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un buco nella rete

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Quando i gioielli sono discreti: per un’estetica della vulva

di
Marilisa Moccia

Chi avrebbe mai pensato ad una estetica della vulva? Eppure, la sempre maggiore esposizione cui sono sottoposti gli organi genitali, di qualsiasi sorta di esposizione si tratti, sembra proprio aver fatto nascere l’esigenza di una vagina che è chiamata a rispondere a rigidi dettami di bellezza come estrema pratica igienica. Via tutti i peli, per lasciar vedere più dettagli e soprattutto via le piccole labbra troppo lunghe e pendenti si ricorre infatti alla chirurgia estetica per aggiustare le imperfezioni di una vulva “in disordine”, dalle labbra troppo lunghe o irregolari. Il diktat estetico imposto dall’industria del porno a cui molte donne si rifanno, e rifanno, seguendone gli stilemi, anche il look alla propria vagina, impone che la vulva debba, insomma, somigliare sempre più a quella delle bambine, glabra e nelle cui grandi labbra tutto possa racchiudersi e nulla fuoriuscire. Le pratiche di bellezza di repressione autodisciplinante approdano all’autolesionismo. Il corpo è consacrato nella sua astrazione asettica, quasi asessuata.

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In passato, fatta eccezione per Courbet, a nessuno interessava cosa ci fosse là sotto. Nel Rinascimento non esisteva un termine anatomico per descrivere nei particolari il sesso femminile. La vagina veniva percepita come una variante rovesciata del sesso maschile, composta dagli stessi organi ma disposti in maniera differente. E se fino all’avvento massiccio dell’immagine pornografica la vagina era relegata  “là sotto” come una questione poco interessante se non nella sua funzione di “buco” (nei porno degli anni 80 il pube è peloso), adesso tutti sanno come è fatta e in cosa differiscono le une dalle altre. L’invasione delle immagini ha sdoganato il processo di un’operazione di giudizio e paragone che ciascuno può operare tra ciò che si possiede e ciò che appartiene agli altri. Esibizione d’altronde rima con inibizione.

Il problema però non è il porno di per sé ma il modello di identificazione che dalle immagini scaturisce nella spettacolarizzazione della vulva, poiché come ci ha insegnato Debord «lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra individui, mediato dalle immagini». La novità di questi ultimi anni è che l’identificazione, processo rimasto per anni appannaggio maschile, ora sta cedendo lo scettro (per restare in tema di simbologia fallica) al gentil sesso. Per le donne il problema dell’identificazione è forse maggiore rispetto agli uomini. Non c’è molta possibilità di confrontare la forma della propria vulva con quella delle altre donne, data la conformazione anatomica,  mentre per i maschi il rapporto di paragone è molto più naturale e quotidiano, si pensi alle docce dopo le partite di calcetto. Ciò sta a significare che l’unica occasione data alle donne per vedere altre vagine è soltanto quella dell’immagine pornografica.

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In Australia è nato un blog , in cui sono state raccolte foto di vulve inviate da donne da ogni parte del mondo. La maggior parte di esse ringrazia per aver posto l’attenzione sull’argomento poiché non immaginavano che l’irregolarità delle loro labbra fosse “normale”.
Così, al ritmo crescente del 20% ogni anno, sempre più donne, nell’occidente lontano dal fantasma dell’infibulazione, ricorrono a interventi di labioplastica. A sentire i medici che pubblicizzano da youtube con una certa nonchalance e compiacenza i prodigi del bisturi corregge l’ipertrofia delle piccole labbra “fastidiose perché non consentono di indossare biancheria intima”, viene veramente da chiedersi: sì, ma chi l’ha deciso che sono troppo lunghe? I commenti ai video si dividono fra quelli di alcune donne che trovano assurda la pratica chirurgica e le “estasiate”, tra cui alcune che chiedono se è possibile farsi praticare la labioplastica pur essendo minorenni. Il target è nettamente diviso in fasce d’età: fra adolescenti disposte alle pratiche narcisistiche più estreme e le loro “sorelle maggiori”, formatesi evidentemente in un clima ancora post sessantottino secondo cui la legittima riappropriazione del corpo rispondeva a pratiche secolari di oscurantismo.

