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Considerazioni calcistiche in margine ad avvenimenti storici recenti

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Di Giorgio Mascitelli

Guardando una partita di calcio Italia Francia al televisore una dozzina di anni fa, un amico mi disse che bastava osservare la composizione delle due nazionali per capire come la società francese fosse aperta e cosmopolita e quella italiana chiusa e un po’ razzista. La squadra transalpina era infatti composta da giocatori di origine maghrebina, senegalese e antillana, mentre la nostra squadra presentava i soliti nomi e facce da italioti. Certo Balotelli era ancora un bambino e sui giornali progressisti ( italiani) si amava sottolineare questo aspetto melting pot dei giocatori francesi. Gli risposi, invece, che nella squadra francese vedevo il riflesso di una storia imperiale e colonialista che a casa nostra era esistita in maniera soltanto marginale. Lui forse ci rimase un po’ male, ma era chiaro che avevamo entrambi ragione, come accade talvolta quando si ha a che fare con questo ignorante mondo che non ha studiato Aristotele e non conosce il principio di non contraddizione.
Se si guardava, infatti, alla cosa da un punto di vista sincronico, era indubbio che la presenza di così tanti giocatori di origine straniera fosse una testimonianza indiretta di una maggiore integrazione; se si guardava, invece, con una prospettiva storica, era altrettanto indubbio che questa integrazione non era che un sottoprodotto positivo, e forse transitorio, di una lunga catena di violenze e sopraffazioni.
Questo episodio mi è tornato in mente in questi giorni in cui assistiamo ai preparativi dell’ennesima guerra umanitaria in Siria perché la prospettiva dei sostenitori dell’intervento militare è esclusivamente quella del presente: essi dicono che c’è un dittatore che sta usando i gas contro il proprio popolo e bisogna intervenire. Chi è contrario, invece, lo è perché adotta una prospettiva storica o meglio riesce a essere contrario solo perché adotta una prospettiva storica.
Non alludo con questo nemmeno alla memoria lunga del colonialismo, ma a quella degli ultimi quindici anni. Se il parlamento inglese ha bocciato le velleità interventiste del suo primo ministro, lo ha fatto ( anche se, immagino, non saranno mancate ragioni più tangibili) perché ha ricordato le false prove delle armi di distruzione di massa usate per invadere l’Iraq e il discredito che derivò al governo e al paese dalla scoperta di tale bugia. Viceversa, quando il segretario di stato Kerry afferma che l’intervento militare è un obbligo morale, può sostenere una tesi del genere solo rinunciando a qualsiasi forma di memoria storica.
Infatti, da quando le espressioni ‘bombe intelligenti’ e ‘guerra umanitaria’ sono diventate di uso comune, cioè dall’epoca della prima guerra nel Golfo, si può notare che gli Stati Uniti e i loro alleati di turno hanno puntualmente raggiunto gli obiettivi politici e militari delle varie guerre, rovesciando i vari dittatori, senza migliorare le condizioni umanitarie delle popolazioni e anzi in un paio di casi peggiorandole drasticamente.
Sembra che l’occidente, da quando è diventato umanitario, sappia usare solo il bastone. Sembra, cioè, che non abbia più capacità politico-diplomatiche per prevenire i conflitti e non abbia alcun interesse alla ricostruzione dei paesi, che avrebbe salvato.
Una spiegazione di questa circostanza può essere rintracciata nelle progressiva crisi delle capacità statunitense di fare egemonia ossia nel fatto che “nonostante gli Stati Uniti rimangano di gran lunga lo stato più potente al mondo, il loro rapporto con il resto del mondo può essere oggi meglio descritto come un rapporto di ‘dominio privo di egemonia’ “ (Arrighi). Quando una potenza imperiale perde le capacità di egemonia tende a sostituirle con forme di dominazione pura e semplice, con modalità aggressive che ricordano quelle di un imperialismo classico volto però a mantenere il primato. La spiegazione di questo fatto ha naturalmente a che fare con l’economia, ma quello che voglio sottolineare qui è che una simile analisi implica un ricorso alla storia e alla sua prospettiva.
Oggi nelle università statunitensi d’èlite, che costituiscono la punta di diamante della cultura e della scienza occidentali e che hanno mezzi economici superiori al bilancio per l’istruzione di interi stati nazionali, la storia come forma di sapere è alquanto discreditata. E’ troppo lontana dal modello delle scienze dure ossia fisico-matematiche, che sono le uniche in grado di fornire una conoscenza certa e spendibile sul piano pratico. Siccome ci è stato insegnato a suo tempo che i nessi tra sapere e potere sono molti e spesso sotterranei, nessuno si offenderà se sospetto che il discredito di cui gode la storia non sia dettato solo da pure ragioni epistemologiche, ma dal fastidio per l’osservazione del mondo da una prospettiva storica, perché essa è spesso fonte di dubbi imbarazzanti per chi oggi domina il mondo.
Quanto al mio amico, non so se abbia cambiato idea, perché l’arbitro fischiò l’inizio della partita e non riparlammo più della cosa. Per la cronaca vinsero i francesi due a uno.

Albert Camus, une valse à trois temps. Milosz, Micromega e Berardinelli (primo tempo)

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Il 16 dicembre del 1980 fu inaugurato davanti ai cantieri di Danzica il monumento ai caduti durante le proteste del 1970: tre altissime croci, alla base le parole del salmo “Il Signore benedice il Suo popolo, il Signore dona la libertà al Suo popolo” e di una poesia di Miłosz
Danzica. Monumento ai caduti durante le proteste del 1970:  una poesia di Miłosz

“Tu che hai offeso l’uomo semplice
ridendo sguaiatamente sulla sua sventura
con intorno una corte di buffoni
per confondere bene e male

(…)

non sentirti al sicuro. Il poeta ricorda.
puoi ucciderlo – ne nascerà un altro.
Saranno messi a verbale atti e parole”.

Czeslaw Milosz (1911-2004)

 

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dans un premier temps

Questo valse à trois temps comincia con un testo di Milosz che ho a lungo inseguito e finalmente trovato in rete e tradotto in questi giorni. Il secondo passo sarà una lettura ragionata del nuovo numero di Micromega consacrato all’intellettuale Albert Camus. Il terzo, assai critico, lo dedicherò alla stroncatura che ne ha fatto Alfonso Berardinelli sul Foglio, qualche giorno fa. effeffe

Albert Camus e Il coraggio di dire delle cose elementari

di

Czeslaw Milosz

traduzione di Francesco Forlani

“Mi darò come compito quello di spiegare perché coloro che, come me, vengono dall’Europa dell’Est provano verso Albert Camus così tanta gratitudine. Era vicino a noi più di quasi tutti gli scrittori francesi contemporanei. Il fatto è che il parallelo storico non è un fattore trascurabile. Ora si sa, gli intellettuali francesi degli anni 1940 e 1950, in gran parte erano affascinati dalla storia. […] Aspiravano a una sorta di saturazione personale attraverso la storicità, noi altri ne eravamo saturi fino al midollo. […] Tutti i discorsi sulla storia sentiti in Francia ci sembravano sospetti, perché vi si invocava un’immagine, un’idea, e non quella realtà che abbiamo conosciuto nelle sue forme più crudeli, nazismo e stalinismo. Io non so cosa proteggesse Albert Camus da una moda diffusa tra gli intellettuali parigini, tanto conformisti.

Erano forse le spiagge dell’Africa, le sue origini popolari che lo preservavano dalla “cattiva coscienza” borghese? In ogni caso, trattava gli idoli del momento, con una diffidenza di cui pagava il prezzo, perché gli intellettuali non perdonano una tale mancanza di rispetto per speculazioni post-hegeliane .

Camus non sghignazzava. La moda è in quello scherno, ormai tradizionale, diretto contro le buone maniere delle classi irrigidite nella loro stretta morale […] Per quanto mi riguarda, il sogghigno mi ha sempre infastidito . […] Al contrario, avevamo bisogno di entusiasmo e slancio […] Camus non scherniva, il che lo rendeva estremamente vulnerabile agli attacchi applauditi da un pubblico ben addestrato . […] È per questo motivo che sono sempre stato dalla parte di Camus.

Quel che mi stupisce degli intellettuali francesi è questa loro fede nelle idee generali : basta, credono loro, che un uomo si chiuda a chiave nella sua cameretta e pensi a rigor di logica, per giungere a una comprensione assoluta di ogni cosa, per esempio dei conflitti che si verificano in Ghana, Ungheria, Polonia o in Russia. I risultati mi hanno quasi sempre fatto ridere [ … ] ho imparato, e non senza difficoltà, che è rischioso pronunciarsi sugli affari interni di un paese di cui non si parla la lingua […] Mi sorprendevano la facilità e la cosiddetta competenza con cui si discuteva della Cina a Parigi […]

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Avevo l’impressione che Camus appartenesse a una razza ben diversa da quella dei grandi specialisti con scienza infusa che tagliano corto sui problemi del Texas o dell’Indonesia , come se si trattasse di piccoli comuni di periferia. Questo tratto distintivo di Camus, considerato a Parigi come un difetto, lo si motivava con una mancanza di esercizio filosofico . […]

Questo ci porta dritti alla questione algerina. Io non approvavo del tutto la posizione che aveva preso a riguardo. […] La posizione di Camus mi ricordava certi strappi interiori che in tanti da noi avevano provato prima dell’ultima guerra . [ L’evocazione dei massacri di popolazioni polacche ad opera dei distaccamenti ucraini armati dai tedeschi ] Anche nel peggiore dei casi, e da entrambe le parti , esseri umani erano disperati dall’intensità dell’odio […] l’imbroglio (in italiano nel testo) etnico dell’Europa orientale mi è servito a capire le difficoltà di Camus .

Lo stile e i temi di Camus. Per quanto riguarda la sua opera letteraria , confesso che non ho mai amato il suo stile . [Note sul carattere concreto della lingua polacca e la sua tendenza a “un lirismo inquietante”] Ma già al primo contatto, l’opera di Camus aveva per me qualcosa di familiare. […] Camus era affascinato da Dostoevskij, l’erede delle sette della cristianità orientale. E proprio come Dostoevskij, ha avuto il coraggio di affrontare temi di “cattivo gusto”. […] La peste è il miglior libro sulle attitudini che si possono avere verso la piaga totalitaria dei tempi moderni. Ma in prima istanza è una meditazione sul dolore degli innocenti. […] “Lui si prende gioco del dolore delle persone innocenti.” Chi? Jéhovah, il cattivo demiurgo dei manichei […]
In gioventù, presso l’Università di Algeri, Camus ha presentato una tesi di laurea su Sant’Agostino e mi chiedo se tutto il suo lavoro non fosse, in fondo, teologico. Volentieri interpreterei La caduta come un trattato sulla Grazia ( assente), la cui chiave sarebbe in questa frase : “Le colombe aspettano lassù, aspettano tutto l’anno. Volteggiano sopra la terra, guardano, vorrebbero scendere . […] Ma non c’è nulla tranne mare e canali […] ” Credo anche che l’attaccamento commovente di Camus alla memoria di Simone Weil , che lui chiamava ” l’unico grande spirito del nostro tempo ” sorga dal fervore albigese dell’eretica .
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La vergogna dell’impotenza. Non era facile per me accettare l’Occidente. […] Mi dicevo, dopo la guerra: “Probabilmente non hanno imparato nulla, […] ricominciano il loro stupido gioco, come se non fosse successo niente.” […] Solo uomini come Albert Camus pesavano sull’ago della bilancia , perché si percepiva in loro un vero e proprio dolore . Nessuno di noi che siamo sopravvissuti alla vergogna dell’ impotenza non ha potuto affrancarsi da quel senso di colpa espresso da un personaggio di Camus : ” Ah ! chi avrebbe mai pensato che il crimine non fosse tanto quello di uccidere quanto quello di non morire per mano propria! ”

Scopro solo ora cosa permettesse allo scrittore Camus di accogliere la sfida dell’epoca dei forni crematori e dei campi di concentramento. Aveva il coraggio di dire cose elementari .

Camus era uno di quegli intellettuali occidentali, poco numerosi, che mi hanno teso la mano quando ho lasciato la Polonia stalinista , nel 1951 , mentre altri mi evitavano come la peste […] Abbastanza triste per un povero diavolo come me […] venire presentato dalla stampa come un panciuto borghese in fuga dalla sua patria socialista. Non mi sono stati risparmiati complimenti di questo tipo […] A destra, nessun linguaggio comune; a sinistra, un grosso equivoco, perché le mie idee politiche erano in anticipo di qualche anno su quella che sarebbe diventata moneta corrente dopo il 1956 .

In una tale situazione tanto scomoda, l’ amicizia riscalda e dà quel minimo di rassicurazione, senza cui ci si esporrebbe da soli a tentazioni nichiliste . Mai gli intellettuali hegeliani capiranno quali conseguenze hanno potuto avere i loro cavilli in termini di rapporti umani , e quale abisso scavavano tra di essi e gli abitanti dell’Est europeo, conoscitori di Marx o meno . La filosofia è una cosa molto carnale : raffredda gli occhi o, come in Camus, introduce nell’uomo la cordialità di un fratello. […]

(Milosz «L’interlocuteur fraternel» in Preuves. Une revue européenne à Paris, n° 110, avril 1960, et Julliard, 1989, p. 385. Repris dans Philosophie Magazine, pp.139-141)

Egitto o morte – Il desiderio e la strategia

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di Marco Alloni

I.

Adesso bisogna decidere da che parte stare. La politologia – penso all’ultimo encomiabile numero di Limes dedicato all’Egitto, ma anche ai vari saggi proposti sull’argomento – spiega il passato.
Ma il futuro lo decide la forza.
E il presente è guerra.

Bisogna decidere da che parte stare. In tutti i sensi. Se stare con una colpa o con l’altra. Se stare con un crimine o con l’altro. Se stare con questi o stare con quelli. Entrambi cattivi.
Perché i buoni non hanno più voce in capitolo. E forse si sono solo illusi, in questi primi due anni e mezzo di rovente primavera, di averla avuta.

