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Cara controcultura

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di Silvia Contariniimages-1

Chi si interessi ai movimenti degli anni 1960-1970, con o senza rimpianti, per personale coinvolgimento o meno, condividerà forse le reazioni contrastanti che ho avuto scoprendo il catalogo Controcultura in Italia. Libri giornali, fotografie, documenti (con relativi prezzi), pubblicato nel 2012 dallo studio bibliografico l’Arengario: http://www.arengario.it/homepage/_hp-pdf/catalogo-controcultura.pdf

Passata la curiosità e la piacevole scoperta di materiali che non conoscevo (copertine di Re Nudo o di Ombre rosse, testi di volantini, slogan), alcuni dei quali di un’inventività straordinaria; passata l’emozione, suscitata per esempio da foto di Tano D’Amico che riportano con forza nell’Italia di quegli anni; passata anche – con più difficoltà – l’irritazione di veder messo in vendita il tutto a caro prezzo, sono rimasta in sospeso su un paio di questioni. Perché così commercializzati, questi sono cimeli, articoli da collezionista, da musei, da biblioteche, ossia attestazioni frammentarie e parziali di un passato considerato chiuso; in sostanza, la controcultura (femminismo, pacifismo, antimilitarismo, antiautoritarismo, lotta di classe, movimenti giovanili, internazionalismo, etc.), diventa materia per amatori, conservatori, ricercatori di vari campi e discipline, e sarà (probabilmente già lo è) esposta, scandagliata, commentata, annotata. Quando e come si storicizza la vita? Quanta distanza e quali strumenti ci vogliono per ricontestualizzare e interpretare correttamente il vissuto? Non è troppo presto per mettere sotto teca il ’77? Per farne preziose anticaglie? Si è esaurito del tutto lo spirito della controcultura? E poi, che ha senso ha (ossia che senso si produce a) mettere insieme i cortei femministi e le P38, gli indiani metropolitani e Lenin, i prigionieri di Rebibbia in rivolta e la rivista freak Il minestrone? Che certo appartengono allo stesso periodo (purtroppo passato alla storia solo come anni di piombo), e certo rientrano nell’area dei “contro”, ma per il resto poco altro hanno in comune.

Altre considerazioni riguardano i prezzi, esorbitanti ai miei occhi, forse normali per esperti conoscitori. Mi sono chiesta se il tariffario sia giustificato da una forte domanda istituzionale o accademica, o se gli acquirenti potenziali non siano piuttosto nostalgici “ex”, oggi danarosi abbastanza per comprarsi un vecchio numero di Lotta Continua a 40 euro o un numero di Re Nudo a 250. A meno che non siano di moda, accanto alla planetaria icona del Che, anche insensate  massime, tipo quelle di A/Traverso  (“Il desiderio giu­dica la storia. Ma chi giudica il desiderio?”) o più minacciose scritte (“Pagherete caro, pagherete tutto”). Facciamo anche l’ipotesi che le tracce fisiche della controcultura stiano diventando un bene prezioso perché gli allora protagonisti, il più spesso giovani effimeri precari pendolari, erano poco “conservatori” per indole, necessità, ideali; rari sarebbero gli originali rimasti in circolazione, e c’è chi, come gli antiquari dell’Arengario, ne ha capito il valore. Valore economico, certo, ma anche valore storico, culturale, testimoniale e affettivo. Nonostante le remore, ho trovato questo catalogo straripante di vitalità ed è stato un piacere scorrerlo.

[PS catalogo esaurito, consultabile online; lo stesso editore-antiquario ha pubblicato altri volumi del genere]

La farcitura

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di Orso Tosco

Brocca, teiera e pioggia (d.o.)
Brocca, teiera e pioggia (d.o.)

Crolla la pioggia e il vento fa un suono di topi e ferro.

L’acqua che scende si raccoglie nel centro del tetto, tagliato da una crepa. Andrà tutto bene: il tetto è solido, il cielo continuerà a cadere e Mr. Brody non mi troverà.

Una tassa sulla proprietà? . . . Noooooooooooo!

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di Antonio Sparzani

Karl Marx«O padrone non lo fare
siamo in pochi ma a lottare
e per farla scomparire
la maledetta proprietà
».
[Giovanna Marini, “Se ci avessi cento figli”, 1966]

Volevo ben dire che in questo paese ci fosse permesso di tenere una tassa sulla proprietà. Vi rendete conto? Ho detto una tassa sulla proprietà, che è sacra e inviolabile: non saremo per caso pazzi, o, per dire, tutti kommunistacci e kommunistacce senza ritegno e rispetto per le cose sacre. Adesso l’ordine è stato ristabilito, alleluja.

Cine-Costa (in 12 sequenze)

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Immagine 086  [Questo pezzo è tratto dall’ultimo prezioso numero del “verri” (n° 52, giugno 2013) TUTTO dedicato a Corrado Costa.]

di Andrea Inglese

 

1. Abbiamo sì letto Sanguineti, e molto, e anche Porta, persino Villa, e Niccolai, Spatola, & gli altri,  ma ben poco Costa, non abbastanza letto, che poco se ne trovava in giro, e quindi Costa ci raggiunge con un misurato ritardo, quando tutto sembra risaputo, e invece di Costa (e della vita inventata) ci rimane tutto da sapere, ossia da leggere, per rileggerlo nuovamente in futuro, perché è laggiù, fra un po’ di tempo, che Corrado Costa, incidente di canone, gradito sinistro, ci aspetta.

LA LUNA E I CALANCHI

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Un anno di azioni paesologiche ad Aliano –

Festival ideato e curato da Franco Arminio – 

 

“Una cerimonia dei sensi contro l’autismo corale. La paesologia festeggia un paese e i suoi abitanti, festeggia i cardi, i lampioni, i muri nuovi e quelli antichi. […] Abbiamo bisogno di partire da un posto preciso. Fare comunità, anche se comunità provvisorie.”

