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Grazie, signora Merkel

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Normandia. Una trebbiatrice Claas, tedesca, nel cuore di una notte d’agosto

di Davide Orecchio

Angela Merkel, id est il potere nei nostri anni. Il potere che non decide, che decide di non decidere. Il potere, al limite, di veto. Il (non) potere dei nostri anni, di cui Merkel è il vertice, spinge il laissez-faire all’estremo: un lassismo che asseconda la realtà mediocremente, senza intervenire. Un potere forte della propria debolezza.

Indypendentemente: nuovo numero de laquinzaine

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Oggi si inaugura  a Torino la mostra del fotografo francese di origine vietnamita, Remy Gastambide . Ve ne abbiamo dato notizia qui     .

Oggi è uscito il numero 2 de Laquinzaine, il periodico gratuito, prodotto da Indypendentemente, che racconta storie e personaggi di Voyelles & Visions,  che vorremmo diventasse una vera e propria factory nel cuore della città. Laquinzaine, creata da Francesco Forlani e Carmine Vitale,  è a cura di Chiara Lasagni e il progetto grafico è di Angela Pellecchia. In questo numero dedicato al Vietnam lo scrittore Gian Luca Favetto ci ha offerto questo suo racconto.  Grazia Coppola e Gabriella Giordano.     

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APPUNTI DI VIETNAM

di  Gian Luca Favetto

Tredici anni fa sono andato in Vietnam per cercare mia nonna. Per trovare la sua tomba. Non l’ho trovata. Mi sono rimasti questi appunti.

Ho lasciato Saigon per risalire verso Tuyên Quang, a Nord, dove la nonna viveva e ha incontrato il nonno ed è nato mio padre: ci dovrebbero essere una piccola piazza con una villa in stile coloniale, due piloncini e un cancelletto.

Da Saigon mi sono portato via il traffico, la vita in strada, l’Hôtel Continental, il quartiere cinese di Cholon, i sorrisi e un senso di fluidità dove nulla si perde per sempre, dove tutto è di continuo nuovo, qualcosa di accogliente, un luogo che tiene insieme sorpresa e tradizione. L’impatto con il traffico è impressionante: clacson, biciclette, motorini, risciò, pedoni, pullman, pulmini, taxi e macchine che vanno come un fiume lento e inesorabile, e tu, anche sul marciapiede, ti senti in mezzo al suono e alla visione, fai parte di quel traffico, di quello scorrere, tanto vale buttarsi. All’inizio può sembrare caos e anarchia; invece senti che è una corrente, e la corrente non ha gabbie e non ha caos, è libera, richiede più attenzione, più decisione, più tranquillità: nessuno che s’arrabbia, che sbuffa o se la prende, niente stress.
Poi, ci sono i sorrisi. Anch’essi fluidi. Non puoi incontrare uno sguardo senza che si sciolga in un sorriso. Comincia dagli occhi, scuri, profondi, prende gli zigomi che si distendono e finisce come un fiore che si schiude sulle labbra. Sembrano musica, i sorrisi.

Ad Hanoi arrivo dopo una dozzina di giorni, lentamente, un po’ di treno, un po’ di auto, un po’ di corriere e minibus, passando per Dalat, Nha Trang, Hoi An, Danang, Hué, Halong e la sua Baia.

Sul treno per Hué ho conosciuto un padre e una figlia. Lui si chiama Vinh, lei Chao. Lui, vestito di bianco, il volto aperto, settant’anni portati con leggerezza. Era tenente colonnello nell’esercito di Van Thieu, combatteva contro il Nord. Quando nel 1973 gli americani si sono ritirati, l’hanno portato via. La figlia lo ha raggiunto in California nel 1989, lavora in un Casinò di San Josè, ha trentacinque anni e parla un americano perfetto. Lui preferisce usare il francese. Con il passaporto americano è la terza volta che ritorna in Vietnam. Dice: le guerre sono finite, tutti abbiamo avuto sempre una sola patria, la nostra terra non potrà più essere separata. Lo dice in mezzo ad altri mille discorsi, raccontando la sua fuga, la vita in California, la prima volta che ha rivisto il figlio maschio, la casa che aveva a Saigon in Tu-do Street. Parla con dolcezza, lo sguardo fiero che a poco a poco si fa umido.
Chao, invece, lascia cadere due lacrime. Non le asciuga. Sta andando a sposarsi a Hué, l’antica capitale imperiale, il suo ragazzo vive lì. La commozione non c’entra con il matrimonio, c’entra con quella che lei chiama la terra dei padri.
Dice: è la seconda volta che dal 1989 torno nella terra dei miei padri, mi manca, mi mancano i campi di riso e i fiumi, mi manca tutta l’acqua che c’è qui e i suoni; negli Stati Uniti la vita è decisamente migliore, posso lavorare, vedere chi voglio, guadagnare bene, è un paese libero, ma l’unica cosa che tengo nel cuore è la terra dei padri, è il posto dove sono nata; sai, negli Stati Uniti posso fare tutto quello che mi viene in mente, posso fare tanti soldi, però ci sono alcune cose che non puoi comprare nemmeno con i dollari, nemmeno se sei il migliore o il più forte; senza la tua terra, non sei nessuno. Senza il luogo da dove vieni non hai nemmeno un luogo dove andare, dice.

© Foto di Remy Gastambide. Hồ Chí Minh-Ville 1993
© Foto di Remy Gastambide. Hồ Chí Minh-Ville 1993

In quella mia terra dei padri, che per me è stato a lungo solo un pacchetto di fotografie, adesso ci sono in mezzo: a Tuyên Quang, 160 chilometri da Hanoi, distesa fra basse colline che sembrano rigonfiamenti del terreno e un fiume. Nessuno parla inglese o francese, ma tutti salutano, si incuriosiscono e pronunciano le poche frasi che conoscono come a voler mettere in comune qualcosa.
Due giorni così, senza far niente, dopo un po’ senza nemmeno cercare. Non c’è più niente da cercare, solo stare, camminare, guardare. Non c’è più la piazza, non ci sono le ville coloniali di inizio secolo, non c’è una balconata, un terrazzo, quattro gradini che abbiano la forza e la voglia di dire: ehi, sono qui, guardami, vieni da qui tu. C’è solo l’ingresso di quello che doveva essere un ambulatorio, dove mio padre dice di essere nato.

Dico Tuyên Quang e viene fuori questo: sei strade parallele e altre sei che le tagliano, un fiume largo e sabbioso, un ampio lungofiume, quattro incroci animati, una scacchiera di case basse, un ponte disadorno e imponente, due mercati vivaci, una serie di officine chiuse in un recinto, molte facce curiose, frotte di bambini che ti seguono gridando “Hallo!”, un ufficio postale, un po’ di corriere, due o tre ruderi, qualche poliziotto, gli uomini quasi tutti con il casco verde di stampo coloniale, gente ferma sul marciapiede, un diffuso pudore, i sorrisi naturalmente, poi una ragazza che si pettina al sole i capelli bagnati, l’odore dei cibi, la notte che arriva presto e presto ritorna il mattino, i gatti legati in sala e una foto di mio padre a cinque anni: era piccolo, vestito da marinaretto, solo, con gli occhi grandi, un velo di malinconia nello sguardo, come se già si interrogasse su ciò che gli doveva succedere nel giro di un anno.
Perché essere allontanato dalla madre, trasferito in Italia, in Valchiusella? Ritrovargli la madre, ritrovarmi la nonna, sarebbe stato il minimo, forse dovevo pensarci prima, così lui avrebbe smesso di fuggire. E anch’io.

Mosche volanti. Introduzione ai film di John Price

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di Rinaldo Censi

«Penso sia stata la migliore proiezione che io abbia mai avuto. I proiettori 35mm erano eccezionali». John Price non l’ho mai incontrato. Mi è semplicemente capitato di vedere alcuni dei suoi film. Ho trovato il suo indirizzo email. Gli ho scritto e ne è nata una bella corrispondenza. Vive in Canada, è un filmmaker e realizza film dal 1986. Oltre a questo, offre la sua competenza in fatto di ottiche ad altri cineasti, curando la “fotografia” dei loro film. Da quanto mi scrive, tiene anche corsi di “Cinematography” presso l’Humber College di Toronto e si occupa di danza e opera, realizzando e curando proiezioni di film legati a questi ambiti di ricerca. I suoi film sono stati da poco proiettati all’interno del “Media City Experimental Film and Video Festival”, manifestazione che si svolge tra Detroit e Windsor, Canada. Mi sembra una persona soddisfatta di quello che fa. E lo percepisco proprio da quella frase sibillina che mi ha inviato, capace di tratteggiare il soggetto più di qualsiasi curriculum vitae. Il perché è presto detto. La brillantezza e la qualità dei proiettori ha reso giustizia ai film. Il numero di spettatori non è certo secondario, ma la felicità arriva quando finalmente hai modo di percepire il tuo lavoro, lo sforzo, ripagato e “visibile” lì sullo schermo. Del resto, il tono intimo dei film che egli realizza non richiama certo le folle oceaniche di un blockbuster. Price realizza semplici home movies, “documentari sperimentali”, come ama definirli, film come pagine di un diario ininterrotto. E mi sembra di cogliere una specie di consapevolezza zen nel suo approccio. Senza l’ossessione dei numeri e delle cifre. Solo la gioia di fare le cose in pura perdita, senza aspettarsi nulla, nella convinzione della fugacità di ogni cosa, in primis dei materiali che si utilizzano: strisce di celluloide. Un atteggiamento che apparteneva a Luis Buñuel, riscontrabile in una famosa intervista con Max Aub. Giri film per lasciare un segno? Risposta: «Le pellicole sono fatte di materiale deperibile. Noialtri, fra cinquant’anni, certamente tutti a crapa pelata, ma quelle là saranno ridotte in polvere». E se qualcuno trovasse il riferimento troppo colto, potremmo indicargli Jacques Tourneur. Gli domandano quale posto avrà nella storia del cinema. E lui risponde, poco prima di morire: «Nessuno. Non c’è nulla di più evanescente di un’immagine in celluloide.». C’è un fondo ironico in tutto questo. La consapevolezza incontra la modestia. Per quanto mi riguarda, questo è un buon metro di giudizio, quando si tratta di decidere che persone frequentare.

