questa distanza è una ‘ferita’, cioè perché fa male?

Questa domanda è molto bella in sé, non vorrei rovinarla con una risposta banale, ritorno ancora all’oggettività dell’aneddoto. Non ricordo bene quando – se prima o dopo la pubblicazione – Luzi mi disse che a quell’antologia lui teneva molto. Io ero più o meno convinto di aver fatto dei commenti critici ai suoi testi, mentre lui mi disse proprio così: mi piace perché i tuoi non sono commenti critici, tu le rivivi le poesie, anche per scritto. Adesso che molto tempo è passato e leggo la tua domanda vedo anch’io la bellezza di quanto è accaduto, ma sarei bugiardo se non ti dicessi che allora, in qualche modo, ci rimasi persino male. Mi sembrò che mi dicesse che erano degli svolazzamenti, che io della sua poesia non avevo capito nulla. E in effetti è così: io c’ero entrato dentro per esplorarla, non per spiegarla, e le parole con cui ne ero uscito erano del tutto fresche, senz’altro imperfette, ma vive fino in fondo. Tutto sta nel fatto che per lui la poesia era forse proprio questo: la parola che sgorga da una ferita del pensiero. Non a caso il suo ultimo libro edito in vita, che stava allora preparando per la stampa si intitola Dottrina dell’estremo principiante. Oggi, per fare solo un inciso, fra una cosa e un’altra, ho circa un centinaio di pubblicazioni, allora ne avevo zero. Voglio dire che se avessi incontrato Luzi oggi, lui non avrebbe avuto motivo di accogliere un’antologia curata da me.

5) Da un punto di vista umano, cosa ti ha lasciato il rapporto con Luzi?

Spero che questo – proprio per quanto dici di Derrida – si deduca dal tono delle mie risposte precedenti; aggiungo soltanto il profondo stato di peggioramento, di mestizia e anche di miseria intellettuale in cui mi sono ritrovato negli anni successivi alla sua scomparsa. Non era morto solo lui, era anche svanita (per sempre) una grande parte di me che si vedeva soltanto quando c’era lui.

6) Tu sei il fondatore del premio di poesia Premio Ciampi – Valigie Rosse, qual è lo stato  di salute della poesia , oggi,  in Italia? C’è un autore che ti piace, che segui ?

Nell’ambito del Premio Ciampi – Valigie Rosse io curo la sezione di poesia straniera, non italiana, che è invece affidata a Paolo Maccari, lui stesso poeta, ma in questo caso impegnato per le sue straordinarie qualità di critico. Paolo, più che l’assegnazione annuale di una patacca, sta mettendo in piedi una mappatura della poesia italiana contemporanea: ogni vincitore viene premiato con la pubblicazione di una plaquette inedita. Sta nascendo così una collezione di piccoli libri (che potete vedere sul sito ) che dimostra meglio di qualunque altra mia affermazione che la poesia attuale ha ottimi rappresentanti e che la battaglia per la cultura, oggi più che mai, vale la pena di essere combattuta. Valigie Rosse è una collezione di libri totalmente no-profit, nessuno guadagna nulla, ma tutti contribuiscono affinché in circolazione ci sia un libro in più: un libro selezionato… e qui si aprirebbe tutt’altro ambito di discussione…

7) Progetti per il futuro?

In questo momento sto lavorando come docente a contratto presso l’Università di Modena, dove tengo un corso di traduzione dallo spagnolo. Spero che questa esperienza possa durare ancora un po’: effettivamente, insegnando, si impara molto. Il problema, come al solito, sono i soldi… non solo per studiare, purtroppo, ormai, anche per lavorare all’università spesso bisogna avere un altro impiego… ma non mi capiterà più un colloquio di lavoro altrettanto straordinario come quel misterioso vecchietto!
Passando ad un piano più personale, dopo Capelli blu, mi piacerebbe riuscire a portare a termine un altro lavoro di scrittura, ho alcuni progetti aperti, di cui uno in particolare mi ha impegnato molto negli ultimi mesi. Come tutte le cose che impegnano la persona, non è facile: c’è sempre qualcosa che si interpone e che disturba l’atmosfera intensa ma delicata della scrittura, che recupero con fatica e che spesso mi sfugge. Voglio dirlo diversamente, citando la tua bella domanda: la ferita continua a fare male, i punti di sutura tirano, il pensiero non si placa, ma non sempre produce parole.

Dimenticare la realtà: spiritismo occidentale e sciamanesimo decoloniale

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di Federico Luisetti

“… una parte importante del nostro patrimonio culturale proviene – attraverso tramiti che in gran parte ci sfuggono – dai cacciatori siberiani, dagli sciamani dell’Asia settentrionale e centrale, dai nomadi delle steppe”

Carlo Ginzburg, Storia notturna. Una decifrazione del sabba (Einaudi, 2008, p. 266)

Shaman Pirinisau (Melanesia, Isole Salomone), Spiriti IV-13, 1932-1933, matita su carta 21 x 33 cm (Il Palazzo Enciclopedico, la Biennale di Venezia, 55a Esposizione Internazionale d’Arte, 2013)
Shaman Pirinisau (Melanesia, Isole Salomone), Spiriti IV-13, 1932-1933, matita su carta 21 x 33 cm (Il Palazzo Enciclopedico, la Biennale di Venezia, 55a Esposizione Internazionale d’Arte, 2013)

 

 

Passeggiavo per le sale del Palazzo Enciclopedico, la wunderkammer allestita da Massimiliano Gioni all’interno della Biennale di Venezia, tra le pietre magiche di Roger Caillois e i dipinti tantrici del Rajasthan, le geometrie misteriose di Rudolf Steiner e il bestiario di Shinichi Sawada, i mari notturni di Thierry De Cordier e i disegni sciamanici delle Isole Salomone, i girasoli di Stefan Bertalan e i readymade africani di Papa Ibra Tall, e mi pareva che un passaggio d’epoca stesse materializzandosi. Nonostante la presenza di molti protagonisti delle avanguardie e neoavaguardie storiche, la sensazione non era di una coazione a ripetere una mistica dell’arte, esoterismi e pratiche iniziatiche del secolo passato, ma di una coagulazione ambientale di naturalismi e orientalismi, di saperi indigeni e atteggiamenti premoderni: uno sciamanesimo decoloniale, una decreazione dell’estetica e dell’antropologia politica occidentale; un oblio volontario della modernità …

Nel mentre, lontano dalla confusione biocosmica di queste immagini, proprio quando gli ultimi brandelli di jus publicum europaeum stanno per essere inghiottiti dal loro parto mostruoso e l’Occidente atlantico si rassegna ad abdicare a quattro secoli di colonialismo geopolitico e universalismo geofilosofico abbandonando l’America al Pacifico e al suo destino orientale, ecco che su scarni libri e tristi giornali, dalla periferia di un impero in disfacimento, in un cantuccio abitato da due papi e bagnato da un piccolo mare cementificato, un manipolo di letterati e scolastici, ritti sulle macerie di cattolicesimi monchi e umanesimi cortigiani, di marxismi pavidi e storicismi ecumenici, capta tra le rovine di epoche passate il cigolio delle catene di un antico fantasma: è lo spettro del reale!

Per quale ragione questo lugubre fantoccio non trova pace? Perché le sedute spiritiche di realisti nuovi, epici, critici, speculativi, rivoluzionari e traumatici continuano a destarlo e stuzzicarlo? Come mai i vivi non seppelliscono i morti, perché interrogare senza posa il codice infame del reale e auscultare i suoi rantoli epocali? Vi fu un’epoca in cui l’Europa e la civilità, l’uomo e la modernità, il progresso e il capitale facevano problema. Non è il nostro tempo. Il nostro è tempo di altri – di altri mari e di altre parole, di altre nature e altre economie, di altri popoli e altre immagini – e i nuovi realisti temono l’afasia, il collasso silenzioso dell’Occidente, l’esaurimento della teologia politica e del mercato, del sociale e del politico, dell’individuo e dei diritti, del sapere e della ragione. Temono l’evanescenza dell’essere e della critica, della rivoluzione e della libertà. Non sanno che tutto ciò è già accaduto, che le immagini hanno sepolto le parole, che la loro è una lingua morta per tormentare i morti. Lingua di spiritisti, non di sciamani.

Mentre i nuovi realismi si esercitano in questa filosofia della prassi necromantica, in un tentativo disperato di prolungare l’erranza funesta dell’ectoplasma occidentale, lo sciamanesimo decoloniale inventa una politica di deoccidentalizzazione, si getta in un’impresa enorme e affascinante sostenuto da una nuova alleanza tra saperi indigeni e critica della civiltà, tra pensiero postcoloniale e nichilismo. Gli stregoni e i selvaggi, le pietre e gli ornamenti, gli emblemi e i bestiari, i guaritori e i viaggiatori notturni del Palazzo Enciclopedico suggeriscono delle pratiche di naturalizzazione e decristianizzazione, un orientalismo e un minimalismo politico, un multinaturalismo e delle metafisiche cannibali, dei rituali di fertilità, una vitalità, una biopolitica affermativa estranea allo stato di natura occidentale [1].

Agli albori della modernità, quando l’Europa si transustanziò nell’Occidente e nella civilità, imponendo il proprio nomos della terra [2], ripartendo terre e mari, spazio del diritto e dell’eccezione, della produzione e della rapina, tra Hobbes, Locke e Rousseau fu uno stato di natura a sigillare questa violenza geostorica, disegnando selvaggi e civilizzati, una bestialità e una umanità, un’antropologia e una storia. Furono in pochi nei secoli successivi, prima delle rivolte decoloniali, a scorgere e sfidare questo apparato concettuale e politico. Chi lo fece accusò lo stato di natura della modernità, il cristianesimo politico e la civiltà, e perciò fu messo al bando o fagocitato e neutralizzato. E’ ciò che accadde a Leopardi, che dedicò la vita a denunciare lo stato di natura occidentale, “la scuola degli Europei”, a immaginare la “vita degli animali e delle cose indipendente, dall’uomo e da quelli che noi chiamiamo avvenimenti”, a inventare una lingua e una etnografia selvaggia fatta di luna e foreste, di greggi, uccelli e Californi … [3].

Il potere destituente di Leopardi fu uno sciamanesimo poetico, il suo obiettivo una “civiltà media” rinaturalizzata e desocializzata; come nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, ispirato ai resoconti sui canti dei pastori nomadi kirghizi, con il suo orizzonte animalistico, la cadenza incantatoria e il viaggio cosmico finale: “Forse s’avess’io l’ale/Da volar su le nubi,/E noverar le stelle ad una ad una,/O come il tuono errar di giogo in giogo,/Più felice sarei, dolce mia greggia,/Più felice sarei, candida luna”.

Il nostro stato di natura? Un terzo nomos atlantico, la barbarie dell’homo economicus, lo spiritismo dell’algido reale occidentale? Oppure uno sciamanesimo decoloniale, il ritorno di una natura sconosciuta e perturbante, la decreazione dell’Occidente cristiano …

 

[1] “Le organizzazioni di potere dello sciamano, del guerriero, del cacciatore, fragili e precarie, sono tanto più spirituali quanto più passano per la corporeità, l’animalità, la vegetalità”, Gilles Deleuze e Félix Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, Castelvecchi editore, 2006, p. 272. Sul minimalismo politico cfr. R. Barthes, Le Neutre: Cours au collège de France (1977-1978), Seuil, 2002; sul multinaturalismo e le metafisiche cannibali cfr. Eduardo Viveiros de Castro, Métaphysiques cannibales, Presses Universitaires de France, 2009.