 

Il programma

Giovedì 29 agosto

Ore 13.00: Cerimonia dei sensi

Ore 15.00: Auditorium dei Calanchi
Aspettando la Luna e i calanchi
Un video di Francesca Catarci

Ore 15,30: Auditorium dei Calanchi
I bambini e i calanchi
a cura di Maria Delorenzo

Ore 16.00: calanchi
Movimenti, Canti, suoni, letture e narrazioni nel paesaggio inoperoso
Valerio Apice, Samanta Balzani, Egidia Bruno, Joe Capalbo, Lucia Citterio, Camillo Ciorciarlo, Pietro Colaiacovo, Nicola D’Imperio, Claudia Fofi, Teresa Lardino, Cristiana Liguori, Luigi Marra, Antonio Petrocelli, Gloria Pomardi, Caterina Pontrandolfo, Pino Quartullo, Mariolina Venezia e altri

I muri di K. (2/2)

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di Giacomo Sartori

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Qui a K.

si contano più di cento sintagmi

per onorare le pietre

esili o massicce

ialine o grigie di sole

Di che morte morire

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cavalligiulio due righe indignate di Gianni Biondillo

 

Per la ‘ndrangheta Giulio Cavalli – come dice  Luigi Bonaventura, pentito della cosca Vrenna-Bonaventura – è uno scassaminchia. Quindi deve essere fatto fuori. Magari con una morte umiliante, giusto per sputtanarlo.

Si può ascoltare la sua confessione qui.

Oggi, in una seconda intervista a Fanpage, Bonaventura dice, tra le altre cose, che “dietro i piani di per mettere a tacere per sempre Giulio Cavalli  c’è anche una parte di politica collusa e ambienti istituzionali, nel senso che le azioni erano fortemente volute anche da qualche politico, nello specifico lombardo.”

Voglio dire due brevi cose:

1) Il silenzio “ufficiale” attorno a queste dichiarazioni è semplicemente vergognoso.

2) Non lasciamolo solo.

 

Abbraccio Giulio come si abbraccia un fratello. Stretto stretto.

Inedite

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di Daniele Ventre

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Eppure nella caverna si nascondeva un tesoro
fra il sogno d’una ragione e il senso d’una misura,
l’eco di un canto di fate, la fiaba d’una natura
dischiusa all’ordine antico d’una leggenda inverata:
la pietra filosofale che piombo ti muta d’oro.

Mi riconosci

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mi_riconosci  di Gianni Biondillo

Andrea Bajani, Mi riconosci, Feltrinelli editore, 143 pag.

 

Che Mi riconosci sia la storia del legame fra Andrea Bajani, l’autore del romanzo, e Antonio Tabucchi non renderebbe in sé interessante la lettura del libro. Non è tanto l’aspetto testimoniale, il mémoire intellettuale che attira il lettore. Mi riconosci è, su tutto, un lungo discorso attorno a temi e concetti che innervano il senso stesso dell’esistenza: amicizia, vita, morte. Temi, cioè che farebbero tremare le vene ai polsi ad ogni scrittore che si rispetti.

Quindi è la lettura metaforica del libro che rende giustizia a questo breve ma densissimo libro di Bajani. I due attori protagonisti diventano perciò metafore, e il loro rapporto particolare, grazie alla capacità che ha l’arte di trasfigurare, universale.

Andrea e Antonio. Un’amicizia nata grazie alle corrispondenze d’amorosi sensi, grazie al rispetto nato sulle pagine scritte e lette l’uno dall’altro. La storia insomma della generosità di uno scrittore affermato anche oltre confine che, curioso, scopre un suo fratello e/o figlio di penna, il giovane Andrea. Che qui ci racconta come incontrò per la prima volta Antonio. E come lo vide per l’ultima.

Mi riconosci non è neanche un romanzo, ad essere precisi. Il passo è quello del monologo teatrale.  La voce è quella attonita dell’autore che cerca, frugando nella memoria, il suo disperato modo di elaborare il lutto, di superare la perdita. Antonio (Tabucchi, ma tutti gli Antonio che abbiamo conosciuto nella vita) verrà consumato da una malattia senza scampo. Non c’è pace, non c’è soluzione, non c’è giustizia, nel ricordo di Andrea. Solo, proustianamente, il desiderio di eternare le cose che non durano, di impartire con l’unica arma a disposizione dello scrittore uno scacco alla morte.

La lingua di Bajani è levigata e precisa, anche nelle sue parti più allegoriche, ma per assurdo sono proprio le pagine bianche, quelle che dividono di continuo i brevi capitoli del libro, ad abbacinare. Come a dirci che non tutto, mai, si può dire per davvero di fronte al ricordo di un dolore, di fronte alla perdita di un amico.

 

(pubblicato su Cooperazione, numero 16 del 16 aprile 2013)

Rosa Barba, The Mute Veracity of Matter

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 di Rinaldo Censi

Si esce dalla mostra The Mute Veracity of Matter piuttosto elettrizzati. E’ la seconda mostra personale di Rosa Barba, leggiamo sul foglio che l’accompagna. Lo spazio è quello della galleria Gió Marconi, a Milano, anche se l’artista siciliana residente a Berlino ha ormai esposto nei maggiori musei mondiali, raggiungendo una meritata fama. Ci siamo appena lasciati alle spalle il brusio dei proiettori, gli eccentrici, le pellicole, tutto un armamentario analogico, meccanico, utilizzato per sfornare immagini mobili. Abbiamo percorso gli spazi in uno stato di stupore, affascinati e infine conquistati. A pochi passi, un ragazzo giapponese prendeva fotografie con il suo ipad, e, mentre ci dirigevamo verso l’uscita, ci siamo detti che tra quel tablet e gli oggetti qui esposti si è creato un vero abisso che non è solo tecnologico, ma quasi antropologico. Perché un ipad non possiede una camma e lì, all’interno dei magnifici spazi della galleria, ogni cosa sembra invece prodursi e dispiegarsi grazie a questo minuscolo elemento “eccentrico”. Una camma? Sì, un pezzo meccanico in metallo che permette di trasformare un moto rotatorio uniforme in rettilineo. Inserito su un asse, sviluppa una serie di “cinematismi” – tra questi ovviamente quello del motore a scoppio, ma varrebbe la pena segnalare anche i movimenti cronografici delle macchine da cucire, dei proiettori cinematografici, delle locomotive, degli orologi, o delle trivelle petrolifere. La “cinematica” è materia che giunge al suo apogeo verso la fine dell’ottocento, grazie alle riflessioni di Franz Reuleaux (il suo Theoretische Kinematik esce nel 1875, in Germania: una sorta di teoria generale delle macchine).