Chi sono i buoni? Nella tragica e meravigliosa favola intitolata Rivoluzione egiziana i buoni sono il popolo egiziano. Non importa di quale schieramento, di quale ideologia, di quale partito. Non importa nemmeno di quale fede o orientamento politico. Sono il paradosso di una Storia coniugata grazie a essi e votati all’absentia dalla cronaca.
Ci sono, e c’erano, i buoni islamisti. Ci sono, e c’erano, i buoni laici. E che ci piaccia o no ci sono, e c’erano, i buoni fulul. E persino i buoni militari. E persino i buoni poliziotti.
In questa favola – Rivoluzione egiziana, atto primo secondo e terzo – che si proponeva di cambiare la Storia, esistono infatti due trame e forse addirittura due narratori diversi: da una parte la trama del Desiderio, dall’altra la trama della Strategia.

Casertatitudini: Lucio Saviani

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Bolero- opera di Gerardo Del Prete
Bolero- opera di Gerardo Del Prete

Piccola Telemachia
di

Lucio Saviani

Erano anni di partenze, quelli, per me. Partenze senza distacco, senza saluti, partenze fatte in fretta, di corsa, con il ritorno già stampato. Un viaggio quotidiano. Mattiniero, quasi sempre in piedi e quasi sempre con lo stesso compagno, e allo stesso posto, come fosse prenotato. Un treno con due soli vagoni, quello delle 7.40 per Napoli, ferro e legno. Le sedute erano rigide, di legno, quelle della ex terza classe, ormai inesistente.

Gli anni ‘80 per me si aprirono con un nuovo viaggio, e una idea nuova di viaggio, di partenze e di ritorni. Un viaggio a Venezia, in occasione del primo Carnevale, nel gennaio del 1980. Vidi tutti gli spettacoli in programma: Perlini, Marceau, De Simone, Scabia, Remondi, Caporossi; addirittura partecipai alle performance di Ed Moch, Lindsay Kemp, Dario Fo. Da quella volta, con altri tempi e ragioni, diventai pendolare con Venezia, al punto che le mie partenze diventarono dei ritorni a Venezia, e viceversa. Ogni volta che ricordo quel primo viaggio ritorno a una pagina di Guy de Pourtalès: “Ogni creatura che, di giorno in giorno, sente in sé affievolirsi l’ardore di un amore che per molto tempo è stato lo scopo della sua vita, chiama in suo soccorso la morte. Ma questa raramente viene, quando è invocata. Bisogna dunque vivere, e anche sopravvivere. Il ferito si rialza, medica come può la sua piaga e fugge. “Viaggiate”, gli dice qualcuno; ed egli parte con la sua ombra. Lo s’incontrerà poi, forse, mesi ed anni più tardi, guarito. Apparentemente guarito, perché in fondo nessuno si rimette mai completamente dalle ferite di un amore deluso. Osservando bene ci si accorge che non è più lo stesso individuo: benché sia sempre lui, con gli stessi occhi, con lo stesso sorriso, con lo stesso modo di stringere la mano…”. Al ritorno da quel viaggio, durato così poco, sentii di essere tornato diverso, in modo irrevocabile, e trovai diversa anche la mia città.
Era, tra gli anni ‘70 e ‘80, una Caserta aperta, quella che io ho frequentato e che sentivo sempre un po’ di passaggio, con quei binari della stazione solo paralleli al marciapiedi e mai perpendicolari, come ogni inizio e ogni fine. Una città molto informata, curiosa, raggiunta da fatti e persone di cui parlava il telegiornale. E da cui si partiva per raggiungerli, quei fatti (Bologna, Castelporziano, Roma…), viaggi poi non tanto lunghi, ma era pur sempre un’epoca pre-fax, anni di gettoni telefonici, passaggi, ciclostili, aperture a cui facevano sempre da controcanto le saracinesche di via Mazzini abbassate al passaggio di ogni corteo.

Hotel Crowne Plaza San Nicola La Strada (Caserta)
Hotel Crowne Plaza San Nicola La Strada (Caserta)

Credo che l’imago urbis della Caserta di quegli anni sia costituita da due aspetti intimamente connessi e che si spiegano a vicenda: il senso vissuto di un ‘altrove’ e l’esperienza di un luogo abitato da un fermento artistico intenso, quasi febbrile.

Il luogo in cui sia fa l’esperienza dell’arte è sempre “altrove” rispetto alla dimensione della vita ordinaria: può essere un cinema, un teatro, una galleria, un museo. Eppure può essere anche la stanza dove leggiamo un libro o sfogliamo il catalogo di una mostra. E’ il luogo la cui soglia di accesso si dà nel segno del paradosso: una dimensione segnata dalla sensibilità individuale, dal mutamento dei canoni stilistici, delle mode, ma nella quale viene postulato come condiviso l’universo dei sentimenti, delle emozioni e delle sensazioni. Quasi che proprio il sentire, ovvero quanto vi è di più privato e incomunicabile, fosse regolato da leggi.

Un’esperienza che è soggettiva, basata sul gusto, e intersoggettiva, ossia che mette capo a un giudizio. Insomma, che genere di “esperienza” facciamo quando, varcata quella soglia imprevista, incontriamo un’opera d’arte? Le opere d’arte sono cose tra le cose, stanno davanti agli occhi. Eppure, con il loro venire al mondo, non solo il mondo non è più lo stesso, ma cambia anche la nostra percezione del mondo. Lo shock di cui parla Benjamin, oppure lo Stoss, l’urto, di cui parla Heidegger caratterizzano l’esperienza artistica in un senso costitutivo e non puramente occasionale. L’arte è esperienza di verità ed è vera esperienza in quanto una vera esperienza, come diceva Hegel, è sempre negativa, ossia modifica realmente colui che la fa (proprio come il viaggio di cui parlava Guy de Pourtalès). In fondo, l’incontro con un’opera d’arte è come incontrare una persona con un’altra visione del mondo, come può accadere in viaggio.
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L’ “esperienza” stessa è percorso, cammino, attraversamento, fin dalla sua radice: “andare‑verso (un dove) provenendo-da (un dove)”, come per la metafora. Metafora dell’ex-per-ientia è il viaggio, l’andare verso, l’attraversare le cose. Ma è possibile parlare di viaggio senza andata e ritorno? Il ritorno è sempre, in un certo senso, previsto ma non prefigurato, prevedibile ma non certo: è qui il senso del partire assimilato al morire. Ma poi, c’è un ritorno anche se si ritorna non nel luogo della partenza: nel frattempo può essere cambiato, così come può essere cambiato chi ha viaggiato (di nuovo, come nel viaggio raccontato da Pourtalès). Il partire ha anche a che fare con il dividere, il distribuire, il fare le parti. Partitura è un termine che deriva da “partire”. Noi sappiamo che partire è sempre un po’… “dividere”. Ossia ripartire, distribuire, fare le parti. La partitura è, come la partizione, una divisione, una spartizione: il viaggio è, in origine, “viaticum”, la provvista ripartita al pellegrino. Un cammino problematico in cui si cerca di “saltare la propria ombra”, come accade al cammino filosofico: il paradossale passo con cui di continuo essa attraversa il mondo, ma solo nel senso di trapassarlo, attraversandolo e continuando ad abitarlo.

Dunque, il senso dell’altrove e il fermentare dell’esperienza d’arte. Tutte in questo senso racchiuderei le esperienze del periodo che stiamo ricordando. In ordine sparso: la rassegna “Passaggio a Sud Ovest”, curata da Beppe Bartolucci nel 1979, in occasione della quale si confrontarono, tra analitico-concettuale e nuova spettacolarità, a Caserta le maggiori esperienze del teatro d’avanguardia italiano, (Lucariello e il giro in motocicletta intorno alla Peschiera Grande, Cividin e Taroni alla Castelluccia, Lotus Seven 2000 del Teatro Studio, Barberio Corsetti in una danza solitaria tra fiori colorati su un prato del Parco Reale); “Cambiacanale!” e “E tutti risero…” entrambe curate da Gino Ventriglia e Bruno Tramontano; i numeri della rivista “Drive In” che raccoglieva interventi di artisti, poeti, critici, che sarebbero stati poi molto attivi negli anni ‘80. Ma il fermento riguardò anche le associazioni culturali, e toccò anche me, con l’associazione “Il villaggio globale”, che fondai nel 1981 insieme a Gino Ventriglia e a Gianfranco Salvatore, con la rivista “Caserta Live” fondata nel 1989, seguita un paio di anni dopo da “Politeia”, fondata con Rino Cipriano e Giovanni Santamaria, alla quale si avvicinarono anche alcuni giovanissimi narratori (per primo Francesco Forlani, grazie al quale furono introdotti Antonio Pascale e Francesco Piccolo) che si sarebbero affermati verso la fine degli anni ’90; ma questi sarebbero stati per me gli anni del passaggio dal pendolare con Napoli e Venezia, al pendolare con Roma e Praga, fino al mio ‘accasarmi’ sia a Roma che a Praga.

Il lento lavoro dell’addomesticamento dell’ignoto, del “fare casa” è il lavoro del discorso filosofico, che all’irruzione dell’estraneo, dello strano, dello straniero, fa seguire una inedita familiarità, un “sentirsi a casa”. Proprio perché familiarizza con l’inedito, lo accoglie e lo ascolta, la filosofia nasce dalla meraviglia e vive poi del sentirsi fuori luogo nel mondo dell’ovvio e dell’abituale.

Un addomesticarsi, dunque, che esclude e allontana ogni dominio. E con il dominio allontana ogni possesso. Proprio perché discorso di amicizia e di amore (per la verità: sua croce e irraggiungibile oggetto sempre da desiderare) la filosofia è cura della distanza. Distanza necessaria ad ogni rapporto. Paradossale movimento del ridurre la distanza avendo cura che non si esaurisca, il discorso filosofico è un camminare (ancora il viaggio) alla presenza di ciò che sia ama e che, proprio per questo, manca. Filosofia è dunque anche telemachìa, un lottare da lontano ma anche un combattere la distanza, mettendo a distanza. E’ qui anche il senso originario di “speculazione”. Lo speculor, il guardare nello speculum in modo da poter guardare dietro le spalle e vedere a distanza. Ma un vedere che serva al “fare”, utile proprio come lo speculator, la vedetta che avvista il nemico lontano, quando è ancora assente. Aver cura della distanza significa dunque aver cura di non colmare i vuoti. Va salvaguardata la mancanza, che è il senso vissuto di un’assenza che è paradossalmente resa presente. La verità non è oggetto della filosofia, quanto sua origine sempre ritornante, sui suoi passi, sulle sue tracce. La verità, come la nostra finitezza, non è che incipienza continua.
Me lo ricordano ogni volta, durante le mie piccole, private telemachìe in cui ritorno a Caserta, dal finestrino del treno i cimiteri che sempre annunciano la vicinanza della vita, l’arrivo a una stazione.

Nota
di
effeffe

Il narrat di Lucio inaugura una serie di testi che da diverse latitudini portino a Caserta; di qui il titolo che ho scelto. Narrat come omaggio allo scrittore Volodine che a proposito di uno dei suoi più libri, Des anges mineurs, e della forma letteraria da lui immaginata, scrive: J’appelle narrats des textes post-exotiques à cent pour cent, j’appelle narrats des instantanés romanesques qui fixent une situation, des émotions, un conflit vibrant entre mémoire et réalité, entre imaginaire et souvenir. C’est une séquence poétique à partir de quoi toute rêverie est possible, pour les interprètes de l’action comme pour les lecteurs.
Caserta è un nome che sa di esotico e quel profumo lo sentiamo anche noi che ci siamo nati perfino quando un amico di Torino o di Bari ti dice juvecaserta, reggiadicaserta, casertavecchia, casertacaserta. Non so perché ciò accada ma di certo succede, capita, più o meno volontariamente, più o meno ufficialmente come in questo passaggio in area cinematografica che ai più non sarà di certo sfuggito.

ps
L’immagine di copertina è di Gerardo Del Prete. Autodidatta, la sua attività si è sviluppata continua, dalle prime esposizioni negli anni ’70 fino ad oggi.Solo per citare i principali eventi, le personali alla sala “Bella Otero” di Caserta (1987), al centro d’arte di Cassino (1989), alla sede ONU ed al CERN di Ginevra (1989), alla Feltrinelli di Caserta (“Contaminazioni”, 2010).
A proposito di Volodine invece, segnalo le belle traduzioni che sono state fatte da Andrea Raos e Andrea Inglese proprio qui su Nazione Indiana.

Come vivere felici da poveri in canna

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di Pino Tripodi

La moglie mia si lamentava assai per la continua penuria e per la mancanza di mezzi atti a frequentare la società intesa come parrucchieri d’alto bordo, cinema di prima visione, eleganti bar, negozi all’ultima moda, ristoranti marchiati slow food e teatri ma sui teatri faceva volentieri eccezione perché il teatro  non è strettamente necessario se non per mostare l’ultimo collier prodotto apposta per me dal gioielliere di fiducia così diceva la moglie che ai teatri si addormentava sovente le poche volte che lì si portava conducendo anche me per pagare il biglietto di entrambi.

Satura – Parodie

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di Daniele Ventre

1.

Gli ominidi del paleolirico
si estinsero per consunzione
estetica e rarefazione
dell’antico ossigeno onirico.

Scuola di musica

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di Raimondo Iemma

manray-kiki

Play me Old King Cole
that I may join with you (…)

Genesis

 

La ragazza ha una nuca di cigno. Vende biglietti per i concerti del Conservatorio, che si tengono il primo venerdì del mese, o il sabato pomeriggio, l’estate. È necessario arrivare in anticipo, avverte, altrimenti non faranno entrare, i musicisti attaccano all’ora esatta indicata sul programma, poi si volta per rispondere al telefono che suona.

 

Violenza di genere e genere di violenza: Aldo Masullo

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Una società senza senso del limite

di

Aldo Masullo

articolo pubblicato su IL MATTINO – 13 Agosto 2013

Come in un libro di qualche anno fa osservava Massimo Recalcati, rigoroso psicanalista d’ispirazione lacaniana, «la consapevolezza che nessun sapere può rispondere esaustivamente al mistero della vita, e che niente è tutto, proprio questo è ciò che rende possibile la vita» in altri termini, dove manca la consapevolezza che non tutto ciò che vorremmo è possibile, si produce la morte. Suprema intuizione dell’antica sapienza greca fu porre al centro della condotta umana il metron, la «misura», la coscienza del limite e considerare invece come ubris, suprema «violenza», il tentativo di rompere il limite.