[2] Cfr. Carl Schmitt, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello jus publicum europaeum, Adelphi, 1991.

[3] “… anche oggidì nelle Californie selve, e nelle rupi, e fra’ torrenti ec. vive una gente ignara del nome di viltà, e restìa (come osservano i viaggiatori) sopra qualunque altra a quella misera corruzione che noi chiamiamo coltura. Gente felice a cui le radici e l’erbe e gli animali raggiunti col corso, e domi non da altro che dal proprio braccio, son cibo e l’acqua de’ torrenti bevanda, e tetto gli alberi e le spelonche contro le piogge e gli uragani e le tempeste  … La nazione de’ Californii, per ciò che ne riferiscono i viaggiatori, vive con maggior naturalezza di quello ch’a noi paia, non dirò credibile, ma possibile nella specie umana …”, G. Leopardi, Abbozzo dell’Inno ai Patriarchi e Nota del 1824 all’Inno ai Patriarchi.

 

 

Ritorno alla terra

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di Angelo Mastrandrea

Non poteva avere obiettivo più diretto, l’annuale convegno della Società dei territorialisti, svoltosi a Milano alla fine di maggio: “Ritorno alla terra”. I territorialisti non sono post leghisti né ideologi del Nimby – acronimo di “not in my backyard”, “non nel mio giardino” –, appendice estrema e conservatrice della resistenza all’apertura delle frontiere geografiche e culturali. Sono architetti, ingegneri, docenti universitari, attivisti neoruralisti. Un po’ seguaci del filosofo della “decrescita felice” Serge Latouche, un po’ teorici dell’alleanza tra produttori e consumatori, tutti proiettati verso un modello di sviluppo eco-compatibile, si definiscono “entomologi del territorio”.

Per questo si pongono agli antipodi rispetto ai nonluoghi del mercato globale, all’appiattimento dei gusti e dei consumi, alla globalizzazione che sotterra ogni identità. In questo momento, sono la punta teorica avanzata di un fenomeno che, nella crisi del neoliberismo, prende sempre più piede: quello del ritorno alla terra, appunto. Per inquadrarlo al meglio è necessario fare un po’ di conti: la Cgil e Sbilanciamoci hanno stimato nel 25% la perdita di produzione industriale in Italia dal 2008 a oggi; viceversa, ci dice l’Istat, in agricoltura le assunzioni sono aumentate del 3,8% rispetto allo scorso anno. In questo quadro, il biologico fa registrare addirittura un +10% di fatturato: basta farsi un giro nei mercatini bio di mezza Europa, specie nei paesi del Nord dove la diffusione di questi prodotti è di massa, per rendersi conto di come il cibo italiano sia diffuso.

Se si pensa che nel 1860, al momento dell’unificazione, l’Italia era un paese che viveva al 90% di agricoltura, e di come la “civiltà contadina” di cui tesseva le lodi il poeta-scrittore-politico Rocco Scotellaro sia stata spazzata via a partire dal dopoguerra, potremmo essere di fronte, oggi, al primo segnale di inversione di tendenza. I territorialisti, dal canto loro, mettono legna al fuoco del progetto di riconversione agricola: parlano di filiere alimentari sostenibili, chilometro zero e alleanze tra produttori e consumatori. Propositi tanto affascinanti quanto realizzabili, a Nord, se si pensa che l’Expo 2015 di Milano avrà come tema portante l’alimentazione, tra i consulenti scientifici c’è l’ecologista indiana Vandana Shiva e un po’ di risorse stanno andando alla ristrutturazione delle vecchie cascine lombarde, alcune inglobate nello sprawl urbano, altre tuttora in aperta campagna.

Anche a Roma, la città d’Europa con più terreni agricoli, si sta affermando un movimento di “nuovi contadini” che formano cooperative e si attrezzano a coltivare in maniera attenta alla salute e al territorio. “Siamo in presenza di un vero e proprio fenomeno, ma sappiamo bene che su cento giovani che si avviano su questa strada, alla fine rimarranno in venti”, mi dice il presidente dell’Aiab Lazio Adolfo Renzi, che incontro alla Città dell’Altra Economia nell’ex Mattatoio di Testaccio, a Roma, uno dei punti principali di sbocco della produzione biologica in Italia. Al netto dell’entusiasmo e della moda degli orti urbani – mediaticamente attraente e finalizzata all’autoconsumo, ma dai numeri ancora poco significativi – per parlare di una conversione a U del nostro sistema produttivo bisogna innanzitutto sviscerarne le difficoltà. La prima è la durezza del mestiere del contadino, il suo essere legato alla stagionalità.

“Questo settore è per sua natura precario. Su un milione e centomila lavoratori, solo centomila hanno un contratto a tempo indeterminato”, mi spiega Davide Fiatti della Flai Cgil. La seconda è l’accesso alla terra: è forse esagerato affermare che siamo in una situazione analoga a quella dell’immediato dopoguerra, prima della riforma agraria, però gli intoppi, per un giovane che voglia mettersi a fare questo lavoro, sono notevoli. “Non è che la terra manchi in assoluto: ce n’è tanta abbandonata, altra è di proprietà pubblica. Ma il problema in Italia è l’edilizia: a Roma le terre sono nelle mani dei costruttori, e nei paesi i piccoli proprietari hanno come obiettivo quello di poterci costruire”, dice Renzi.

La politica non li ha abituati bene: il settore delle costruzioni ha trainato il boom economico del dopoguerra, l’Italia è diventata un paese di proprietari di case – l’80% ne possiede almeno una – ed è sempre arrivata, prima o poi, una modifica dei piani regolatori a consentire di edificare o un condono a sistemare gli abusi. In Francia il problema è stato affrontato dando in comodato d’uso gratuito per due anni le terre incolte nelle mani dello Stato, e altrettanto si potrebbe fare da noi. I benefici potrebbero essere notevoli: stando alle stime della Confederazione italiana agricoltori (Cia), dall’agricoltura potrebbero nascere 150mila nuovi posti di lavoro, offrendo uno sbocco alla crisi occupazionale dei giovani.

La Coldiretti si spinge persino più in là: i nuovi occupati potrebbero essere 200mila. Già nel 2012, a fronte di una recessione in quasi tutti i settori produttivi, quello agricolo è andato in controtendenza, facendo registrare una crescita dell’1,1 del Pil. “Sono dati che, sommati all’andamento in crescita sia dell’occupazione sia delle nuove aziende agricole iscritte negli elenchi delle Camere di commercio, dimostrano la vitalità di un settore che continua a muoversi con una tendenza anticiclica rispetto al resto dell’economia”, commentano alla Flai Cgil. Il problema dell’accesso alla terra è stringente a tal punto che a Roma è nato un Coordinamento dei soggetti che si battono per ottenerlo.

Lo scorso 10 maggio le organizzazioni che ne fanno parte – tra le quali l’Aiab, le associazioni Terra e Da Sud, la Flai Cgil – hanno manifestato su un terreno di 22 ettari, di proprietà del comune, a Borghetto San Carlo, sulla via Cassia. L’obiettivo dei manifestanti era di far sì che il comune lo affittasse a una cooperativa di giovani agricoltori. “Trasformati da fondi dimenticati in aziende agricole, terreni come questo potrebbero essere quella green economy di cui tanto si parla”, ha dichiarato in quell’occasione Marta di Pierro, dell’Aiab Lazio. Qualche giorno fa le stesse organizzazioni hanno consegnato al neosindaco di Roma Ignazio Marino 10mila firme raccolte in calce a una petizione che rivendica l’assegnazione delle terre incolte ai giovani agricoltori.

“Abbiamo chiesto di rimettere l’agricoltura al centro dell’agenda politica per difendere i posti di lavoro e crearne di nuovi in grado di assorbire la domanda occupazionale dei giovani”, ha dichiarato il segretario regionale della Flai Alessandro Borgioni. Per il sindacato della Cgil, solo a Roma si potrebbe dare occupazione a 35mila persone. Secondo la Coldiretti il 42% dei giovani, se avesse accesso alla terra, sarebbe disposto a darsi all’agricoltura. Un terzo elemento di difficoltà è il credito. Il 65% dei giovani – stando a un sondaggio Swg/Coldiretti – lamenta difficoltà ad accedervi, mentre il 67% ritiene necessari strumenti di finanziamento agevolato. In questo caso, si tratta di una situazione non dissimile da quanto avviene in altri settori. Nel frattempo, soprattutto al Nord si avvicinano le distanze tra produttori e consumatori.

Nei Distretti di economia solidale (Des), molto attivi in particolare in Brianza, i gruppi di acquisto (Gas) fioriti in risposta alla crisi ma anche all’esigenza di consumare prodotti a chilometro zero e con garanzie di qualità, si incontrano con i coltivatori, accorciando drasticamente la filiera produttiva e sperimentando un modello mutualistico. L’obiettivo – rilanciato al convegno annuale della Società dei territorialisti – è quello di creare una Rete nazionale di economia solidale, esportando il modello in tutto il paese. Un’indagine commissionata dalla Cia alla Doxa ha messo in fila alcuni punti rilevanti per il settore: l’importanza della vendita diretta e dei mercati contadini per veicolare i prodotti, l’esistenza di uno spazio imprenditoriale per i distributori, la necessità di creare consorzi di aziende e di formare competenze per raggiungere nuovi canali di vendita, sostegno agli investimenti in attrezzature e mezzi per la distribuzione e la commercializzazione dei prodotti.

Anche nel Mezzogiorno d’Italia, dove il Pil negli ultimi cinque anni è andato giù più che in Grecia, l’agricoltura non è solo sfruttamento della manodopera migrante e caporalato. La Calabria, ad esempio, è al secondo posto nel paese per numero di aziende biologiche e per ettari di terreno coltivati, appunto, biologicamente. I “nuovi contadini” non hanno più nulla a che vedere con quell’“agricoltura dell’assurdo” stigmatizzata da Manlio Rossi Doria in un celebre discorso al Teatro Stabile di Potenza, nel 1949: un modello produttivo votato all’autoconsumo, in cui la sproporzione tra l’impegno lavorativo e i risultati concreti aveva il solo effetto di rendere l’attività diseconomica e defatigante, al punto di indurre le persone a emigrare in cerca di condizioni di lavoro e di vita più soddisfacenti.

(da rassegna.it)

Egitto. Do you remember revolution?