Tempo fa, informandomi di aver spedito un dvd contenente una selezione dei suoi film, ci ha tenuto a sottolineare il suo disappunto, la sua frustrazione. Insomma, è un peccato vederli così, in digitale, su un computer. Ma così vanno le cose, concludeva, mantenendo i piedi per terra, a contatto con la realtà. E vedendoli sul laptop, o sullo schermo del televisore, si comprende facilmente cosa vada perso, rispetto ad una proiezione in sala. Perché John Price è un alchimista dell’emulsione. Un negromante che lavora con pellicola scaduta, e si occupa personalmente dei bagni di sviluppo della pellicola, variando e studiando diverse soluzioni di resa della grana, della superficie impressionata. Nei suoi film, simili per misura a piccoli haiku, il materiale utilizzato è il vero protagonista, e campeggia in bella vista nei credits, insieme alle persone che vengono filmate, spesso i figli.

Qual è dunque il soggetto dei suoi film? Tipologia di pellicola, formati, cineprese, accorgimenti ottici e di sviluppo: l’atto creativo passa attraverso questi materiali. Si modifica grazie a loro. Che si filmino le cascate del Niagara (View of the Falls from the Canadian Side, 2006), o un neonato immerso nel sonno (il figlio Charlie in ten thousand dreams, 2004), il mare nei suoi diversi stati, nei momenti ricreativi (Sea Series #1-#13, 2008-2013), un bimbo che gioca con un fucile giocattolo e un cacciatore in uno stagno, seduto in una barca, pronto a sparare a qualche volatile (gun/play, 2006) le immagini che appariranno sullo schermo si materializzano come resto cristallizzato, emerso dallo stato della pellicola utilizzata e dall’azione sui materiali, in fase di sviluppo e stampa. Il film è, insomma, il risultato di questa tensione ottico-chimica. Un gesto che incrocia il fare e il “trovare”.

Senza troupe o maestranze, John Price filma con una cinepresa 16mm o Super 16. Utilizza strumenti la cui meccanica permetta, volendo, di riavvolgere il girato per sovrapporvi altre immagini (quasi certamente delle cineprese Bolex). Filma, sviluppa, modifica i materiali sul banco ottico così come un artista si districa con il proprio materiale. E la tensione è tutta lì, visibile in ogni fotogramma che scorre e viene trascinato dalla perfetta meccanica ad orologeria dei proiettori. L’effetto è spiazzante. Il gioco della sovrimpressione, lo scorrimento rallentato, il codice numerico della pellicola e le perforazioni visibili, le macchie, gli aloni, le scie colorate e i flash improvvisi, gli atomi ingranditi e visibili, l’immagine che svanisce improvvisamente, instabile, tutto questo crea davvero una fisicità della superficie. Tanto che ogni evento ottico-chimico sembra affiorare simile a un disturbo della vista, simile a quel fenomeno che l’ottica fisiologica chiama “mosca volante” (miodesopsia, un disturbo della vista dovuto alla non perfetta trasparenza del corpo vitreo, che si ritrova a dover gestire ombre mobili, macchie). Quando gli chiedo come definirebbe il suo lavoro, mi risponde che lo considera una forma di realismo, ma non chiuso in uno script. Una rappresentazione della realtà. Ma il processo di lavorazione e i materiali connessi rendono il tutto più impressionista, con un lato astratto. Un lirismo della materia, mi viene da rispondergli. Mi trattengo perché non vorrei sembrare troppo poetico (eppure, molti anni fa, Franz Kafka definiva così il cinema, a Gustav Janouch: «Le corde della lira dei poeti moderni sono strisce senza fine di celluloide»).

Come molti filmmaker a lui simili, John Price lavora ai margini dei grandi Studios e della produzione. E ne è cosciente. Eppure, c’è un gesto che lo distingue dagli altri. Dopo avere sviluppato il film, lo gonfia a 35mm, ne modifica l’aspetto con un salto di scala. In un’email successiva gliene chiedo conto. La sua risposta non tarda ad arrivare, geniale quanto pragmatica. «I proiettori 35mm hanno lampade più brillanti e possono cogliere meglio i dettagli dei materiali – la texture risulta più accentuata». Ma c’è anche un altro motivo: fare in modo che dei veri home movies possano potenzialmente condividere proiettori e spazi utilizzati per film commerciali come Rambo e Spiderman. «Credo che sia un gesto sovversivo – mi dice. L’idea mi solletica».

Mentre leggo la sua risposta, penso che ci sia qualcosa di umoristico e utopico in quello che afferma. E credo che anche lui lo sappia. Riflette sul momento cruciale legato al destino dei formati analogici. Mi scrive che la Kodak ha smesso di produrre pellicola reversibile a colori, in grado di sviluppare un “positivo” senza passare dal negativo e successiva stampa. A pensarci bene, i suoi film, così pieni di vita, simili ad appunti filmati, piccole elegie in grado di condensare in una sovrimpressione diversi istanti della vita di persone care, o di sconosciuti, materializzano pure una zona limite, che non riguarda solo il litorale, quello spazio liminare tra terra ferma e mondo acquatico (il “giardino”, il mare, i bambini, una costante nei suoi film, qualcosa che mi ricorda il titolo di un film di Stan Brakhage, A Child’s Garden and the Serious Sea), ma incute anche una sensazione di caducità e di perdita, qualcosa come un senso di rovina differito, stabilizzato chimicamente. Strana conseguenza: più la proiezione dei suoi film raggiungerà il massimale qualitativo, più noi noteremo quell’altra vita sottostante, pellicolare, che affiora e si espone alla luce in tutta la sua fragilità. E penso a quello che mi dicevano qualche mese fa Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, alle prese con il loro film sul fascismo, Pays Barbare. L’angoscia che sale vedendo e studiando quelle immagini è raddoppiata dal fatto di sapere che questo sarà l’ultimo film che farai tenendo tra le mani una striscia di pellicola. Perché non c’è nulla di più evanescente di un’immagine in celluloide. E ogni filmmaker, a modo suo, fa i conti con questa realtà. 

Alcune poesie di Seamus Heaney

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trad. di Erminia Passannanti

 

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SCAVANDO

Tra il mio pollice e l’indice
sta la comoda penna, salda come una rivoltella.
Sotto la finestra, un suono chiaro e graffiante
all’affondare della vanga nel terreno ghiaioso:
è mio padre che scava. Guardo dabbasso
finché la sua schiena piegata tra le aiuole
non si china e si rialza come vent’anni fa
ritmicamente tra i solchi di patate
dove andava scavando.

Una battaglia contro la privatizzazione dell’acqua: lo scandalo dell’acquedotto pugliese

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Di Nicola Fanizza

Sin dall’alba del nuovo secolo, Piero Delfino Pesce manifesta un sensibile interesse per la politica locale. Da qui la spinta a candidarsi nel 1905 alle elezioni amministrative per il rinnovo del consiglio provinciale di Bari. Grazie al voto dei suoi concittadini viene eletto consigliere provinciale per il mandamento di Mola per il settennio 1905-1912. L’amministrazione provinciale della terra di Bari era guidata da oltre ventidue anni dal senatore Nicola Balenzano, il quale si era fatto promotore nel 1902 – in qualità di Ministro dei Lavori Pubblici – della legge che istituiva la costruzione dell’Acquedotto Pugliese.

Da alcuni anni, pertanto, la popolazione della Puglia sitibonda viveva in un’atmosfera di rinascita, di autentica svolta epocale: non poteva nutrire alcuna diffidenza nei confronti di quel dono dello Stato che ben presto avrebbe mostrato il suo aculeo velenoso. Timeo Danaos et dona ferentes = Temo i Greci proprio perchè portano i doni scriveva Virgilio nell’Eneide. D’altra parte il termine tedesco gift sta a indicare il dono e, insieme, il veleno!

Di fatto la legge Balenzano prevedeva che lo Stato si sarebbe fatto carico della costruzione dell’opera solo qualora la gara d’appalto per la costruzione dell’acquedotto fosse andata deserta. Viceversa, la legge prevedeva che la società privata che si fosse aggiudicata l’appalto della costruzione della rete idrica pugliese, facendosi carico di una parte dei costi dell’opera, avrebbe ottenuto la gestione novantennale dello stesso Acquedotto. Alla gara d’appalto si presentò una «sola» ditta – la ditta Antico – che ottenne la gestione dei lavori.

Va da sé che i lavori procedevano con lentezza poiché la ditta appaltatrice era oltremodo interessata a procrastinare nel tempo il completamento dell’opera: il suo obiettivo era, infatti, quello di rallentare il più possibile i lavori per ottenere un vantaggio economico, derivante dalla variazione progressiva dei costi in corso d’opera.  E per di più Balenzano esercitava il ruolo ambiguo di Presidente del Consiglio Provinciale di Bari e, contemporaneamente, di consigliere di amministrazione della società appaltatrice dei lavori per l’acquedotto.

Preso atto di tale disegno e visti i legami inconfessabili fra la ditta appaltatrice e alcuni amministratori, Pesce si mise in gioco, ingaggiando dai banchi dell’opposizione una virulenta battaglia in seno al Consiglio Provinciale di Bari nei confronti della lentezza dei lavori, della gestione degli appalti e degli interessi privati, con l’obiettivo di rendere pubblica la gestione dell’Acquedotto stesso.

Vitantonio Barbanente ritiene che nel 1911 fu ottenuta una parziale vittoria: la legge Sacchi prevedeva che la Società costruttrice «non avrebbe più anticipato le somme (capitale più interesse del 5%) allo Stato per poi rivalersene con gli introiti dell’esercizio novantennale, ma trovava nello Stato stesso l’anticipatore di quelle somme, mantenendosi per altro immutata la concessione novantennale dell’esercizio. L’unico vantaggio, non certo compensatore del grosso sacrificio della pubblica amministrazione, l’abbreviazione di due anni del termine di consegna del primo stato dei lavori».