Liberati i corpi dalle censure interiori, è cominciata la loro colonizzazione. Nel 1970 Baudrillard scriveva «occorre che l’individuo si assuma lui stesso come oggetto, come il più bello degli oggetti come il più prezioso materiale di scambio, perché si possa istituire al livello del corpo distrutto, della sessualità distrutta, un processo economico di redditività»
Ciò che sembra essere accaduto negli ultimi anni è un mutamento del narcisismo che non risponde più ad una logica diretta: IO  CORPO, ma è diventato indotto: DIKTAT DELL’IMMAGINARIO SOCIALE  IO  CORPO, in cui il soggetto non è altro che un mediatore/esecutore ed ha il compito di agire per modificare e uniformare. Il paradosso della labioplastica è che standardizza i genitali esterni rendendoli simili a quelli degli altri mammiferi, le piccole labbra sono infatti il tratto distintivo della specie umana. Viene da chiedersi se, prima di vedere il video, prima che la figura del chirurgo genitale contribuisse alla costruzione di una doxa estetizzante, qualcuna di quelle donne che richiede per sé l’intervento di labioplastica si era mai posta il problema dell’eccessiva lunghezza delle proprie labbra.
Troppo semplice chiamare in causa la violenza simbolica e il dominio maschile, le donne imitano le donne o meglio, «si dà da consumare la Donna alla donna», la questione si fa più sottile e al contempo più sfuggente. Le pratiche narcisistiche paiono rispondere ad una sola logica: quella del capitale, non un capitale economico, ma un capitale estetico che potrebbe essere così formulato: il mio corpo vale le cure che gli propino.  Il taglio delle piccole labbra rientra allora in un – assurdo –  processo di capitalizzazione del corpo. Le labbra vengono immolate in nome del dio dell’estetica, del capitale estetico supplementare, che a quanto pare diventa più potente addirittura del piacere. Tagliare una parte delle labbra, ricche di terminazioni nervose e vasi sanguigni, vuol dire, infatti, ridurre inevitabilmente la porzione di superficie sensibile.
In quest’ottica la presenza dell’altro da sé lungi dall’essere sminuita, si rafforza: l’altro non è più qualcuno con cui condividere il piacere erotico ma lo spettatore di un corpo monadico, sempre più individualizzato, che basta sempre più a se stesso.
Poco male, dunque, se i “gioielli” sono bruttini e discreti, li si può sempre depilare, impreziosire con Swarovski (altra pratica che sta prendendo piede), trasformare chirurgicamente. Il fine ultimo non ha nulla a che vedere col potenziamento del piacere che dovrebbe essere il solo a interessare un sano rapporto col proprio organo genitale. Cosa resta allora della libera fruizione del corpo e del proprio piacere se non appena la vulva è stata liberata subito le si è costruito intorno una gabbia di costrizioni estetiche? Sembra che il concetto di “corpo” si sia evoluto secondo una parabola che va dal narcisismo alla medicalizzazione. Il corpo è diventato un feticcio che richiede un continuo intervento di manutenzione fatto di diete, fitness e autodisciplinamento. Il medico è colui che supervisiona l’operato dell’individuo e coopera al suo miglioramento e alla sua trasformazione estetica.

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L’epoca moderna, che ha avuto il grande merito di liberare l’uomo dalla superstizione e da quella che Bauman ha definito «perdurante influenza della tradizione», ha formulato una religione del corpo, una sua sacralizzazione che travalica i confini dell’amor proprio trasformandosi in un amore malato che giunge fino alla nevrosi, all’autolesionismo, alla mutilazione.

Assoluzione

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FLANERY_assoluzione1 di Gianluca Veltri

Orfano di genitori terroristi che si batterono contro l’a­partheid, Sam Leroux è un ricercatore che riceve l’inca­rico di scrivere la biografia della celebre scrittrice Clare Wald. Per lui, che vive da anni a New York, è l’occasione per tornare in Sudafrica nei luoghi natali, e per incontrare la narratrice i cui libri da ragazzo gli hanno fornito una mappa di se stesso. “Ho cer­cato di scordare i motivi per cui sono partito, tutta la storia della mia vita che ho lasciato alle spalle, ma continua a tornare, come una malattia cronica”.