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di Giuseppe Acconcia
in risposta all’articolo di Alloni
pubblicato su Nazione Indiana

Era il 30 giugno scorso, quando milioni di persone sono scese per le strade delle principali città egiziane per chiedere le dimissioni del presidente Mohammed Morsi. La televisione pubblica parla di 30 milioni di persone, mentre i Fratelli musulmani di un’invenzione da Photoshop. Erano in strada alcune centinaia di migliaia di persone, forse un milione, non certo i 30 invocati dall’esercito. A motivare la protesta una dura critica alla politica economica di un anno di gestione del potere da parte dei Fratelli, esacerbata da una campagna di raccolta firme (Tamarrod) ampiamente sostenuta da Servizi segreti, televisione di stato e uomini del vecchio regime di Mubarak. I militari egiziani hanno imposto 48 ore di tempo alle forze politiche per trovare una soluzione alla crisi. Il 3 luglio 2013 il presidente Morsi è stato arrestato dalla Guardia presidenziale, è detenuto in un luogo segreto (con un’accusa inconsistente di evasione grazie a contatti con il movimento palestinese Hamas arrivata oltre due settimana dopo l’arresto) e sono stati spiccati mandati di cattura contro i principali leader del movimento islamista. Da allora la Fratellanza ha occupato permanentemente alcune piazze della città non riconoscendo il nuovo presidente Adli Mansour e l’esecutivo pro tempore guidato da Hesham Beblawi.

Un colpo di stato militare, con la complicità di giudici e polizia
I giovani rivoluzionari accusano esperti, analisti e politici stranieri di faziosità quando, in riferimento agli eventi correnti, parlano di enqlab, colpo di stato. Ma che si sia trattato di un golpe militare lo ricordano i carri armati che ancora si scorgono intorno ai ministeri, alle banche e ai posti di blocco. Si può forse aggiungere che la deposizione di Morsi non ha trovato unanime sostegno da parte della leadership militare. Tanto che l’attuale ministro della Difesa, Abdel Fattah Al Sisi ha rappresentato l’intervento militare come dettato dalle manifestazioni di piazza. Secondo lui, la democrazia egiziana sarebbe ispirata più dalle contestazioni di piazza che da libere elezioni.

Sisi, che vanta una formazione nasserista era stato scelto proprio da Morsi a guida delle Forze armate per sostituire il colonnello Hussein Tantawi. Il colpo di mano dell’esercito è servito a ristabilire la supremazia militare sull’élite politica, a evitare divisioni all’interno dell’esercito e a favorire l’ascesa di un prestanome Adli Mansour, come presidente, per riprodurre un’ambigua separazione tra potere politico e militare. Non solo, ha forse evitato un ulteriore spargimento di sangue se le due piazze, una degli islamisti, l’altra dei “ribelli” si fossero direttamente scontrate.
Ma a rendere possibile il golpe, in un momento in cui l’esercito sembrava avere ridimensionate chance politiche dopo un anno e mezzo al potere del Consiglio supremo delle Forze armate (Scaf) e i continui slogan che echeggiavano nelle piazze contro il governo della giunta militare, è stato l’intervento di un’altra «casta»: i giudici. I principali oppositori alle epurazioni volute dalla Fratellanza hanno avallato la decisione dell’esercito.

I magistrati egiziani sono una casta con ampi privilegi, che ha fortemente ostacolato l’ascesa dei Fratelli musulmani al potere. E neppure ha di fatto riconosciuto la validità della nuova Costituzione, approvata con referendum popolare lo scorso dicembre. A prendere le mani della presidenza della Repubblica è stato proprio il presidente della Corte costituzionale. La stessa assemblea che aveva disposto lo scioglimento del Parlamento, legittimamente a maggioranza islamista.
Certo, si può obiettare che l’opposizione dei Fratelli musulmani verso i giudici non fosse disinteressata ma una sorta di regolamento di conti. Per questo, non è un caso se Mansour ha nominato immediatamente un nuovo procuratore generale, Hisham Barakat, ex capo dell’ufficio tecnico della presidenza della Corte d’Appello del Cairo. E poi i giudici non hanno pensato due volte a spiccare una quantità enorme di mandati di arresto contro esponenti dei Fratelli musulmani. Un numero del genere non si vedeva dai tempi delle retate contro la Fratellanza dell’era Mubarak.

I leader islamisti non puntano il dito direttamente contro i giudici ma contro il ministero dell’Interno, parlando di «stato di polizia» e di «una magistratura complice». Grande assente dalle strade egiziane nei mesi seguenti alle rivolte del 25 gennaio del 2011, la polizia è tornata in gran numero a presidiare dovunque le vie e il traffico delle città egiziane. Responsabile della raccolta delle tasse e della definizione dei prezzi nei mercati, di arresti e multe, la polizia egiziana ha avuto per anni comportamenti sommari. Per questo è stato il primo obiettivo dei contestatori che hanno dato fuoco a decine di centrali di polizia in tutto il paese, oltre due anni fa. Ma ora la vendetta è compiuta, i Fratelli musulmani sono stati di nuovo marginalizzati. E non stupisce se le strade egiziane risplendano ora di centinaia di uniformi bianche, nuovissime, e di nuove armi in dotazione. Lo stato è tornato a controllare il Paese: la contro-rivoluzione, che aveva vinto con la presa del potere da parte della giunta militare, ha imposto di nuovo il suo controllo su tutti i meccanismi di gestione del potere.

Cinque colpi di stato rappresentati come rivoluzioni
Le rivolte in Egitto del 1882 del 1952, passando per il 1919 e il 2011, si sono trasformate in altrettanti colpi di stato militari, ma nei libri di storia egiziani questi episodi vengono rappresentati come delle rivoluzioni. Con molta probabilità lo stesso avverrà con il 30 giugno 2013. Questo rientra anche nella strategia mediatica della gestione del colpo di stato che ha rappresentato il golpe non come militare o giudiziario, ma sociale.
Molti dei giovani attivisti di Tamarrod (ribellione) credono a questa spiegazione. Il 3 luglio 2013 viene raccontato da questi giovani come il risultato dell’occupazione sistematica di tutte le principali strade delle città egiziane da una folla di milioni di persone, che ha «costretto» l’esercito a intervenire. Con loro si sono schierati: i liberali di Mohammed El-Baradei, che ha accettato la carica di vice-presidente; i feloul, la base sociale del vecchio regime di Mubarak; e l’amministrazione pubblica: il così detto «stato profondo» che ha reagito ad un anno di governo ed errori degli islamisti. Non solo, hanno appoggiato il golpe, criticando le continue discriminazioni, anche i cristiani copti e la loro leadership politica e religiosa, dal magnate di Orascom Naguib Sawiris al papa Tawadros.

I Fratelli musulmani puntano poi il dito contro gli Stati Uniti e hanno più volte invitato a manifestare alle porte dell’ambasciata americana al Cairo. Nei giorni scorsi, dalla Casa bianca era arrivato al Cairo il vice segretario di Stato, Bill Burns. Mentre un fuoco di fila incrociato aveva colpito l’ambasciatore statunitense al Cairo, Anne Patterson (di cui Repubblicani e anti-Morsi chiedono la rimozione) per i suoi incontri con la leadership dei Fratelli musulmani precedenti al colpo di stato.
Questo sembra il segno di una divaricazione tra presidenza degli Stati uniti (Obama aveva chiesto la revisione degli aiuti militari all’Egitto e ha ottenuto il blocco momentaneo della prevista fornitura di F-16) e Pentagono (che ha confermato l’invio di aiuti militari pari a 1,3 miliardi di dollari). E così, i diplomatici americani sono sempre più abbandonati a loro stessi nel tentativo di confrontarsi con il nuovo corso politico nei paesi delle rivolte in Nord Africa e Medio Oriente, come insegna il caso dell’ambasciatore Chris Stevens ucciso lo scorso settembre in Libia.
Il colpo di stato del 3 luglio 2013 riporta i giovani egiziani ad essere strumento dell’élite militare che ha adottato una nuova leadership liberale, connivente con magistratura, polizia e uomini del vecchio regime, con consolidate relazioni internazionali, in sostituzione dei Fratelli musulmani. Ma non è detto che la storia egiziana non continui a parlare di rivoluzione.

Sturm und tram

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di Natalia Castaldi

TramTsint

“Era l’unica cosa da fare”, ripeteva tra sé, stringendo i lembi del cappotto sul petto. Non aveva mai creduto alle cose durature, all’eterno manco a parlarne, ma non riusciva a dimenticare quel volto, quello che avrebbe dovuto cancellare col suo solito cinismo. La stagione delle cose passate, quella degli ideali per cui lottare si era spenta dentro il suo sguardo cupo, che a guardarlo bene fino in fondo, rifletteva un abisso di paure e rimpianti infantili, che solo gli abbandoni ingiustificati possono generare. Aveva visto disfarsi ogni angolo della casa. La famiglia sgretolata dai suoi errori. I suoi errori erosi dall’amore morboso di una borghesia esistenziale che lo voleva incastrare. “Come si nasce anarchici?”, si chiedeva.

“A ben vedere è un dato esistenziale”, continuava. “Genetico”, gli avrei voluto suggerire, tuttavia l’aggettivo che avevo scelto cozzava, ingiustificato, con la postura perfettamente adagiata all’equazione sociale che la sua famiglia aveva sempre espresso, godendo del rispetto e della stima di tutto l’apparato partitico e familiare di quella città così piccola e tanto stretta da farlo soffocare. “Eppure nascere diversi è una colpa che non ci appartiene, è un dato di fatto che ci ritroviamo tra le mani”, continuava in quel monologo silenzioso e stretto, che lo attraversava in un principio freddo di primavera. Era stato bello, lo era ancora. Segnato, logorato, ma ancora saldo in un portamento fermo nelle sue necessarie rinunce, nella sua smania di cercare sempre e ancora oltre ciò che sapeva di non potere più superare. Il vento freddo e umido lo spinse ad allungare il passo. Richiudersi tra le vecchie mura di quella vecchia casa panoramica che, ormai muta e libera dagli sfarzi della generazione precedente, era decaduta nell’essenziale alla sopravvivenza del suo incessante riflettere sulla natura ferma e ineluttabile delle cose, degli oggetti e della sua stessa esistenza, era la sola cosa che potesse chiedere al mattino per ricondursi tragicamente alla sera. Leggeva, leggeva incessantemente, divorava libri saltando le pagine dalla fine all’inizio e ancora e di nuovo, fino a cercarne il punto focale, la risposta inesistente alla sua consapevole finzione. Lo ossessionava l’idea del tempo.

“È solo un’estensione dello spazio, la misura con cui misuriamo la lunghezza del percorso”, concludeva ad ogni lettura. La penombra della casa era una soluzione necessaria ad annientare il tempo nella staticità della luce, che la manteneva intatta nel suo percorrerla avanti e indietro in cerca di una frase, un appiglio, un’idea necessaria per potersi rimettere a scrivere. Si rifiutava di scrivere al computer, lo schermo era troppo luminoso, troppo finto per permettergli di inventarsi di nuovo in carne ed ossa, come la fatica della mano sull’Olivetti gli imponeva. Riavvolgere il tempo nella successione degli eventi rimescolati in un’unica esperienza di vita che si moltiplicava ad ogni capoverso, gli procurava il godimento della spinta manuale del carrello a fine margine per tornare indietro, ma un rigo avanti e ancora, nell’ironia del ritorno e del sorpasso di sé ad ogni ora. Una donna non avrebbe mai potuto accordarsi a quella noia metodica e coltivata con tanta sapienza, con tanto garbo silenzioso, elegante nella sua ribellione. Di tanto in tanto lasciava che qualcuna varcasse la soglia, scopavano, poi lei se ne andava sapendo bene che lui non avrebbe mai fatto nulla per ripetere la scena, per riportarla dentro quelle lenzuola, per riviverla ancora. Era un atto consapevole e consenziente di puro soddisfacimento sessuale. Il nome non gli interessava, né il colore dei capelli, né lo sguardo, né l’ansimare. Finiva tutto nell’istante stesso dell’eiaculazione: un’espulsione veloce e necessaria di piacere ed endorfine necessarie per riprendersi la noia, il silenzio e la super-esistenza dei personaggi che, di lì a poco, avrebbe dovuto ricominciare a inventare.