Per Pesce l’unica innovazione positiva era la clausola che prevedeva la presentazione di un programma di costruzione con una precisa scadenza poiché per il resto osservava: «Non si comprende quale utile abbia trovato lo Stato ad affidare ad una società di milionari all’uopo improvvisata la costruzione delle diversissime opere murarie. Se lo Stato avesse direttamente appaltato tali lavori a veri costruttori, avrebbe risparmiato la provvisione ultrausuraia ritenuta dalla ditta in questo giro di capitali, avrebbe scelto gli accollatari più adatti pagandoli meglio; avrebbe controllato direttamente la bontà delle costruzioni; avrebbe con le somme risparmiate dato un impulso maggiore ai lavori».

Emerge qui il vizio d’origine che ha avuto conseguenze esiziali sulla vita quasi secolare dell’Acquedotto Pugliese: proprio perché erano interessati a guadagnare il più possibile, i costruttori privati approntarono senza cura i canali e gli invasi e utilizzarono materiali scadenti per le opere murarie, determinando il progressivo decadimento della rete idrica che si trasformò ben presto in un colabrodo.

Contro il disegno di privatizzare la gestione dell’Acquedotto che avrebbe dato più da mangiare (ai gestori) che da bere (alla popolazione), Pesce continuò la sua battaglia, scrivendo nel 1912 anche un libello L’Acquedotto Pugliese – Storia di un carrozzone.

Nella denuncia dello scandalo, Pesce fu coadiuvato dal settimanale «La folla», diretto dal socialista libertario Paolo Valera. A partire dal marzo 1913, sulla rivista milanese, l’«amico di Vautrin» – pseudonimo che l’anarchico Mario Gioda utilizzava quando firmava i suoi articoli su «La folla» – scrisse alcuni articoli al fine di rendere pubblico lo scandalo inerente alla questione dell’Acquedotto Pugliese nella prospettiva di infrangere il «cerchio di silenzio» intorno alle accuse del suo amico Pesce.

Mario Gioda era già da un anno corrispondente da Torino per l’«Humanitas» – settimanale diretto da Pesce – e pertanto era in contatto epistolare con quest’ultimo, al quale, in data 13 marzo 1913, scrive: «Avrei intenzione di portare sulla Folla la questione Acquedotto Pugliese. Leggo avidamente i tuoi lucidissimi articoli. Però non sono nel cuore della questione. Non saprei su quali spunti particolarmente insistere e scuotere con violenza o su quali uomini politici concentrare lo scandalo. Mandami qualche nota sommaria. Segnami in margine al tuo opuscolo i punti più interessanti. Per intanto questa settimana con un articolo, in cui mi terrò sulle generali, inizierò follaiolmente il dibattito. E’ tempo di infrangere questo cerchio di silenzio intorno alle tue accuse. Ne hai diritto. E qui, credimi, non è l’amico che parla, ma il collega».

Nondimeno dalla lettera inviata da Gioda, in data 4 aprile 1913, a Pesce si evince che l’«amico di Vautrin» non condivideva il modo in cui il suo direttore aveva condotto fino ad allora la campagna di denuncia nei confronti dello scandalo dell’Acquedotto Pugliese: «Ho notato che hai accennato alla pagina della Folla su l’A. P. Ti ringrazierò quando mi farai avere il materiale per proseguire perché così come mi trovo, povero di documenti e di conoscenza del problema, sarei e potrei essere facilmente distrutto. Vero è che all’uopo non mancheresti di intervenire. Valera anzi desidererebbe avere lo scandalo dell’A. P. riesumato da te stesso. E’ poi mia personale impressione che come pubblicista la campagna mossa contro i responsabili dell’immane carrozzone sia da te condotta troppo cavallerescamente, troppo – non so se riesco a spiegarmi – educatamente. Sei troppo generoso. In casi simili sono le pedate e le vociate che occorrono per affrettare l’interessamento pubblico. Con certa gente poi che ostenta un’insensibilità morale elefantesca, i riguardi e la cautela eccessiva non possono essere nella penna dell’epuratore».

Dopo il 31 agosto del 1914 – termine perentorio di scadenza assegnato dalla legge Sacchi alla consegna del primo lotto di lavori –, la vicenda dell’Acquedotto Pugliese comincia a muoversi nella prospettiva indicata da Pesce: le inadempienze della società appaltatrice spinsero tutte le amministrazioni provinciali della Puglia a chiedere al Governo di attivarsi per affidare allo Stato sia il compito di portare a termine i lavori inerenti alla rete idraulica sia la gestione dello stesso Acquedotto.

 

( Questo passo estratto da N. Fanizza, Piero Delfino Pesce e la rinascenza mediterranea nel centenario della rivista Humanitas (1911-1924), Edizioni Giuseppe Laterza, Bari, 2011 ci ricorda come le attuali lotte per difendere l’acqua pubblica abbiano dei precedenti storici.G.M.)

Professional killer

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di Mauro Baldrati

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Il ragazzo è entrato alle 18 in punto. Ha richiuso la porta con gesto misurato, preciso. Si è girato verso il tappeto e ha camminato nella mia direzione. Si è fermato a tre metri da me, con le mani giunte, la testa chinata.

“Amituofo” ha detto.

“Amituofo” ho risposto.

Mi ha guardato, serio, con le braccia lungo il corpo. In attesa.

Il ragazzo è giovane. Ha diciotto anni appena compiuti. Ha scelto di andare avanti nel percorso di formazione, di diventare un novizio. Alto, magro, sentivo la sua agilità, tutta la sua tensione. Sentivo la sua giovinezza che scorreva nei nervi, nei muscoli. La vedevo, la sua giovinezza, mentre li faceva vibrare. La sua giovinezza mi colpiva. La sua giovinezza mi feriva. Avrei voluto schiacciarla, distruggerla.

La sua giovinezza mi offendeva.

Dopo due minuti di silenzio assoluto gli ho parlato con voce secca, tagliente: “non sei che un povero, piccolo illuso.”

Il ragazzo è rimasto perfettamente impassibile, con gli occhi che continuavano a fissarmi, fermi, decisi.

“Tua madre era una prostituta. Non si sa chi era il tuo vero padre. Quell’idiota che ha finto di allevarti chissà da quale fogna è sbucato.”

Il ragazzo non si è mosso. Studiavo le sue mascelle, per scoprire se i muscoli avevano una contrazione. Ma nulla alterava i lineamenti tesi, immobili, del suo giovane viso.

“Quell’uomo, il buffone che chiamavi papà, è un buono a nulla, un ubriacone, un fallito. Tua madre lo ha preso con sé per fargli lavare i pavimenti, come suo servo. L’ha preso per portarselo a letto, quando non era troppo sbronza.”

Guardavo le sue mani, per sincerarmi che le dita non si stringessero a pungo, con le nocche che diventavano bianche. Ma le sue mani non si muovevano. Le dita erano leggermente piegate, col medio che sfiorava il pollice, nella posizione giusta.

“A letto, tua madre e il tuo cosiddetto padre dicevano: ma quel deficiente, perché l’ho generato? Ci causa solo noia, solo problemi. E’ un peso morto, un teppista, una zavorra inutile. Speriamo che si tolga dai piedi presto, quell’idiota.”

Gli occhi. Solo gli occhi per un breve attimo si sono ristretti. E forse le labbra hanno avuto un fremito. Allora ho capito che era il momento. Con un balzo in avanti ho fatto scattare una sventola con la mano destra. Il ragazzo si è spostato all’indietro, mentre le mie dita gli sfioravano il naso. Si è bloccato in posizione Kai-Li-bu, gambe divaricate, piede destro leggermente avanzato, le braccia in posizione di guardia. Sono partito con un calcio sinistro, poi in sequenza un destro, un sinistro e ancora un destro. Il ragazzo arretrava, rispondeva con un calcio al mento, un diretto al tronco. Tutti schivati. Mi sono lanciato con la gamba sinistra tesa, puntando al petto. Sono atterrato alle sue spalle, dopo che si era scansato con una torsione a destra. L’ho aspettato, girato di fianco, le mani a taglio perpendicolari, il piede puntato come un cuneo, pronto a fare leva. Ho continuato ad attaccare con raffiche di calci sferrati da fermo, in movimento e in volo. Ha evitato ogni colpo per almeno venti minuti, durante i quali ho attaccato senza posa, pur facendo attenzione a non colpirlo. La sua testa rapata mandava riflessi mentre la punta del naso e le sopracciglia spruzzavano gocce di sudore.

Infine mi sono lanciato in avanti e gli ho stampato un calcio col collo del piede sul plesso solare. Ho cercato il contatto medio, anche se colpendo in volo non era possibile un controllo totale dell’impatto.

Sono atterrato sul tappeto. Col colpo di reni sono balzato in piedi. L’ho guardato mentre, piegato in due, in ginocchio, si sforzava di riprendere il fiato.

Nessuno avrebbe potuto parare quel colpo. Neanche un maestro. La progressione, la velocità e l’esatta posizione lo rendevano assoluto. Non modificabile.

Si è rialzato. Si è rimesso in postura eretta, con una smorfia. Era pallido, ma il colore tornava rapidamente a diffondersi sul quel viso spigoloso.

“Sei stato bravo” ho detto, riprendendo fiato a mia volta. “E veloce. Molto veloce. La tua velocità di reazione è notevolmente migliorata. Perché la tua velocità nasce dalla quiete. Hai messo a frutto questo insegnamento, che è uno dei fondamentali.”

Il ragazzo non ha commentato. Respirava profondamente, con le narici dilatate e la bocca chiusa.

“L’unico difetto che ho riscontrato è la tua tendenza, che ancora non è risolta, a tenere le braccia troppo distese. Come sai, il braccio disteso è più vulnerabile, perché offre le vene.”

“Sì, Maestro Wu” ha detto il ragazzo, senza abbassare lo sguardo.

“Inoltre il braccio disteso non ti permette di caricarlo di tutta la potenza di cui disponi. Perde elasticità. E’ un oggetto rigido che si scarica sulla colonna vertebrale. Devi lavorare sulle braccia.”

“Sì, Maestro Wu.”