La «misura» non è una qualsiasi qualità di cose ma una umana consapevolezza derivante da ragionata esperienza, tanto profonda da trasformarsi in un sentimento spontaneo che segna il carattere stesso degli uomini e qualifica l’altezza della civiltà a cui essi appartengono. Si parla infatti di «senso della misura». Il nolano Giordano Bruno nella tempestosa aurora della modernità affrontò la morte sul rogo e testimoniò che, essendo la realtà infinita, nessun momento di essa può arrogarsi di essere l’assoluto centro e considerare ogni altro momento come subalterna periferia. Ogni momento è centro. La modernità e la faticosa e spesso contrastata maturazione di questa idea del mondo, che peraltro il Cristianesimo evangelico sia pure nei termini di un mondo altro dal nostro, aveva assunta come l’unica possibile base salvifica dell’umanità.

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Lungo questa drammatica storia si è venuto chiarendo che l’invalicabile limite, dinanzi al quale il «senso della misura» esercita la sua funzione decisiva nella vita degli uomini è, per ognuno di noi l’esistenza di ogni altro essere umano. E poiché noi non riusciamo a concepire la nostra esistenza se non come libertà, non possiamo non assumere come nostro invalicabile limite la libertà di ogni altro. Perseguitare o addirittura uccidere la donna che non si sente, o non si sente più, di dividere con noi la sua intimità, così come oltraggiare fino a indurlo disperato al suicidio un giovane essere umano orientato sessualmente in modo diverso dal nostro, è compiere la ubris, la estrema violenza. Si nega all’altro essere umano la sua esistenza che, sia pure nei suoi invalicabili limiti o è libertà o è nulla, pura e semplice morte. È come gridargli con stupida ferocia: tu sei nulla (sottinteso: io sono tutto). Il che suona forsennata stupidità.

Se tutto ciò segnala la diffusa mancanza di «senso del limite», dunque l’incapacità della società attuale di farlo nascere nella mente degli individui allora si può parlare di un incombente totalitarismo della stupidità. Si comprende perché, dinanzi al decreto legge del governo italiano contro la violenza di genere, qualche criminologa come Francesca Garbarino avverta: «La detenzione non basta perché gli autori di questo tipo di violenza non riconoscono di aver compiuto un reato, si sentono vittima, disconoscono la realtà». A costoro, avrebbe detto Giambattista Vico, manca il «pudore», cioè la vergogna per il crimine compiuto.

Ugualmente si comprende perché Nichi Vendola, dinanzi alla tragedia dei giovanissimi suicidi, schiacciati dall’ostilità sociale per la loro sessualità diversa, condanni «una intera classe dirigente per aver consentito che l’odio per la diversità diventasse lessico ordinario della contesa politica». L’asprezza delle leggi è necessaria come un tardivo «pronto intervento» ma essa varrà veramente come condanna storica di una società stupida ben più che come efficace deterrente. In questa dolorosa vicenda della nostra società viene allo scoperto certamente la mancanza sempre più diffusa del «senso del limite», e quindi del sentimento di responsabilità dinanzi all’esistenza di ogni altro essere umano. Si esibisce però anche in tutta la sua patologica deformità culturale la corrente idea del sesso.

misstic2Il sesso è la fondamentale potenza della «intimità», di quel luogo ideale in cui gli esseri umani pervengono a sperimentare la verità come reciproca illimitata fede tra compagni di elezione, e dunque la verità come dono della libertà nella mobilità del tempo. Ma nella stupida cultura tuttora diffusa il sesso è ancora ridotto all’appropriazione, da parte di un essere umano, di ciò che è l’inappropriabile stesso, ossia del corpo vivente e pensante di un altro essere umano. Il cammino dinanzi a noi è ancora molto difficile e molto lungo.

 

Su Fabio Teti. Poesia come discorso inceppato

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di Andrea Inglese

È difficile, se non impossibile, dire di cosa parlino i testi di Fabio Teti. Essi fanno dell’oscurità, la proprio figura naturale: sono enunciati che costantemente eludono sia il concetto che la narrazione. Forniscono elementi di un discorso che costantemente smarrisce, s’inceppa, salta di livello.

La prova del cuoco: Ivan Ruccione

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Stiamo attraversando il cortile. Stefano ha in braccio un’intera forma di Parmigiano Reggiano che ha scaricato dal furgone di un fornitore e sta soffrendo come una bestia perché, oltre alla fatica dei cinquanta chili che sta trasportando, io ho arrotolato lo straccio su se stesso e, con abili e decisi movimenti di polso, glielo schiocco ripetutamente sul suo grosso culone flaccido.
“Su, lavora bestiaccia!” urlo, standogli alle calcagna.
“Smettila, per l’amor di dio, smettila che se mi cade mi spacco i piedi!” frigna, paonazzo.
“Giustappunto per l’amor di dio voglio farti capire quale sia stato il significato de la Passione!” e lo colpisco ancora e ancora e ancora e ancora.
Giunti in cucina, Stefano sbatte la forma sul tavolo e si piega in due per riprendere fiato, poi allarga quei cotechini di braccia per sgranchirsi la schiena, e la giacca si alza scoprendo la panza che cade sulla cintura. Ha il viso imperlato di sudore e atteggiato a una smorfia di strazio.
“Lo sai che anche oggi pomeriggio te ne stai qui, vero?” dico arrotolando il torcione in segno di minaccia, dopo aver bagnato la punta nel cuoci pasta.
Non risponde, tracanna acqua da una bottiglia da mezzo litro. Il gozzo si muove spaventosamente manco fosse un tacchino.
“Che devo fare…?” chiede ansimando.
“Chef!” urlo.
“Sì?” risponde senza levare gli occhi da un ricettario.
“Dobbiamo fare le sarde in saor per domani, giusto?”
“Certamente”
“Le dispiace se faccio tagliare le cipolle a Stefano?”
“Mi dispiace? DEVE” dice, sbattendo la mano sul ricettario.
“E pulire le sarde?”
“DEVE” dice, e sbatte di nuovo la mano sul ricettario come se avesse la faccia di Stefano lì sotto.
“Bene, cicciopasticcio, mentre io vado al mare e lo chef va a scopare,” e ‘scopare’ lo dico sottovoce, “ tu hai trovato il modo di trascorrere questo bel pomeriggio di sole e gnocca facendo qualcosa di utile”
“Sinceramente anch’io sognerei di andare al mare, qualche volta…” dice, innervosito.
“QUESTO è il tuo sogno, non ricordi?”
Torno dalla cella del pesce che Stefano si è messo già all’opera per sbucciare e tagliare a filangé cinque chili di cipolle. Appoggio la cassa di polistirolo sul piano della plonge e chiedo: “sai pulire le sardine?”.
“Sì…”, mormora.
Lo osservo, appoggiandomi al lavandino. Mi fa una tenerezza immensa. Tornano alla mia memoria le stesse giornate, trascorse alla stessa maniera. Dalla mattina alla sera dentro queste pareti, in cui il sapore del sangue di bestie morte e di cento altri cuochi agonizzanti è tanto amaro che dalla bocca non riesce ad andarsene, come se nelle gengive ci fossero piantati rafani anziché denti. Dalla mattina alla sera senza vedere la luce del sole, senza avere il tempo di fumare una sigaretta. Senza il tempo per abbracciare una volta in più mia moglie. Senza il tempo per dare la buonanotte a mia figlia. Come se fosse l’ultima. Prima che fosse l’ultima.
Sulle guance di Stefano corrono due lacrime.
No, le cipolle non c’entrano.

(secondo frammento di un discorso che diventerà un bel libro. effeffe)

Dodici poesie

11

di Stefano Colangelo

 

scritta in treno al posto di un primo saturnale

nelle parentesi ci trovi tutto
il fratello morto da ragazzo, il figlio con lo stesso nome
la voce fatta a pezzi dal cellulare
il braccio che non vuole l'appoggio
il piede che striscia nella fuga del pavimento

Storia di una guarigione

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monte-nudodi Riccardo Ielmini

Il sant’uomo, ci dissero, era ospite dei benedettini, all’Eremo, sul pendio meridionale del Monte Nudo. L’avevano ospitato anche se nessuno dei pezzi grossi della Chiesa si era pronunciato, nemmeno in via provvisoria, sulle sue visioni, o sulle guarigioni, o quello che era. Il sant’uomo, ci dissero, era lassù, bazzicava nei boschi di qui e di là dal versante svizzero; questo ci dissero, se volevamo vederlo, o toccarlo, o pregare con lui. Dissero questo a noi tre, che non tornavamo su, a Verbate, dal 1979, quando il buen retiro di famiglia era la villa liberty di nonno Karl, affacciata sul lago Maggiore. Allora, nel ’79, io e mio fratello non avevamo ancora vent’anni. Quando tornammo, sulle tracce del sant’uomo, era il settembre ’96. Eravamo tornati, noi tre irriconoscibili, dopo la telefonata di mio padre.

 

«Ciao Francesco», aveva detto la voce, riempiendo il mio attico spencolato su Milano. «Sono papà».

«Ciao. Cosa vuoi?». Mi misi a sedere, accesi l’abat-jour e guardai l’orologio alla parete, in fondo alla camera da letto. Le tre. Fuori c’era vento. Mi alzai, cordless in mano, e andai alla finestra: sotto di me, la metropoli sconfinata e silente.

«Ho bisogno di te. Domani mattina, verso le nove».

«Sai che ore sono?».

«Allora, domani mattina. Vieni a casa, non in ufficio». Non lo sentivo da un paio d’anni – l’ultima volta per il funerale di mamma. Quella voce non mi era mancata. Non stava iniziando una riappacificazione in stile hollywoodiano, dissi a me stesso. Niente alleluja da figliol prodigo. Le rogne fra noi erano corse troppo a fondo per tornare indietro con un colpo di cancellino sulla lavagna. Io avevo ferito le sue ambizioni su di me, quando, nel 1982, ero scappato in Germania inseguendo i miei sogni di gloria. Che colpo per lui, quando mi aveva visto in televisione ancheggiare come un cretino sui pezzi dance che avevo piazzato in classifica fra il 1983 e il 1985. E io, proprio come il cretino che ancheggiava in tv, avevo azzerato l’adorazione nei suoi confronti quando mio padre aveva fatto correre la voce che per lui ero un paio di foto sbiadite dal passato, e basta. Al telefono la voce pareva incupita. La mia era un calco della sua, e a questa fedeltà genetica dovevo il mio successo nello showbiz. Avevo cantato, con questa sua voce, refrain ambigui con eloquenti mugolii femminili di sottofondo, su basi elettroniche campionate dal mio produttore. E il gioco era fatto. Nel giro di tre anni ero riuscito a vendere tre milioni e mezzo di dischi: ero diventato il «dance master italian hammer» – i deejay giocavano a storpiare in inglese il mio cognome, Martelli, un’altra cosa che dovevo a mio padre. Avevo messo da parte una piccola fortuna, e poi investito quasi tutto in immobili – un albergo in società a Formentera, e una decina di appartamenti qua e là per quell’Europa. Ammirai ancora Milano per un pugno di secondi. Poi feci il numero e lo richiamai. Sì, adesso sembravo il figliol prodigo.

«Papà. Francesco».

«Cosa c’è».

«Perché mi hai chiamato?».

«Sono malato» replicò.

«Cos’hai».

«Vieni domani, alle nove. A casa».

Ero tornato a Milano nel ’93, per mettere in piedi un’agenzia di moda. Belle ragazze magrissime e furbe per la stagione delle sfilate. Io e lui non ci eravamo né incontrati, né cercati. Due Martelli dispersi in due milioni di persone, come in quella vecchia canzone che mia madre fischiettava piantando rose nel giardino della villa, su, al Nord.

 

Passai a prenderlo e lo trovai pronto, con una borsa bianca. Si alzò. Mi strinse la mano come fossimo due vecchi soci in un affare andato così così. Era invecchiato male. Chissà invece come dovevo apparirgli io, sotto la maschera da forever young che ci ostinavamo a coltivare, io e i vecchi colleghi-one-shot, con le nostre stupide battute sulle pollastrelle da camerino.

«Andiamo» disse.

Il vento aveva accampato una lunga sequenza di nuvole grigie che ci scortarono lungo l’autostrada A8. Mi disse che dovevamo andare a Verbate, e non mi azzardai a chiedere perché. Fu quando uscimmo dall’autostrada, per costeggiare la piana del lago di Varese, che mi raccontò delle sue intenzioni.

«C’è un uomo, dalle nostre parti». Aveva sempre detto nostre per indicare Verbate, a due passi dalla Svizzera, anche se noi eravamo di Milano. Ripeteva che erano le nostre parti da quando, nel 1943, i Martelli erano sfollati per scampare ai bombardamenti. «C’è un uomo. L’ho visto in televisione. Guarisce la gente, fa miracoli, vede cose. Voglio parlare con lui».

Ascoltai guardando dove le nuvole si scontravano con il sipario delle Alpi, e sembrava finire il mondo. Uno che guarisce e vede cose: un santone, pensai. Andiamo da un santone, accidenti.

 

Arrivammo a Verbate in tarda mattinata. Mio padre aspettò che parcheggiassi l’auto, poi mi disse che avremmo alloggiato al Sempione, l’unico albergo di Verbate – una costruzione fredda che aveva sempre fatto piccolo cabotaggio: sciatti rappresentanti senza fortuna, coppie di ambulanti, comitive di donne attempate in viaggio con una federazione sindacale. Non ci aveva mai dormito nessuno di famiglia: un tempo, prima che tornassero definitivamente a Colonia, c’era la villa del nonno, che ci accoglieva con la solita battuta sulle «zimmer a pagamento». Nella hall dell’hotel ci aspettava Giovanni, mio fratello. Fu una sorpresa, vederlo. Si era trasferito a Zurigo, dove faceva il cardiochirurgo. Invidiabile carriera, la sua, con i suoi viaggi newyorkesi alla fine degli anni Ottanta, i suoi master, le sue pubblicazioni e le sue due mogli – la seconda era una ragazzina dieci anni più giovane di lui, un’ossuta modella belga passata anche per la mia agenzia. Giovanni aveva la faccia tirata a lucido ed era stretto in un completo grigionero che lo rendeva glaciale più della stretta di mano che mi diede dopo aver abbracciato mio padre.

 

«Papà ha un carcinoma ai polmoni. Grave» disse quando restammo soli, al bar della hall.

«Non sapevo nulla» risposi imbarazzato, sorseggiando il mio Martini.