Tra la vecchia scrittrice e il suo biografo c’è una vicenda irrisolta che rimbomba tra loro, un catalogo di rimorsi, come si scopre negli ambigui anfratti delle rispettive riflessioni. Nelle scatole narrative di cui si compone il romanzo Assoluzione di Patrick Flanery (Garzanti, 408 pag., trad. di Alba Bariffi), una si riempie del racconto di Sam, a Città del Capo (e poi a Johannesburg), i suoi incontri con la scon­trosa Clare, la scrittrice che lo riceve per i colloqui utili alla biografia: lei lo misura, quasi lo mettesse alla prova. Ripercorrendo i luoghi che lo videro bambino, Sam tenta di ridare volto ai genitori uccisi nel 1988 da un ordigno che forse avrebbero dovuto utilizza­re, davanti alla centrale di polizia di Città del Capo.

Un altro anfratto di questo romanzo polifonico è dato dal punto di vista in soggettiva di Clare, dalla ricostruzione dei fatti che l’hanno segnata durante il passato malato del suo Paese, e per i quali oggi chiede una “assoluzione” laica. La scrittrice è convinta di essere stata responsabile dell’assassinio della sorella Nora, sulla sponda politica opposta alla sua. Nora, con la quale i rapporti erano diffi­denti, scelse l’establishment, sposò un uomo di apparato. Clare era invece su una sponda liberal che strizzava l’occhio a movimenti radicali. Nora e il marito furono assassinati.

Un segmento centrale del romanzo è poi costituito dai diari della figlia di Clare, Laura: la catena che tiene stretti in un abbraccio muto la scrittrice e il ricercatore. Laura si diede alla lotta armata, conobbe i genitori di Sam, visse in clandestinità, poi sparì senza che di lei si sapesse più nulla. I quaderni, ultimo documento della sua vita, sono giunti fino alla madre. I taccuini di una donna brac­cata, quasi certamente morta dopo torture atroci, risultano il terzo punto di vista delle vicende, in queste vie dei canti che si intreccia­no e si contraddicono. “Ci sono segreti che rimangono sepolti nella storia di questo paese”.

Anche se il regime di segregazione razziale è terminato, anche se ha operato la “Commissione per la verità e la riconciliazione” (che non ha riabilitato Laura), la ricomposizione dei frammenti è tutt’altro che realizzata. Sia nella società, solcata da un senso di paranoica protezione e sospetto, sia nella ricostruzione delle vite singolari. Laura aveva scelto di porsi oltre le regole, perché le regole erano sbagliate. Ma anche lei stava dalla parte sbagliata. Clare sa di avere deluso la figlia, perché, pur condividendone i presupposti politi­ci di partenza, non le ha rivelato, quando ancora la storia poteva prendere un’altra piega, quanto fossero simili. Da vent’anni sogna l’agonia della figlia. Anche per questo, chiede oggi “assoluzione”.

Sebbene sia vittima della storia, anche Sam ha la sua dose di rimozioni per cui chiedere clemenza. Il confronto tra lui e Clare è una partita verso la resa dei conti, nessuno dei due svela le parti più segrete di sé: eppure Sam ha abitato nei libri di Clare in cerca di indizi, allo scopo di trovare la chiave di un’infanzia martoriata; e Clare ha davanti quel bambino orfano e sa che anche a causa sua ha deluso la figlia scomparsa.

Senza speranza di perdono da parte dei morti, restano, in un ro­manzo ricco e brillante, le compensazioni della storia (ingannevo­le), le deformazioni e gli adattamenti della memoria, l’innocenza, le complicità.

(pubblicato su Mucchio selvaggio n. 711 – Ottobre 2013)

Lombroso senza l’apostrofo

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Da “il Reportage”, n.16, ottobre-dicembre 2013

L’ultima casa del dottor Lombroso
di
Juan Terranova
traduzione di Maria Nicola
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1.
Il Museo di Antropologia Criminale Cesare Lombroso dell’Università di Torino si trova in via Pietro Giuria 15. Condivide l’edificio, noto come Palazzo degli Istituti Anatomici, con il Museo di Anatomia Umana Luigi Rolando e il meno prevedibile Museo della Frutta Francesco Garnier Valletti. Quest’ultimo presenta una collezione di “migliaia di frutti artificiali modellati dall’eccentrico Francesco Garnier Valletti”. Il pieghevole promette “un tuffo nel passato”, oltre che “un’occasione per riflettere sul tema, attualissimo, della biodiversità”. L’ingresso ai tre musei del Palazzo degli Istituti Anatomici – quello della frutta, quello dei corpi e quello di Lombroso – costa 10 euro. Ogni mercoledì l’accesso è gratuito e l’orario è dalle 10 alle 18 tutti i giorni, tranne la domenica che è giorno di chiusura.