Ci siamo fissati per circa tre minuti. Senza parlare.

“Cos’hai provato mentre ti insultavo?”

Il ragazzo ha fatto un respiro profondo guardando un punto alle mie spalle. Poi ha abbassato gli occhi. Ha fissato il tappeto con la testa leggermente inclinata.

“Rabbia ” ha detto.

“Sì” ho detto. “Che tipo di rabbia?”

Mi ha guardato mentre un velo di tristezza scendeva nei suoi occhi, rendendoli vitrei.

“Rabbia. Un aumento del battito cardiaco. E la gola che si gonfiava.”

“Sì. E poi?”

“E poi ho pensato.”

“Hai pensato. Va bene. Cos’hai pensato?”

Il ragazzo esitava. Studiavo con attenzione le mascelle, le arcate sopraccigliari, il pomo d’adamo. Cercavo segnali di scatti nervosi. Scariche di tensione.

“Allora? Quali sono stati i tuoi pensieri?” l’ho incalzato.

“Ho pensato alla tua sventura.”

Un’allegria che sfiorava la felicità si è diffusa in me con un guizzo repentino. Lacrime leggere mi inumidivano gli occhi.

“Sventura?”

“Sì, Maestro Wu. Per l’oscurità che avevi dentro, che cercavi di riversare su di me.”

Ho lasciato che la mia bocca si allungasse in un sorriso. Gli ho permesso di osservarmi mentre sorridevo. Mentre gli dimostravo la mia soddisfazione.

E la mia gratitudine.

“L’hai pensato veramente? Oppure hai cercato di applicare alla lettera l’insegnamento del Buddha: Mi ha insultato! Mi ha colpito! S’è approfittato di me! Mi ha derubato! Quando smetti di tormentarti con questi pensieri l’astio riesce ad andarsene”?

“L’ho pensato davvero. E mentre ti guardavo il cuore ha rallentato e la gola si è rilassata.”

“Allora hai pensato anche col cuore. Hai capito che devi essere grato al tuo nemico, perché ti aiuta a capire. Ti offre la sua sfortuna, ti permette di rimanere calmo, di non sentirti migliore di lui. Il tuo nemico è prezioso.”

“Sì, Maestro Wu.”

“Ti aiuta a capire che l’insulto non esiste. Che non ha alcun senso. Perché è lui che ferisce se stesso, con la violenza che lo consuma.”

Il ragazzo aveva il volto rilassato, finalmente. La pelle era distesa, la sudorazione aveva ammorbidito lo strato superficiale. La ventilazione aveva reso di nuovo limpidi gli occhi.

“Hai visto come il tuo nemico spreca le sue risorse in attacchi inutili mentre tu elabori strategie di difesa. E se attacchi, lo fai unicamente per fermare la sua aggressione.”

“Sì, Maestro Wu.”

Ho unito le mani con le palme aperte, chinando il mento in segno di saluto.

“Vai, ora. Stanotte mediterai con posizioni semplici di Rou-quan, pugno morbido, fino alle ore due. Alle ore cinque sarai qui, per un’altra seduta. Pugilato con contatto medio, per lavorare sulle braccia. Tecnica del Sud.”

“Bene, Maestro Wu.”

Si è girato. Ha camminato con passi elastici fino alla porta. E’ uscito senza girarsi.

Ho guardato la porta chiusa, col cuore allegro. Il ragazzo ha fatto progressi. Ha imparato a controllare la rabbia, a renderla produttiva con le tecniche di difesa. Ha imparato a pensare anche col cuore superando la mente disgiunta, che inganna e confonde. E ha imparato a controllare la verità. Perché la verità può ferire. Può distruggere.

Perché ciò che gli dicevo nell’insulto, sulla sua famiglia, era la verità.

La sua verità.

E anche la mia.

(questo è l’incipit del thriller letterario, come lo definisce il prefattore Alan D. Altieri, “Professional Killer”, di Mauro Baldrati, Anordest, pag. 304, € 13,90)

Per una poesia irriconoscibile

21

9[Questo testo è apparso sul numero 32 di “alfabeta2” di settembre-ottobre, in un dossier dedicato alla poesia contemporanea, con interventi di A. Cortellessa, M. Giovenale, M. Manganelli, C. Petrollo Pagliarani.]

di Andrea Inglese

C’è qualcosa di così palesemente inattuale nella figura del poeta da renderla nonostante tutto ancora allettante e carismatica. Nessuno sa più bene cosa farsene, ma sembra impossibile rinunciarvi una volta per tutte.

da “mimetiche”

1

Eugenio Lucrezi Kafka UNO - LUMINOSITA' 19 CONTRASTO ZERO-1 di Eugenio Lucrezi

 

l’amica di kafka / dal castello

 

Un saluto da Brescia

 

Tu non  sai cosa dico, ti avvicini

in maniera sbagliata: hai corso troppo,

avanzi troppo il passo, la fatica

che fai l’ha resa vana

Tu se sai dire dillo: 27-28 settembre e 2-3 ottobre a Milano

2

TU SE SAI DIRE DILLO

Seconda edizione

27 – 28 settembre e 2 – 3 ottobre 2013

PROGRAMMA

 

tu, se sai dire, dillo, dillo a qualcuno.

Giuliano Mesa

Due capitoli

4

di Francesca Fiorletta

Da More uxorio, inedito.

 

2.

L’amore sterile si fa di sabato.
Nadja, dovresti saperlo. Anche senza convivenza passano gli anni sterili. Mancano i soldi. Manca la volontà. Nadja, no certo, non a te.
Nessuno di questi è il tuo caso

-per me, il divertimento è sempre quello di montare gli spazi.

Ecco il mio amore fuori campo, che vuole farmi bere tutto il suo privato.
Una voce nel mio campo, gli spazi che monta sono i miei, e non c’è più alcuna traccia di blu, fra di noi. Non c’è freno, ormai, siamo un andante libero, già occupato. Già arredato da altri. Quanti spazi ci restano, ancora? Quanta sofferenza.
Ma devo trattenere il fiato, trattenere l’attenzione.
Ecco il caso di Nadja, allora, invece: lei è feconda, maturata giovane regina. L’andamento medio delle vite premiate e scialbe, diciamo del sabato, non la sfiora. Subisce solo a tratti una lieve battuta d’arresto. Noli me tangere. Questo è quasi un assioma inalienabile, insindacabile, osceno. Nadja è al posto di blocco.
Perché non vai a una manifestazione di bandiere no-tav, coi cobas del latte e l’aria fritta palpeggiata sui tram in sciopero? Sì, adesso, proprio tu.
Il rilassamento è un mestiere per i giorni feriali, e lei non si rilassa mai, mangia una foglia d’insalata a pranzo e una noce di cocco a cena.
Nadja, dai, prendi una granita, anche se piove.

-Guarda fuori!

Per una volta.
Dice che sta bene così, lei, che deve dimagrire, anche se porta la taglia trentotto, le calano di dosso le tette. Ha il cuore di giada, si veste come sua cugina delle medie. Porta addirittura i tacchi a spillo, talora, continua a ripetere che sta bene così, che deve essere alla moda.
Se ne va a spasso col tempo, taglia i riflettori, di sguincio. Non l’arresti nella sua follia, puoi solo accarezzarla, piano. Puoi solo rivolgerti a lei in falsetto, coi nomignoli più astrusi.
Che le vuoi bene, e tanto, pure se ormai hai paura a stringerla, che ti scricchiola con le nocche in mezzo ai gomiti: Nadja, sei una lucertolina.
Ma se glielo dici forte lei s’inorgoglisce, mette il musetto da cerbiatto.
Ti risponde:

-Lo so

Con un aspetto malaticcio e compiaciuto, chissà per cosa, poi.
Piagnucola. Si finge triste. Si finge grassa.
Ma dentro pensa:

-Sia mai, domani mangio un’unghia…

Si guarda addosso:

-Quanto pesa un’unghia?

Nadja è una contabile umorista.

-Allora non prendo l’ascenore

Questa storia sembra già in battuta d’arresto. Caduta, da libera. Pura fonte di libertà.

-Bisogna scremare le contingenze.

Mi dice l’altra voce, in arresto libero. Uno spazio che avevo provato a montare, tempo fa, per rifuggire alla noia. Uno spazio che m’è diventato faro, fondamento.
Ma forse è una battuta anche questa, una bagattella, che si fa lieve e impercettibile, talvolta. Che poi ritorna forte e chiara, nelle cene di birra, davanti alle edicole musicali. Una voce che continuo a sentire a sbalzi, dalle gallerie di un treno, lontano, vicino. Che prima era la voce personalissima di qualcuno, e adesso è già assaggio di qualcunaltro.
Tante voci continuano a deconcentrarmi. Devo riprendere l’attenzione.
Questo mi capita, anche in coppia di bicchieri.

-Ma tu no, tu mi lascerai, tu sei fedele.

Il termine fedele mi ha sempre turbato, non l’ho mai capito fino in fondo, che vuol dire, essere fedeli, credenti, democristiani, affiliati, mafiosi, seguaci, fedeli.
Mi piaceva ancora pensare che sarebbe stata sufficiente una novella intimità, una gioviale empatia lacustre e senza vomito, a preservarmi dalla noia.
Ma Nadja, che è sempre stata previdente, aveva detto già tutto in merito:

-Lascia perdere.

Le coppie novelle, però, quelle senza il sidro di mele, guarda caso, solo questo sanno fare, non sanno dare ascolto, mai. Sanno morirsi addosso, invece, in malo modo, e nemmeno troppo rapidamente. Quelle coppie, meglio ancora se di sabato, al calar della sera, sono sempre pronte a cinguettare, fornicare, eiaculare, brindare, gozzovigliare, sperimentare, ad appendersi, ad arruffarsi, a leccarsi, a succhiarsi, loro, noi, a strariparsi gli argini a vicenda, a lussureggiare.
Si dice: amarsi.
Amati, Nadja!
Bisogna amarsi. Amarsi, semplicemente.
Quante volte t’è capitato, Nadja? Una sola volta, dici davvero? Una sola volta nella vita poter stare così, disagiati, con semplicità? Sarà forse troppo poco.
Sarà stata solo una strana forma di reattività alla fortuna.