«Gliel’hanno diagnosticato un paio di mesi fa. Hanno escluso la lobectomia. Ha già fatto un ciclo completo di radioterapia. Se i risultati non sono buoni, dovrà fare la chemio». Parlava come se fossi il parente di uno dei suoi pazienti, o come fossimo due sconosciuti che si trovano a parlare per forza di causa maggiore, in un posto, e in un momento in cui non vorrebbero trovarsi. «Il cuore invece è sano. È forte. Il cuore di un toro. Perciò soffrirà molto a lungo». La frase galleggiò in mezzo alle note jazz che arrivavano dallo stereo acceso. Giovanni, prima che ciascuno prendesse la propria strada, era stato la mia stella cometa: il primo ad uscire in barca a vela, il primo a provare i deltaplani lanciandosi giù dal Monte Nudo, il primo ad attraversare a nuoto il lago nelle furenti estati di Verbate.

«Sai perché siamo qui?» gli chiesi.

«Per il santone» rispose sorridendo.

«E cosa credi che faremo?».

«Quello che vuole papà. Gli accordi sono che facciamo così, poi lui si fa visitare da un mio collega, a Zurigo. E decidiamo il da farsi».

«E cosa faremo, in concreto?».

«Cerchiamo il sant’uomo, lo troviamo, papà ci parla o non so cosa. Poi ce ne torniamo tutti dove siamo venuti. E papà si fa curare, se è possibile».

Mi diedero una camera con le finestre affacciate sul lago. Oltre la strada, l’imbarcadero. Rimasi tutto il pomeriggio a guardare i traghetti che si succedevano con il loro inimmaginabile carico di vita.

 

Dunque il sant’uomo era su, al Monte Nudo. Bella montagna, pensai, per andare a fare l’eremita, o quello che era: un panettone di boschi di robinie e castagni, e poi, all’improvviso, ai millecinquecento di quota, un cucuzzolo, una prateria battuta dai venti e dal sole. Impiegammo un quarto d’ora dall’albergo, a bordo del fuoristrada di Giovanni, per arrivare dove finivano le carrabili, e cominciava la vecchia mulattiera per l’Eremo. L’aria era umida, e l’erba gonfia di rugiada e vapore, e, camminando sulla mulattiera, si scivolava sui ciottoli che lastricavano il fondo. Ci fermammo un paio di volte a riprendere fiato. Giovanni controllava mio padre: nel silenzio del bosco potevamo sentire distintamente il respiro corto di un uomo vecchio, di un uomo malato. Pensai alla stagione eroica dei miei quattordici anni, quando mio padre stava per diventare un pezzo grosso della società del nonno – cave, sabbia, e tutto il resto della baracca – e ciò nonostante trovava tempo per arrampicarsi con noi su cime alpine con nomi altisonanti. Mi chiesi perché le cose non erano rimaste così immeritatamente brillanti. Conclusi in due secondi che se era andata così, noi eravamo colpevoli. Forse eravamo stati troppo distratti e irriconoscenti quando nostra madre ci portava sotto le sfilate di ex voto nella chiese e un qualche dio aveva permesso che sperperassimo le nostre fortune.

All’improvviso arrivò una ragazza, scalpicciando sul fondo della mulattiera, di corsa. Ci passò accanto, facendo un rapido cenno con la testa. Indossava grandi occhiali scuri, e mentre ascendeva, leggera, lasciò nell’aria un profumo di frutta. Restammo a guardarla, come da bambini si guarda una farfalla che entra in casa e poi esce, e sparisce nel blu. Quando la ragazza fu oltre la curva del sentiero, e si confuse con le piante e i cespugli, sorridemmo, noi tre, come non facevamo da secoli.

 

Ci volle poco meno di un’ora per arrivare all’Eremo – un rudere rimesso a nuovo dal lavoro muscolare e paziente dei benedettini. Il bosco  diradò, e si aprì una piana con una roccia bianca: e sopra, l’Eremo. Come ci vide arrivare, un uomo ci venne incontro. «Il santo non c’è» disse guardandoci come uno scolaro disorientato.

«E dov’è?» chiese Giovanni. Mio padre si sedette su un masso.

«Dicono che è più su ancora, nei boschi».

«E quando torna?».

«Il padre superiore dice che non si sa mai a che ora».

«Cosa facciamo?» chiesi.

«Andiamo a cercarlo» rispose mio padre, inaspettatamente risoluto.

«Papà, resti qui. Vai dentro, chiedi ospitalità nell’Eremo» intervenne Giovanni. Mio padre cercò di prendere fiato, poi fece un cenno con la testa come per dire che sì, era ragionevole.

«Com’è?» chiesi a due donne sedute sulla pietra assieme all’uomo.

«Il sant’uomo? Alto. Un uomo alto, con i baffi, e gli occhi azzurri. Ha il cielo, ha il cielo benedetto in quegli occhi» disse una, infervorandosi come nostra madre, quando ci portava alle memorabili sfilate di ex voto.

«Lui vede, vede qualcosa. Qui, dove preghiamo» disse l’altra, accennando al boschetto sulla destra. Non sembravano facce da creduloni. Nella loro eleganza misurata sembravano usciti da un romanzo di Jane Austen.

«Cosa? Cosa vede?» chiese Giovanni.

«Lui vede. Vede una donna, una donna celeste» rispose la prima donna.

«La Madonna. È la Madonna» interruppe l’uomo con fervore.

«Il vescovo non ha ancora confermato» ribatté lei pragmaticamente.

«Comunque vede qualcosa, e qualcuno è guarito» si stizzì l’uomo.

«Sì, sì» disse lei. L’altra donna aveva seguito la conversazione guardando verso mio padre, seduto sul masso a riprendere fiato.

«Papà. Resti qui» disse di nuovo Giovanni. Mio padre si alzò, ed entrò nell’Eremo. Noi costeggiammo il muro, e riprendemmo a camminare. La mulattiera si arrestava: da lì ci sarebbe stato solo il sentiero.

 

L’estate del ’77 – pensai – l’ultima volta che siamo passato di qui, io e Giovanni, sotto una tempesta tracimata nera dalle Alpi. L’acqua ci era scivolata incontro, infangandoci le caviglie, erodendo il fondo del sentiero, con le radici degli alberi sospese a mezz’aria. Io e lui come cavalieri nella bufera, e il cielo sferzato da saracche furenti. E ricordai anche che, fradici ed estatici, ci eravamo messi a gridare versi di vecchie canzoni nel vuoto davanti a noi, verso il lussureggiante arcobaleno che aveva tagliato la valle, alla fine della burrasca. Te lo ricordi, Giovanni, il ’77? – avrei dovuto chiedergli. Invece dissi: «Dove sarà l’uomo?».

«Non lo so. Da qualche parte» rispose lui.

«Sì, ma se ha tagliato fuori sentiero, sarà difficile trovarlo».

«No, avrà seguito il sentiero. Tutti seguono il sentiero» continuò Giovanni. Procedeva senza girarsi: adoravo ancora seguirlo, la fantastica figura di spalle che mi apriva il mondo. Mi voltai per vedere in basso: ormai eravamo fuori tiro per tutti e per tutto. In alto il cielo era diventato grigio.

«Sta facendo brutto. Forse pioverà» dissi.

«Sssst» comandò Giovanni facendomi un cenno con la mano. Si piegò sulle ginocchia come un capitano di brigata partigiana, dove il sentiero, con un gomito, seguiva le gobbe del pendio. «Hai sentito?» aggiunse sottovoce.

«No» risposi. Aria fredda risalì dal canalone alla nostra destra.

«Sssst» intimò, di nuovo. Si sentiva un rumore confuso – di rotolamento, di foglie e sterpi. Un rumore in avvicinamento.

Poi, dall’ultima striscia di bosco che ci sovrastava, sul pendio alla nostra sinistra, qualcosa piombò su di noi.

 

Giovanni si accorse per primo. Balzammo via appena in tempo. Una massa scura si piantò sul sentiero. Era un grosso animale.

«Un cinghiale!» esclamai. Restammo fermi, ad osservarlo per qualche secondo.

«È vivo» disse mio fratello. «È ferito» aggiunse. C’era una freddezza nel modo in cui diceva quello che diceva: come gli auguri per Natale e Pasqua per mantenere le promesse a nostra madre.

«Gli hanno sparato. Guarda la zampa» aggiunse. Presi l’iniziativa e mi chinai sul corpo del cinghiale: il sangue sgorgava dalla ferita e colava sul sentiero. Quindi mi piegai sulle ginocchia, per ascoltare il respiro. Era una bestia che incrociava il mio cammino, come quella volta, attraversando la Foresta Nera, durante il tour promozionale del 1984, quando la mia faccia riempiva le fanzine: io e il mio produttore avevamo quasi travolto un cervo balzato fuori dalla macchia. L’auto si era fermata ad un palmo dal suo manto, e avevamo avuto il tempo di ammirare le maestose corna. La bestia ci aveva fissato per qualche secondo e avevo desiderato toccarla. Ora perlustravo il cinghiale che si dibatteva, e provai lo stesso desiderio. Fu a quel punto, quando stavo per chiedere a mio fratello cosa avremmo fatto, che lui comparve, sbucando di corsa, dal gomito del sentiero.

 

Un’apparizione. Non ridimensionerò l’impressione che mi fece, il sant’uomo. Un uomo alto, biondo: una specie di vichingo, con lunghi baffi che gli marcavano la faccia, un camicione a scacchi rossi e neri, i pantaloni di velluto al ginocchio, le calze di lana grossa, e gli scarponi vecchia scuola. Un’apparizione che correva scomposta sul sentiero.

«Ehi!» gridò, avanzando balzelloni. Io mi alzai, staccandomi dall’animale ferito, e capii subito che era lui: lui era il sant’uomo. C’erano le indicazioni dei vecchi, giù all’Eremo, ma io lo intuii lì, quando smise di correre, dondolando la lunga smagrita figura e arrotolando le maniche della camicia: mi sembrò un grande bambino, qualcuno che poteva assomigliare all’idea che avevo di un sant’uomo. Non un vegliardo gonfio della sua nomea. No: un grande bambino biondo, con gambe magre e piedi lunghi.

«Ehi» ripeté. I baffi folti sapevano di antico vezzo.

«È ferito» dissi, per giustificare d’essere accovacciato vicino alla bestia.

«Sono stati i bracconieri. L’ho visto scivolare giù per il pendio» disse l’uomo. Sembrò quasi non accorgersi di Giovanni. Gli passò di fianco, con il suo passo baldanzoso, si chinò sul cinghiale e sembrò sussurrargli qualcosa. «Piove, fra poco» aggiunse. «Portiamolo al riparo. Bisogna togliere il proiettile». Era piegato sotto il peso dello zaino. Ci fu un attimo di silenzio, con il vento che soffiava più forte e le prime gocce d’acqua battenti.

«Bisogna sollevarlo, piano. Non possiamo trascinarlo. Dove lo portiamo?» chiese Giovanni.

«Di qui» e fece segno dalla parte da cui eravamo venuti. Oltre i castagni c’era una parete rocciosa, e uno squarcio la attraversava. Si alzò sulle ginocchia. Al suo cenno eravamo pronti.

 

Nella caverna eravamo finalmente all’asciutto. L’uomo doveva esserci già stato.

«Accendiamo il fuoco» disse, e si avvicinò ad un mucchio di sassi disposti in cerchio. Prese della legna. Filò dritto in fondo alla caverna e tornò con un contenitore di plastica. Aprì e versò del liquido che fece incendiare rapidamente i ceppi. Caldo e luce riempirono la cavità.

«Siete venuti a cercarmi» disse, mentre si chinava sul cinghiale.

«Sì» rispose Giovanni. Fuori pioveva e tuonava forte.

«L’ultimo temporale prima dell’autunno» sentenziò l’uomo. «Adesso c’è da salvare lui» disse indicando la bestia. Lo guardai meglio, illuminato dalla luce del fuoco. Poteva avere cinquant’anni.

«Cosa vuoi fare?» chiesi.

«Gli togliamo il piombo che ha nel fianco, e poi si vedrà».

«Io sono un medico» intervenne Giovanni.

«Bene, dottore. Aiutami» disse, ed estrasse un lungo coltello dallo zaino. Fu rapido: scaldò la lama sul fuoco e incise la pelle dell’animale – noi l’avevamo afferrato per le zampe e le tenevamo ferme, ogni volta che fremevano agli affondi del ferro bollente. Sembrava di essere in un film con John Wayne. Poi toccò mio fratello, che prese del filo che l’uomo aveva pescato in una tasca della camicia, e ricucì la ferita – e fu la prima, fu l’unica volta che ebbi il privilegio di vedere all’opera le sue mani da milioni all’anno: veloci, precise, sicure.

 

«Cosa volete che faccia?» chiese l’uomo, quando tutto si era concluso – piombo estratto, ferita suturata, cinghiale avvolto in un plaid a scacchi gialloverdi: un lavoro da dio.

«È per nostro padre» dissi. «È malato e ha letto di te: che guarisci le persone, che vedi qualcosa. È così, no?»

«Vedo qualcosa» ripeté lui, sorridendo, e sedendosi vicino al fuoco. Estrasse una pipa dallo zaino, e accese il tabacco con un legnetto arroventato. Spirali di fumo carezzarono la volta della grotta. Ogni gesto che compiva ridicolizzava la futilità delle nostre vite.

«E tu non puoi curarlo, dottore?» chiese a Giovanni.

«Ci sono cose che non si possono curare» rispose mio fratello.

«Lo so» disse, esalando fumo denso dalla bocca. «Io sto morendo» aggiunse. L’animale, sdraiato su un fianco, emise un leggero fischio che si esaurì, come aria che esce dal foro di un copertone. «Sto morendo. Un anno fa, mi hanno detto che c’era solo da aspettare. Così ho preso armi e bagagli e sono salito quassù» raccontò. Il fuoco balbettava e l’uomo aggiunse un ceppo nodoso. «Una notte di agosto mi sono svegliato all’improvviso» continuò «e c’era una luce, più giù, nel cuore del bosco, a due passi dall’Eremo. C’era luce, e mi sono avvicinato. E ho visto qualcosa. L’ho vista, credo: era bellissima. La Bellissima. Non diceva niente, non ha mai detto niente, nemmeno le volte successive». Si lisciò i lunghi baffi. «È vero, dottore» riprese volgendosi a Giovanni. «Non si può curare, non tutto. Non si può curare, eppure si guarisce». Ancora oggi mi capita di pensare a quelle parole, e al fatto che pensai subito che non si potesse non credere, al grande bambino, anche fossero state balle colossali, tutte le dicerie su di lui. «Avrei voluto essere geloso di quella luce, della Bellissima» continuò. «Tenermela per me. Ma ho finito per parlarne con i padri dell’Eremo. Così è arrivato qualcuno, e poi altri ancora. È stato così per mesi. Poi qualcuno ha detto che avevo fatto qualcosa per lui. Che era guarito, o cose simili». Aspirò ancora, come stesse parlando di qualcosa che lo riguardava appena.