2.
Con i suoi soffitti alti e i colori ocra, elegante e austero, il Palazzo degli Istituti Anatomici ripete il gesto architettonico generale della città. Gli eccellenti e saldi pavimenti di legno così come l’accurata lucentezza delle vetrine accentuano l’atmosfera da gabinetto scientifico dell’Ottocento. Nell’atrio già si vedono alcuni ritratti di criminali eseguiti a matita. Poco più avanti, pagato il biglietto, si entra nella prima sala intitolata “Motori, farmaci, telefono, lampadine”, dove si assiste alla proiezione simultanea di una serie di filmati. Dagli schermi, due personaggi discutono del progresso. Il giovane è enfatico e convinto; il vecchio, scettico. Astuzia del curatore: in pochi minuti i responsabili del museo ci avvertono che per capire Lombroso, per capire quell’entusiasmo, occorre risalire a un’epoca di intensi cambiamenti. Un’epoca in cui, nel giro di pochi anni, si scoprono o si inventano l’anestesia, la genetica, il motore elettrico, il motore a scoppio, la lampadina, la radio e il telegrafo senza fili. E ciascuna di queste scoperte o invenzioni genera a sua volta o perfeziona una disciplina destinata a percorrere tutto il Novecento.
La seconda sala ci presenta qualcosa di più “anatomico”. Uno scheletro completo ritto dietro un vetro saluta il nostro ingresso. Sono le ossa dello stesso Cesare Lombroso, esibite per sua volontà. Che cosa significa essere ricevuti dai resti ossei del padrone di casa organizzati come se ancora potesse camminare? Questo fantasma ci dà il benvenuto in un luogo di scienza che è anche una tomba collettiva e un testamento pubblico. La sua presenza dimostra molte cose, alcune delle quali di così difficile interpretazione da sfuggire al visitatore e forse anche ai curatori, agli studiosi e allo stesso criminologo. Primo dato oggettivo: Lombroso era basso. Lungo di braccia, il suo scheletro ricorda quello di un primate evoluto. E, con buona approssimazione, dalle fotografie come dai ritratti, si può dedurre che fosse un piccoletto grassoccio, non certo un atleta.
Che altro? Cesare Lombroso nasce nel 1835 nel Regno Lombardo-Veneto, governato in quel momento da Vienna. Studia medicina a Pavia. Nel 1859 si arruola come medico militare e presta servizio nella seconda Guerra d’Indipendenza. Nel 1870 elabora la sua teoria dell’”atavismo criminale”, che stabilisce un nesso tra l’inclinazione al crimine all’ereditarietà. Sei anni dopo pubblica la sua opera di riferimento, L’uomo delinquente, e diventa professore all’Università di Torino. Nel 1898 inaugura il suo museo di psichiatria e criminologia. Nel 1904 abbandona il seggio di consigliere comunale della città di Torino e lascia il Partito Socialista. Lombroso, socialista? Il museo insiste parecchio su questo punto. “Progresso” e “socialismo” sono concetti suggeriti persino dalla sottile ed efficace illuminazione delle sale. La seconda stanza si intitola “Misurare, misurare” e mostra gli strumenti meccanici di cui il dottore si serviva per esaminare i suoi pazienti. Lombroso li usava con metodicità ossessiva, ma non li aveva inventati. Il “craniografo”, per esempio, è opera del francese Paul Broca. Ciò dimostra che la sua mania non era solitaria e che nel momento in cui lui intraprende le sue indagini vi era già un’attiva tradizione antica e moderna alla quale rifarsi. Una citazione del dottore accompagna gli apparecchi: “Per molti il progresso si riduce a certe macchine meravigliose come il telegrafo e il vapore. Per me, invece, il vero carattere che distingue la nostra epoca dalle epoche antiche sta nel trionfo della cifra sulle opinioni vaghe, sui pregiudizi, sulle vane teorie”.