Quando anni prima la incontrò sotto una pioggia leggera e incessante, si ritrovarono a ripararsi sotto lo stesso cornicione. Lui amava osservare i tram salire e scendere per le strade di Lisbona e lei era quella che avrebbe scritto in mille storie, con i suoi capelli sfatti dalla pioggia e lo sguardo smarrito da gattino spelacchiato. Una donna anonima per il resto del mondo, una donna semplice dai tratti visibilmente materni, per nulla seducenti, che sapevano di affanno, di cucina, di figli da prendere all’uscita della scuola. Tutto questo l’avrebbe resa unica e ossessiva nella sua memoria, come quell’unico tradimento che consumarono insieme, velocemente, in una squallida camera d’albergo in un borgo interno nel centro di Lisbona. “Era l’unica cosa da fare”, si ripeteva andando avanti e indietro nella penombra della sua stanza, lontana quattro ore di volo da quella camera d’albergo, dal saliscendi dei tram, dall’odore di cucina buona nei suoi capelli. Prese il foglio e lo arrotolò nell’Olivetti metodicamente, con la passione di un amante che cura ogni dettaglio prima di sfiorare il corpo perfetto del suo desiderio da soddisfare. La riscrisse ancora e ancora, chiusa e sola nel rimorso del suo unico peccato, nella rincorsa dei figli che crescevano, nelle rughe che le segnavano di ricordi il viso. E lariscrisse oltre la morte violenta nel saliscendi di uno dei tram di Lisbona. Il trafiletto della cronaca nera riportava la breve storia del suicidio di una donna fragile di mente. Di lei sapeva i capelli, il dettaglio dei nei, la semplicità del nome, ma era l’unica cosa da fare: “solo il rimpianto sopravvive al vivere nel ripetersi del morire”.

Creature di cenere

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di Bianca Madeccia

Gerhard Richter – Red-Blue-Yellow (1972)

Studiava silenziosamente le fondamenta del creato, intima, fonda come un sentimento del quale si ha pudore. Un edificio quando ben costruito può sostenere, in condizioni normali, pesi immani, tensioni fortissime. Ci sono tuttavia delle piccole falle, dei varchi qua e là, attraverso i quali lei poteva passare e infilarsi nelle oscillazioni interiori di tutto quanto vive. Nelle ruote del treno, nelle mani senza guanti, negli operai della fabbrica, negli ascensori costanti, nell’aspettativa ansiosa degli spazi semiaperti. Si trattava solo di essere accorte e di assumere l’aspetto del vulcano spento.

La bimba di sale all’esterno era durissima compatta come un pavimento di marmo. Il suo interno non era liscio e uniforme ma abitato da migliaia di pentagoni, esagoni, ottagoni, da un susseguirsi di figure friabili collegata l’una all’altra. Disegni sempre diversi, esplosioni di geometrie composte. Dentro lei miliardi di cristalli riflettevano la luce rompendola in un’infinità di piccoli raggi accecanti.

Ha un buco nero in mezzo agli occhi che a guardarlo dà le vertigini, come se ci si potesse sprofondare. La bambina spezzata non piange mai. Le lacrime, i rimpianti, portano via troppo tempo. Senza tenerezza né piacere, estenuata marcia verso il sacrificio. Il suo sguardo non perdona e ricorda ad ogni istante che sebbene l’archetto sia appeso sul muro, accanto al violino, le corde sono tutte troncate e non lo si può più suonare.

Incredula, al cospetto della terra, delicata e condannata si dirige dove gli altri bambini non vanno mai. Con le mani colme di febbre ogni giorno ascolta parole di tenerezza spaventosa esalare incessantemente dalle ossa nascoste sotto i gigli che ondeggiano nel mare. Trema, e a forza di tremare, il suo corpo prima o poi, con un tintinnìo d’argento si infrangerà in mille schegge di cristallo acuminato sulle piastrelle del pavimento, assieme alle perle vive del suo sangue.

La bimba tutta occhi ha la pelle marcescente sbiancata dall’assenza di luce, segregata in una esistenza minerale vive ancora immersa nella terra, sotterranea, mai fiorita. Nella semplice, totale assenza di rumore, a occhi spalancati, nel buio, cerca di immaginare per un attimo la gloria pulviscolare della luce.

Lei, uccello della notte, cresce circondata da cose che non le riesce né di nominare né di percepire e non ha parole per trattare con il mistero che la separa dalla vita.

La bambina affamata ogni sera, dopo aver rinchiuso le luci nell’armadio, divora un pasto di ansia e solitudine mentre il cibo divora lei e ogni suo residuo pensiero di vivere. Due voracità che non commuovono perché in esse non c’è un solo segnale che lasci sperare in un riscatto. Questa storia è un vaso ermeticamente chiuso, un sistema concluso non conosce non saprà mai cosa possa voler dire divorare insaziabilmente la strada.

Di giorno mamma Calibano le lega mani e le mette un bavaglio la afferra per un braccio e le fa fare il giro del giardino. Mamma la ucciderebbe piuttosto che farla fuggire via. Tutte le sere prima di addormentarsi pensa a quello che un giorno avrebbe fatto. Aspettare che i chiavistelli venissero tolti, sì, e spingere la porta in fuori con tutta la forza possibile.

Oppure una galleria. Spesso guarda i muri per capire se ci siano pietre che si possano smuovere facilmente.

I vicini la osservano con gli occhi pieni d’odio e lei per gioco riversa aromi di fiori velenosi nelle culle dei neonati e nei letti nuziali. Papà l’ha ceduta al diavolo con un patto firmato con gocce di sangue ora la foresta di notte chiama forte il suo nome. L’uomo che la sposerà morirà durante la prima notte di nozze, sarà il Diavolo stesso a torcergli il collo, che poi se ne andrà, così come era venuto, quando si spengono tutte le luci che illuminano la festa danzante e i tempi si saldano.

Le bambine dallo sguardo di pietra, quando si allontanano da casa, portano sempre con sé coltelli. Nella foresta, dove sei sola e costantemente in pericolo anche la vegetazione è malvagia e i rami ti si avviluppano attorno ma se lasci per un solo istante il sentiero, i lupi ti mangeranno. Temi e fuggi il lupo, perché dietro ogni lupo, c’è dell’altro e quel che del lupo appare, spesso non è tutto. Per questo i coltelli sono grandi quasi quanto loro, e le lame, affilate ogni giorno.

La bambina elettrica sapeva parlare al fulmine che incendia, a quello che distrugge, a quello che non brucia. Figlia di una scintilla e di una goccia d’acqua, da sempre giocava con vortici, lampi, tuoni e centraline d’energia. Fu il giorno in cui stava inseguendo un cambiamento che per caso inventò il maremoto. Ma lasceremo questa storia in sospeso perché qui miliardi di prodigi ritornano e forse, dall’attesa, nasceranno altre favole.

da 27 bambine inutili

Profumo di lago

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Zargani Gli amici di Doppiozero hanno pubblicato un nuovo ebook, Profumo di lago. Eccovi di seguito un breve un estratto.

di Aldo Zargani

Il settembre del 1939 a Lugano è mite, assolato, un po’ triste, non più di quanto accada sulle rive dei bei laghi del mondo all’inizio di ogni autunno.

Le nari inspirano odore di lago appena usciti dai vagoni fumosi: non sono ancora elettrificate… neppure le ferrovie svizzere. Una specie di profumo sottile che rivela l’umido e le vite che ci stanno dentro, di quelli che non si smette di sentire nel fondo dei polmoni perché non è un aroma mummificato da boccetta, ma esala da condizioni che mutano: il mattino, la pioggia, il sole, il vento, la notte, un branco di pesciolini, le foglie morte che si sparpagliano sull’acqua, le alghe fradice subito sotto il lungolago…[1]

Immersa in quell’effluvio, c’è, davanti alle colline, la lunga fila di case, strette per non perdere spazio. Ogni tanto dei vicoli spezzano la parata di palazzi, vicoli bui, che si addentrano nella città vecchia – tutto italiano e abituale, come a Como, come sul Garda o sul Lago Maggiore… Ma la città vecchia non sembra esistere, c’è solo una specie di buio, o fuori fuoco, il luogo dove il balsamo della memoria è svanito, là, vicino al confine del deficit, dove inizia il nulla del dimenticato.

Dalla stazione ferroviaria, anch’essa sfocata, scende verso il lago un ripido declivio, non lungo, con alberi e palazzi senza luce. Luce invece sulla funicolare ad acqua, con due vagoni rossofiamma per 20, 30 persone, piccoli tramvai di quelli di una volta, col balconcino davanti e dietro e il conducente in divisa col kepì. Ci si deve contentare degli splendori dell’idraulica: il vagone che sta in alto si abbevera d’acqua, vicino alla stazione, finché pesa tanto da trascinare il suo fratellino rosso sul lungolago. Quello giù ha intanto fatto la sua pipì, tutta l’acqua se n’è andata, ed è diventato leggero leggero per essere tirato su.

Il papà ci spiegò con il dovuto sussiego quel capolavoro gravitazionale al servizio del progresso. Che serviva poi solo per andare gratis dal lungolago alla stazione e dalla stazione al lungolago senza dover fare le scale con tutti i bagagli.

Sulla riva deserta c’era, e c’è ancora[2], un pescatore svizzero, solitario e immobile con la sua lenza, sotto gli alberi forse con le foglie già un po’ gialline, seduto sui margini del lastricato, con le scarpe che quasi toccavano l’acqua diafana e luminescente del mattino.

Eravamo passati da Lugano con un’ultima speranza nel cuore. La speranza crudele che non riuscisse ad arrivare il violista polacco, ebreo come noi, che aveva vinto il concorso per insegnante del Conservatorio.

Sperammo che a causa delle contingenze belliche – dieci giorni prima, il 2 settembre, era scoppiata la Seconda Guerra Mondiale, ma non sono sicuro che tutti se ne fossero già accorti – fosse impedito a raggiungere il posto di lavoro che gli spettava in quella disperata corsa di migliaia di violinisti ebrei in fuga verso il sicuro rifugio dei Conservatori svizzeri: aerei Stukas in bianco e nero che abbattono palazzi di Varsavia in bianco e nero, ghigni in bianco e nero della soldataglia tedesca che avanza… Come poteva, quello là, da Varsavia, arrivare in Svizzera dal dilagante mondo in bianco e nero?

E invece il mio papà era già lì, nei dolci colori dorati dell’autunno di Lugano, pronto a presentarsi nella sua qualità di extrema ratio. Per non tornare mai più in Italia.