Nel 1930 Ralph Steiner aveva filmato questo movimento meccanico in un piccolo film intitolato Mechanical Principles, all’interno di un’esposizione tenutasi presso il Science Museum di New York. Si pensa un po’ a quel film, davanti alle sculture e ai proiettori esposti da Rosa Barba. E viene da chiedersi da dove giunga quest’attrazione per l’apparato cinematografico, i suoi elementi: proiettore, schermo, pellicola, meccanismo di scorrimento, che ella indaga, mostra, dispiega nelle sue opere. Senza dimenticare il tempo, la coscienza, la sua percezione: problemi che hanno interessato filosofi come Kant, Bergson, Mach, fino ad Einstein e al famoso secondo principio della termodinamica. Ecco un altro elemento che giunge a complicare la lettura di questi elementi celibi che si dispiegano all’interno dello spazio del white cube. C’è il futuro che ritroviamo in The Contemplative or the Speculative (2013), un Lichtspiel, un feltro nero su cui è ritagliato un testo che sembra fuoriuscito da Ballard, dal sapore sci-fi, illuminato da un proiettore che ne ri-proietta il testo sulla parete. Ma il tempo è soprattutto colto nella sua ripetizione (il che non esclude minuscole differenze). Si vedano Color Clocks: Vertical Lean Occasionally Consistently Away from Viewpoints (2012), tre sculture che aprono la mostra nella loro dimensione cinematica, rintracciabile anche in Footnotes (2013), o nei due proiettori posti uno di fronte all’altro separati da uno schermo, a formare Color Studies (2013), una variazione cromatica ottenuta attraverso la proiezione in loop di una striscia di tre pezzi di pellicola composta dai tre colori primari, la cui immagine proiettata dona una serie di variazioni monocrome su un doppio quadrato sfasato, in cui i colori a volte combaciano oppure si alternano, creando una specie di plasticismo luminoso musicale e mobile (qualcosa su cui aveva già riflettuto Piet Mondrian, si veda il suo “Il neoplasticismo (la nuova plastica) e la sua realizzazione nella musica”, pubblicato nel 1922 sulle pagine di De Stjil).

Scorrimento, ripetizione, circolarità, entropia: le opere di Rosa Barba sembrano muoversi lungo queste coordinate. Il film Time as Perspective (2012), l’ultima opera esposta, solitaria, sembra contenerle tutte. Ed è come se tutto il resto della mostra non potesse che chiudersi lì. In questo film (proiettato con un maestoso proiettore 35mm) si susseguono inquadrature di gigantesche trivelle riprese in un sito nel deserto del Texas. Filmate prima ad altezza d’uomo, schiacciate dal teleobiettivo, e poi circoscritte con riprese aeree in elicottero, queste macchine svolgono il loro movimento con fredda precisione: riproducono – in abisso – i movimenti cinematici mostrati nella galleria. Proiettato in loop, ripetuto, il film sembra disfarsi sotto i nostri occhi a causa del continuo scorrimento della pellicola, rigata, graffiata. Una delle didascalie riporta: «The signs remain beyond the movement of time. And they flow». Strati di tempo sono fissati su un fragile nastro in cellulosa: muta veracità della materia, le rigature sono il segno, la prova di questo tempo profondo.

Cinema vuol dire “movimento”, e le opere qui esposte ne sono una felice riflessione. Meccanismi di trascinamento, cinematismo? queste bielle, queste sculture sono legate indissolubilmente all’età delle Macchine. Rappresentano meccanismi che hanno servito industrie, di cui il cinema è parte. Ma qui girano a vuoto. Innescano movimenti celibi, ripetuti fino allo sfinimento. Il loro movimento rettilineo non va da nessuna parte. Queste macchine mostrano semplicemente il loro corpo (il corpo del cinema). Non producono nulla se non un tempo paradossale in grado di sregolare il nostro. Lezione di cinema: noi ne siamo semplicemente i destinatari, gli spettatori.

(Pubblicato originariamente su il Manifesto)

Contemporary Italian Poetry

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Ho curato una piccola antologia di poesia italiana contemporanea per la rivista Free Verse.

Enjoy.

Céline è il nome di mia madre

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Antonin Artaud et Cécile Brusson pour Le Moine de Matthew Gregory Lewis
Antonin Artaud et Cécile Brusson pour Le Moine de Matthew Gregory Lewis

di
Cécile Brusson
traduzione di Francesco Forlani

Mentre noi eravamo a teatro, uno sconosciuto aveva portato in rue Amélie un pacchetto che aveva consegnato al vecchio Georges, dopo la chiusura degli uffici. Quando torna a casa, Denoël, come suo consueto, passa per il suo ufficio. Io salgo su. Trascorre del tempo, e lui sempre al piano di sotto. Lo chiamo.
– Sto arrivando, mi grida.
Passa ancora un bel po’ di tempo. Di Denoël nessuna traccia. Lo chiamo di nuovo.
– Sì, sto salendo!

E arriva, con un enorme manoscritto sotto il braccio, il volto raggiante. “Formidable!” Mi dice semplicemente. E getta il manoscritto sul letto. Mentre si spoglia, io inizio a leggere. Robert si mette a letto e riprende la lettura passandomi i fogli man mano. Di tanto in tanto, ci lanciamo uno sguardo, senza proferire parola.
voyage
Eravamo appassionati, sorpresi, stupiti, letteralmente soggiogati. Non avevamo mai letto qualcosa di simile. Eravamo straordinariamente impressionati, una rivelazione pari a quella che si può provare davanti a un dipinto di Brueghel, Hieronymus Bosch. La stessa esplosione di luce, o meglio di verità, di sincerità, quella stessa precisione nei dettagli della vita, della morte, l’angoscia, la speranza. Questo lampo di verità in cui la bruttezza raggiunge il culmine del sublime; il tutto tradotto in parole vere, sincere e dirette. Avevamo l’impressione che il testo fosse stato scritto a denti stretti con una virulenza, una durezza del tutto simili a quella che Denoël utilizzava quando parlava dell’ambiente borghese della sua infanzia e che lui aborriva.

Trovavamo in quel manoscritto la giustificazione della nostra fuga. Vi trovavamo ciò che ci aveva fatto lasciare le nostre famiglie, ci aveva spinti in Francia, ciò per cui avevamo scelto di essere editori. Finalmente! avevamo trovato quello che cercavamo: qualcuno che aveva spezzato le catene della falsa morale, delle false convenzioni, dell’ipocrisia che ci aveva imprigionato per delle generazioni. Qualcuno osava dire merde! se ne aveva voglia e chiamava le cose con il loro nome. La nostra lettura silenziosa ma esaltante proseguì durante tutta la notte.