«Chi è la bellissima?» chiese mio fratello.

«Una donna. Bellissima. Ho smesso di sentirmi morto».

«La Madonna?» incalzò Giovanni. A me già non serviva sapere altro. Era la Bellissima, come la chiamava il grande bambino. Mio fratello, invece, faceva così anche quando nostra madre ci portava ad accendere candele sotto i cuori argentati degli ex-voto. Lui non credeva ad una virgola delle spiegazioni di nostra madre.

«Non lo so. Dico solo che è bellissima». Guardava le volute di fumo. «E vostro padre?» chiese.

«All’Eremo. Non ce la faceva» risposi.

«Io non posso vederlo, oggi, né domani. Devo portare questo cinghiale nel bosco, su, alle tane». Gettò lo zaino e si distese, appoggiandovi la testa.

«Sì, capisco» disse Giovanni, guardandomi. Ci fu silenzio per un paio di minuti. Io continuai a fissare il respiro corto del cinghiale.

«Sta per spiovere. Uscirà il sole» riprese lui.

«Ci prepariamo» disse mio fratello.

«Guarirà?» chiesi. Io agli ex-voto avevo sempre voluto credere.

«Se passerà la notte» rispose lui.

«Allora addio» tagliò corto Giovanni.

«Non dite di avermi incontrato» disse lui. Misi lo zaino sulle spalle, e mi avviai. Giovanni mi precedeva. Prima di uscire, accarezzai il cinghiale. Feci un cenno con la mano all’uomo, ma lui aveva chiuso gli occhi, e dondolava una gamba, canticchiando.

 

Il sentiero era diventato un pantano. L’aria era satura di vapore, e di gocce come spilli che piovevano dagli alberi. Giovanni ed io puntavamo energicamente i talloni nel fango.

«Non diciamo niente a papà» disse.

«No».

«È un uomo che muore» aggiunse.

«Sì» confermai, ma non sapevo se stesse parlando di nostro padre, o del sant’uomo.

«Chissà come si chiama» disse lui, alludendo forse all’uomo, forse alla Bellissima, cui entrambi stavamo segretamente pensando. Ma in quel momento comparve il sole, e tutto tornò semplice e chiaro.

 

Credo che mio padre avesse capito, quando ci vide sbucare dal sentiero. Mi guardò come lo avevo visto fare quando ero quasi affogato nel lago, l’estate del ’71, cadendo dal mio optimist. Io non avevo fatto piagnistei e lui mi aveva guardato come per sollevarmi da un peso. Fece lo stesso quando lo trovammo seduto dove l’avevamo lasciato. «Scendiamo» disse lui, mettendosi davanti al gruppo. Scivolavamo sui ciottoli della mulattiera, ancora bagnati. Non si parlò del sant’uomo. Mai più l’avremmo fatto. Ad un certo punto, eccola, la ragazza. La sentimmo arrivare alle nostre spalle: saltellava sui ciottoli, leggera, illuminata dal sole. Ci fermammo a bordo del sentiero.

«Buongiorno» disse con voce brillante.

«Buongiorno» rispose mio padre.

Forse era lei che il sant’uomo aveva visto, chissà; o qualcuno del genere, doveva essere – pensai. Rimasi fermo a guardarla scendere, leggera come aria pulita. «Francesco». Era la voce di mio padre. «Andiamo» aggiunse.

«Sì» risposi. Poi feci due balzi, battendo con la mano sulla spalla di Giovanni, e mi misi in testa al gruppo.

 

In certi pomeriggi, quando Milano sale al mio attico con i suoi rumori feroci, allora penso al sant’uomo. O a quello che è rimasto di lui, dell’aura sacra che lo aveva avvolto per qualche tempo. Ho provato a seguire la sua vicenda, da lontano, spulciando in riviste che non avrei mai pensato di sfogliare. Forse volevo sapere cosa ne era stato dell’animale, se era valsa qualcosa tutta quell’acqua presa, e la lama nella carne, e il piombo buttato fuori dalla ferita, e il fuoco preistorico. Ho messo via una decina di articoli – il sant’uomo? tutta infatuazione popolare: visioni e guarigioni e tutto il resto, con tanto di testimoni, e sopralluoghi. Così dicevano i giornali. Un imbroglione. Eppure io l’avevo visto, il grande bambino che correva balzelloni. Ad un certo punto, poi, ho smesso di cercare notizie su di lui. Ho cominciato a coltivare la speranza che il cinghiale fosse ricomparso nei boschi, e che il sant’uomo se ne fosse andato, da qualche parte, con la Bellissima. Andato, puff!, sparito. È questo che ho immaginato, senza parlarne con nessuno, fino a quando mio padre è morto, l’anno scorso. Allora, quando siamo rimasti soli nella camera mortuaria dell’ospedale, ho ricordato a Giovanni di quella volta sul Monte Nudo. Giovanni mi ha guardato. Sembrava volesse dirmi: non fare il sentimentalone, alla tua età. Così ci siamo messi a ridere, lì, nella camera mortuaria, con il corpo di mio padre davanti a noi, composto, elegante, severo, e abbiamo pensato a quanto tempo era passato, e mio fratello era convinto che fosse successo tutto nel ’98, e io a dirgli, a insistere – no, ti sbagli, era il ’96, papà è rimasto vivo altri dieci anni, dieci anni esatti sono trascorsi da quando abbiamo diviso la grotta con il sant’uomo. Giovanni non mi ha dato ragione, come faceva con nostra madre; ha guardato in alto, e poi ha fatto un cenno, come per dire che era stato quel che era stato, e basta, che l’importante era che fosse accaduto. Poi ha aggiunto che saremmo dovuti tornare, lassù – magari ci si mette d’accordo, una di queste volte. Una delle sue balle. Ho detto di sì, come ho sempre fatto con tutto ciò che mio fratello mi ha proposto negli anni, anche se sapevo che non saremmo mai saliti sul Nudo. Ho detto di sì, come se avessi bisogno di sperare di rivedere qualcosa, o qualcuno. Quando penso tutte queste cose, in certi pomeriggi, e guardo in basso Milano, e lontane, nella foschia chiarissima, eccole, le Alpi celesti e verdi di boschi, allora avvicino la poltrona alle vetrate accese dal sole, mi siedo, allungo le gambe, incrocio le braccia dietro alla testa e respiro, respiro, respiro.

Un ebreo americano nella Berlino di Hitler. Il diario di Abraham Plotkin (1932-1933)

8

di Davide Orecchio

Questo racconto è la digestione del diario del sindacalista americano Abraham Plotkin (si veda la scheda alla fine), testimone dei giorni che precedettero la presa del potere dei nazisti in Germania, fino alla notte del 27 febbraio del ’33, quando il Reichstag fu dato alle fiamme.

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Reichstag

ABRAHAM Plotkin alza il sipario. Impugnando la penna e sulla scena di carta che calpesterà, avanza Abraham Plotkin. Mostra il taccuino (di Plotkin) che resoconta l’avventura (di Plotkin) nella terra gestante mostri. Vive e scrive di vivere. Vede e descrive quel che vede, e l’atto del vedere. Il privilegio del diarista. Imprime una data. Il ventidue. Novembre. Mille novecento trentadue. Menziona un luogo, Berlino. Tu somma il luogo alla data e ricaverai l’intenzione di un folle: Abraham l’ebreo Plotkin, Abraham l’americano Plotkin ma ucraino di nascita, Abraham Plotkin il sindacalista viaggia nella Germania gravida di Hitler, s’intrufola nel collasso, nel sisma, nella colata. Dove volano proiettili e coltelli, lui desidera stare. Quando gli altri scappano, lui accorre: nell’inverno del continente e “per apprendere la crisi” – confida alla pagina – la ricetta del gulasch europeo, la pietanza tedesca di povertà, disoccupazione, rimedi, sussidi, quanto basta di Stato sociale, sindacato, socialdemocrazia; quel che non hanno in America: gli yankee Plotkin, i miserabili Plotkin. “Voglio conoscere. Gli strumenti. Per essere forte. Resistere alla depressione. Indossare il carapace. Che mi ripari dai tagli, dalle ferite e dal pus. Voglio portare in America. Il welfare tedesco”. Ma sarà il testimone di una storia diversa. Ma sarà un testimone.

***

Novembre 1932
Viene da San Francisco dove ha perso il lavoro e adesso la stazione dello Zoo, Potsdamer Platz, una mansarda su Banhofstrasse, l’impossibilità del bagno caldo, i telefoni dei sindacalisti, i telefoni dei socialdemocratici, i nazisti sospetti, gli Stahlhelm di Hugenberg, i comunisti sospetti, Plotkin non ama i radicali e indossa la spugnosità del viaggiatore (abito cucito attorno ai pori ed elettrico), lo sguardo permeabile nella catena gerarchica verso la penna, verso la pagina. La ritenzione del diarista immortala l’odore del clima, della neve, delle strade e le carnagioni e gli stemmi della realtà. Non sono consentite perdite. Di realtà. La città subissa (con ciò che appare) Plotkin che ora, nell’hotel Adlon, sceglie un divano, s’addormenta e sogna. Ventitré milioni di tedeschi, nel sogno di Plotkin (arredato dall’eco dell’attualità), sopravvivono grazie agli aiuti di Stato. I fondi solidali. Le risorse del Land. Il sussidio della metropoli. Tre livelli d’aiuto. Prima che inizi la disperazione. «Come fa la Germania a sopportare un carico simile? Qual è il suo segreto?» e al risveglio, in questa città, un viandante assaggia e raffronta e sostiene che Alexanderplatz assomigli a Hell’s Kitchen ed espone «gli ebrei coi loro negozi di seconda mano, i banchi dei pegni, i bordelli, la folla» nell’istantanea del «quartiere che raccoglie la crema degli altri quartieri e la tramuta in feccia».

C’è un ristorante famoso. Si chiama Aschinger. E davanti al suo vetro una ragazza sta in piedi. Vende caramelle. Dieci centesimi a scatola. Indossa abiti estivi e un viso non operaio, disabituato al lavoro. Sviene. Plotkin la raccoglie. Plotkin la porta in un caffè. Le offre un pranzo. Ma la ragazza si spaventa, scappa. «La gente di Alexanderplatz non accetta aiuto da estranei». C’è un locale. E c’è un’altra ragazza. S’avvicina: «Ti va? Fanno due marchi». «No, grazie. Mi va la birra. M’interessa Wedding». «Wedding? Puah! Le donne di Wedding ci stanno per un pezzo di pane!» «Perché fai questa vita?» «Mi piace fare la vita. Prima dormivo in un letto che di giorno dovevo lasciare perché ci dormisse un altro. Risparmiavo su tutto. Ho perso il lavoro. Sono finita sopra una stalla. Non dormirò mai più in una stalla. Preferisco fare la vita. E quando finirà, sarà finita per me. Hai letto Berlin, Alexanderplatz? Sì? Ma guarda un po’, in America leggono Döblin! Hai presente quando dice che il tempo è un macellaio e noi fuggiamo dal suo coltello? Be’, quella sono io. Siamo tutti noi».

I prezzi stupiscono Abraham che può comprare un vestito a dieci dollari, un «buon cappello» con sei marchi e le scarpe più care non gli costeranno più di venti e dalla strada trasloca nel formicaio, sale una scala, percorre un andito, gli aprono una porta, gli offrono un tè nell’abitazione dell’ex menscevico, ex membro del Bund Abramovitch, che chiede: «Perché sei qui?», e Plotkin risponde: «Se succede qualcosa, voglio esserci. Sono stanco di leggere i fatti sui giornali» mentre un piccolo treno che sottrae il tempo allo spazio e somma le ore ai metri recapita Plotkin nella casa del sindacato, nella “patria del socialismo e del movimento operaio, dove tutto è ancora possibile”: rialzarsi, combattere, vincere, governare, riformare, consolidare la democrazia, contenere il nazismo, arginare la monarchia ma il sindacalista (che Plotkin è andato a trovare) dalla sua sedia, dal suo tavolo confessa: «Abbiamo paura della nostra ombra, per non parlare dell’ombra altrui»; ma il sindacalista promette: “Quest’inverno ci sarà agitazione. Forse nascerà un movimento rivoluzionario. Non una rivoluzione. Una rivoluzione in Germania è impossibile. Un movimento rivoluzionario, invece, è possibile. Chi lo guiderà? Chiunque prometterà pane al popolo. Ma stia certo: il nazismo andrà rapidamente in frantumi. Hitler ormai è disperato”.

Coro
– Hitler in frantumi? Il nazismo, rapidamente, disperato? È quello che abbiamo sentito? È quello che hai letto? Seguitiamo. Come seguitano i mesi.

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Manifesto di propaganda nazista, inverno 1932. "La nostra ultima speranza: Hitler"
Manifesto di propaganda nazista, inverno 1932. “La nostra ultima speranza: Hitler”

Dicembre 1932
Il diarista è il disegno che disegna sé stesso per un’arte circolare dalla coda alla bocca del serpente. L’eiezione. La partecipazione. La rappresentazione. Della realtà. Lo coinvolgono come gesti di una trilogia che ha per titolo “Io, voi, la storia, la mia storia”. Il memorialista civetta col journal intime, conversa col futuro, racconta all’avvenire, ricatta il presente (“quanto mi dai, perché io ti consegni ai posteri?”). E il presente, complottando con la sua coscienza spugnosa, implora Plotkin che ci regali Herschel. Il giovane Herschel. L’ebreo Herschel. Impiegato in bottega. Povero. Risentito. Cresce ruggine tra la vita e Herschel, che chiede: «Anche a New York gettano gli ebrei giù dalla metro in corsa?», e poi sospira: “Noi siamo maledetti. Dall’antisemitismo. Che devasta i nostri negozi. Che ci spinge a chiedere pietà. Ma io non voglio carità. Io pretendo il diritto di vivere. Come giudeo. In questa terra. Con gli stessi diritti degli altri” e Plotkin annuisce, dubita, sottovaluta, incede nel couscous di Unter den Linden tra i volantini dei comunisti, la polizia a cavallo, gli elmetti, pattuglie di nazisti dalle «uniformi gialle sbiadite e i berretti color farina» e s’infila nel Tiergarten dietro al corteo di operai calmi che raggiungono il Reichstag dove all’improvviso “Was ist los? L’istinto della mandria, il fragore, il desiderio di fuga, qualcosa di mai visto, mai ascoltato, la carica della polizia, tuonano come tori, urlano rauchi come indiani”, lo colpiscono, strattonano, “perché quest’assalto? Eravamo pacifici!”, protesta Plotkin mentre il complotto riprende e il presente di nuovo bisbiglia: “Va’ a Wedding. Racconta Wedding” e tra la notte e il diurnale sorge rapido come il bambù un nuovo viaggio di Abraham: nel quartiere dei manovali e dei lumpen, dove sulle targhe di Kösliner Strasse è inciso il nome della fame.