3.
La terza sala del museo è ampia. Si intitola “Il mio museo” e occupa il centro indiscusso dell’esposizione. Vi si raccolgono tre tipi di materiali perfettamente esibiti. Da un lato ci sono “i corpi del reato”: una spaventosa collezione di pugnali, coltelli e strumenti perforanti; passepartout e grimaldelli; maschere e funi di diverse grossezze che furono usate per legare o per strangolare. Una grande stanga di legno biancastro, arma favolosa e primitiva insieme, presiede, eccezionale, la serie. Lombroso dice di voler combattere i pregiudizi e l’ignoranza. Di qui il valore dei “documenti”. Accompagnano queste prove materiali una trentina di maschere in cera che riproducono il volto di criminali morti in carcere. Donate a Lombroso da Lorenzo Tenchini, professore di anatomia all’Università di Parma, sono realistiche, volgari nel loro significato e raffinate nella fattura. Ciascuna accompagnata dalla sua etichetta – “Ladro italiano”, “Brigante”, “Stupratore”, “Assassino tedesco” –, riproducono nei particolari le fattezze di persone morte più di cent’anni fa e che pure non cessano di esistere in questa imperturbabile materia inerte. Che cosa direbbero queste copie se potessero parlare? Ma né le armi né le facce di lontani disadattati sociali possono rivaleggiare con le file di crani, un imponente monumento barocco fatto con le teste disseccate di, come minimo, trecento persone. Secondo una tradizione nella quale si inserì anche Leonardo da Vinci, che praticava autopsie alla luce delle candele e contro le leggi della Chiesa, Lombroso si spinse a depredare vecchi cimiteri abbandonati. Dall’azione delle armi alla mimesi statica della cera, per giungere, infine, alla sua biologica nudità, l’oggetto di studio del criminologo si moltiplica, soverchiante. Non sono cinque pugnali, sono trecento. Non sono dieci crani, sono seicento. Duplice brutalità, dunque, quella di questa sala centrale del Museo di Antropologia Criminale. In primo luogo, lungi dal denunciarla, essa accoglie l’evidenza di uomini e donne violenti capaci di uccidere servendosi di un lungo chiodo o di un coltello dalla lama finemente istoriata. In secondo luogo, la fredda scienza applicata a questi delinquenti li espone senza il beneficio di una santa sepoltura. Non c’è bisogno di pensare al mito, né ad Antigone. Qui è tutta un’altra cosa, ma che cosa? Qui la nostalgia per un mondo passato e saldo si mescola con la “sensibilità artistica” dell’esperto museografo addetto all’allestimento.

4.
Nella sala numero quattro si dà conto di un episodio centrale nella vita professionale di Lombroso. Intitolata “La rivelazione”, questa piccola stanza racconta la storia di una scoperta. Nell’agosto del 1864 il dottore esamina il cranio trapanato e vaporoso di Giuseppe Villella, un ladro condannato a sette anni di carcere e morto di scorbuto, solitario e maligno perfino nella sua reclusione. In quel momento, a cadavere ancora fresco, Lombroso non trova nulla. Ma sei anni dopo, “in una grigia e fredda mattina del dicembre 1870”, scopre nel suo cranio una fossetta occipitale mediana che aveva lo scopo di ospitare una parte del cervelletto. Così Villella – o per meglio dire il suo cranio – si trasforma nel paziente zero della nuova scienza che metterà fine al crimine. La microcefalia, che si riflette in quella cavità, era, secondo Lombroso, ciò che impediva ai delinquenti di sviluppare appieno le emozioni, togliendo loro la possibilità di lavorare e di vivere da onesti cittadini. Lì c’erano le prove. La scienza aveva parlato. E invece no. Un testo su un pannello si affretta a informarci che le misure e le forme del cervello sono variabili e che non esiste prova alcuna che possano determinare comportamenti delittuosi. Una frase fa da punto d’appoggio: “La scienza procede per errori”. Il senso di questa massima, la tranquillità che ci infonde, traballa un po’ quando scopriamo, subito dopo, tre modelli tridimensioni di piante carnivore. Nella sua ricerca di prove sull’atavismo, ovvero il ripresentarsi di caratteristiche evolutive superate, Lombroso giunse a collezionarle, quasi si trattasse di piante criminali, di esseri involuti, disfunzionali, sbagliati. I tre modelli aggiungono, da una teca, il giusto tocco fantascientifico al genere “giallo” cui il museo è consacrato. (…)

per continuare la visita si raccomanda vivamente la lettura su “il Reportage”

Il Nobel per la letteratura di quest’anno

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un accorato appello di Gianni Biondillo

In attesa del responso dell’Accademia di Svezia voglio dirlo, ad alta voce, senza peli sulla lingua: ma quale Nobel per la letteratura a Bob Dylan! Insomma, basta con queste frescacce. Possibile che dobbiamo sistematicamente sottostare alla logica dello star system?