L’indomani, Steele è arrivato di buon’ora. Denoël lo aveva sicuramente chiamato. Gli parlò della necessità di pubblicare quel libro immediatamente. In fretta. Molto in fretta. Meritava il Goncourt e non c’era tempo da perdere. Tuttavia, mancava un dettaglio. Un semplice dettaglio apparentemente senza importanza: il manoscritto aveva un titolo: “Viaggio al termine della notte”, ma il nome del suo autore non era da nessuna parte. Abbiamo allora chiesto a Georges.
– Un signore alto, sul suo tipo, alto e magro, con una palandrana come la sua ….
– Ma non le ha detto niente?
– No. Stavo per andarmene quando qualcuno ha suonato. Ho aperto. Questo signore mi ha chiesto se lei era in ufficio. Ho detto di no. Poi mi ha detto: “Beh, non importa, gli dia questo. “Ho allora domandato da parte di chi e lui ha risposto: ” Non ha nessuna importanza. “E se n’ è andato. Ho messo il pacchetto nel suo ufficio.
– Ma adesso che ci penso, la carta in cui era avvolto … l’avevo lasciata qui.

Le pulizie erano state fatte. Georges aveva sicuramente preso la carta per metterla insieme al resto in caldaia come faceva ogni mattina. Scendiamo in cantina. Tutte le cartacce erano lì, pronte per essere bruciate, e così trovammo quella che aveva avvolto il manoscritto. Una carta stropicciata su cui si leggeva appena appena un nome. Quello di una donna che, poco tempo prima, aveva portato un altro manoscritto. Buono o cattivo che fosse, non lo so, ma troppo lezioso per essere pubblicato da noi. Uno dei nostri collaboratori incaricato di redigere cortesemente la lettera di rifiuto trova l’indirizzo. Denoël si fa carico della telefonata.

Con una voce tra le sue più fascinose – e solo Dio sa quanto affascinante sapesse essere ! – si scusa con la signora per non aver avuto il piacere di riceverla di persona, assicurandole che il suo libro è eccellente, ma che non può far parte del programma per l’anno in corso  ma che per il prossimo forse .. e arriva al vero motivo della sua telefonata:
– A proposito, abbiamo appena ricevuto un altro manoscritto, senza nome o l’indirizzo dell’autore, ma è stato impacchettato con della carta su cui è scritto il suo nome. Si tratta di un altro suo manoscritto? … Anche se a prima vista lo stile mi sembrerebbe molto diverso.
– Un altro manoscritto a mio nome?
chiede la donna.
– No. Solo la carta che lo conteneva porta il suo nome. Uno dei suoi amici, forse …
– Non saprei. Davvero. Ma aspetti un attimo … Sul mio pianerottolo abita un pazzo che mi ha mostrato un giorno qualche pagina di un suo manoscritto appena terminato … Però non mi dica che lo pubblicherete! Un orrore, è disgustoso! ripugnante!
– Certo che no, mia cara signora, la rassicura Denoël. Non abbiamo neanche avuto il tempo di leggerlo, tutto questo è successo ieri sera. Si tratta semplicemente di compilare una scheda, come si è soliti farlo per qualsiasi manoscritto che ci viene affidato. Credo che lei lo conosca bene visto che le ha chiesto della carta …
– Per carità! sbotta la signora che non vorrebbe per nessuna ragione al mondo avere a che fare con quel mezzo matto. Per carità! ma abbiamo la stessa donna delle pulizie e ha l’abitudine di prendere qualsiasi cosa per avvolgerci le pantofole, forse è lei che ha lasciato la mia carta intestata in casa del medico.
– Il dottore? Ah! lui è un dottore?
– Oh! in un ambulatorio di periferia.
– Bene, bene! Ma sa, per la scheda, mi potrebbe dire il suo nome?
– Destouches. Dottor Destouches.
– E l’ indirizzo è lo stesso suo , credo.
– Ahimè, sì, signore, 98, rue Lepic.

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Denoël si perde in ringraziamenti e scuse per aver disturbato, le assicura che le sue prossime opere  riceveranno in futuro un più caloroso benvenuto, poi ancora, sempre per telefono, un paio di sviolinate e finalmente riattacca. Pazzo di gioia, esplode con una grassa risata. Mi racconta la conversazione telefonica che gli ha rivelato l’identità dell’autore del “Viaggio”.
Sempre a giocarti la carta del fascino tu, eh?
– Per fortuna,
mi risponde lui sorridendo, è un metodo che mi riesce sempre!

Ma non c’era tempo da perdere. Steele aveva letto qualche pagina. Ne era stato letteralmente stomacato ma aveva una totale fiducia nel gusto e nel fiuto di Robert e si è sempre trovato bene.

Fu convocato d’urgenza il dottor Destouches e non si fece attendere. Denoël gli disse che voleva far uscire il suo libro senza indugio e in fretta per presentarlo al Goncourt. Destouches lo guardò sorpreso e poi con voce burbera, lasciò cadere: “Ma se non ha avuto il tempo di vederlo. ”
– Oh! ma certo che sì. Abbiamo trascorso tutta la notte, mia moglie e io a leggerlo e credo che meriti il Goncourt,
rispose Denoël . Ma perché lo ha portato qui piuttosto che altrove?
– L’ho ripreso da Gallimard, che non mi ha dato segni di vita per diversi mesi, per poi a conti fatti, rifiutarlo.
– Beh, io lo prendo.

Destouches era allo stesso tempo incredulo e stupito dalla rapida decisione di Denoël. Il libro fu immediatamente messo in produzione. L’autore ne seguiva il percorso passo dopo passo, imponendo le sue idee per la presentazione, la copertina, urlando quando Denoël avrebbe voluto tagliarne un passaggio o due, cambiare una parola … “Di grazia, scriveva, non aggiunga una sillaba … ”

In ogni occasione mandava delle lettere, ci scriveva delle note veloci che spesso ci portava di persona, poi rimaneva a cena. Il suo posto era sempre apparecchiato. Una grande amicizia ci legava già.

– Dovrò trovare un nome, ci disse un giorno.
– Ma, Destouches, va più che bene.
– No. Non voglio mischiare il medico con lo scrittore. Eppure, c’è un nome che mi avrebbe fatto piacere … Céline.
– Un nome di donna? Non credo di capire …
– Forse, ma è il nome di mia madre.

C’era nella sua voce tanta di quella tenerezza contenuta che ne fummo commossi. Così nacque Louis-Ferdinand Céline.