Che nome ha la fame? Forse quello di Herr Gehrig la cui complessione mostra il disoccupato, quattro figli, la moglie, un pasto al giorno, patate, crauti, la domenica carne: una libbra in cinque. Nella strada del maggio di sangue le persone si dileguano dal corpo. Che nome ha la fame? Qual è il suo menu? Zuppa di lenticchie, minestra di latte, acqua e farina, novanta inquilini, solo cinque occupati, i numeri civici un calcolo per fossori, intonaci e porte già una necrosi, la mummificazione della classe operaia, macchie ipostatiche sul lavoro, un lutto ipocrita e falso, dalla bocca dei futuri cadaveri l’alito dei mestieri avariati e “questa è la stanza dove viviamo, mangiamo, dormiamo e spesso moriamo. Questa è la latrina per l’uso di nove famiglie. Questa è la stalla dove mungiamo le mucche e al di sopra del fieno e delle feci vivono i nonni, i nipoti, le madri di Wedding. Queste sono le cantine che abitano gli Ausgeschlossen, topi senza sussidio”. Questa è l’acqua marcia di Wedding dove soprannuotano muratori, meccanici, carpentieri, operai qualificati e “perché. Non possono. Essere messi. A costruire. Abitazioni decenti. Essere nutriti. Mentre lavorano?”, si chiede Plotkin che più tardi scopre dal medico Loewenstein di aver testimoniato solo l’ulcera di un cancro nascosto: “La povertà li ha sfiniti. Non hanno più forze. Negli ospedali non si riprendono. Prima della crisi avevano un’altra salute”.

Questa sera. Il palazzo enorme per giochi e adunate. Cresce sulla pietra e sul vetro. Incide il quartiere di Schöneberg. Una torta edile. Sul tavolo della conurbazione un dolce inscalfibile. Un anfiteatro per le arringhe dell’odio. Questa sera. Lo Sportpalast apre le porte ai nazisti. Un pubblico nazionalsocialista entra a migliaia, ad ascoltare Goebbels. Entra anche Plotkin, curioso e spugnoso. Siede in platea. Sulla tavolozza della vita berlinese: ragazze in uniforme, uomini in divisa, «la scena politica tedesca premia il business delle uniformi», le bandiere, il canto, il saluto teso, gli stendardi ma Goebbels lo delude e, deluso, Plotkin si conforta: “Avevo sentito dire che era bravo. Sì, Goebbels è bravo. Sa dare spettacolo. Ma il suo discorso. Non aveva un inizio. E non aveva una fine. Ha solo detto che c’è una tregua in Germania. E i nazisti mantengono la parola data. È tutta qui la minaccia? Cercavo una balena. Ho trovato un lattarino” ed esce prima che l’assembramento s’auguri la buona notte e a distanza di altre ore e altri metri (forse prima, forse dopo) il sindacalista Schultz rassicura Abraham il diarista Plotkin: “Noi socialdemocratici. Noi del sindacato. Abbiamo fiducia. Ci siamo liberati di von Papen. Ci stiamo per sbarazzare di Hitler. Schleicher lo seguirà. Infine avremo il campo libero”.

Coro
– Hanno fiducia? Si sono liberati? Si stanno per? È quello che abbiamo sentito? È quello che hai letto? Seguitiamo. Come seguitano i mesi.

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Macht¸bernahme Hitlers
30 gennaio 1933. Hitler si affaccia dal palazzo della Cancelleria (foto di Robert Sennecke, fonte: Bundesarchiv, Wikipedia, http://commons.wikimedia.org/)

Gennaio 1933
Uccidono il giovane Wagnitz. Walter dell’Hitlerjugend Wagnitz. Sul pallottoliere di Berlino: la polizia promette, a chi segnali il killer, cinquecento marchi. Sul pallottoliere di Berlino: sbarcano duecento – cinquanta – mila – disoccupati in più. Sulla scena palustre, brandeburghese, antisemita una donna apostrofa Plotkin: «Io non parlo con gli ebrei». Nel teatro xenofobo di regole e binari un poliziotto acciuffa Plotkin: “Come mai mi fermate? Perché sono americano? Perché sono giudeo?” Qualcuno ride tra la divisa e i mostrini. “Non hai il biglietto. Per questo ti fermiamo”.

E, questa sera, nello strudel di ferro, calcestruzzo e cristallo, nell’arena dello Sportpalast, di nuovo i nazisti, nuovamente Goebbels. Il testimone che si testimonia (Plotkin) racconta «spalti gremiti» – così «siedo in alto» – «entra un gruppo vestito di nero» – entra il lutto e nella coreografia si fa avanti «la madre di Wagnitz» – «tutti si alzano» – e «offrono il saluto nazista». Poi tocca a Goebbels che ha la «voce potente» e «trema» e «si contorce». “La tregua è finita. Riprende la lotta. I socialdemocratici hanno tradito la Germania”, ringhia il gerarca cui basta una menzione di Hitler perché la platea si scuota e applauda mentre Goebbels promette: “Noi siamo come i romani. Che combatterono. Anno dopo anno. Finché non distrussero Cartagine”, e il ducetto si chiede e risponde: “Chi è il colpevole della morte di Wagnitz? Gli ebrei”, e la platea spruzza anatemi. Sugli ebrei. Esce Plotkin, dal teatro dell’odio. Pensa Plotkin, al Ku Klux Klan. E spera: che il nazismo si sgonfi come i razzisti del sud. I nazi hanno perso mordente, ragiona Plotkin. I nazi si scaldano giusto aggredendo gli ebrei, considera Plotkin.

Ma sboccia una tolleranza diversa. Berlino consente gli oltraggi ai portatori di svastiche. Entra la provocazione. Non c’è serratura. Non c’è cancello. L’autorità indossa il mantello che rende invisibili; nella maschera del comandare, obbedisce; aiuta, agevola, osserva. Plotkin cade dalla sedia e annota: “I nazisti dimostreranno a Bülowplatz, dov’è la Karl-Liebknecht-Haus, dov’è la sede dei comunisti, la polizia ha dato il permesso, tutta la città ne parla, è una follia, scorrerà sangue nel quartiere operaio, nasceranno cortei non autorizzati a Neukölln, Wedding, Pankow, Charlottenburg, Lichtenberg, Schöneberg e marceranno sulla piazza dei comunisti, invasa dai nazisti”. Nei caffè gli uomini e le donne non discutono d’altro. La città si apre, sfiancata, rammollita come un’ostrica e il sindacalista Plettl tra una birra e un valzer di Strauss nel salone dell’Imperator, seduto comodo «sul bordo del vulcano» ammette: «La polizia è impazzita, oppure sta cambiando tutto».

Quel giorno. Il ventidue. Gennaio. Del trentatré. Plotkin non entra a Bülowplatz. Non ci riesce. Nessuno ci riesce. “Sedicimila nazisti. Sedicimila poliziotti a proteggerli. Le mitragliatrici sui tetti. I cortei di protesta: dispersi. La fermata della metro: chiusa”. Uno scudo recinta la presa del potere e Plotkin rincula sulla Alte Alenxanderstrasse nella dimostrazione di risulta, che gli toglie la facoltà d’essere «un individuo autonomo». “La folla mi porta. Canta l’Internazionale. Bestemmia. Mostra il dito ai gendarmi. A piedi o a cavallo, coi fucili a tracolla, sui camion Tanz, le mitragliatrici sul retro: sono i gendarmi. La folla si muove, mi muove. Crepita un fucile e la folla si ferma, mi ferma. Non sono più padrone del mio camminare. E non sono un vigliacco”.

Non ha tempo per il rendiconto notturno. Esprime appena un pensiero dalla penna alla carta al rileggersi («i nazisti» – «controllano» – «Berlino») che il giornale annuncia il nuovo governo con Hugenberg, von Papen e con Hitler. Plotkin chiama l’amico, che ride: “Non avranno il coraggio di resuscitare von Papen, l’uomo più odiato in Germania”. Plotkin chiama un altro amico, che consiglia: “Lascia perdere i giornali”. Plotkin chiama il corrispondente del Chicago Tribune, Herbert Kline, che annuncia: “Preparati. Tutto è possibile”. Dov’è finito l’argine della SPD? In quale polvere si sgretola il cemento operaio?, si chiede Plotkin. In un parco, di fronte a ventimila uomini, Franz Künstler getta un urlo socialdemocratico: “Il Fronte di Ferro ha già salvato la repubblica. E la salverà ancora. I nazisti non passeranno. I monarchici non passeranno”. Ma su Margrafenstrasse i nazisti, in effetti, passano, e Plotkin li vede, e Plotkin li annota: con le fiaccole, nella festa, con lo strepito disciplinato della porcilaia in casacca, vanno al Kaiserhof Hotel dove Hitler, adesso cancelliere, alloggia. Eppure con due capriole che traducono i giorni (poco prima, poco dopo, poco importa) il sindacalista Bading, il socialista Bading rassicura l’uomo che vive e scrive di vivere: “Hitler non risolverà la disoccupazione. Hitler aggraverà. La disoccupazione. E quando i tedeschi l’avranno capito, inizierà il suo declino”.

Coro
– Hitler aggraverà il proprio declino? Hitler non risolverà i tedeschi? È quello che abbiamo sentito? È quello che hai letto? Seguitiamo. Come seguitano i mesi.

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Reichstag

Febbraio 1933
L’elenco delle proibizioni è il ricettario della cattiva cucina. Istruzioni del veleno e il disgusto, sul diario di Plotkin. Una gastronomia carnivora, cannibale per i morti accoltellati, sparati, il saccheggio della Karl-Liebknecht-Haus, il divieto di stampa comunista, la censura della stampa socialista e comizi, cortei, discorsi pubblici: sono proscritti. Il decreto sulla stampa tedesca, il decreto sulla stampa estera, la marea edittale, la marea violenta. Finisce lo studio dello Stato sociale. Cambia l’abito del viaggio di Plotkin. I fatti derubano Plotkin che adesso arretrando, un po’ sbandato, percettore di allarmi, assordato dalla minaccia ultrasonica, troppo storica, visita il comitato centrale dei cittadini ebrei. Se li aspettava già dileguati nell’oggetto duro presente; invece li trova che stanno tranquilli: “Doveva accadere, prima o poi, che Hitler andasse al governo. Non potrà danneggiarci, con mezzi ufficiali, più di quanto non abbia già fatto con mezzi ufficiosi. Anzi è meglio. Che la fiamma di Hitler. Si consumi. Il prima possibile”.

Coro
– La fiamma di Hitler non potrà governarci, non potrà bruciarci: è questo che dicono? L’hanno detto davvero?

Otto Wels mette le briglie al discorso al Lustgarten; non vuole innescare lame e fucili sull’SPD che presiede, ma dice che il Fronte di Ferro “è vivo, è pronto”, ma dice: “Berlino resta rossa”. Poi Hartig il sindacalista conforta l’alieno Plotkin e spaesato: “Abbiamo vissuto altre crisi così. È vero, questa sembra più seria. Ma non oseranno la monarchia. Dia tempo al tempo. Presto Hitler sguainerà la spada. Presto Hugenberg impugnerà la spada. Si uccideranno tra loro”. Plotkin, però, non sembra convincersi e dall’insonnia cava bruciori, domande gastralgiche che in una foresta rivolge poi a Plettl, il sindacalista: “Se Hitler farà questo, come reagirete? Se Hitler farà quest’altro, cosa risponderete?” Nel bosco Plettl è calmo e sorride, e spiega: “Abbiamo valutato. Tutti gli scenari, ogni possibilità. Siamo preparati. In caso di emergenza. La grande macchina del sindacato. Saprà reagire. Entro un’ora. L’intera organizzazione. In ogni parte della Germania. Reagirà. Ma non si preoccupi, non ci sarà una dittatura. Hindenburg non lo consente”.

Coro
– L’ingenuità di Plettl svetta sulle conifere, sradica persino l’edera. Tra due settimane il Reichstag brucerà. Tre mesi e mezzo e il sindacato terminerà. Tre mesi e mezzo e arrestano Plettl, il candido. Tra quattro mesi svapora l’SPD. Da questo bosco prende il volo una miopia che impedisce al sé di riconoscere l’altro e sé stesso in relazione con l’altro. Ogni previsione sarà sconfessata. Ogni speranza, delusa. Ogni gesto non agito sarà rimpianto.

Nella riunione di un consiglio di fabbrica il delegato sindacale Shtupe (testimoniato da Plotkin, l’uomo che racconta alla carta) s’alza, prende la parola ed esige che: il movimento operaio – appoggi la creazione – di un fronte antifascista – tra comunisti e socialisti. Ragiona sereno, ma l’uditorio si agita. “È tempo di riunire tutti i gruppi. Per la guerra inevitabile. Tra fascismo e lavoratori”. Poi parla il sindacalista Lehman, il dirigente: “Di quale fronte dici? Se uniamo i tedeschi per la Germania, si può fare. Ma unirli in nome di una filosofia estranea, non importa quanto seducente, è impossibile. Ci telefoni, la direzione comunista, e uniremo il fronte. Per la Germania, non per la Russia. Ma tu pensi che la socialdemocrazia tedesca, che viene dal Quarantotto, che ha sconfitto Bismarck ed è sopravvissuta al terrore post bellico, accetti le condizioni dei comunisti? Davvero lo pensi? È assurdo auspicarlo. È umiliante”.

Coro
– Questo ha detto: assurdo e umiliante.