Mai come quest’anno s’è fatto avanti nel nostro afflitto paese un nome che ci rappresenta al meglio, che ci rende orgogliosi e convinti della oculata candidatura (vorrei tanto conoscere il misterioso proponente, l’insigne professore, l’istituzione lungimirante).

Il nome di un autore, di un compositore, che ha saputo frantumare i muri dei generi artistici. Uno scrittore riservato, discreto, artefice di versi scolpiti nella memoria di tutti, capace di fare della poesia qualcosa che interessa tutti, non solo il piccolo, miope, circolino dell’intelligecjia nostrana. Qualcuno che ha da insegnare al mondo, Dylan compreso.

L’autore di rime alte, nobili, etiche. Roberto Vecchioni. Il mio candidato per Stoccolma.

In alternativa propongo Franco Arminio.

 

http://www.youtube.com/watch?v=DkpaI_2VtYQ

 

;-)

Ricotta calda

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di Margherita Carbonaro

RICOTTA

Questa sera andiamo a mangiare la ricotta all’agriturismo. La ricotta calda che evoca memorie di masserie antiche in mezzo ai carrubi e di massari con le mani callose. Per chi è troppo giovane per ricordare le mani callose dei massari, che ormai non ci sono più, evoca pure memorie di agriturismo.
Per andare a mangiare la ricotta calda bisogna compiere innanzitutto esercitazioni complicatissime di geometria pratica. Far sgusciare cioè le macchine, l’una dopo l’altra, fuori dalla stradina di questo nostro villaggio di cemento d’annata stretto fra la provinciale e il mare.

PMA

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di Fiammetta Cirilli

1.

L’errore è stato programmare la casa con la culla/senza culla, le tende solari, il bagno, la porta aperta contro sole: perché le bestie non friniscano, non finiscano bile e sangue sui vetri e non ci siano altri omicidi oltre i piccoli, contenuti nelle labbra.