-Quante volte t’è capitato?

C’è chi ama tante persone diverse, a tutte le ore del giorno e della notte. Che bel coraggio, che ci vuole, eh? Che bella fatica dell’amore che è. Matrimoniale.
Più spesso ancora, però, capisci al volo quando quel primo vezzeggiativo, l’ardore erotico, il comico, il farlocco blues, inizierà a sembrare esaurito.
Ma riprendiamo l’attenzione.
Nadja al confronto sembra sempre impeccabile, è brava, anche se piove. Forse cerca solamente qualcosa da fare, di sabato. Vuole riaffermare la sua forte intimità di coppia, a dispetto delle assurde brume già marcate. Vuole riaffermare se stessa, forse prima davanti agli altri, davanti a me, dopo i pasti, in differita stereo fm.
Hai un concetto d’intimità davvero forte, Nadja, dovresti sposarti.
Nadja, così intima d’amore. Sei tanto intima di un amore così distratto, così diverso dal mio. Di quell’amore che non è mai stato incongruente, inaspettato, vitale. Questo lo penso io, d’accordo.

-Lo capisci, il perché?

Lo sai già, del tuo blu d’amore. Io che posso dire? Che ho sbagliato anche la centrifuga. E adesso non so proprio come farò, a ristrutturare tutto. Quanti modi esistono? Per me uno solo.

-Dobbiamo stare qui sempre, a farci la tara?

Mi dice la mia voce spaziale. Non dobbiamo, è il tuo spazio. Questo è lo spazio di Nadja, invece. Devo rimanere attenta, attenta.
Nadja riesce persino a superare i muri, riesce a superare tutta l’acqua che c’è, che viene giù. Mangia una piuma di cuscino e poi spacca cento, mille muri. Li attraversa, li comprime, li sfalda. O almeno vorrebbe.
È per questo che bisogna formalizzare. Le unioni.

-Tu vivi sull’uscio

mi ha detto la voce del treno, ieri sera, con la luna calante, in faccia.

-Cerca prima di decidere se vuoi entrare o no, almeno.

Nadja, tu sì che vuoi, invece. Vuoi eccome, e allora smettila, una buona volta, di fingere di essere povera, e smetti anche di lagnarti della tua indigenza d’indivia fuori orario.
Io, intanto, smetto di deconcentrarmi:

-Come l’hai ricevuta, la proposta?

Ma che cos’è che vorresti davvero, intimamente? Che cosa ti aspetti, allora, da tutto questo giro in chiave di sol?
Nadja non risponde, mai. Di getto.

 

9.

Nadja, eccolo qua il problema.
Ecco quello che serve. Serve un piano. Serve un piano d’azione incongruente, allora, serve un piano che funga bene da specchietto per le allodole, come fosse un ricordo fattivo degli avvenimenti mai avvenuti.

-Come fai tu.

Come una rarefazione di fatti poco concreti, troppo miopi per dire dell’indicibilità, sono troppe le talpe onanistiche per un futuro senza regole.
Nadja è sregolata, non è abbastanza ritagliata, pareva talmente bella questa storia, che è diventata una sorpresa! È sospesa, invece, è vilipesa in rappresaglia. È il mosto tumido della negazione occipitale, Nadja d’incanto. Lo schianto frontale, l’endemica autocoscienza, l’automa in proiezione. È la riappropriazione indebita di tutte le esistenze altrui che si svelano poi troppo vicine alle proprie.
Inizio a sospettare del niente, a seguire la logica dell’irreparabile, del dubbio. Bisogna utilizzarli i superlativi, o no?
Va ridotto l’uso dei superlativi.

-Scremare le contingenze.

Mi resta una Nadja col dubbio.
Il sospetto è una zona fissa, è infilzato dietro agli infissi opachi e ormai appannati, lerciati, sbertucciati di una Nadja senza vento. Dietro agli infissi divelti, con le squame farraginose, senti com’è chiara la fanghiglia puzzolente dopo lo scroscio del temporale.

-Allora, ha smesso?

Che poi è l’allagamento semantico, questo. È un vero e proprio tzunami cognitivo, come si fa a dire dell’io e del tu, e di Nadja tutta intera, stesa a terra tutta bagnata, nella pozza.

-Ma dove devi andare?

Resta con me.
Che si possa o non si possa parlare di tutto, che si debbano stilare liste e piani di studio, si sa, l’azione è sempre retroattiva, non è mai un vero organo di progresso, la scrittura.
Nadja è un gradiente d’intensità lasciato a macerare insieme alle rane bianche, coi girini, quegli occhi di fuoco chiusi nei barattoli del contrattempo. È una facezia, è la giocoleria, il mistero buffo del burlesque. Burla, si burla.
Nadja è burlona. Sine ira et studio. È senza peso. Taglia trentotto meno un chilo. Si spoglia piano nel sollucchero oltraggioso del Vetril, la soluzione al metadone plusvalente, l’ipercorrettismo mediatico. Scioglie da sola l’atarassia dei ghiacciai, scava il gelo onnipresente dentro le ossa e dentro la testa, fino all’ipofisi, nella noce del collo.
Nadja è la mandorla bovina, il dente aguzzo da regina della notte a far da reggicalze.

-Ormai siamo arrivati a un punto morto.

Serve un aiuto dalla regia, chiama il portatore di caffè, col mantello rosso a Cinecittà, tieni all’erta i bastoncini appesi del Mikado, mica solo schiamazzi e grida, mica solo bombole a gas, senti lo strepito notturno che si concepisce a tavolino, di giorno, sotto alle lampade al neon. Insieme. Alogena è l’attesa, febbrile la rinuncia.
Ma la ricomprensione, come si fa, la ricomprensione?
Rimane solo da concentrarsi. Ancora un poco.
La pressurizzazione dei cuscini, delle coperte e dei piumoni sottovuoto d’intensità. Lo scandaglio dell’abisso ci lascia uno scafandro come ricompensa. Ci vuole una ricompensa, ci vuole. Ci vuole un prima, un oltraggio. Ancora meglio, una coltre.
Stringiamoci nella forte ondata del dire e non dire, sapere e non sapere, l’afflato dell’amore, come si fa, come non si fa… Sei fritta Nadja, hai l’ affitto sistematico.
Allora:

-Come si fa l’amore?

Si mangia, s’inginocchia, si scopa, si sublima, si materializza, si spoglia, si suda, si spera, si spende, si spendono i giorni a pensare all’amore, si spendono le vite, i lavori, i trasporti, si spende la morte a pensare all’amore quanto dura, all’amore che per sempre si sposa.
Si sorseggia, si indugia, si colora, si testimonia, si lecca e si lascia piangere, si fa ridere, zitto e muto, il mutismo d’amore, un mutuo indotto, l’amore mutuale, mutuato dalla casata dell’incognito, del più vero che vero, le ignobili verità infilate al dito e lucidate, tutte arredate, calendarizzate, partorite e snaturate, poi, subito dopo.

-Serve sempre un piano.

Ancora per poco. Rimani attenta, concentrati. Sta finendo tutto.
L’amore che snatura si scrive e non si scrive, una predisposizione, dicono, la suggestione immateriale, che non è ancora un cromosoma in potenza, è un alterco in tromba di prisma, un’ altalena volontaria, ma… stiamo sbagliando qualcosa.
C’è un fatto che ti sciacqua, ti affanna e ti sospira, ti scoraggia sempre, ti opprime, ti ribalta, vedi le luci, ti disavanzi, e finisci a riempirti d’altro, di coito, il raccolto, il viaggio mancato, la mancanza di noi.

-Ma dove sei finita?

Tutto si scongiura e piano piano, senza tema, ci si sposa. L’amore in rosa. L’amore in forma di cosa. Cosa rara, e bella, e santa, e sana. Giusta cosa l’amore della famiglia, degli amici, dei cani e dei gatti, l’amore della battaglia, del segreto, un mistero misterioso. Poi viene l’amore del non dolore, l’inconveniente.

-Che cos’è Nadja?

Nadja si indovina, e basta.
Nadja mi racconta di credere negli oroscopi.
Cieca, subisce il potere misterico dell’astrologia. Per fallire e rimodularsi serve il fallico vuoto di senso della predizione. Perduta di senno, Nadja allora si concentra. Rinviene l’olfatto, si riappropria del tatto, sfodera il gusto, con l’orrore nell’ardore, nel carnaio udibile tutto l’edibile è sorgivo, per ogni plausibile inganno, Nadja è come un dirigibile narcolettico a vista, supino di una svista fuori orbita, di una subissale panacea decostruttiva.
La ricostruzione è metastorica, sempre. La ricostruzione è una redistribuzione ellittica.
Nadja, ti prego, concentriamoci!
Sempre empirica per difetto di empietà.

-Facciamo il gioco della mascolinità?

Ma è solo una beffa! Nadja mi guarda fisso, è tersa.
Si dispera fissamente, con la mente occupata, ha gli occhi sgombri, la lingua che è un pantano, lingua di platano, catino in fiore. Svende lo stomaco in allerta, con la gamba che ossessiona e punge da basso, punge sempre dove preme e fa più male.
Trema con la coscia ricurva, che imprime i suoi ticchettii volubili alle nervature di legno scuro di una sedia di cucina, blu cobalto, blu acquamarina, impernia piccole scosse moleste, scosse endemiche, epidermiche, laviche, sismografiche, cola giù giù, che scende fino al pavimento maculato, che brutto.

-A macchia di leopardo si disperdono le energie!

Si irrigano le energie tra i cunicoli osceni delle mattonelle di flanella, il grigio talpa dellemacchie, la scatola flambé, l’Hermitage, il Sunset Boulevard e l’oriente dissidente.
Nadja c’è stata.
Nadja non ha mai fame.

-Ma dove sei?

Adesso Nadja è assente.

-Stammi un po’ a sentire.