 

Aldo Zargani è nato a Torino nel 1933 da famiglia ebraica. L’infanzia e l’adolescenza sono state segnate dalle leggi razziali fasciste del 1938 e dalle violenze dell’occupazione nazista. Sfuggito con i famigliari alla deportazione, ha lavorato per la Rai e ora vive a Roma. Ha pubblicato Per violino solo. La mia infanzia nell’aldiqua (1938-1945) (Il Mulino, 1995, ristampato nel 2004) e Certe promesse d’amore (Il Mulino, 1997). Il primo è stato tradotto in inglese, tedesco, spagnolo e francese; e molti testi e testimonianze su giornali e riviste, in particolare su “Lettera internazionale” e “Il Mulino”.



[1]     Inebriata anch’essa dal profumo, quello però del lago di Ginevra, Elisabetta d’Austria fu assassinata durante una promenade l’11 settembre 1898, 41 anni prima di me. A lei , che morì sul serio, fu risparmiata, a me no, la deprecabile serie di tre film (“La principessa Sissi”, Austria 1955, “Sissi, la giovane imperatrice”, Austria, Germania ovest, 1956, “Sissi, destino di un’imperatrice”, Austria, Germania ovest, 1957) che la RAI, Radio Televisione Italiana, si ostina a trasmettere da quasi mezzo secolo nell’afrore di ogni estate.

[2]    Il pescatore assente nel passato, ma presente nell’adesso, giustifica il guazzabuglio di passati remoti, imperfetti e presenti che il lettore incontrerà.

Meraviglie di mezzo secolo fa

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di Antonio Sparzani

Love me do

video arte #24 – till nowak

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Till Nowak, The Centrifuge Brain Project, 2012.

Emmanuela Carbè,
Mio salmone domestico

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di Andrea Cortellessa

Stringi stringi, la vita è tutta una questione di fuori e dentro. Lì fuori c’è un mondo grande e terribile, il mondo vero. Ma non meno vero è il dentro, quello al di qua del vetro, che il mondo fuori non conosce e mai conoscerà, forse. Se succede qualcosa di davvero importante, per esempio se ti innamori, è perché qualcosa, fuori, si avvicina e sbircia dentro; e tu ricambi lo sguardo. Allora ci sono due possibilità: o esci fuori tu, a tuo rischio e pericolo; oppure riesci a trascinare dentro, da te, quello che ti piace.

Post Jugoslavia

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Ping-Pong
di Azra Nuhefendić

Mancava un quaderno, una bambola, di quelle all’antica, di cartapesta che, se si lavano (come ho fatto io), si sciolgono come zucchero nell’acqua. Erano spariti i dolci fatti in casa e messi su un’alzatina in vetro. La porta della casa non era forzata. Fu stabilito che il ladro bisognava cercarlo nel vicinato. Infatti, mi hanno scoperto subito: giocavo con la bambola rubata, e poi quel giorno non avevo pranzato, sazia dei dolci che avevo divorato.
Avevo nove, forse dieci anni, quando tentai la professione di ladra. Era una giornata di noia mortale e, tornata da scuola, mi sono sporta fuori dal nostro balcone e ho scavalcato quello dei vicini che abitavano sullo stesso pianerottolo.
La casa dei vicini la conoscevo bene perché, una volta, tra vicini c’era molta familiarità, era un continuo entrare gli uni a casa degli altri per qualche favore: prendere in prestito un po’ di sale o due uova che ci mancavano… Nell’appartamento, identico al nostro e, a mio avviso, meglio arredato, giravo, toccavo e guardavo gli oggetti a me noti. A un certo punto ho sentito il campanello alla nostra porta, sono tornata indietro aggrappandomi alla ringhiera esterna dei due terrazzini, ho aperto la porta a Naida, la mia sorella maggiore che tornava da scuola e, non so come, l’ho convinta ad accompagnarmi in quell’avventura. Abbiamo scavalcato insieme il terrazzino e ci siamo messe a gironzolare nell’appartamento dei vicini. Poi siamo tornate a casa nostra, come se niente fosse.

La via che ho percorso per ben quattro volte, era al terzo piano, a un’altezza di circa 15 metri. Non mi ricordo di aver avuto paura, o terrore – cosa che, probabilmente, provarono i nostri genitori una volta saputo cosa avevamo combinato. Dalla pena capitale (presumo impiccagione, o almeno cento frustate sulle piante dei piedi) io e mia sorella Naida ci siamo salvate grazie alla vicina, una maestra, che supplicò nostro padre di non essere severo con noi.  Finì che per una settimana ci fu proibito di giocare fuori, e per tre giorni consecutivi dovevamo stare in ginocchio, per mezz’ora, su dei chicchi di mais.
A distanza di anni dall’evento, quando ci penso, il più grande mistero per me non è di come facessi a essere così spericolata passando da un terrazzino all’altro a un’altezza di 15 metri – ma come fossi riuscita io, più piccola, a convincere mia sorella Naida a seguirmi in quella disavventura. Non tanto perché lei era più grande di me, ma per il suo carattere – lei è sempre stata una persona tranquilla, riflessiva, equilibrata, molto sensibile verso gli altri, pacifica e, complessivamente, aveva qualcosa in sé di aristocratico. Infatti, quella – che io sappia – è stata l’unica macchia legata al suo nome, che per anni è stato poi associato a quello di campionessa.

Alcune direttive del partito comunista, quelle non strettamente politiche, erano realizzate dalla SSRN -l’Alleanza socialista del popolo lavoratore (Socijalistički Savez Radnog Naroda). Secondo la definizione ufficiale la SSRN comprendeva vari interessi del popolo: politici, culturali, sportivi, religiosi etc. ma, in effetti, doveva sostituire il multipartitismo. Era una sorta di palcoscenico, dove si poteva discutere, ottenere l’ascolto e magari l’appoggio alle proprie idee.
All’inizio degli anni sessanta la direttiva era di sviluppare lo sport e coinvolgere più giovani possibili. Il tennis era considerato uno sport per borghesi e, come tale, scartato.  Invece il tennis da tavolo (oppure ping-pong, che è il nome onomatopeico), andava bene. È uno sport per il quale non occorrono tanti soldi il che, forse, all’epoca, era stata la cosa decisiva. Però il tennis da tavolo richiede il massimo livello di abilità e concentrazione fisica e mentale, pazienza, nervi saldi, tenacia. Tutto quello che mia sorella Naida possedeva. Aveva dodici anni quando ha iniziato a giocare al tennis da tavolo. Discreta com’era, ci siamo accorti che era brava solo dopo che aveva vinto i vari campionati, e dopo che erano apparsi i primi articoli nei quotidiani sui suoi successi.

Per il tennis da tavolo la SSRN aveva messo a disposizione dei giovani una sala in una baracca. L’unica cosa che la faceva idonea per lo sport era la sua ampiezza. La sala era al pianoterra, senza riscaldamento, né bagni per lavarsi dopo aver sudato, due tavoli da tennis nel mezzo, e alcune sedie lungo la parete. All’inizio  giocavano solo i maschi perché le ragazze non erano interessate. Il che non andava bene, secondo la politica ufficiale. Perciò, la direttiva fu modificata, e l’allenatore Asim Sakić, detto Aco, andò nella scuola locale “Boriša Kovačević” a cercare ragazze sportive. Delle quindici scelte se ne erano distinte due: Naida Nuhefendic e Slobodanka Kokotovic. Ben presto, riuscirono a vincere tutti i campionati della BiH e, per un decennio, furono tra le migliori giocatrici nazionali del tennis da tavolo.

Le due campionesse erano anche carine, avevano la stessa età, portavano i capelli corti tagliati allo stesso modo, sembravano gemelle. Le lunghe gambe uscivano da una gonnellina corta, come un’abatjour. Quando si chinavano per raccogliere la pallina di celluloide lo facevano con tale grazia che i tifosi le applaudivano come quando segnavano un punto. La loro femminilità era in netto contrasto con l’abilità e la forza che mostravano da giocatrici. Ancora oggi mi echeggia nelle orecchie il suono del ritmo delle partite. Prima un suono regolare, piiiiing – poooong, piiiing – poooong, poi la cadenza accelerava per trasformarsi in una raffica di mosse e, infine, uno secco e decisivo: PONG.

Le due ragazze avevano contribuito alla popolarità del tennis da tavolo, in breve tempo era aumentato il numero dei giocatori e dei tifosi. Grazie alle due campionesse il nome del piccolo club “Grbavica”, che prima nessuno conosceva, fu lanciato nella classifica della Repubblica. Dopo i successi, la SSRN decise di finanziare il club. I soldi erano pochi, ma bastavano per pagare le trasferte e l’albergo.
La disciplina e la tenacia sono indispensabili per l’affermazione in qualsiasi ambito. Naida e Slobodanka le avevano. Forse queste due qualità, più del talento, furono decisive per il loro successo. Si alzavano prestissimo, tra le quattro e le cinque di mattina per allenarsi, si esercitavano anche nel pomeriggio, talvolta fino a sera tardi, e nel fine settimana viaggiavano per partecipare ai campionati. Dopo una serie di vittorie, si era deciso di premiare le due campionesse. Gli avevano comprato due tute, il massimo all’epoca.

A quel punto però le due campionesse non si presentarono più ai consueti allenamenti. Passò un giorno, due, tre… L’allenatore Aco andò a cercarle. Le due ragazze, così tenaci e disciplinate, avevano smesso di allenarsi, per una sciocchezza. La tuta avuta in regalo era così bella che volevano indossarla anche fuori dall’allenamento, per passeggiare in città, apportando però alcune modifiche. I pantaloni della tuta li avevano aggiustati, secondo la moda dell’epoca, facendoli stretti-stretti. Andavano bene per il viale, ma non per lo sport. Dopo aver fatto quell’esperienza nella moda, Slobodanka e Naida ebbero paura di mostrarsi dinanzi all’allenatore, e la cosa migliore era… sparire.
Una volta, almeno da noi, lo sport si faceva per passione ed entusiasmo, era gratis, nessuno guadagnava nel giocare o nell’allenare. Chi era bravo nello sport godeva la stima della società. L’ideale dei giovani era il grande campione, non il grande fratello.

Mi ricordo che lungo il corso, dove ogni sera si radunavano i giovani di Sarajevo, a camminare avanti e indietro, per ore, i ragazzacci locali, che prendevano in giro tutti, spesso con un gesto o una parola mettevano in imbarazzo le ragazze, tiravano loro i capelli, mostravano i muscoli ai maschi. Però delle campionesse avevano riguardo, Naida e Slobodanka erano ammirate. Un certo Dževdo, un impulsivo, incontrollabile, ci faceva paura, era un provocatore e nei suoi dispetti non risparmiava nessuno, tranne le due campionesse. Capitava che Dževdo, ostentatamente, per strada fermasse tutti per farle passare.