Un lampo improvviso squarcia il deserto

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Rinaldo Censi

Uno degli aspetti più affascinanti della Land Art è oggettivamente legato alla sua incidenza cartografica. Tenendo sotto i nostri occhi una mappa degli Stati Uniti risulta facile constatare come molte delle “sculture” moderne realizzate da Michael Heizer, Robert Smithson, Nancy Holt e Walter De Maria siano circoscritte nella zona Sud-Ovest del territorio americano: la zona segnata dai grandi spazi aridi e desertici. Basterebbe ricordare il Nevada e il Double Negative realizzato nel 1969 da Michael Heizer (ma anche Complex City e Dissipate), proprio a due passi dal Las Vegas Piece di Walter De Maria, realizzato nello stesso anno. Di fianco, nello Utah, potete trovare la Spiral Jetty di Robert Smithson (1970) e i Sun Tunnels (1973-76)di Nancy Holt, sua moglie. Sotto lo Utah si trova l’Arizona e il Roden Crater (1992) di James Turrell. Al suo fianco, sulla destra, nel New Mexico, Walter De Maria ha elaborato il suo Lightning Field (1977).

Le “sculture” qui indicate sono degli Earthwork. Utilizziamo il termine nell’accezione cara a Lawrence Alloway, e cioè «contributi decisivi al paesaggio, manifestazioni solide, luoghi (fisici)». Anche se alcune di queste opere sono a rischio sparizione (Spiral Jetty che – a volte – si inabissa nelle acque del lago salato vicino a Salt Lake City, Utah) o sono definitivamente scomparse, mangiate dal paesaggio e dal deterioramento fisico (Dissipate). La loro realizzazione rovescia il concetto tradizionale di “museo” tanto che per visitarle è necessario partire e affrontare un viaggio impervio in mezzo al nulla, nella wilderness, a stretto contatto con agenti atmosferici decisamente proibitivi. E’ quello che ha fatto nel 1976 lo stesso Alloway. Chi fosse interessato, può trovare il resoconto del suo viaggio attraverso lo Utah, l’Arizona, il Nevada, e il Texas su un vecchio numero di Artforum uscito nel 1976 e intitolato – guarda caso – Site inspections.

Tra gli Earthwork visitati da Alloway, oltre al Double Negative di Heizer e Spiral Jetty di Smithson, troviamo il First Lightning Field di Walter de Maria, situato all’epoca nell’Arizona, nei pressi del Chilson Ranch, tra il Meteor Crater e la zona vulcanica delle San Francisco Mountains. Ci sono voluti due anni a De Maria per trovare questo luogo simile a un pianeta sconosciuto. Lì ha piantato le prime High Energy Bars, barre metalliche in grado di catturare l’energia elettrica sprigionata dai fulmini. In un secondo tempo, il sito e l’opera sono state spostate nel New Mexico, sotto l’egida della Dia Art Foundation, e oggi ancora lì si trovano. Chi fosse interessato a visitare l’Earthwork deve contattare la Dia Art Foundation, evitando di perdersi nel nulla del New Mexico, tra zone desertiche e praterie. Si parte da Quemado e alle tre del pomeriggio si viene portati sul luogo da un’automobile della Dia, presso il Cabin Lodge, e lì si resta fino alle undici della mattina successiva, quando un’altra automobile passa a prendervi. Dentro al Cabin Lodge troverete cibo sufficiente per una cena e una colazione. Il sito dista almeno tre ore d’automobile da Albuquerque, quattro ore e mezza da Phoenix (Arizona) e cinque da Flagstaff. Non è una passeggiata.

(Sarà stata la purezza dell’aria del New Mexico, la sua consistenza, ad aver fatto cambiare sito a Walter De Maria? Sono caratteristiche fondamentali per ottenere un effetto conduttore maggiore. L’Arizona, posta appena sopra, era dopotutto il luogo prescelto da Tesla verso la fine dell’ottocento per i suoi esperimenti elettrici. Colorado Spring, anzi, Pikes Peak, è il luogo dove Tesla scopre che la terra è scossa da vibrazioni elettriche, prima di lasciare la città al buio per aver utilizzato troppa energia. Un lampo e un boato annunciano il black-out.)

Non c’è tempo per segnalare come l’esperienza minimalista (e concettuale)abbia segnato il percorso della Land Art. Ma fu lo stesso Walter De Maria a coniare il termine, e vale almeno la pena segnalare come due suoi lavori minimalisti degli anni ’60, 4 6 8 Series (1966) e Bed of Spikes (1969) preannuncino, in scala ridotta, e negli spazi chiusi di una galleria, Lightning Field, come se quelle installazioni di punte metalliche fissate su una base unica funzionassero paradossalmente da modellino per l’Earthwork. Eppure una galleria non è lo spazio sterminato del deserto. Nel passaggio, c’è un intero modo di fruire l’arte che finisce sotto sopra. I rapporti di scala saltano. Le dimensioni pure. Diventano monumentali.

E noi? Che ci facciamo in mezzo alla sterminata prateria del New Mexico, a tre ore di auto da Albuquerque? Facciamo esperienza di un luogo? Oppure, come era capitato a Tony Smith sulla New Jersey Turnpike, sperimentiamo i limiti dell’arte, forse la sua fine così come tradizionalmente veniva intesa? E dov’è l’opera? La possiamo solo fissare in alcune istantanee in grado di raggelare i fulmini attratti dalle barre metalliche? Una specie di minaccioso concerto elettrico? E’ il senso del luogo a mutare, mentre ci spostiamo tra le barre, come se l’orientamento, la prospettiva, la dimensione geometrica venissero messe in discussione? E infine, è solo dall’alto, grazie a una veduta aerea che possiamo cogliere l’opera nella sua interezza?

Raggiungere luoghi desolati immersi nel nulla, ispezionare siti, farne esperienza. Tutto questo, lo affermiamo senza timore del ridicolo, può anche sfiorare il concetto di sublime, magari una sua versione corretta e contemporanea. Deserto, polvere, freddo o calore, barre metalliche, lampi improvvisi, capricci dei fulmini: è tutto quello che ci è dato sentire. Una specie di fenomenologia di un luogo. Da parte sua, De Maria tace. Non ha mai commentato le sue opere, mantenendo un riserbo quasi zen.

(Apparso il 31/07/2013 sulle pagine de il Manifesto)

Il cacciatore di larve

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amir-tag-elsir

di Gianni Biondillo

Amir Tag Elsir, Il cacciatore di larve, Nottetempo, pag. 191, traduzione di Samuela Pagani

 

Dopo anni di impeccabile servizio – spiare, nel nome del governo, gli eventuali sovversivi – ‘Abdallah Harfash, detto scherzosamente Farfar (Farfalla), perduta una gamba durante un pedinamento, gira con uno sconcio arto di legno in uno stato forzato di inattività. Ma Farfar ha deciso di dare un senso alla sua nuova vita scrivendo un romanzo. Non avendone però mai letto uno, troppo impegnato nella sua attività di delatore,  decide di rimediare. Inizia così a frequentare, da neofita, un caffè letterario bazzicato dalla classe intellettuale cittadina: scrittori eccentrici, scrittrici vanesie, adepti codini alla ricerca di una qualche notorietà.