S’agita per gradi, ma di un tremore non suo, quasi fosse un’ansia astrale, una tecnica da perito industriale saraceno, la saliva oscena sul far della sera. Adesso vuole alzarsi, vuole alzarsi da questa sedia e vuole farlo subito. Nadja bisciattola. Fai la pipì a letto, copri bene il divano fumé. Adesso vuole aria, vuole bere, vuole fumare. Adesso vuole scopare, vuole piangere, vuole vomitare, vomitare e rigettare, vuole epurare e assatanare, assaggiare e rastrellare tutto, sempre tutto, anche il lutto, tutto fuori.

-Liberi tutti!

Immantinente, l’intimità, con la pistola giocattolo del tenente, le bolle di sapone a forma di sciroppo nuziale, la torta rosa con gli sposi dipinti sopra, in plastilina d’art decò.

-Tenetela ferma!

È un tratto distintivo, è un tratto di penna, questo, è un’impennata cospicua di pennuti rovesci, diretti da uno stormo che ammassa, che insidia e devasta la festa.
Lei che sbeffeggia, che lambisce il nubifragio. Che defeca sul bustrofedico viandante.
È un’agnizione cacofonica, l’antilirica è slabbrata.
È il pescatore errante, il barocco rococò nel vernissage della grazia pensante.
Il collirio persistente l’hai già dato alla Vergine Maria, Nadja, quello che resiste agli urti e che non macchia.

-E tanti cari saluti a vossìa!

Mandami una cartolina dal campanile.
Lei che fremita e fermenta, che gorgoglia d’insicurezza ma non smette di ondeggiare. S’agguanta alla mia coscia con la coscia, tutta sudata e spasmodica e appiccicata.
Nadja è l’aria, è il pomeriggio, e adesso è di nuovo tutto buio, è come l’alba.
Piove.
Faccio le prove di Nadja.

-Bisogna darsi forza.

Tocca singhiozzare il suo racconto mano a mano, tutta satura di segreti, con la mano nella mano, senza smettere. Per darsi forza basta bere un bicchiere, basta spogliare una finestra e masticare l’aria, una mandibola fina fina, imprecisata, una coltre imprescindibile di vuoto e di dentro, il senso e l’inverso. Come un inverno plausibile e doloroso, è ancorata all’immagine di un mare concettoso, alla primavera dei sensi, al risveglio dell’autunno in fiore, aspetta ancora, c’è il melone, il melograno lascivo d’agosto, ci sarà persino l’arrosto al buffet, tutt’in piedi, schiena dritta, gran battage. Non smette più di darsi la forza, da fuori.

-Ti puoi rilassare, adesso.

Come miete furori, lei che getta via i colori del dissenso. Una politica corretta. Ha invertito la rotta, ormai è cotta, è amara, è sinestetica e ridondante. Ma adesso basta, Nadja, dai.
Basta con questo fallo imperante, basta con questa dialettica del fare e avere, mai, sempre terza è l’insipienza del non dare.

-Non lo dire!

Non lo spiegare mai il perché, sei tu quella che legge gli oroscopi.
Sei quella che strizza gli occhi, che si mordicchia un labbro, che miagola su una sedia da cucina, che dipinge tende alle finestre, che vola oltre la terrazza, sulla città.
Nadja è ormai sotto coperta. Del segno della bilancia.
Ma quanto sei bella, oggi. Ti brillano le orecchie.

-Ho detto forse. È complicato.

Bevo io, beve lei. Come al solito.
Mi guarda come se fossi una creaturina spaventata, mi vede neonata, si ricorda di me all’asilo, più di quanto farebbe una madre, mi pensa pulcino, si sente chioccia.

-Quand’è che diventerai grande?

Si preoccupa per me, nel suo mondo tutto chioccia. Nel suo mondo di scale a croce, manca ancora la toppa. Io che non varco l’uscio, per rispetto.

-Ma perché?

Continuare a farsi male, come se fosse l’unica soluzione plausibile. Continuare a dirsi addio, sotto i portici assolati.
Cambio discorso, non mi sembra il momento.
Guardo i pacchi sparsi in corridoio, i vestiti per terra, i libri in valigia.
Poso il bicchiere, non sento quasi più, dalle tonsille.
Nadja mi si avvicina, tenera.
Si ricorda di non essere troppo dura, con me.
Si ricorda che a parlare troppo ci si fa anche male.
Stavolta mi dice solo:

-Fai la brava.

Teatro Valle: una fondata occupazione

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Di Valerio Cuccaroni

Sono tra i 5.300 soci della “prima istituzione del comune”: la Fondazione Teatro Valle Bene Comune, nata dopo 27 mesi di occupazione dell’omonimo teatro, collocato nel centro storico di Roma, a due passi da piazza Navona, e presentata in conferenza stampa giovedì 18 settembre.

Radio Kapital: Sergio Bologna

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Banche e crisi ( 2013, Derive Approdi)

dal petrolio al container

Prefazione

di

Sergio Bologna
Quando Marx inizia la collaborazione con la “New York Daily Tribune” è alle prese con la prima stesura di quel nucleo d’idee che sarà sviluppato nei tre libri de “Il Capitale”. E’ un magma incandescente che prende forma pian piano, alimentato più che dalle conoscenze e dalle riflessioni sedimentate negli anni precedenti, dalla realtà di tutti i giorni dell’innovazione capitalistica. Non sappiamo come definire questa coincidenza. Un caso o in realtà non si tratta di coincidenza ma di genesi? Marx si è costruito propri schemi di lettura ma la realtà superava la sua immaginazione e lo aiutava a perfezionare i suoi schemi, a renderli più sofisticati, più calzanti. Mi è sembrato utile, quando scrissi questo saggio qui ripubblicato, capire meglio cosa stava accadendo in quel momento nel mondo, alla metà dell’Ottocento, piuttosto di scavare nell’intimità del processo di pensiero di Marx. Era cominciata la seconda rivoluzione industriale, non era una cosa da nulla, si stava facendo il passo decisivo verso la creazione di un mercato mondiale. Si agiva su due piani: sul piano immateriale, con la moneta, con la finanza, e sul piano fisico, con le infrastrutture, con i mezzi di trasporto.

La forma ‘società per azioni’, le banche d’affari, nascono per realizzare queste infrastrutture fisiche, il Canale di Suez, le reti ferroviarie, i porti. Uno dei principali partner finanziari dei fratelli Péreire, grandi protagonisti degli articoli di Marx per la ”Tribune”, è quel De Ferrari a cui si deve il lascito che ha permesso di costruire il porto moderno di Genova. Uno dei principali partner finanziari di Lesseps, non a caso da lui nominato Vicepresidente della Compagnia del Canale di Suez, è quel barone Revoltella al quale si deve la prima impostazione “logistica” del porto di Trieste. Grazie a lui la prima nave che attraversa il Canale è una nave partita dal porto di Trieste e battezzata non a caso il “Primo”. Nel ricostruire la storia economica di quegli anni ero guidato da un gigante della storiografia, David S. Landes, autore di uno dei più bei libri di storia mai scritti, quel Bankers and Pashas che riacquista oggi grande attualità con il protagonismo finanziario degli emiri del Golfo. Ma non mi bastava conoscere meglio la storia che Marx aveva sotto gli occhi e quindi, con il senno del poi, scoprirne altri aspetti a lui rimasti oscuri o ignoti, avevo bisogno di capire meglio quel che stava sotto i miei occhi. Non era concepibile, e non lo è per me nemmeno oggi, prendere in mano un testo di Marx senza essere immediatamente attratti dalla curiosità di capire ciò che succede intorno a noi in modo da verificare fino a che punto funziona lo schema interpretativo che Marx ci offre. Perché funziona sempre, in maggior o minor misura.

piacentini

L’articolo su petrolio e mercato mondiale per i “Quaderni Piacentini” è parte integrante della lettura di Marx. Era stato preceduto da due altri articoli, sempre sui “Quaderni Piacentini”, riguardanti il Piano Chimico, un episodio non secondario della politica industriale italiana, quando ancora si faceva una politica industriale. Mi sembrava un esempio calzante di applicazione di quel concetto di “rivoluzione dall’alto” che Marx aveva cercato di definire negli scritti di quegli anni, nei Grundrisse e negli articoli per la “Tribune”. Coincidenza volle che nel ’73 scoppia la crisi petrolifera e allora quegli articoli mi appaiono in tutta la loro importanza. Altro che lavoretti per tirar su un po’ di soldi! Sono linee di lettura della realtà che permettono di capirla, di capire cosa ci sta sotto, né più né meno che “Le lotte di classe in Francia”, sono strumenti di una potenza interpretativa che regge benissimo anche oggi e che la ricerca storica successiva ha convalidato. Il fascino di quegli articoli sta anche nel semplice fatto di essere scritti da un tedesco allora non particolarmente famoso, costretto anzi all’esilio, per un giornale americano, come se il pensiero rivoluzionario fosse già in grado di avere un’estensione adeguata al mercato mondiale e i collegamenti tra gruppi e movimenti avessero già un campo d’azione intercontinentale. Le biografie di quelli che furono i primi “rivoluzionari di professione”, proletari come Weitling, sarto di mestiere, o di altri come lui, ci raccontano di uomini che si muovevano, per amore o per forza, da un paese all’altro. E questo orizzonte internazionale bisogna sempre tenerlo presente quando si legge Marx.

Non so quanto valgono oggi questi miei scritti del ‘73/’74, può darsi che siano da buttare nel cestino. Ma quello che sicuramente è ancora valido è il metodo che avevo seguito nell’avvicinarmi a quei temi: per leggere Marx occorre avere una forte tensione politica sul presente. Per leggere Marx occorre avere una forte partecipazione politica nelle lotte del presente, Marx non è roba per contemplativi, mistici e altre categorie affini. O per imbecilli (una quota non irrilevante di “marxisti” appartiene purtroppo a questa categoria). Per leggere Marx non occorre essere marxista, anzi è meglio non esserlo, occorre avere libertà di pensiero, tanta. Non avere pregiudizi, non avere schemi di pensiero predefiniti, non avere ideologie. Lui ti insegna a capire la ratio invisibile che sta dietro alle cose, non ha la pretesa di spiegartele. Ti prende semplicemente per il braccio e ti dice: “Vieni qua. Mettiti qua e alza gli occhi, guarda da questo angolo visuale”. Ti mette semplicemente nel punto giusto di osservazione e ti dice: “Da qui io vedo questo. E tu?” Non è prescrittivo, è maieutico.