Samir

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di Riccardo Ferrazzi

 Lo conobbi quando avevo i canini aguzzi e giravo per il Medio Oriente. Samir era un agente marittimo con gli uffici in due stanzette buie in fondo a un vicolo: non aveva bisogno di impressionare i clienti, preferiva disorientarli. Gli proposi di concorrere insieme a un appalto ad Alessandria d’Egitto.
Era un buon contratto, anche se sapevo che la burocrazia egiziana è intricata come il delta del Nilo e le pratiche finiscono sempre per incagliarsi in qualche meandro limaccioso. Non me ne preoccupai: in un modo o nell’altro ero sicuro di cavarmela.
Vincemmo la gara e aprii il cantiere. Ma i pagamenti non arrivarono. Ogni fine mese prendevo l’aereo e andavo a trovare Samir: tiravamo le somme del dare e dell’avere. Lui mi guardava da dietro le ciglia socchiuse, in silenzio. Io sorridevo e lo invitavo a cena.
Quando si era trattato di preparare l’offerta aveva tirato in lungo per due settimane: prima era sparito, poi aveva preteso referenze e affidavit, e infine aveva sfoderato un’infinità di obiezioni, una più capziosa dell’altra. Non sapevo più cosa pensare. Sospettavo che avesse concluso un accordo sottobanco con la concorrenza e stavo per mandarlo al diavolo. Poi, di punto in bianco, avevamo cominciato a lavorare in pieno accordo.
Capii che tutti quegli indugi gli erano serviti per studiarmi. Samir, un omone dalla pelle scura e dai lineamenti negroidi, voleva sentirsi ispirare una fiducia che andasse oltre la stima e che si arrestasse solo sulla soglia dell’amicizia: valutava l’uomo che aveva di fronte e prendeva i suoi rischi. Chissà se esiste ancora gente come lui.
Due anni prima c’era stata una guerra. Non era durata molto, ma aveva ridotto l’Egitto in pessime condizioni. E negli ultimi tempi Samir sembrava l’immagine dell’Egitto perché era ammalato e lo sapeva. Una mattina trovai un telex sulla scrivania, e fu così che lo seppi anch’io: a Samir restavano poche settimane.
***
Sbarcai al Cairo in una sera d’aprile rossa ed estenuata come gli ultimi bagliori di un incendio. A Beirut, in quei giorni, si sparava nelle strade e Zurigo era piena di libanesi. Ma erano i miei anni corsari: avevo nella pelle un mal d’Africa che non era nostalgia di un luogo in particolare, era una frenetica attrazione per gli aeroporti, per le camere d’albergo, per tutto ciò che sapeva di provvisorio.
All’aeroporto del Cairo non feci caso al sudiciume, al fetore di urina fermentata, alle attese senza spiegazioni. Ormai ci avevo fatto l’abitudine. Come sempre, ai cancelli di imbarco per Jeddah, Riyad e Dharan, bivaccavano squadroni di manovali in ghellabeia, con la testa coperta da luride sciarpe arrotolate. L’Arab Contractors li strappava alle campagne e li sparpagliava nei campi petroliferi del deserto arabico. Qualcuno faceva bollire l’acqua per il the sui fornelli a spirito, altri dormivano rannicchiati su una fila di sedie, altri ancora guardavano nel vuoto, fissi e imbambolati, con l’espressione di chi ha messo il futuro nelle mani di Allah. E tutt’attorno c’era la sinfonia del vociare arabo, che ha la monotona uniformità e gli scoppi cacofonici di un’orchestra che accorda gli strumenti aspettando l’entrata del Maestro.
Aid, l’autista, aveva poche novità. No, i pagamenti non erano arrivati. Sì, Samir stava per lasciarci: ormai non usciva più di casa.
Dai finestrini aperti entrava aria tiepida, densa come brodo. Sfilammo lungo un viale fiancheggiato da ville liberty sepolte nella polvere e nella sporcizia. In vista della Cittadella il tramonto proiettava le ombre dei minareti fino alle cupole della Città dei Morti. E quando la collina fu alle spalle ci ritrovammo in mezzo al caos e al lerciume cairota. I bar rigurgitavano sulla strada una umanità in ciabatte e ghellabeia seduta a fumare sudici narghilè; le macellerie protendevano sulla strada ganci da cui pendevano pezzi di carne sommersa dalle mosche; e centinaia di storpi si trascinavano in mezzo al traffico urlando suoni gutturali contro gli ululati dei clacson; e le vie erano ingombre di gente, di autobus stracolmi, di camion che cadevano a pezzi, di carretti, asini e dromedari; e sui marciapiedi ragazzini armati di canne sottili spingevano avanti in fila indiana bufali magrissimi, con le ossa in rilievo sotto la pelle floscia.
Poi la strada si avvitò in ampi tornanti su per un’erta bianca di calce. In cima, con un brusco passaggio, venne avanti il deserto, e con il deserto il silenzio. Aid guidava e taceva. Se fosse stato solo avrebbe preso la strada del delta, piena di villaggi dove ci si può fermare, bere un the, fumare in pace una sigaretta. Sapevo cosa gli passava per la testa. Gli arabi odiano il deserto, gli europei ne sono affascinati. Ma gli europei sono pazzi.