Il cacciatore di larve è un romanzo comico e grottesco, dove nessuno dei personaggi rappresentati appare simpatico. Le miserie umane di Farfar, che cerca di nobilitare il suo passato ricercando una fama effimera, sono le stesse dei suoi comprimari: grasse zie, becchini nevrotici, teatranti da strapazzo. Persino l’involontario mentore di ‘Abdallah, lo scrittore A.T., pieno dei suoi rituali estetizzanti, per quanto tecnicamente bravo (Farfar nel frattempo ha persino letto un suo romanzo, il primo della sua vita), si dimostra incapace di reagire al potere costituito. Di fronte all’immotivata cattura da parte degli ex colleghi di Farfar, vive l’umiliazione a capo chino, tanto quanto al caffè gioca a fare il dissidente.

Amir Tag Elsir scrive con una lingua ingenua, calco dell’incapacità del protagonista di usare le parole. Ma ogni tanto si permette digressioni stilistiche: quando, ad esempio, stila un rapporto di polizia, o quando riporta un intero capitolo del romanzo di A.T.

La determinazione di Farfar nel voler diventare uno scrittore è schietta. Ha capito che le storie che gli affastellano la mente sono solo larve, non tutte potranno crescere, svilupparsi, diventare farfalle. Così come lui stesso vive la contraddizione fra la sua volontà di libera espressione, fuori dalle regole opache del potere, e la macchina di una società oppressiva che potrebbe tarpargli le ali per sempre.

 

(pubblicato su Cooperazione, numero 11, del 12 marzo 2013)

Auto da fé

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Da “il Reportage” n.15 (luglio-settembre 2013)

Parigi, la lunga lotta degli operai Citroën
di Jamila Mascat
qui il pdf del fotoreportage – scioperi francia

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“Aulnay Story” potrebbe essere il titolo di una serie tv. Invece è la cronaca di una chiusura annunciata nel 2012, quella dello stabilimento Peugeot-Citroën di Aulnay-sous-Bois, pochi chilometri a nord di Parigi, raccontata quotidianamente da una giornalista e un regista di France2. E’ la storia della famiglia Peugeot, una delle più ricche di Francia, e del gruppo Psa, colosso dell’industria automobilistica nazionale, che l’anno scorso ha presentato un progetto di ristrutturazione aziendale che prevede la soppressione di 11.200 posti di lavoro entro il 2014, inclusi i 2.800 operai di Aulnay. Ed è la storia di questi operai, che hanno trascorso dieci, venti o perfino qurant’anni in fabbrica. Centinaia di loro, da gennaio a maggio, hanno portato avanti uno sciopero di 18 settimane contro il piano dalla direzione – il Pse, cosiddetto Plan de sauvegarde de l’emploi – che si è concluso con un accordo di compromesso poco soddisfacente a detta di molti. Non è una storia a lieto fine, ma è la storia di una lotta testarda contro la fatalità dei licenziamenti in un paese in cui, secondo le statistiche dell’Insee, il numero dei disoccupati cresce al ritmo di 1.500 al giorno.

Arfaoui, sessant’anni, è a Aulnay dal 1974 – lo stabilimento era stato inaugurato nel 1972 – e da allora non ha mancato uno sciopero. Prima le sei settimane nel 1982, poco dopo l’elezione di Mitterand, al termine delle quali i lavoratori erano riusciti ad ottenere quello che volevano (400 franchi in più e, soprattutto, la libertà sindacale). Poi le tre settimane di occupazione nel 1984 contro la minaccia dei licenziamenti, e ancora gli scioperi del 2005 e del 2007 per l’aumento dei salari. L’ultimo, quello di quest’anno, è stato lo sciopero più lungo nella storia della Citroën e uno dei più lunghi del movimento operaio in Francia.
“Quando sono entrato a Aulnay, insieme a centinaia di operai immigrati che venivano reclutati dalle mie parti, nel Sahara Occidentale, non era necessario saper leggere né scrivere e nemmeno parlare francese. Anzi, essere analfabeti era meglio”, racconta Arfaoui. “Durante i colloqui ci chiedevano se eravamo interessati alla politica, o se avevamo qualche affiliazione a partiti e sindacati. Noi sapevamo di dover rispondere di no e l’interprete che ci traduceva quel punto diceva soddisfatto: questo va benissimo, non capisce niente”. Un altro test prima di essere assunti consisteva nel sollevare per 10 minuti due sacchi di sabbia di cinque chili con le braccia tese. “Se ce la facevamo era fatta”, ricorda Arfaoui. “All’epoca non c’erano i robot, si faceva tutto a mano. I robot eravamo noi, che lavoravamo e basta e guai a protestare. Vivevamo in un dormitorio Citroën, sorvegliato da un guardiano che alle 20.30 ci mandava tutti a letto. Ogni giorno il pullman ci portava in fabbrica e poi a casa. Non c’era altro. Per questo se non avessi cominciato a scioperare sarei morto”.

Umano ma non troppo
E’ vero che molto è cambiato da allora e la fabbrica di Psa-Aulnay non somiglia all’inferno filmato da Louis Malle nel 1972 in Humain, trop humain. Il documentario, girato nello stabilimento Citroën di Rennes e volutamente muto, lasciava parlare la fatica dei gesti e le macchine assordanti. La telecamera di Malle seguiva con una lentezza esasperata la frenesia monotona degli operai alla catena di montaggio; ora, però, che non si avvita più niente a mano, sono ancora le macchine a scandire il ritmo e la monotonia è identica.
Durante lo sciopero, invece, c’è un silenzio insolito a Aulnay. La catena è sospesa, le macchine spente, solo le ventole sono in funzione. Per chi non è abituato il perimetro della fabbrica (170 ettari delimitati da due autostrade e una ferrovia) è uno spazio incommensurabile. La segnaletica ridondante aiuta a prendere le misure – indica i percorsi pedonali, i sensi di marcia e la velocità massima di 10 Km/h consentita alle automobili in circolazione. In questo limbo del non-lavoro, in cui non accade nulla, Aulnay ha perfino qualcosa di spettrale, nonostante la radio accesa che trasmette musica anni Ottanta, il thè alla menta e gli operai che giocano a pallone o a dama con i bulloni nell’atrio vicino all’ingresso. Non è un luogo pensato per la flânerie. “Quando siamo al lavoro, è tutta un’altra cosa – assicura Florian, originario della Guadalupa, 15 anni a Citroën di cui la maggior parte nella logistica – adesso è un posto irriconoscibile”. Florian non ha mai lavorato alla catena di montaggio e si ritiene fortunato. “Di solito ci mettevano i giovani appena arrivati e ora ci mettono gli interinali; è dura lì. Al momento non si muove nulla perché abbiamo bloccato tutto – spiega indicando il tabellone che tiene il conto delle unità prodotte – ma normalmente da qui escono settecento C3 al giorno”.