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Io venivo dagli anni 60, dal maggio francese, dalle lotte dei tecnici, dagli scioperi selvaggi alla Fiat, e non avevo intenzione di tirare i remi in barca, volevo creare uno strumento di ricerca che contenesse, come programma, i valori espressi da quei movimenti di massa. Non volevo essere un intellettuale “organico”, ma volevo dimostrare di saper usare gli strumenti di lavoro degli intellettuali, in particolare gli utensili di uno dei mestieri cognitivi più belli e affascinanti, quello dello storico, per poterli usare in maniera diversa. “Militante” la chiamammo allora, Primo Moroni, Bruno Cartosio, Franco Mogni, Giancarlo Buonfino ed io, facendo sorridere di commiserazione gli storici accreditati e ancor più gli aspiranti tali. Così nasce la rivista “Primo Maggio”, il saggio su Marx appare, in forma ridotta, sul numero uno e apre un filone di ricerca che avrebbe fatto strada, quello sulla moneta. Lapo Berti, Andrea Battinelli, Franco Gori, Christian Marazzi, Marcello Messori, Serena Di Gaspare, Mario Zanzani ed altri raccolgono il testimone. Avevamo trent’anni, avessimo saputo che 35/40 anni dopo la finanziarizzazione avrebbe raggiunto il grado di mostruosità di oggi! Ancora una volta la realtà ha superato l’immaginazione. Noi a rivisitare con cautela Bretton Woods e quelli a preparare una bolla che vale undici volte il PIL mondiale! Siamo stati ingenui? Sì, ma alzi la mano chi è stato così “scafato” da capire tutto in anticipo.
Diciamo allora che questa riedizione di vecchi testi serve solo a far capire oggi quanto fossimo ingenui allora? Per questo sfizio valeva la pena mangiarsi i soldi per la stampa? Eh sì, perché non sono affatto convinto che fossimo tanto ingenui e sprovveduti e per dimostrarlo ho voluto inserire due testi scritti oggi. Parlano del presente, di cose che tutti hanno sotto gli occhi e tutti possono giudicare se il modo in cui le interpreto è così superficiale o ingenuo o “ideologico”. Non ho adottato un diverso schema di lettura da quello che mi è servito per lo shock petrolifero, non mi sono messo da un angolo visuale diverso. Certo, non ho alle spalle anni di lotte ma sei lustri di lavoro nel settore, perlomeno posso dire che parlo con un’esperienza personale sul gobbo, mentre di petrolio ne sapevo poco o niente oppure quel poco che mi capitava di sentire alle riunioni del Comitato di lotta dell’ENI o Collettivo della Snam Progetti (tra l’altro, se non ricordo male, fu grazie a questi compagni che potei accedere alla biblioteca aziendale dell’ENI dove trovai molti materiali indispensabili alla stesura del saggio, gli altri li trovai alla biblioteca dell’USIS di Milano). Ho scelto d’inserire questi due saggi, scritti ora, sullo shipping e sui porti perché parlano anch’essi di mercato mondiale (oggi chiamato ‘globalizzazione’), di mezzi di trasporto, di infrastrutture e di banche, parlano dell’ultimo capitolo di quella storia cominciata con i fratelli Péreire e così lucidamente analizzata da Marx. Allora c’era da tagliare l’istmo di Suez, oggi si allarga il canale di Panama, allora il compito di rastrellare capitali presso le corti e le cancellerie d’Europa era svolto da spregiudicati banchieri d’affari, oggi il compito di racimolare soldi presso piccoli risparmiatori e di spennarli con investimenti sbagliati è distribuito tra una miriade di società finanziarie protette dallo Stato. Su questi temi ho chiesto a Gian Enzo Duci, giovane Presidente degli Agenti marittimi genovesi e docente all’Università di Genova, di scrivere qualcosa anche in contraddittorio con le mie opinioni. Lui è uno del mestiere, che sta dentro le cose, un operatore, non un osservatore esterno come, malgrado tutto, sono io. Ma ha sempre dimostrato interesse per quello che scrivo, pronto a rimettere in discussione qualche sua opinione consolidata e io ho imparato parecchio da lui. Lo ringrazio di aver accettato.

Mi si può dire che dietro i miei scritti di allora c’era l’offensiva operaia, era quella che mi dava la credibilità. Mi si può dire: “il valore delle tue analisi non era dato dal metodo o dall’ispirazione marxista, bensì da una congiuntura di particolare contestazione del sistema capitalistico. Oggi chi lo contesta? Oggi dove sono le lotte operaie? Oggi dov’è la classe operaia? Proprio tu con i tuoi scritti sul postfordismo ci hai riempito la testa sul tramonto della classe operaia!”
Un momento. Sarà finita la classe operaia come soggetto politico importante, ma non la forza lavoro da cui estrarre qualcosa che avevamo chiamato plusvalore. E poi chi vi dice che la lotta operaia nelle sue forme tradizionali è estinta? Proprio lo sciopero dei portuali di Los Angeles del dicembre 2012, di cui parlo nel secondo dei due scritti, dovrebbe far riflettere, soprattutto per alcune sue modalità non meramente “difensive”. Dalla California l’agitazione nei porti americani si è estesa alla costa orientale ed è andata avanti per mesi. Il 28 marzo di quest’anno sono entrati in sciopero i portuali di Hong Kong ed hanno tenuto duro per un mese, accampandosi davanti ai terminal, così, senza una dirigenza sindacale, senza un comitato di lotta formalmente costituito. E se qualcuno avesse la pazienza di seguire le riviste di settore dei trasporti che informano settimanalmente o giornalmente su quanto succede nel mondo, si accorgerebbe che la conflittualità nei porti, negli aeroporti, sulle autostrade, sui traghetti, nelle piattaforme logistiche, è molto elevata, senza confronti con gli altri settori industriali o commerciali. In questo filone s’inseriscono anche i due scioperi generali, ben riusciti, indetti dai Cobas nei magazzini e nelle piattaforme della logistica in Italia nei primi mesi di quest’anno 2013. Non si tratta soltanto di “segnali” ma di una condizione strutturale propria di un settore dove lo sciopero, ancora, per ragioni tecnico-organizzative, può “far male” e dove la forza lavoro ha ancora un potere d’interdizione quasi intatto. Non è fantascienza dire che uno sciopero dei trasporti e della logistica bene congegnato, anche con poche forze, può mettere in ginocchio un paese nel giro di un paio di giorni.
Trasporti e logistica non li ho scoperti adesso o quando, espulso dall’Università, mi sono messo a fare il consulente. Erano già un tema all’ordine del giorno della rivista “Primo Maggio”, che nel 1978 pubblica un articolo sulla storia del container e nello stesso anno un intero Dossier sulle lotte nel settore dei trasporti di merce. Un secondo Dossier della rivista sarà dedicato alla moneta. Finanza e trasporti, i due filoni del discorso di Marx negli articoli per la ‘Tribune’, ci hanno dettato l’agenda.
Non c’è molto altro da dire. Spero con queste righe di aver dimostrato che i saggi qui pubblicati, benché i loro titoli possano far pensare il contrario, non sono scollegati tra loro, anzi, per certi versi sono interdipendenti. Il che non li rende migliori ma almeno fa capire benissimo l’autore da che parte sta. “Dalla parte del torto”, direbbe Piergiorgio Bellocchio, che con Grazia Cerchi ha fondato e diretto i “Quaderni Piacentini”, una splendida rivista, dove l’intellettualità italiana ha avuto, per un ventennio, modo di riscattarsi.

Albert Camus, une valse à trois temps. Milosz, Micromega e Berardinelli (secondo tempo)

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di Francesco Forlani

(la prima parte è qui )

Guardo la copertina e penso come abbiano fatto a pubblicarla senza incorrere nella censura dei non fumatori. A Sartre la sigaretta l’avevano tolta da un manifesto, in Francia, qualche tempo fa e a Camus sarà di certo successa la stessa cosa, in questi anni.  Et pourtant, ceci n’est pas une pipe, questo non è una pipa, per dirla con Magritte. Quanta intolleranza degli ex fumatori nei nostri confronti, simile a quella degli ex intellettuali di sinistra verso quelli che si ostinano a definirsi, ancora e malgrado tutto, tali!

Quando ho avuto notizia del numero 6 di Micromega, intitolato L’intellettuale e l’impegno, mi sono subito immaginato il fuoco di fila che avrebbe suscitato, l’impazienza compiaciuta con cui i soliti franchi tiratori, ex fumatori, si sarebbero sfregati le mani prima di imbracciare la penna e sistemare il mirino ad altezza bocca. Ne ero certo perchè la mia generazione, ovvero quella degli anni ottanta, nel suo autodafè linguistico, la prima parola che ha eliminato è stata proprio quella: impegno. Alla parola intellettuale ci avevano pensato quelli prima, molto prima.
A tal proposito vorrei riprendere un passaggio di un post scritto qualche tempo fa proprio su Nazione Indiana a proposito dell’incontro tra Albert Camus e Dino Buzzati.

L’unico ad aver colto l’anima di Albert Camus in una fulminante quanto appropriata descrizione è stato Dino Buzzati, quando raccontando (in Cronache terrestri) l’incontro con lo scrittore francese, lo descrive così:
“Grazie a Dio non aveva una testa da intellettuale, ma da sportivo, chiaro, da uomo del popolo, solido, ironico, con bonomia, in un certo senso un viso da garagista.”

che nella traduzione francese diventa:

“Grâce à Dieu, n’était pas celui d’un intellectuel pourri, mais plutôt celui d’un sportif, clair, populaire, solide, ironique et plein de bonhomie, peut-être: une tête de garagiste”

Cherchez l’erreur

Mi soffermo su un particolare, un dettaglio assolutamente non trascurabile. L’italiano intellettuale viene tradotto con intellectuel pourri (marcio), e mai come in questo caso il traduttore ha centrato in pieno il significato. Perché il significato che la parola intellettuale ha in italiano è proprio quello. Dire intellettuale a qualcuno, in Italia, equivale a dire ladro, anzi peggio, perché almeno un ladro se le sporca le mani! In Francia la parola intellectuel incute rispetto, trasmette un valore, e forse da un dettaglio del genere si possono spiegare tante cose sulla differenza tra noi e loro, sul fatto, per esempio che lì, Riforma e Rivoluzione ci sono state mentre da noi soltanto Controriforma e Restaurazione. Tanto per dire.