Della fama di mia sorella, campionessa di tennis da tavolo, speravo di usufruire quando mi trasferii a Belgrado. Erano passati venti anni da quando lei giocava e vinceva, perfino il direttore della Radio e televisione di Belgrado, Nikola M., se la ricordava e mi aveva chiesto se ero parente di Naida. Sììì, dissi entusiasta sperando in un trattamento speciale.
Negli anni sessanta in Jugoslavia il tennis da tavolo era molto popolare. Circa ventimila persone lo praticavano. Per un paese piccolo come la Jugoslavia era molto, ma non era niente in confronto alla Repubblica Popolare Cinese, dove il numero dei giocatori si contava a milioni. La Cina, a metà del secolo scorso era la potenza mondiale del tennis da tavolo, e lo è ancora oggi. Ma una volta gli jugoslavi le stavano alla pari. Negli anni sessanta la squadra nazionale della Jugoslavia aveva messo in difficoltà i cinesi. Nei campionati le partite decisive si giocavano tra i giocatori cinesi e jugoslavi. Ancora oggi sappiamo a memoria i nomi dei nostri campioni di una volta: Dafinić, Palatinus, Stipančić, Gafić, Surbek.
La bravura dei nostri giocatori di ping-pong ci aveva portato un riconoscimento importante. Esattamente quarant’anni fa, nel 1973, Sarajevo aveva ospitato il campionato mondiale del tennis da tavolo (STENS). Fu la prima grande manifestazione svoltasi da noi. Il centro culturale sportivo “Skenderia”, appena costruito nel centro della città, era l’arena dove si sfidavano i più grandi.

All’epoca il mondo era, ideologicamente, diviso in due. Succedeva che nelle grandi manifestazioni sportive e culturali qualcuno rifiutasse di partecipare perché non voleva stare insieme agli avversari politici o ideologici. Invece, nei mondiali del tennis da tavolo, a Sarajevo, i giocatori venivano da tutte le parti del mondo polarizzato. Il che era un riconoscimento non solo per i nostri sportivi, ma affermava anche la posizione della Jugoslavia “tra i mondi”.
Durante il campionato, da studentessa, per guadagnare un po’, facevo la giudice. Fu allora che per la prima volta potei usufruire della mia conoscenza della lingua russa per parlare con un americano. La studiavo da dodici anni e mi sembrava di imparare qualcosa che non serviva a niente. Quelli che studiavano inglese, francese o tedesco avevano molte occasioni per impratichirsi, noi con la lingua russa, mai, o quasi. L’americano era figlio di ebrei emigrati dalla Russia in America. Anche lui era contento di poter parlare nella sua madrelingua.

Il campionato mondiale da tennis da tavolo fu la prova generale per il successivo grande evento sportivo che ospitò Sarajevo: le Olimpiadi invernali del 1984.
Poi sono arrivati quelli che allo sport preferivano i giochi di guerra. Nelle montagne olimpiche intorno a Sarajevo sono comparsi, nel 1992, dei vigliacchi, i nazionalisti, armati fino ai denti. Un gruppo di questi si era piazzato alla partenza dello skilift a Jahorina e, con i kalashnikov in mano, incassavano i soldi da chi non aveva capito in tempo che la guerra era cominciata.
Contrariamente al principio del fondatore dei moderni giochi olimpici, Pierre de Coubertin, che dichiarava “l’importante non è vincere, ma partecipare”, quelli là contavano proprio di vincere. E per farlo hanno impegnato la quarta potenza militare d’Europa, l’Armata Popolare Jugoslava (JNA) contro la società civile. In cinque anni hanno distrutto tutto quello che la popolazione jugoslava, di venti milioni, aveva costruito in mezzo secolo.

pubblicato su Osservatorio Balcani e Caucaso

I minatori contro la Thatcher: storia di un’eroica sconfitta

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thatcher

di Salvo Leonardi

A voler stilare un’ideale classifica delle lotte che più epicamente hanno segnato la storia e l’iconografia del movimento operaio internazionale, quella dei minatori inglesi del 1984-85 occupa a buon diritto una posizione di assoluto rispetto. È stato il più lungo sciopero di massa dell’Occidente dai tempi della Prima guerra mondiale: un anno esatto fra il marzo ’84 e quello dell’85. Fu una guerra, di classe, combattuta su un campo di battaglia vasto quanto la Gran Bretagna.

Nelle brughiere di Scozia, Galles, Yorkshire e Kent si fronteggiano per mesi 165.000 minatori e alcune decine di migliaia di poliziotti. Ci sono i generali (Thatcher e MacGregor, il falco a capo del National Coal Board, da un lato, e Arthur Scargill, per il Num, il potente sindacato dei minatori dall’altro), i piani (quello Ridley per la privatizzazione e l’uscita dal carbone), le tattiche (i picchetti volanti), le battaglie campali che segneranno le sorti finali del conflitto, come ad Orgreave, nella primavera ’84.

Alla fine si conteranno 2 morti, 1750 feriti ufficiali, 11.312 arresti, 5.653 processi per direttissima, un migliaio di licenziamenti solo per rappresaglia. Decine di film, romanzi e canzoni emozioneranno il pubblico di mezzo mondo, inducendolo a schierarsi coi “vinti” (Which side are you on è allora il titolo di una celebre canzone), immortalando per sempre l’eroica sconfitta di una comunità di uomini e donne, incarnazione di un intero pezzo della storia e dell’identità della Gran Bretagna moderna.

Ai primi anni 80 il carbone è divenuto troppo costoso e i sindacati troppo potenti per chi, come la Thatcher, intende aprire una nuova era nei rapporti sociali del suo paese. Il negoziato non è un’opzione. Il sindacato dei minatori chiede una politica di sovvenzioni statali al settore, come quella che nel 1982 stanzia 17 miliardi di sterline in Francia e Belgio, 8 in Germania e solo 3 nel Regno Unito, che è il secondo produttore europeo. Thatcher ha una visione opposta. È da poco al secondo mandato, ha vinto nelle Falkland, e coi minatori, nucleo militante del sindacalismo britannico, ha un conto in sospeso da quando, fra il ’72 e il ’74, li aveva visti sconfiggere il governo di Heath, suo mentore e primo ministro.

Maggie ha fatto tesoro di quella sconfitta, e quando parte all’attacco, il 1° marzo 1984, ha preparato con cura ogni mossa. L’annuncio della chiusura dei primi 20 pozzi avviene a fine inverno, quando lo stoccaggio è alto e il fabbisogno di carbone destinato a calare. Ci si accorda comunque con Jaruzelski per l’acquisto di altre scorte, per l’immane imbarazzo di Solidarnosc e dei minatori della Slesia. Si inizia da Cortonwood (South Yorkshire), tagliando 20.000 posti ma contando sulla storica moderazione degli operai di quel bacino.

La reazione è immediata e si propaga subito; in poche settimane tutti i pozzi del paese sono bloccati, eccetto nel Nottinghamshire, dove si costituisce anche un sindacato giallo. I picchetti volano da un sito all’altro, provando ad aggirare i presidi stradali di una polizia da stato di assedio. I media sono scatenati, e c’è persino chi raccoglie fondi per quanti vogliono tornare al lavoro. La legislazione sugli scioperi è stata già modificata e lo sarà del tutto più tardi. Le famiglie hanno appena subito un taglio dei benefit di 15 sterline alla settimana.

Tutto spinge per una rapida desistenza. E invece. Intorno alla lotta si coagula un imponente movimento di solidarietà; delle donne, che organizzano le mense comunali, dei negozianti di zona che fanno credito e sconti, dei sindacati internazionali, persino del movimento gay, che ospiterà fra applausi scroscianti una delegazione alla parade di Londra di quell’anno.

Portuali e ferrovieri rallentano l’approvvigionamento delle acciaierie, snodo cruciale del conflitto; ma non i camionisti. Latita il Labour di Kinnock laddove l’ondivago Tuc del moderato Murray – che solo a settembre annuncia l’intenzione di estendere la mobilitazione – lascerà i minatori al loro destino, non cogliendo il carattere definitivo che quella vertenza è destinata ad assumere.

Sarebbe andata diversamente se l’azione si fosse propagata agli altri settori? Se ne dibatte ancora, come pure se non fosse stato il caso di indire una consultazione referendaria sullo sciopero, resa poi obbligatoria con esiti devastanti – il timore del Num non era infondato – sul movimento sindacale inglese. O se non fosse stato più opportuno negoziare caso per caso, piuttosto che su scala nazionale e settoriale, il destino dei pozzi. È quello che accadrà dopo la sconfitta, e che tuttavia non potrà impedire di portare in un solo decennio il numero di addetti da 181.000 a 8.000, quasi tutti in autogestione, col Regno Unito che importa oggi 40 milioni di tonnellate di carbone l’anno. Così come non si potrà più impedire lo smantellamento del welfare britannico, insieme al suo lungamente glorioso movimento sindacale.

C’era un’alternativa dinanzi a quella nuova icona mondiale della teoria che “non ci sono alternative” (al liberismo)? In quei giorni si dice: “Se Maggie non la sconfiggono i minatori, chi altro potrà farlo?”. Nessuno, e infatti i Tories restano in sella per altri 12 anni. Ma quell’anno c’erano voluti 7 milioni di sterline e un calo della produzione industriale del 2,5 per cento per piegare quell’indomito “nemico interno”.

Quando il 3 marzo 1985 la dirigenza del Num delibera con 98 voti a 91 la fine dello sciopero, quei “musi neri”, ormai estenuati e malincuore, decidono di tornare nei pozzi, accompagnati però dalle fanfare e dai gonfaloni sindacali. Memori dell’umiliante rientro patito dai loro padri e nonni nel 1926, imploranti una riassunzione. Entrano a testa alta, fieri di quel loro orgoglio operaio, così tipicamente British, consci di aver scritto comunque una memorabile pagina di storia. Nell’unica maniera che era stata loro concessa: quella di chi si oppone, finanche col proprio corpo, a quanti hanno deliberato la desertificazione della sua comunità, della sua storia individuale e collettiva.

(da rassegna.it)

Parole sotto la torre

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 PAROLE SOTTO LA TORRE

VII edizione

Arcipelaghi

Portoscuso (CI), 2 – 11 agosto 2013

 

“Parole sotto la torre” prenderà il via nella cittadina sulcitana venerdì 2 agosto, fino a domenica 11.

Arcipelaghi è il filo conduttore dell’edizione 2013 del festival. Le “isole” nell’Isola. Gli scrittori sono un arcipelago di lingue, idiomi, gergalità, abitudini, sono un popolo di naviganti. Ogni esperienza narrativa è un viaggio verso l’ignoto, sia per chi scrive che per chi legge.

Ci piace la similitudine dell’isola, qui, in Sardegna. Perché ci aiuta a capire che ogni territorio ha una narrazione, una particolarità, che se espressa con gli strumenti dell’arte sa sempre essere universale. Un libro è un porto, da dove partire e dove attraccare… Ed ogni lettore cerca, come un esploratore, il suo romanziere.

 

IL PROGRAMMA. Gli incontri con gli autori di Parole sotto la torre saranno ospitati dalla Tonnara Su Pranu e avranno inizio alle 22.

Si inizia il 2 agosto con Bjorn Larsson, uno degli autori svedesi più noti in Italia, dopo il successo de La vera storia del pirata Long John Silver, Il Cerchio celtico, Il porto dei sogni incrociati (pubblicati da Iperborea, casa editrice specializzata in letteratura del nord Europa). I Pirati e la saggezza del mare, il titolo dell’incontro, condotto da Luca Molinari, docente universitario di Storia Contemporanea dell’Architettura alla “Luigi Vanvitelli” di Napoli, e responsabile editoriale per il settore Architettura e Design della casa editrice Skira.

Sabato 3 agosto, Il tradimento di Topolino. Giulio Giorello, ordinario di Filosofia della scienza all’Università degli Studi di Milano e collaboratore del Corriere della Sera, presenterà il suo ultimo libro, Il tradimento di Topolino, appunto, edito da Guanda.