La mattina del quindici Plotkin scrive d’aver capito: «La Germania è sull’orlo di una dittatura. Di che genere? Quale il tiranno? Non è chiaro. Ma che stia arrivando è una dura, fredda realtà». “Alle prossime elezioni. Del cinque marzo. I tedeschi. Terrorizzati. Non opporranno resistenza. All’ascesa di Hitler. Resta solo da comprendere l’esito. Monarchia o fascismo?” L’inverno, le marce, le strade di pietra, la mandria dei berlinesi erbivori (senza casa, senza stufa né luce – per questo all’aperto); i provvedimenti che il potere, vestito da realtà, prende contro il dominato, nell’abito della realtà; l’attesa, la considerazione di ipotesi sul corso degli eventi, la ruminazione di un esilio. Da questo mucchio selvaggio (una pasta di cemento) risulta una mano, poi l’altra mano e il volto di Plotkin: sporco, infangato dalla democrazia che crolla, apre la bocca e respira nella torta funebre, nel dolce scaduto dello Sportpalast la notte del ventisette per “l’ultima – assemblea – socialdemocratica”.

«C’è qualcosa nell’aria», considera Plotkin. «Troppa polizia», annota. «Fuori e dentro lo Sportpalast». Apriamo la scatola del passato, ascoltiamo la voce, leggiamo la storia: sale sul palco il Coro socialista. «Cinquecento persone intonano canzoni di rivolta che ti mettono voglia di sfidare e osare. Sono grato del loro canto» e l’uditorio s’alza in piedi, stringe i pugni e urla “libertà”. L’ultima ora. Di libertà. Hanno preso il soprabito, e sono usciti, per la sfida al vento dei fucili. Per gridare. Un’ultima volta. “Libertà”. Friedich Stampfer, giornalista socialdemocratico, vuole parlare. Ma un poliziotto, un funzionario, si fa avanti e gesticola. È l’ingresso in scena della proibizione. Stampfer esita. Il poliziotto pronuncia: “Aufgelöst”. La proibizione. L’assemblea è sciolta. L’uditorio grida: “Polizia assassina”. Si leva una voce: “Berlin bleibt rot” (è rosso il colore prediletto degli illusi) ma già tutti escono nel clima delle uniformi e del ferro, nel controllo poliziesco e notturno.

Plotkin adesso si lascia trasportare da un’ora. Può essere una carrozza, o anche un tassì: un’ora. Può avere le ruote, i pedali oppure i binari: un’ora di tempo e Plotkin si ferma da Aschinger a bere un caffè e riflette e riposa. Dall’intenzione del viaggio non ricavo nulla. Dalla fatica, dalle interviste per apprendere, scaturiscono inezie. Tutti questi sindacalisti erano morenti. Questa socialdemocrazia aveva il male incurabile. Non c’è di che esportare, né importare. Non c’è. Sono stanco. Sono. Solo. Adesso: qualcuno entra nel locale e grida: “Brucia!”. Cos’è che brucia? Ancora e di nuovo, nel ciclo continuo del cammino e del resoconto, Plotkin è costretto a testimoniare il cappotto, la sciarpa, la strada. Esce. S’arrampica su Charlottenstrasse, verso un chiarore. Anche la folla, che lo circonda e accompagna, vede vampate. Un fuoco nel cielo. Una morte che vive. I bagliori come spermatozoi che fecondano il domani di cenere. Oggi brilla, domani sarà carbone e la domanda (di Plotkin) ritorna: “Cos’è che brucia?” Poi la risposta (di Plotkin): “Accidenti, è il Reichstag che brucia”.

Coro
– Salutate Plotkin. Per via delle fiamme noi ci fermiamo. Sopravviviamo, finendola qui.

***

SCHEDA

Plotkin 1892-1988
Plotkin 1892-1988

Abraham Plotkin visse a Berlino tra l’inverno del 1932 e la primavera del 1933. Il suo diario (An American in Hitler’s Berlin. Abraham Plotkin’s Diary, 1932-33, a cura di Catherine Collomp e Bruno Groppo, University of Illinois Press, Urbana and Chicago, 2009) è una testimonianza preziosa dei mesi cruciali che precedettero la presa del potere nazista.

Malati di posterità, siamo abituati a considerare l’ascesa di Hitler un fatto inevitabile in quanto accaduto. L’attitudine ha una sua logica, non lo nego. Ma i contemporanei – come ci mostra Plotkin con le sue pagine, i suoi ragionamenti, le sue valutazioni e congetture politiche – usavano una logica diversa, ipotizzavano scenari che non avrebbero dato esiti, eppure altrettanto verosimili, se non probabili, del cupo avverarsi del totalitarismo. In quei mesi, in Germania, tutto era a tal punto possibile che un sindacalista americano, ed ebreo, sceglieva di trasferirsi a Berlino per imparare le tutele dello Stato sociale, le protezioni assicurate ai disoccupati (aiuti inesistenti negli Stati Uniti), e decideva di apprenderle sui banchi di scuola dell’organizzazione dei lavoratori più evoluta del mondo: il sindacato tedesco.

Il volume pubblicato nel 2009 raccoglie una parte dei diari di Plotkin, conservati integralmente presso il Kheel Center for Labor-Management Documentation and Archives, Martin P. Catherwood Library, Cornell University, Ithaca. Plotkin frequentò molte personalità della classe dirigente socialdemocratica e sindacale berlinese, testimoniandone la caduta, la debolezza, la miopia. Nella primavera del 1933 tornò negli Stati Uniti, dove lanciò l’allarme sulla distruzione del movimento operaio tedesco. Riprese quindi la sua attività di dirigente nel sindacato tessile nordamericano.

I brani riportati tra virgolette “ … ” sono di mia invenzione, o rielaborazioni di passi di Plotkin. I brani riportati tra virgolette « … » sono citazioni di Plotkin.

LINK:
http://weimar.facinghistory.org/
http://www.press.uillinois.edu/books/catalog/53eqm8tc9780252033612.html

[Melanie Shell-Weiss ha ricostruito un altro episodio: users.wfu.edu/caron/ssrs/shellweiss.doc. Vent’anni dopo, all’inizio degli anni Cinquanta, troviamo Plotkin a Miami, Florida, dove assieme a un altro sindacalista, Robert Gladnick, sgomina una sedicente agenzia per l’impiego, la Caribe Employment Agency, in realtà un’organizzazione che trafficava donne e uomini da Porto Rico schiavizzandoli nell’industria tessile e agricola della Florida. Le operaie, segregate in una camera d’albergo, venivano scortate con le armi al lavoro in fabbrica. Plotkin e Gladnick ne salvarono molte e riuscirono a far chiudere l’agenzia.]

(Una versione più breve del racconto è stata pubblicata sul Manifesto il 4 agosto 2013)

Juggernauti

1

di Mauro Baldrati

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Oltre le metropoli. Un tempo le grandi città divennero megalopoli, inglobando periferie e campagne, portando la popolazione a milioni, o decine di milioni di persone. Ora le megalopoli si sono fuse in entità sterminate dette “ecumenopoli”. Non più decine, ma centinaia di milioni di abitanti stratificati nelle under-city, dove tutto è ammesso e tutto si distrugge, oppure protetti nelle enclaves fortificate, nell’illusione di sfuggire all’orrore tecno-sociale che tutto ricopre.

Come i corpi le cose

19

di Pasquale Vitagliano

oppenheim le déjeuner en fourrure 1936

 

Ogni mattina al caffè,
mi chiedo se esista
il colore concreto,
non dico il giallo, o il giallo
di questo pacchetto di tè,
e neppure tutti gialli che ho visto.

Questi sono i gialli particolari
di cui mi parla l’occhio.

Il male veniva dal mare (Marino Magliani intervista Giuseppe Conte)

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MM Il mare. Dalla Liguria dei costoni rivolti all’opaco, è lì ma è più dei turisti che tuo. Troppo facile. Il mare non si risolve mica così, con una battuta. Alla fine quelli come me non ci si mettono neanche, manca il coraggio. Provo a dirmi: sei stato mozzo sul Corsica Ferry, qualche mese… Ma il mare? Non è andarci noi, esplorarlo, è farlo emergere. Era questa la sfida, Giuseppe Conte, dopo aver scritto Il terzo ufficiale con i vascelli carichi di schiavi e dolore, e La Casa delle onde, l’aria inzuppata che hanno respirato Shelley e Byron? Era Il male veniva dal mare (NdR: Longanesi, 2013), il romanzo al quale lavoravi da anni per chiudere la  grande trilogia del mare?

GC La Liguria ha due mari. Uno è quello dei turisti o peggio ancora dei bagnanti. Un mare qualunque, scialbo come la sagoma di un ombrellone, addomesticato, sempre un po’ freddo, totalmente insignificante. Poi ha un altro mare. È quello delle navi, della Repubblica di Genova, dei capitani di Porto Maurizio che partivano da qui per varcare Capo Horn, il mare grandioso e solitario che sta dirimpetto alle scogliere dei Balzi Rossi, che fronteggia le Alpi sino a Savona e poi il verde degli Appennini, che rende tutto verticale e fa di tutto una visione e un miraggio, un mare d’avventura e di metafisca, un mare interiore e terribile, che a noi non resta che guardare, contemplare, seguire nel suo movimento incessante. Io ho cominciato a capire il mare quando sono tornato in Liguria dagli anni passati nelle metropoli del Nord, a Milano soprattutto, e poi anche a Torino. Quando ero un adolescente, non me ne fregava niente del mare, come della campagna. I miei orizzonti erano esclusivamente urbani. Via Cascione a Porto Maurizio (allora era davvero una via viva) era la mia Oxford Street, il mio Boulevard Saint-Germain. Mi vedevo e sognavo in città. I miei parenti materni sono forse gli unici liguri che risiedendo in Liguria da più di quattro secoli non abbiano conservato un pezzo di terra. Poi, i terreni comperati da mio padre a Diano Arentino e a Baiardo e che ho ereditato li ho tutti venduti: ho commesso il sacrilegio di vendere gli alberi. Ma era fatale che prevalesse lo sradicamento. Io amo vincere la forza di gravità, avere radici verso l’alto. Il mare, come gli alberi e i fiori, li ho scoperti tornando. Allora mi aggiravo tra le ville di Sanremo a cogliere gli estremi sussulti di una vegetazione in splendore. Gli agapanti, gli acanti. Solo dei corrotti possono pensare che sono fiori e nomi preziosi, da bandire. Sono fiori comuni, democratici, selvatici alle volte, basta avere occhi selvatici per vederli. E poi pian piano la mia attenzione si è rivolta al mare. Mare padre, per il Montale di “Mediterraneo”. Mare madre, per chi pensa in francese. Mare delle origini, mare della vita. Nei miei romanzi , il mare c’è subito, penso al diario della mareggiata che corre lungo tutta la vicenda raccontata in Equinozio d’autunno ambientata a Baiardo. Una Baiardo che poteva anche essere in Irlanda, per me andava bene lo stesso. Ma certo nei miei ultimi romanzi il mare diventa davvero protagonista, non so se si tratta di una trilogia, caro Marino, ma tu hai colto bene il filo che passa dal Terzo ufficiale a La casa delle onde a questo Il male veniva dal mare. Un mare di libertà e di schiavitù (l’edizione greca del Terzo ufficiale ha intitolato: Schiavi della libertà), un mare scuola di vita, un mare rigurgitante di visioni e di miti, diventa il mare amato da Shelley e Byron, il mare dell’utopia e della bellezza. E infine questo mare, in Il male veniva dal mare, quello di oggi e di un futuro vicino, sempre più avvelenato, infestato da isole di plastica, teatro di morte e di distruzione. Il mare è il filo conduttore. Quello reale e quello fantastico, delle mitologie e delle visioni , che non può essere ucciso dalla avidità e dalla violenza dell’uomo. Il mio è un libro riparatorio. Un libro di resistenza. Senza moralismi e senza soluzioni pronte. Il mare è simbolo della stessa profondità, complessità, tempestosità dell’anima umana. Per chi crede che esista una corrente di energia spirituale che chiamiamo anima, e che esiste un fruitore di questa energia che chiamiamo essere umano.

 

MM È un mare che ci ha osservato, ci ha spiato (con le sue meduse, la grande invenzione del romanzo), e noi nel frattempo l’abbiamo sporcato. Una delle cose importanti di questo romanzo è stata quella di legare felicemente l’invenzione al grido di dolore oceanico: parlo tra l’altro dell’isola della spazzatura, la Great Pacific Garbage Patch.

GC Le meduse sono esseri misteriosi e bellissimi. Primordiali, dovevano essere sul pianeta alle origini dei tempi e della vita. Ci sono stupende immagini di meduse che flottano e pulsano in una sequenza enigmatica di The tree of life di Terence Malick. Io mi sono letteralmente innamorato delle meduse. Tutti le odiano sulle spiagge. Come se fossero loro ad attaccare l’uomo, e non l’uomo a sbattere contro di loro nello spazio che appartiene a loro. Mi sono innamorato della loro leggerezza, trasparenza, luminosità, capacità di pulsare e di danzare. Sono stato anche colpito dalla rapidità del loro degrado, un mutamento repentino dalla bellezza all’orrore è quello che capita a loro quando vengono catturate e gettate sulla sabbia; da creature splendide diventano orribili ectoplasmi. Come la Medusa della mitologia greca, ragazza dai capelli bellissimi che una maledizione degli dèi trasforma in mostruosi serpenti. Nel romanzo, le meduse portano notizie dalle profondità. Non solo dai fondali feriti dallo sversamento dei rifiuti tossici, ma anche dalle profondità dello spirito della vita. La vita è venuta dal mare. Se il mare muore, siamo tutti fottuti. E gli uomini, presi in un gorgo di corruzione, incoscienza, miseria spirituale, non se ne rendono conto. Allora una specie più evoluta di quella degli umani viene a ricordarci tutto. A farci pagare tutto. Certo, i due simboli chiave del romanzo sono le meduse e la meganave Sirena. La meganave che trasporta sedicimila anime e chissà quante migliaia di fusti di sostanza tossiche nel suo interno. Un Leviatano, una balena bianca senza nessun Capitano Achab, una che gli uomini stessi si sono costruiti, dopo avere cacciato e ucciso tutti i cetacei dal pianeta. La scoperta che nel Pacifico, ma ormai anche nell’Atlantico, esistono isole di rifiuti plastici, isole inabitabili e di morte, su cui si immolano a milioni uccelli di mare e pesci, grandi ormai come una parte degli stessi Stati Uniti, è stata capitale per la storia immaginata da questo romanzo. Che sembra un romanzo fantastico, forse lo è, ma contiene credo una dose di realtà superiore a quella ristretta di certi romanzi sedicenti realistici.