Questa premessa mi sembra necessaria per capire come e perché l’attenzione rivolta da una delle storiche riviste della sinistra italiana all’affaire non può che essere salutata con entusiasmo e insieme preoccupazione. Entusiasmo perché nella Novlingua contemporanea del nostro paese di queste parole non ne esiste nemmeno più la traccia, figurarsi allora le pratiche che le due sottintendono, intellettuale e impegno. O forse esistono e nessuno lo sa?

E preoccupazione perché in realtà sembra che quelle due parole si siano tramutate e fissate nella loro forma plurale: intellettuali e impegni, tantissimi tra un convegno e l’altro, un festival e un assegno di ricerca spesso scoperto. Preoccupazione perchè si ha come l’impressione che non solo ci si debba rivendicare come intellettuali ma che addirittura si debba ricordare l’impegno come se si potesse essere tali senza “onorare il debito” l’in – pegno che l’etimologia ricorda. In francese non cambia molto la cosa. Engagé significa mis en gage, dato in pegno appunto au mont-de-piété e qui vi risparmio la traduzione. L’impegno allora è un debito verso qualcuno, qualcosa e un altro motivo per cui vale la pena procurarsi questo numero è nell’identificazione di quel chi, di quel cosa, che di volta in volta ognuno degli interventi prova a mettere in chiaro.

Ho chiesto allora a Micromega l’autorizzazione a rendere disponibile l’editoriale di Paolo Flores d’Arcais  (dal link è possibile scaricare il pdf ) per i nostri lettori.  Editoriale che pur non condividendone alcuni passaggi mi è apparso illuminante. Nei commenti spero possa nascere una discussione, un dibattito, (ah il dibattito, surtout pas,  tradotto, per carità)  e insieme l’occasione anche  per me di spiegare perché abbia letto con grande interesse gli interventi  di Stuart Hall, La nascita della New Left, (magnificamente tradotto da Jamila Mascat), quello di Gianni Vattimo, di Carlo Freccero , Il creativo, intellettuale del futuro, Ermanno Rea L’intellettuale cittadino, Camilleri e Adriano Prosperi, Intellettuali o clown. Quest’ultimo lo cito anche perché, facendo di recente una ricerca proprio su Albert Camus di cui esiste un bel dossier con inediti dell‘intellettuale e un’intervista a sua figlia Catherine, a cura di Andrea Bianchi, sono incappato in una nota che Hannah Arendt scrisse proprio a proposito di Sartre e Camus.

S’intitola, L’esistenzialismo spiegato agli Americani (mia la traduzione dal francese)

(Nel 1946, Hannah Arendt (1906-1975) offre ai lettori del settimanale The Nationn la presentazione di una filosofia che fa furore oltre oceano: l’esistenzialismo francese. )

[] I filosofi diventano giornalisti, drammaturghi, romanzieri. Non si tratta di universitari, ma saltimbanchi che vivono negli alberghi e trascorrono il loro tempo nei caffè,  conducendo una vita a tal punto pubblica da rinunciare a qualsiasi privacy. [] Se la Resistenza non ha provocato la  rivoluzione in Europa, sembra avere innescato, almeno in Francia, una vera e propria ribellione intellettuale, il cui sottomettersi alle regole della società moderna è stato uno degli aspetti più tristi di quel triste spettacolo che ha offerto l’Europa tra le due guerre. [

per poi concludere, poco dopo, scrivendo:

Pour Camus, l’amour est une tentative maladroite et désespérée de briser l’isolement de l’individu. […] 

Per Camus, l’amore è un tentativo maldestro e disperato di infrangere l’isolamento dell’individuo.

 

 

 

 

Emergenza, raptus e delitto passionale

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> Tavola rotonda sulla costruzione mediatica del femminicidio in Italia <

Domenica 22 settembre ore 10.30 presso la Sala Berti del Nuovo Cinema Nosadella a Bologna si svolgerà, nell’ambito del festival internazionale di cinema lesbico Some Prefer Cake, la tavola rotonda “Emergenza, raptus e delitto passionale” sulla questione, oggi più che mai attuale, della rappresentazione e costruzione mediatica del femminicidio sui media italiani.

Alla tavola rotonda, organizzata da Fuoricampo e Comunicattive, parteciperanno Elisa Coco di Comunicattive, Anna Pramstrahler e Cristina Karadole della Casa delle donne per non subire violenza di Bologna, curatrici del blog Femicidio, Barbara Spinelli dei Giuristi Democratici, Barbara Romagnoli della rete nazionale delle giornaliste unite libere autonome Gi.U.Li.A., Enrica Tullio e Chiara Rossini di Un altro genere di comunicazione e le attiviste del collettivo femminista e lesbico Quelle che non ci stanno.

Indypendentemente: Remy Gastambide

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Su Repubblica di oggi, Vittorio Zucconi intitola il suo articolo: Vietnam, ultima missione, i reduci americani a caccia dei figli perduti. A quarantanni di distanza dagli accordi di pace di Parigi del 17 gennaio 1973 che di fatto posero fine all’intervento americano, va detto. Remy Gastambide, che presenteremo a Torino il 26 settembre prossimo, ha un’altra storia da raccontarci. effeffe

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Gli amerasiatici del Vietnam
Bui Doi- Polvere di Vita
di Remy Gastambide
traduzione di Chiara Lasagni

Mi chiamo Rémy Gastambide. Sono nato in Vietnam, durante la guerra, da una relazione tra un soldato afroamericano e una donna vietnamita, entrambi a me sconosciuti. Gli Amerasiatici sono i figli illegittimi nati durante la guerra americana in Vietnam (1965-1975). Chiamati dai Vietnamiti “bambini misti” (Con Lai) o, più comunemente, “polvere di vita” (Bui Doi)*, e dimenticati dai loro padri americani (se questi non erano già morti…),conducono un’esistenza assai dura, come paria della società vietnamita. Le loro madri vietnamite, per coloro che ne hanno ancora una, sovente si vergognano nei confronti dei propri compatrioti, capita che siano prese per “ragazze facili” o per ex-prostitute.
Gli illegittimi che hanno avuto la sfortuna di nascere neri soffrono ancora di più. Così come i loro padri di colore nelle forze armate statunitensi, essi sono vittime dell’odio razziale. Tutti sperano un giorno di poter andare negli Stati Uniti e di raggiungere quel padre da loro idealizzato: un sogno utopico di una vita migliore in questo paese che è stato così crudele nei confronti dei loro antenati d’Africa. Ma il paese dei sogni può diventare per loro un vero incubo.

remy bassa 2

Sono ritornato in Vietnam per la prima volta nel 1991. Ho potuto constatare il discredito di cui questi bambini, divenuti giovani adulti, sono fatti oggetto. Sento l’amarezza, la rabbia di questa indicibile angoscia. E capisco la loro “vergogna di vivere”. Ho voluto condurre questo saggio di ritratti fotografici nel quadro di uno spirito di compassione. Questo lavoro rappresenta la mia lotta contro l’oblio e il dolore; mi aiuta nella ricerca delle mie radici. Io mi sento il portavoce di questi Amerasiatici che mi vedono come “uno di loro”.
Noi Amerasiatici apparteniamo alla storia di questa guerra a causa della quale noi siamo nati. Noi siamo i veri perdenti di una guerra che né gli Americani né i Vietnamiti sono riusciti a vincere. Noi siamo divenuti una razza dentro la razza vietnamita, un gruppo etnico distinto ma senza coesione, un prolungamento di quel famoso melting-pot americano disperso nel sud-est asiatico.

* “Polvere di vita”: malgrado l’aspetto poetico di questa metafora, il suo impiego nel linguaggio parlato traduce il disprezzo e l’esclusione.

locandina  bassa remy

Su “Scuola di calore”

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di Giuseppe Montesano

Fa caldo, e in un Paese abituate alla menzogna come a un cilicio, fa sempre più caldo di quanto dicano i rassicuranti telegiornali, e nel caldo sto leggendo libri di poesia chiedendomi se la poesia serva. Sfoglio, leggo, sonnecchio, sosto, mi sveglio, rileggo Scuola di calore di Massimo Rizzante, 108 pagine pubblicate da effigie, e mi rispondo che no, la poesia non è utile, è indispensabile.

I desideri e le masse. Una riflessione sul presente

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[Invito alla lettura di un saggio importante di Guido Mazzoni, che è apparso oggi sul sito “Le parole e le cose”.]

I desideri e le masse.

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Verso una letteratura generale? Riflessioni a margine del progetto Ex.it.

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[Premetto che queste riflessioni nascono da un’adesione e una partecipazione all’incontro e al volume di cui si parla.]

di Andrea Inglese

Queste note non hanno come scopo di definire i contorni di un progetto ampio e ambizioso, come quello ideato da Marco Giovenale, Mariangela Guatteri, Giulio Marzaioli e Michele Zaffarano. Tale progetto ha un nome, Ex.it, e ha già preso consistenza attraverso tre giornate di incontri ad Albinea (12–14 aprile 2013) e un libro di 249 pagine, che raccoglie i “materiali” grafici, fotografici e testuali dei 33 autori coinvolti.

Il gusto pieno della vita

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di Helena Janeczek

Domenica novembrina da queste parti. Una piccola risata cattiva non può far male

Due bambini belli e biondi, un cane di razza, una grande automobile, un tailleur con camicetta. Solo un dettaglio rivela che lo spot è molto vintage. Un cellulare preistorico pende dal collo della Donna Perfetta cui, estatico, l’intervistatore chiede di raccontare una giornata tipo.