Pedaggi gratuiti
A gennaio i lavoratori in sciopero erano circa cinquecento, per lo più uomini sulla quarantina e molti di origine nordafricana. Nelle assemblee si discute delle comunicazioni che arrivano dalla direzione, si vota per continuare la mobilitazione, ci si organizza per chiedere fondi di solidarietà alle municipalità della zona e per fare le casse di sciopero davanti ai supermercati, nei centri commerciali o ai caselli autostradali. “Si chiama ‘operazione pedaggi gratuiti’”, spiega Manu, ex giocatore di rugby, sulla trentina, che lavora da una decina di anni alla verniciatura: “Alziamo le sbarre ai caselli e facciamo passare le macchine; in cambio chiediamo che ci diano qualcosa per sostenere lo sciopero”. Così in quattro mesi sono stati raccolti quasi 900mila euro che hanno permesso ai lavoratori di portare a casa uno “stipendio” decente, ognuno in base alla giornate di attività, ovvero le giornate di presenza in fabbrica registrate sulla tessera di sciopero.
Patrick è stato trasferito a Aulnay otto mesi fa, dopo la chiusura della fabbrica di Melun, e ne ha passati quattro a scioperare. “La cassa è stata una mano santa. I primi tre mesi ho preso quasi più di quello che prendo normalmente, ma è anche vero che ho lavorato più del solito: tutti i giorni qua dall’alba alle cinque e a volte fino a notte”, dice ridendo. “A marzo sono arrivato a 1.300 euro, una cifra enorme. A maggio invece c’è andata a male, ma eravamo rimasti in pochi e stanchi. Fare sciopero svogliatamente, in effetti, non ha senso. Per questo da subito abbiamo stabilito di prendere le presenze, perché non serviva a niente scioperare da casa”. In assemblea, e a volte in comitati più piccoli, si decidono le “azioni” del pomeriggio, che però devono restare il più possibile segrete. In quattro mesi gli operai di Psa non hanno smesso di fare incursioni dove non erano stati invitati. Hanno occupato per ore i locali dell’Uimm, la Federmeccanica francese, e la sede del Medef, la Confindustria; hanno guastato la festa a Arnaud Montebourg, il ministro del risanamento produttivo, durante un’inaugurazione a Gare de Lyon e hanno preso la parola al consiglio nazionale del Partito socialista, ad aprile, per accusare Hollande di “tradimento”. Infatti il 14 luglio 2012, due giorni dopo l’annuncio da parte di Psa del piano di ristrutturazione aziendale, il presidente della repubblica in tv aveva definito “inaccettabile” la chiusura di Aulnay – la prima chiusura di una fabbrica di quelle proporzioni a vent’anni dallo smantellamento di Renault-Billancourt nel 1992 – e aveva promesso che “lo stato non l’avrebbe consentita”. Otto mesi dopo, la ‘morte’ di Aulnay (insieme ai licenziamenti di massa a Sanofi, Goodyear, Arcelor-Mittal, Renault, Virgin e Air France) pesa come un macigno sulla popolarità di Hollande e dei socialisti.

José e Jerôme
Molti operai speravano nella mediazione del governo e alcuni perfino nel buon senso di Psa. La crisi – la peggiore degli ultimi dieci anni, il calo delle vendite sotto due milioni di auto, la riduzione della produzione di 500mila unità all’anno dal 2007 e le fabbriche ormai in funzione a meno dell’80% delle capacità – erano tutte cose note da tempo, e non solo agli addetti ai lavori. Ma quando a giugno del 2011 un delegato della Cgt che lavorava negli uffici della direzione si era imbattuto per caso in un documento che illustrava il progetto di chiusura di tre stablimenti europei (Madrid, SevelNord e Aulnay) e il sindacato aveva lanciato l’allarme, in pochi pochi avevano dato credito alla notizia, peraltro subito smentita dall’alto. Perciò, a distanza di un anno, l’annuncio della fine inesorabile di Aulnay da parte di Philippe Varin, dal 2009 alla guida di Psa, è arrivato come una doccia fredda. “Adesso ci hanno promesso che non perderemo il posto e che verremo trasferiti in altri stabilimenti o ricollocati in altre aziende, ma stavolta faccio fatica a credere che andrà tutto liscio”, spiega Jerome, da quasi vent’anni in fabbrica. Nel suo reparto, la finitura elettrica, illuminato da una luce al neon prepotente, arrivano le macchine assemblate ma difettose; Jerôme insieme al resto della squadra le ripara. E’ fiero del suo lavoro e di tutta la fabbrica: “Non capisco come abbiano potuto pensare di chiudere Aulnay. Siamo sempre stati i migliori. L’80 per cento delle macchine che escono da qui sono perfette, a Poissy non superano il 56 per cento. Ora se finiremo tutti là ci sarà da ridere perché si lavora troppo e male».
Poissy è lo spauracchio di tutti i lavoratori di Aulnay. Chi viene da lì ne sa qualcosa e chi non c’è mai stato ne ha sentito parlare. Come Aulnay negli anni ‘70, prima cioè della conquista dei diritti sindacali, era una fabbrica-modello (o un gulag, a detta di alcuni), così Poissy oggi è la nuova frontiera dell’abbattimento di quegli stessi diritti. “Se potessi scioperei”, dice Jerôme, che però non ha mai smesso di lavorare. José prende la palla al balzo: “E allora perché non scioperi?”. Figlio di immigrati spagnoli, cresciuto in banlieue, Josè lavora dal 1991 alle carrozzerie e da sempre è alla Cgt, il sindacato che ha promosso lo sciopero e l’unico dei sei rappresentanti dei lavoratori che a fine aprile ha rifiutato di firmare il Pse. Sempre in giacca e camicia ha scioperato dal primo all’ultimo giorno. “Noi non smettiamo mai di provare a convincere gli altri”, ammette. “La direzione ci accusa di intimidazione, ma tentare è il minimo. Molti sono d’accordo, però non se la sentono di passare dall’altra parte, pensano che sia rischioso. E allora niente, non si può fare sciopero per procura”.