 

MM Siamo nel terzo decennio del secolo XXI, a Nizza, sulla spiaggia, un barbone, a poca distanza di tempo, s’imbatte in due cadaveri. Due giovani donne di colore, bellissime e mutilate. A Cavallero, un commissario che annega la sua malinconia ingozzando salumi e formaggi, toccano le indagini. A Nyamé, un giovane giornalista tocca scriverne sul suo giornale. Il mare luccica e ribolle come popolato da distese di famelici piraña. È luce di meduse. Si muovono non distante da una grossa nave, la più grande della storia marina, che ha gettato l’ancora nella Baia degli Angeli.

GC Sì,  il romanzo contiene molti fatti, privilegia movimento e avventura, è una mia scelta precisa, antinovecentesca, meno ingenua di quello che i miei avversari credono (non si ricordano mai che a ventisette anni ho pubblicato  un libro, La metafora barocca, che oggi è in tutte le biblioteche europee e americane, e che da allora la mia consapevolezza del manufatto letterario è particolarmente acuta, ma forse è per questo che i miei avversari mi attaccano, perché “rompo” come ebbe a scrivere una volta Aldo Nove (in fondo il più simpatico tra quelli che mi detestano). Mi interessano poi le trame come disegni del destino e i personaggi come grumi di movimenti dell’anima. Poi ai miei personaggi dò anche corpo, linguaggio idiolettico, coscienza etica, rilievo simbolico, un gran lavoro, insomma. Anche questa volta. Quattro anni, non so quanti rifacimenti, quante parti sacrificate, lavoro sempre come un Don Chisciotte, quello di Unamuno e Turgenev, l’incarnazione di un idealismo utopico, che avevo da ragazzo e ho mantenuto. A 16 anni sognavo di cambiare la letteratura italiana. A 67 continuo in questo sogno del cazzo, che non vale niente. Ma io sono fatto così. E, almeno in Francia e in America, qualcuno crede che dopo L’Oceano e il Ragazzo (1983) la poesia italiana un po’ è cambiata. Col romanzo ci provo ancora. Con romanzi “fuori schema e fuori legge”, come ha scritto di Il male veniva dal mare Sette del Corriere della Sera. Mi piace essere un fuorilegge. Aspetto che gli sceriffi della legalità romanzesca vengano a catturarmi. Se ce la fanno.

 

MM Racconta qualcosa dei personaggi, dei libri che amano.

GC Marlon, il senzatetto che sempre più lettori considerano centrale nel romanzo, legge soltanto due libri, Le metamorfosi di Ovidio e Foglie d’erba di Whitman. Una colossale enciclopedia di mitologie antiche e eterne e una colossale celebrazione della istantaneità della vita e dell’universo. Dice più volte che non ha bisogno di altro. Il commissario Cavallero, di origini piemontesi, legge Jean Giono. Mark Breton, il direttore del giornale dove lavora Nyamé legge Borges e ne tiene un poster in redazione. Il suo vice Zeno legge una scrittore immaginario, autore di un romanzo sulla crisi di impotenza creativa di un trentenne e un  quarantenne che si chiama Franco Andrea Corti.  Questo nome dovrebbe dire a qualcuno che l’autore è immaginario ma che forse rispecchia un autore reale, forse due.

Quanto alle mie letture , sinora le recensioni uscite hanno parlato di influenze di Borges,Verne, Conrad, Melville, Stevenson, Neihardt, Jack London, Philip Dick, Victor Hugo, Mario Soldati, Italo Calvino, Cormack McCarthy, Murakami.

 

MM Ci parli di cosa hai fatto per ripulire la costa da mafie, cemento, corruzione?

GC Non certo tutto quello che basta. Ci vorrebbe una pulizia ben più radicale. Una tabula rasa. Non sono per i compromessi, in questa fase storica, ma per la lotta frontale, anche durissima. Ho soltanto scritto editoriali per il quotidiano di Genova. Senza paura e parlando chiaro, da uomo libero e da libero scrittore. Ma mafie cemento e corruzione sono ancora lì. Certe volte penso che scrivere sia poco. Ma poi mi dico che è tantissimo. Almeno per me. Che ho sempre vissuto per scrivere. Qualunque cosa, ma scrivere, che per me è come respirare e nutrirmi. Scrivere. Contrapporre la propria scrittura alle brutture e alle barbarie della società. Farne intravedere una migliore. Lascia che i miei avversari (spesso sono linguaioli che davanti a qualunque potere se la fanno ampiamente sotto) ridano. Io rido più di loro. E sono in buona compagnia.

Frammenti e notifiche di un discorso amoroso

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Come cambiano attesa e trame d’amore su Facebook

di Ornella Tajani

Il punto di partenza dei Frammenti di Roland Barthes è l’estrema solitudine in cui affonda il discorso amoroso: ignorato o ridicolizzato dalle varie discipline, è tuttavia parlato da migliaia di soggetti e dunque necessita di una affermazione. Era il 1977: oggi, che si militi nel partito degli apocalittici o in quello degli integrati, non si può ignorare che una buona parte di questi frammenti navighi ormai nel virtuale.

TELP.1

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Perec_Telp di Romano A. Fiocchi

 

Georges Perec, Tentativo di esaurimento di un luogo parigino. TELP.1, a cura di Alberto Lecaldano, Voland, 2011.

Telp è l’acronimo di Tentative d’épuisement d’un lieu parisien. Telp è un piccola perla letteraria. Telp è un talismano per gli amanti di Perec. Ma ci sono due cose da fare prima di acquistarlo e di leggerlo. Non perché sia un libro difficile (“libretto”, ad essere precisi: appena 63 pagine, di cui 6 di postfazione e 14 di immagini), ma perché è un libro altrimenti incomprensibile. Insomma, ci vuole la chiave giusta. Con la chiave giusta, quella che può sembra un’elencazione ossessiva e apparentemente insulsa di oggetti, persone, azioni si fa magia. La magia di Georges Perec.

Due cose da fare a priori, dicevo. La prima, leggersi le 500 pagine di La vie mode d’emploi, vera e propria “opera mondo” che oltre a racchiudere 107 storie (non per nulla Perec utilizzò il sottotitolo romans, al plurale, in luogo di roman), un indice dei nomi di 50 pagine, un elenco di riferimenti cronologici veri ed inventati che vanno dal 1833 sino al 1975, è un grandioso tentativo di trasformare in un puzzle la storia di tutto uno stabile parigino con i suoi inquilini, e indirettamente l’intera storia dell’umanità.

La seconda cosa da fare, complementare oppure anche semplicemente alternativa qualora il potenziale lettore di La vie mode d’emploi avesse l’impressione di dover affrontare un Ulysses francese, è guardarsi i video dell’intervista che Viviane Forrester fece a Georges Perec il 22 marzo 1976. I video sono messi a disposizione dall’INA, l’ente nazionale francese incaricato di archiviare le documentazioni audiovisive. Il primo lo trovate qui. Non so di chi sia la regia. Perec appare in cima a una scalinata (oggi scomparsa) nel quartiere Belleville di Parigi, osserva le “cose” della sua città, compresa la vecchia porta in legno di quello che fu il negozio di sua madre, deportata in un campo di concentramento nel 1943 e mai più tornata (il padre era morto in guerra tre anni prima). Perec è un affabulatore straordinario. La Forrester, giornalista e scrittrice, scomparsa a ottantotto anni nell’aprile scorso, sembra affascinata dalle sue parole, dai gesti, da quello strano modo di reggere la sigaretta tra il medio e l’anulare (in Telp, pag. 21, Perec noterà per la prima volta un passante con la sua stessa abitudine). Perec, nel corso dell’intervista, arriverà a spiegare il progetto grandioso di La vie mode d’emploi, mostrando disegni, schizzi e schemi relativi all’andamento della narrazione: il movimento a “elle”, come il cavallo degli scacchi, con cui la voce narrante salta da un appartamento all’altro. Non occorre conoscere bene la lingua francese, basta ascoltare la sua voce, seguire la sua gestualità, e Perec vi darà la chiave per Telp.

E ora veniamo a Telp. La suggestione comincia dalla copertina grazie a una fotografia scattata nel 1974 dall’amico Pierre Getzler: Perec chino sulla penna a un tavolino del Café de la Mairie, sigaretta nella sinistra, tazza di caffè o tè da cui spunta il cucchiaino. Resterà lì, in place Saint-Sulpice, per tre giorni consecutivi, spostandosi ora al Bar tabacchi Saint-Sulpice, ora al caffè Fontaine Saint-Sulpice, ora sedendosi su qualche panchina della piazza. Perec cambia il punto di osservazione, osserva ed elenca ciò che vede: animali, persone, atteggiamenti, azioni, mezzi di trasporto, variazioni atmosferiche, luci, ombre. Talvolta cerca di catalogarli, di dare un ordine all’apparente casualità. Elenca “quello che generalmente non si nota, quello che non si osserva, quello che non ha importanza: quello che succede quando non succede nulla, se non lo scorrere del tempo, delle persone, delle auto e delle nuvole”.

Alberto Lecaldano cura la postfazione (chiamata semplicemente Appendice) fornendo quelle informazioni indispensabili e contagiando il lettore con il suo entusiasmo. Nel risvolto di copertina, le immagini eleganti (a colori) e utili di alcuni oggetti ormai scomparsi che Perec cita nel testo, come la Due-cavalli verde mela, vecchio modello Citroën, evocazioni apparentemente prive di nostalgia che ritorneranno in Je me souviens, 1978. Anche il progetto grafico, curato dallo stesso Lecaldano, è in perfetta sintonia con il testo. Onore dunque, ancora una volta, al vecchio diavolo di estrazione bulgakoviana, Voland, che a trent’anni dalla morte di questo straordinario scrittore francese ci regala, per soli 12 euro, un autentico gioiellino letterario.

Forever Seamus

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Due poesie di Seamus Heaney tradotte da Franco Buffoni

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Antaeus

         When I lie on the ground
I rise flushed as a rose in the morning.
In fights I arrange a fall on the ring
         To rub myself with sand

         That is operative
As an elixir. I cannot be weaned
Off the earth’s long contour, her river-veins.
        Down here in my cave

L’elaborazione del lutto (11 prose brevi)

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di Jacopo Ramonda

 

L’ELABORAZIONE DEL LUTTO (uno)

 

Quando finalmente riconosciamo di doverci delle spiegazioni, è – con ogni probabilità – già troppo tardi. Ci sediamo a parlare, ai due lati del tavolo, come schieramenti avversari. Le attenuanti che ognuno di noi riconosce a se stesso si trasformano negli artigli con cui ci feriamo a vicenda, in modo involontario.

Cara controcultura

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di Silvia Contariniimages-1

Chi si interessi ai movimenti degli anni 1960-1970, con o senza rimpianti, per personale coinvolgimento o meno, condividerà forse le reazioni contrastanti che ho avuto scoprendo il catalogo Controcultura in Italia. Libri giornali, fotografie, documenti (con relativi prezzi), pubblicato nel 2012 dallo studio bibliografico l’Arengario: http://www.arengario.it/homepage/_hp-pdf/catalogo-controcultura.pdf

Passata la curiosità e la piacevole scoperta di materiali che non conoscevo (copertine di Re Nudo o di Ombre rosse, testi di volantini, slogan), alcuni dei quali di un’inventività straordinaria; passata l’emozione, suscitata per esempio da foto di Tano D’Amico che riportano con forza nell’Italia di quegli anni; passata anche – con più difficoltà – l’irritazione di veder messo in vendita il tutto a caro prezzo, sono rimasta in sospeso su un paio di questioni. Perché così commercializzati, questi sono cimeli, articoli da collezionista, da musei, da biblioteche, ossia attestazioni frammentarie e parziali di un passato considerato chiuso; in sostanza, la controcultura (femminismo, pacifismo, antimilitarismo, antiautoritarismo, lotta di classe, movimenti giovanili, internazionalismo, etc.), diventa materia per amatori, conservatori, ricercatori di vari campi e discipline, e sarà (probabilmente già lo è) esposta, scandagliata, commentata, annotata. Quando e come si storicizza la vita? Quanta distanza e quali strumenti ci vogliono per ricontestualizzare e interpretare correttamente il vissuto? Non è troppo presto per mettere sotto teca il ’77? Per farne preziose anticaglie? Si è esaurito del tutto lo spirito della controcultura? E poi, che ha senso ha (ossia che senso si produce a) mettere insieme i cortei femministi e le P38, gli indiani metropolitani e Lenin, i prigionieri di Rebibbia in rivolta e la rivista freak Il minestrone? Che certo appartengono allo stesso periodo (purtroppo passato alla storia solo come anni di piombo), e certo rientrano nell’area dei “contro”, ma per il resto poco altro hanno in comune.

Altre considerazioni riguardano i prezzi, esorbitanti ai miei occhi, forse normali per esperti conoscitori. Mi sono chiesta se il tariffario sia giustificato da una forte domanda istituzionale o accademica, o se gli acquirenti potenziali non siano piuttosto nostalgici “ex”, oggi danarosi abbastanza per comprarsi un vecchio numero di Lotta Continua a 40 euro o un numero di Re Nudo a 250. A meno che non siano di moda, accanto alla planetaria icona del Che, anche insensate  massime, tipo quelle di A/Traverso  (“Il desiderio giu­dica la storia. Ma chi giudica il desiderio?”) o più minacciose scritte (“Pagherete caro, pagherete tutto”). Facciamo anche l’ipotesi che le tracce fisiche della controcultura stiano diventando un bene prezioso perché gli allora protagonisti, il più spesso giovani effimeri precari pendolari, erano poco “conservatori” per indole, necessità, ideali; rari sarebbero gli originali rimasti in circolazione, e c’è chi, come gli antiquari dell’Arengario, ne ha capito il valore. Valore economico, certo, ma anche valore storico, culturale, testimoniale e affettivo. Nonostante le remore, ho trovato questo catalogo straripante di vitalità ed è stato un piacere scorrerlo.

[PS catalogo esaurito, consultabile online; lo stesso editore-antiquario ha pubblicato altri volumi del genere]