In mezzo c’è sempre il mare: domenica 4 sarà protagonista Andrea Molesini, l’autore di Non tutti i bastardi sono di Vienna (Sellerio), che nel 2011 ha vinto il Premio Campiello e il Premio Comisso. Quest’anno ha pubblicato La primavera del lupo. A dialogare con lui il direttore artistico di “Parole sotto la torre”, Gianni Biondillo.

Letteratura, ma non solo. Appuntamento da non perdere mercoledì 7 agosto: Acqua, il concerto di Saba Anglana (alle 22, Lungomare di Portoscuso). La poliedrica cantante, e attrice, nata a Mogadiscio da mamma etiope e padre italiano, utilizzerà il carisma della sua voce per sposarlo all’energia della musica africana. La “sua” Somalia è solo il punto di partenza per un abbraccio simbolico capace di parlare un linguaggio musicale universale. Anglana sarà accompagnata da Bienvenu Zenon Nsongan (chitarra e percussioni), Cheick Sadibou Fall (cora) e Fabio Barovero (fisarmonica).

Gli incontri letterari riprenderanno giovedì 8: Sa Reina e l’Isola delle lepri, con Simone Caltabellota e Anna Maria Falchi, introdotti dal giornalista Vito Biolchini. Caltabellota parlerà del suo ultimo romanzo, Sa Reina. Un’avventura in Sardegna, che parte proprio dal Sulcis e da un ulivo millenario, forse il più antico del Mediterraneo: comincia così il viaggio del protagonista. Lo scrittore romano, classe ’69, ha scoperto come editor alcuni dei maggiori casi letterari degli ultimi dieci anni e ha curato le opere, tra gli altri, di John Fante e Manlio Cancogni. Ha esordito come narratore con Il giardino elettrico (Bompiani), diventato un libro di culto. Anna Maria Falchi è nata a Firenze nel 1967 e ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza in Sardegna, in un piccolo paese del Campidano. Ha lasciato l’isola nel 1988 per trasferirsi di nuovo a Firenze, dove vive e lavora. L’isola delle lepri è il suo primo romanzo.

Venerdì 9, Licia Troisi sarà protagonista dell’incontro Mondi emersi. Nata a Roma nel 1980, astrofisica, è l’autrice fantasy italiana più venduta al mondo, grazie al successo delle saghe del Mondo Emerso e della Ragazza Drago. Parleranno di e con lei Massimo Spiga, traduttore, scrittore e sceneggiatore di fumetti, ed Elisabetta Randaccio, critico cinematografico.

Efraim Medina Reyes sarà alla Tonnara Su Pranu sabato 10. La longevità dei pesci, il titolo dell’appuntamento con lo scrittore colombiano. Autore di film, di testi teatrali, con Feltrinelli ha pubblicato C’era una volta l’amore ma ho dovuto ammazzarlo, La sessualità della Pantera rosa e Quello che ancora non sai del Pesce Ghiaccio (2013). A presentarlo Michele De Mieri, giornalista, critico letterario, autore radiotelevisivo (è coautore del programma radiofonico Fahrenheit di Radio3).

Il sipario su “Parole sotto la torre” calerà domenica 11 agosto. Alle 22.30 Le Storie e le Isole, con la scrittrice irlandese Catherine Dunne. Guanda ha pubblicato i suoi romanzi: La metà di niente, La moglie che dorme, Il viaggio verso casa, Una vita diversa, L’amore o quasi, Se stasera siamo qui, Donna alla finestra, Tutto per amore e Quel che ora sappiamo. L’ultimo suo libro è il romanzo breve La grande amica. E’ la vincitrice dell’ultima edizione del premio internazionale Boccaccio. A dialogare con lei Anna Rita Briganti, che collabora con le pagine culturali di Repubblica.

 

LO SPETTACOLO PER BAMBINI E FAMIGLIE. Venerdì 9 agosto (alle 20.30 nella Piazza del Comune) andrà in scena Il fil’Armonico, spettacolo di marionette a filo di Agostino Cacciabue (Teatro Tages).

IL LABORATORIO. dal 2 al 4 agosto si svolgerà il laboratorio Visioni, parole e ricordi, per costruire un “Atlante sentimentale per Portoscuso”, a cura di Luca Molinari (rivolto a bambini e adulti). Per informazioni e iscrizioni consultare il sito www.noteapiedipagina.it.

 

La direzione artistica è affidata a Gianni Biondillo, il coordinamento a Saverio Gaeta.

Tutte le informazioni sul festival sul sito www.noteapiedipagina.it

UFFICIO STAMPA

Massimiliano Messina

333 9062288

max.messina1@gmail.com www.noteapiedipagina.it

Del sentimento

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Ron Mueck – ‘Ron Birth’.

di Livio Borriello

uno spettro si aggira fra i libri: il sentimento

qual è il pericolo che incombe sul mondo secondo una certa categoria di letterati? pare che sia il sentimento. non cito toto cutugno, ma l’inumano nietzsche: i pensieri sono le ombre dei sentimenti: sempre più oscuri, più vani, più semplici di questi.

in altre parole, il complesso processo di frattura, di dislocazione e contrazione temporale, di riarticolazione del linguaggio su un altro corpo non presente, e sui suoi multipli e stratificati meccanismi, che produce ad esempio il sentimento della nostalgia, è assai più ricco e interessante della sua concettualizzazione in un’analisi storica o psicanalitica, che consiste in poco più che una semplice registrazione e composizione secondo una regola meccanica (un po’ nel modo in cui una melodia è più complessa, e ricca di informazione e di scarto inventivo di un virtuosismo strumentale).

ecco la ragione per cui un babbuino e pare anche un’otaria può comporre parole e numeri, ma non potrà mai commuoversi per la fioraia cieca di chaplin e nemmeno per un’otaria cieca (semmai, solo, in qualche modo, piangere).

tuttavia, fare critica (infatti, sì, loro suppongono che esista la “poesia”, la “letteratura”, e quindi la “critica”) per questa compagnia di giro consiste pressappoco nel dare stellette e palline agli scritti più esangui e incorporei, più raggelati e naturalmente (bella forza) ineccepibili e inattaccabili, ma inevitabilmente più noiosi e insignificanti. uno scritto significa infatti sempre il corpo per cui sta o che estende, e privo di quello, resta un simulacro e un feticcio. che cosa significa un testo, se non significa un corpo che traspare nella sua indecenza e nudità, nella sua vulnerabile e rischiosa esposizione? che cosa deve dire il linguaggio, se non la non significanza, se non la carne sfigurata, se non l’imbarazzante, ridicola e oscena nudità degli affetti umani? la scommessa naturalmente è consolidare in qualche modo questo materiale in una forma, o detto con un noto paradosso, che però resta una boutade piuttosto puritana, ricrearlo artificialmente per esprimerlo con efficacia. ma come nella nevrosi il significante inghiotte il significato, nella letteratura gli stanchi epigoni delle vive esplorazioni concettuali di 50 anni fa si mettono al sicuro da ogni rischio, da ogni vertigine, con l’alibi del controllo formale.

il problema come sempre è preliminare. questa comunità o combriccola, che si potrebbe definire con qualche approssimazione dei vetero-avanguardisti e degli asemantici, o solo dei neo-feticisti, che generalmente passano la vita ad animare premi (che si assegnano infallibilmente l’un l’altro), compilare antologie, scalare accademie e redazioni e azionare i muscoli sopracciliari, non assumono in realtà una prospettiva radicalmente etica (semmai addizionano all’azione letteraria un impegno sociale che ne resta estraneo, e agisce parallelamente con tutt’altri linguaggi), ma di fatto prevalentemente agonistica e feticistica. i 2 atteggiamenti sono connessi. il testo è ridotto a un feticcio che esaurisce in sé il suo significato. il testo, essendo in rapporto solo con altri feticci, esistendo solo in una dimensione orizzontale, non offre altro interesse che quello del confronto formale e quantitativo con altri testi. per prospettiva etica, intendo qualcosa di più che responsabile, semmai responsabile di uno spazio che ben al di là del perimetro e dello spessore letterario, comprende tutto il percepibile fino a forzarne i confini.

cercano il testo di buon gusto, (ma “assolutamente moderno”!), caro ai borghesi e ai formalisti e neo-parnassiani e neo-accademici di tutte le ere. si pongono davanti allo scritto con l’occhio sopraffino di michele l’intenditore, quando faceva ruotare il whisky nel cristallo, e dai sentori che ne sprigionavano e vagliando i riflessi e gli archetti (!), emetteva la sua squisita sentenza, fra i gridolini di ammirazione dei convitati: michele! lui sì che se ne intende. a questo hanno ridotto la parola, e cioè l’essenza costitutiva della specie uomo.

in sostanza questi intenditori che non se ne intendono, inùmano il testo prima che nasca, quando è ancora feto. producono e inducono testi già morti, prima ancora di svolgere la propria funzione, che è quella di agire nel mondo, produrre effetti, entrare nella circolazione di passioni, pulsioni, repulsioni e revulsioni, desideri, spasmi, conati, aneliti, in una parola sentimenti, che anima e costituisce la comunità di pezzi di carne sperduti di cui siamo parte, e nel cui campo può assumere qualche vago senso la parola. per svolgere questa funzione, il testo non deve essere ancora testo… lo diventerà per i posteri, se posteri ci saranno, lo diventerà nei cimiteri delle antologie, lì dove la cultura viva e gramscianamente coinvolta nelle cose umane, si riduce a pezzi inerti di sillabe e concetti… questa inevitabile fase obitoriale loro la pretendono dal linguaggio appena emesso dalla carne, nei fiotti ancora caldi, nelle secrezioni necessariamente ancora aromatiche, grevi, sporche, scomposte.

il risultato di tutto ciò, è che se la letteratura non ha mai interessato nessuno, ora non l’interessa colpevolmente, perché non ha nulla da dire e guarda caso non dice nulla. la poesia di questi anni è diventata un cortese o spesso scortese scambio fra addetti ai lavori, una gara a chi esegue con più destrezza l’esercizio assegnato, una profluvie di finezze che non fanno ridere e non fanno piangere, da ammirare più che da amare, o da amare con i recettori letterari sensibili al potere e alla forza. non per niente credo che le uniche espressioni artistiche di questi anni che in qualche modo resteranno, non siano affatto quelle che vi aspiravano, ma semmai certo rock, certi video e certe performance di comici come corrado guzzanti. poesie di questi qui, no di certo. se non, forse, in alcuni casi, loro malgrado.

mi si obietterà: ma tutto il “contemporaneo” trae il suo senso proprio dal non aver nulla da dire, e da un certo significato che questo svuotamento produce, o quantomeno si dispone nel vuoto scavato da questo paradosso, da questa estrazione di senso. infatti questi intenditori che depreco non hanno realmente nulla da dire, essi dicono incessantemente che dicono meglio degli altri di non aver nulla da dire, e dunque dicono qualcosa, questa cosa, che però non è interessante. in altri termini, la loro finalità è sentirsi intelligenti, proposito che però quasi mai coincide con l’esserlo.