Fermi tutti
Fin dalle prime settimane la mobilitazione è stata appoggiata passivamente anche da chi non scioperava. Quasi un terzo dei lavoratori in servizio si è messo in malattia per facilitare il blocco totale della produzione, e nessuno degli altri ha mai forzato i picchetti che paralizzavano la catena. L’azienda, da parte sua, ha fatto di tutto per dividere la fabbrica e trasformarla in una trincea: a gennaio, dopo la prima settimana di sciopero, con la scusa di un guasto tecnico, ha ordinato la serrata dello stabilimento per alcuni giorni, a febbraio ha mandato a Aulnay un esercito di rinforzi – quasi duecento tra capi, quadri e interinali provenienti da altri stabilimenti – per rimettere in moto le macchine (senza successo) e per far pressione sui lavoratori in modo che la mobilitazione non si espandesse. Per varie settimane anche i rinforzi sono stati costretti a rimanere fermi. Gli operai li chiamano “vasi di fiori”, perché “stanno lì immobili e ti guardano. O al massimo vengono a dirti che se non sei in tuta non puoi andare in giro per motivi di sicurezza”, spiega sorridendo Ghislaine, 50 anni, unica donna del reparto carrozzeria e una delle poche iscritte al Sia – il sindacato indipendente dell’automobile, cioè il sindacato giallo – a partecipare allo sciopero. “Il pezzo forte però sono loro – aggiunge indicando le guardie private che Psa ha reclutato per sorvegliare i picchetti – che ci tengono d’occhio dalla mattina alla sera e poi ci mandano in tribunale se tiriamo un uovo o se diciamo le parolacce”.

Maggio francese

Dopo diciotto settimane di mobilitazione il morale non è più alle stelle. Anche scioperare stanca. Ormai sono rimasti in poco meno di duecento, la fabbrica ha ripreso a produrre al rallentatore (qualche decina di auto ogni giorno) e le trattative con la direzione procedono a ribasso. Il 17 maggio l’assemblea vota la revoca dello sciopero: l’accordo prevede un bonus di 20mila euro oltre agli indennizzi inclusi nel piano (40mila euro) per gli operai che accettano di lasciare il lavoro entro fine maggio; un sussidio economico per il trasferimento e la garanzia di essere ricollocati negli stabilimenti Psa o altrove, per tutti gli altri; il reintegro amministrativo di quattro lavoratori licenziati ingiustamente per colpa grave durante lo sciopero, insieme alla cancellazione di tutti provvedimenti penali e disciplinari intrapresi.
Alla fine “né vincitori né vinti”, secondo Jean-Pierre Mercier, dirigente della Cgt, militante di Lutte ouvrière e leader della lotta a Psa Aulnay. Nonostante l’aria pacata e professorale è considerato un “duro” dalla stampa francese. In un’intervista su Libé rilasciata dopo la fine dello sciopero Mercier ha dichiarato che malgrado la partita fosse di proporzioni smisurate, era valsa comunque la pena giocarla “perché le battaglie perse sono soprattutto quelle che non vengono combattute”.
Per Agathe, anche lei alla Cgt e una dei quattro licenziati poi reintegrati, non si poteva fare più di quello che è stato fatto: “Noi ne siamo usciti a testa alta e l’azienda ha perso 700 Citroën C3 al giorno per quattro mesi. E non è finita”. Il primo giugno, infatti, un’ottantina di operai che fino a quel momento non aveva scioperato ha sospeso la produzione per chiedere l’estensione delle stesse condizioni a tutti i lavoratori di Aulnay. “Ci sono riusciti. E’ la prova che questi mesi di lotta hanno lasciato il segno”.

Addio alla fabbrica
Il 31 maggio è stato il giorno dell’addio a Psa per 130 lavoratori che hanno scelto le dimissioni incentivate. E’ stato organizzato un barbecue sul prato per festeggiare la partenza, ma dopo anni di fabbrica – e mesi di sciopero – andarsene non è una festa. Nel parcheggio davanti ai cancelli gli operai si salutano e molti si commuovono. “Aulnay è un posto speciale – dice Ghislaine – qui eravamo noi, gli operai, a fare la fabbrica e non il contrario. Peccato sia andata così”. José è piuttosto demoralizzato: “Abbiamo firmato un accordo di merda: volevamo impedire la chiusura dello stabilimento e ce ne andiamo con un indennizzo maggiorato. Non è facile dire l’ultima parola adesso, ma credo che avremmo potuto fare di più. Sarebbe stato necessario riuscire a mobilitare i lavoratori di tutta l’azienda e fare fronte comune con le altre vertenze in corso contro le ristrutturazioni d’impresa, ce ne sono molte. E ci voleva un appoggio più deciso da parte della sinistra radicale. Certo, da soli non potevamo andare lontano”.
Fino all’ultimo José è stato indeciso, poi ha scelto di rimanere in Psa e chiedere il trasferimento a Saint-Ouen, sapendo che forse sarà solo un parcheggio temporaneo in attesa che venga smantellato anche questo stabilimento. E’ un modo per continuare a battersi contro i licenziamenti e traghettare l’esperienza di questo sciopero in un’altra destinazione. L’azienda, infatti, ha già convocato i sindacati per lanciare il futuro patto di competitività che contempla, tra le altre cose, un’ulteriore riduzione delle quote di produzione e, prevedibilmente, nuove chiusure. Per chi è rimasto, forse, sarà perfino l’occasione per ricominciare a scioperare. Mentre Aulnay tra qualche mese chiuderà per sempre.

I muri di K.

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di Giacomo Sartori

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Cari muri di K.
siete divenuti superflui
nei vostri marsupi di terra
prodiga e rossa
(importa a qualcuno?)
squatterano pini possenti
e lucenti corbezzoli

I nostri nostri nostri

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di Ferruccio Benzoni

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Faccia da clown

 

I nostri nostri nostri

addii poi disattesi

da un bacio volgarissimo

come una blusa gialla.

Scrivere

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Fontana
di Andrea Inglese

Dovrei dire della prossimità. Tenermi tutto assieme nella vicinanza. Pressare intorno a me la vicinanza, come in posizione di presa, di adesione, là dove si posano le dita, dove raccolgono le pupille, in una tersa visuale, il pullulare.

Barcelona, This crisis is a con

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La Spagna sull’orlo dell’abisso economico, insieme a Portogallo, Italia, Irlanda e Grecia. Un capitolo di “A different crisis”, web-documentario in fieri. Autori: Cecere, Elia, Sessa.