a questo fine adoperano una lingua posticcia, una lingua di sintesi, un tessuto tecnico, che non userebbero mai per fare la rivoluzione, per spiegare al medico come non farli morire, o per persuadere il partner ad accoppiarsi, ma nemmeno nel sogno, nella preghiera o nella possessione. è una lingua che esiste solo nella dimensione pellicolare della carta.

ci sono alternative che restino rigorose a questo tipo di scritture? direi di sì, e sono scritture ben consapevoli del fatto che il sentimento è un’elaborazione linguistica complessa come il concetto è una modalità percettiva e sensoriale. valerio magrelli, che ha letto probabilmente più libri di tutti gli “intenditori” messi insieme e ha una scrittura assai più disorientante e graffiante della loro, ci ha consegnato con Geologia di un padre un libro straniato, cruento, quanto sentimentale. peter handke ha scritto capolavori sulla figlia e sulla madre suicida, valère novarina racconta un uomo tanto disaderente quanto corporeo, istintuale, tattile e sensoriale. franco arminio chiama il suo ultimo libro “geografia commossa dell’italia interna”, ma naturalmente gli intenditori apprezzano la sua produzione meno vertiginosa, forse tarata proprio sulla loro vacuità. mariangela gualtieri recupera risonanze emotive desuete e antimoderne, e ci parla senza remore di abbracci, di amore, di natura. mi viene in mente anche un piccolo capolavoro di ivano ferrari, macello, dove apparentemente non si trova un grammo di sentimento, e tuttavia lo dice. roberto saviano produce una scrittura la cui verità è garantita dal suo corpo e dal suo modo di situarsi nel mondo, un’opera che non si sostanzia semplicemente di questa innervatura etica, ma ne è fatta, consiste appunto in questo rapporto di un corpo al mondo, ed ha in tal senso una portata molto più ampia dei ghirigori e arabeschi che appena scalfiscono il foglio di certi sussiegosi poeti. qualche volta cade nella retorica e scade nello stile giornalistico? questo è un problema di michele.

ma infine, se ci poniamo di fronte alla questione con radicale e virile franchezza, cosa autorizza il gratuito e volgare snobismo nei confronti di tante produzioni popolari sentimentali, da certe canzoni di claudio baglioni (intendo le 2-3- più riuscite) ai trottolini amorosi di non ricordo (concedo) quale cherubica ugola? dovrebbe bastare la coscienza della labilità dei confini psichici individuali, del comune attingimento alla grande falda del linguaggio, per comprendere che i sentimenti posti in circolazione da queste opere, non solo non producono qualsivoglia danno, ma sostengono e strutturano insostituibilmente il tessuto sociale, e hanno dunque una funzione etica primaria.

senza il movimento eccentrico dell’emozione e della commozione, senza l’estasi romantica che porta fuori da sé, senza l’esposizione e la vulnerabilità che levinas descriveva come costitutiva dell’eros, l’etica si ridurrebbe al contratto sociale, la solidarietà umana a una voce della retorica della sinistra, e l’idea stessa di umanità a una specie di casuale accolita che si sorregge vicendevolmente per pura convenienza gregaria, non molto differente dalla babbuinità e dalla vermità.

I tetti sono semplici a Sali

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di Adelelmo Ruggieri

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Agosto. Se digiti solitudine nella rete, alla data di oggi, i link sono 2.880.000. Una piccola nazione di solitudini. Il primo si chiama Risultati illustrati per solitudine. Ce ne sono 119.000. Il decimo è l’immaginetta elettronica di una canzone di Laura Pausini che si chiamerà, evidentemente, Solitudine. Ora vedo. No, si chiama La solitudine. In pratica racconta di un ragazzo che se n’è andato e non ritornerà più: Il treno delle 7:30 senza lui / è un cuore freddo di metallo / senza l’anima. La citazione appare lampante. Il treno di Battisti partiva alle 7:40. Dieci minuti prima parte Pausini, e in breve arriva al cuore della faccenda: La solitudine fra noi / questo silenzio dentro me / è l’inquietudine di vivere / la vita senza te. C’è anche il video. Pausini canta in coppia con Fabian a Trinità dei Monti, con il pubblico che fa la ola, ma senza le candeline. Ora la regia stringe. Lì, sul lato destro, dove stavano di casa Keats e Shelley. Poco fa aveva stretto sulla Barcaccia di Pietro Bernini. Pare che gli diede quella forma perché in quel punto vi era un acquitrino insanabile, e allora pensò di fare la sua fontana con la forma di una barca che affonda e fa acqua da tutte le parti.

L’Egitto vittima delle parole

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di Marco Alloni

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Quanto si ricava dai media occidentali sull’Egitto è un’immagine che sembra non presentare alcun elemento di ambiguità. La versione dei fatti è trasversale e univoca, e a surrogarla sono le cancellerie e gli uffici diplomatici. “Mohammad Morsi è stato democraticamente eletto, è stato deposto da un colpo di Stato, il generale El-Sisi ha assunto le redini del potere, molti sostenitori di Morsi sono stati uccisi dalla polizia con colpi di arma da fuoco, il paese è spaccato in due e si trova sull’orlo di una guerra civile”. Non credo serva aggiungere altro. Questa è a grandi linee l’immagine che si è radicata presso l’opinione pubblica occidentale. Se poi aggiungiamo le deduzioni degli esperti il quadro è completo: “L’Egitto è tornato a un regime militare, la giunta ha strumentalizzato la piazza per riprendere il potere, il popolo egiziano non è pronto per la democrazia, si sta ripetendo lo scenario dell’Algeria”.

Per quale ragione questo sia l’approccio alla realtà egiziana esula dal nostro articolo. In estrema sintesi risponde probabilmente a quella che potremmo chiamare una atavica predisposizione di certa informazione al categorismo e una forma di sudditanza economico-editoriale alla linea di pensiero dettata dagli interessi occidentali. Per cui, da una parte, problematizzazione e contestualizzazione vengono disinvoltamente risparmiate e, dall’altra, il verbo americano ed europeo informa di sé testimonianze e resoconti.

I poeti appartati: Massimo Rizzante

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da Scuola di calore di Massimo Rizzante
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Corinne

A Bruxelles i poeti cattolici pregano in un istituto
per il sostegno ai paesi in preda alla fame e al sottosviluppo.
Fra loro c’è un teologo di Lovanio, famoso per il suo credo: «Dieu est noir!».
«Le Pape du tierce monde», lo ha chiamato una giornalista di Le Soir…

Fino a quando, in una poesia, ammise di aver inculato un neretto
di Dakar. La confessione in versi non è prova di reato.
Così, benché l’istituto denunciasse gli abusi alle nazioni più sofferenti,
Padre Jacques continuò a partecipare agli incontri

In una seconda poesia scese nei dettagli. Ne riporto solo qualche verso,
poiché il direttore di Alternative Afrique ne ha tagliato diverse parti.
Rientrava in aereo dal Senegal, quando si accorse che al suo fianco
si era appollaiato «un bocconcino dagli occhi di brace»

La sua pelle emanava «un odore acre di digiuni e lavande»,
le sue braccia ossute gli ricordavano «un roseto selvatico»,
le cui «spine invisibili» gli penetravano «il cuore nemico e vandalo».
«Tre volte, nell’alto dei cieli, la notte della mia croce lo prese»

In una terza poesia, che Padre Jacques lesse in redazione,
si accenna al «piacere» che si dissolve «in un amen».
E al «risveglio secolare», al sangue sull’abito talare,
alle preghiere che «la lingua di fuoco» non riusciva a pronunciare

Il piccolo fu visitato da uno psicologo di Gand. Per il suo silenzio
la madre chiese un’indennità. Il direttore della rivista rimpatriò
in catene. L’istituto con il nome Africa’n’chic divenne un night.
La poesia, bisogna ammetterlo, è rimasta l’unico sacerdozio!

Gabriela

Cornelius affermava che «Niente e nessuno può proteggere
l’umanità dalla sua follia». Né MTV, né Bono Vox,
né la Cabala, né la grande maggioranza degli onanisti
che siedono alle Nazioni Unite, né i superstiti di Auschwitz

Da figlia di una coppia di ebrei andati in fumo nel ’44,
vedova di un martire della guerra di Yom Kippur,
madre di due gemelle sordomute allevate tra i mufloni
in un kibbutz di Even Yehuda, ho le carte in regola

Per difendere il bene comune da ogni «differenza»,
sia quella degli allevatori di mufloni del nord d’Israele
o dei cacciatori di teste della tribù dei Daiachi
rispetto ai quali i boia di Mauthausen sono dei macachi ammaestrati

Mi hanno insegnato che ogni espressione va compresa
e che il giudizio supremo spetta alle pietre. Oggi più di ieri,
allorché i muri invece che al pianto servono da tavolozza
ai delinquenti quotati dai loro carcerieri più di Cezanne

Non ho mai pensato che, come si afferma nel Levitico,
l’omosessualità sia un abominio. So che il prezzo da pagare
per la libertà è la distruzione di Homo economicus. È così alto?
Davvero preferiamo un IPod a un nuovo amico?

Chi dice che nella storia dell’uomo gli imperi sono solo eccezioni
e che il regno naturale di Homo sapiens è la democrazia, si ricordi dei Daiachi
e dei loro lobi deformati dal piercing, quando la sua testa mozzata
da un machete rotolerà ai piedi di un muro coperto di graffiti

Lourdes

Nella città senza mappe del mio incubo la parola «volontà»
non ha più alcun significato. Che cosa ho davvero voluto?
Aborrire il mio paese? Sposare un bibliotecario di Namur?
Baciare il volto tumefatto di mia madre all’obitorio di Saint Pierre?

O vagabondare per il Sablon con l’urna delle sue ceneri
sulle spalle, sigillata e accuratamente riposta nello zainetto?
Come un neonato congolese addormentato (il peso di un altro
è il nostro peso, più la radice quadrata di ciò che abbiamo perduto)

O che non abbiamo perduto. E che differenza c’è tra il portare
sulle spalle un cadavere o un figlio appena nato? In ogni caso
tu ne sei il prolungamento, il sogno, l’incubo, l’incarnazione vivente
che l’amore e la morte si congiungono in un punto di domanda

E la domanda è: che cosa si prova? Allora ciò che resta è uscire
dalla Storia e tuffarsi nella cronaca, visitare per anni l’archivio
delle ossa, confrontare i registri, le testimonianze, i tarli
con il nome delle vie, le piazze, i conoscenti, i loro «ripassi più tardi…»

E quando? Il giorno del mio prossimo concepimento? O quando anch’io
sarò inghiottita dal ricordo di qualcun altro? Da quello della vedova Thiénot,
ad esempio, la cui massima ambizione è raccogliere gli escrementi del suo cane.
Da quello di Kawthar, che si sente in patria solo quando il marito la frusta

Nell’incubo di questa città senza mappe, ognuno di noi appartiene
a una persona che ha lasciato questo mondo, o che è appena nata.
Ed è il suo peso a sollevarci dalla paura dell’ignoto sempre in gestazione:
come una madre che si ostina a non prendere precauzioni

Le poesie sono tratte da Scuola di calore (Effigie edizioni) di Massimo Rizzante, in uscita in questi giorni in libreria.

Su La dimora del tempo sospeso, progetto curato da Francesco Marotta è possibile leggere Lydie