Il sole era caduto dietro l’orizzonte, eppure il crepuscolo non finiva mai. A poco a poco, la luna in cielo aveva preso a splendere fino a incendiarsi come il faro di Alessandria. Il deserto cambiava continuamente, con infinite sfumature di grigio che affondavano dentro a voragini buie e risalivano lungo creste metalliche come lame di falci.
Ore e ore di riflessi e fuochi fatui, sigarette, colpi di sonno. E in fondo all’ultimo risveglio Alessandria, il mare, l’aria umida e salata.
***
Avevo davanti a me due giorni di lavoro e non volevo pensare ad altro, ma non potevo lasciare l’Egitto senza render visita a Samir. A meno che nel frattempo le cose precipitassero.
Già, e i funerali? Tappeti rossi, caffè amaro, la fila delle sedie, i parenti seduti con gli occhi bassi a spiare chi si alza per primo.
No, non potevo svignarmela: dovevo affrontare la situazione. Con quella spina nel cervello giravo per uffici, sbrigavo pratiche, battevo cassa. E tra un appuntamento e l’altro, nelle ore di anticamera, pensavo: che colore avrà la mia faccia quando andrò da Samir e gli dirò: “Prima di partire ho disposto un bonifico da Zurigo, i tuoi soldi sono in viaggio, dovresti riceverli da un giorno all’altro”? Se mi vedessi in uno specchio morirei di vergogna. Lui leggerà la menzogna sul mio volto, io vedrò la mia faccia nei suoi occhi.
Meglio la verità. Gli chiederò di aver pazienza.
Ma quale pazienza? Lui non ha più tempo. Mi griderà sul muso: voglio i miei soldi, voglio vederli qui con me come se fossero i miei figli, perché sono i MIEI.
No. Non si fa così. Andrò in casa sua, dirò le mie bugie e lui sarà contento. Farà finta di credermi. Fingerà anche con se stesso, perché non ha altra scelta. E io sarò cinico, crudele e sorridente.
***
Ogni tanto mi capita di svegliarmi al buio e mi pare di essere ancora là, fra le lenzuola umide, in una notte di odori e di suoni sconosciuti, in una Alessandria semplice e complicata dove la gente ti pianta addosso sguardi che forse non vogliono dire niente ma sembra che celino un segreto tragicomico, la soluzione di tutti i paradossi.
Ricordo una notte agitata, un risveglio a bocca amara. Altri incontri d’affari, e poi il pranzo con lo staff. Farli mangiar bene. Pagare il conto. E via, lungo la strada del delta, nella pianura dove immense vele bianche appaiono e scompaiono tra gli alberi e le feluche scivolano nei canali seminascosti, tra chiuse e ponti, casupole fangose e bufali accovacciati nella mota. E di nuovo Il Cairo, la periferia sbrindellata e puzzolente, i milioni di abitanti, i vicoli senza nome. E il Nilo, gonfio, enorme, il padre dei fiumi.
***
La casa di Samir era un appartamento pulitissimo, con la cera ai pavimenti. Lui mi ricevette in camera, ma volle alzarsi dal letto. Con fatica, avvolto in una candida camicia da notte, venne a sedersi in poltrona. Sul tavolino era già apparecchiato il the, con un vassoio di dolci e pasticcini.
Guardavo Samir e gli occhi non mi sembravano più i suoi. Aveva le guance cascanti. La voce si imbrogliava alla fine delle frasi come se gli mancasse il fiato in gola. Finse la più assoluta normalità, come se ci fossimo seduti al caffè per scambiarci notizie e pettegolezzi. Discutemmo di politica internazionale e del prezzo del petrolio. Assurdamente, sperai che si fosse messo il cuore in pace.
Non era così. Finimmo il the, fu portato via il vassoio, e Samir, parlando come se non attendesse risposta, incominciò la sua perorazione: il mio debito era scaduto e il mancato incasso gli procurava un certo numero di inconvenienti. Li enumerò con il tono svogliato di chi adempie a un dovere. Non importava, concluse. Lui sapeva di avere a che fare con un galantuomo ed era sicuro che presto avrei pagato.
Tutto qui, un discorsetto pieno di decoro e signorilità. Appoggiò le mani sui braccioli e si affaccendò ad alzarsi per tornare a letto. Ma quando fu in piedi si voltò, come se avesse dimenticato qualcosa. Mi fissò, e per un attimo i suoi occhi tornarono a essere quelli che conoscevo.
“Non è per mancanza di fiducia” dichiarò. “Ma è una grossa cifra.”
Giuro: disse queste precise parole. Una bugia nitida come un mattino di primavera, detta con semplicità, così come ci si volta, si tende il braccio e si preme il grilletto.
Era la vita che non voleva smettere di scorrergli nelle vene, era il gusto di viverla, l’accumulo di troppe esperienze pagate care e il desiderio di farne altre, tante altre, perché non sono mai abbastanza, e invece il nostro è un tempo limitato, il cui confine non si sa mai dov’è, e all’improvviso è qui, è già arrivato, e non puoi farci niente.
***
Lasciai l’Egitto il giorno dopo, in un mattino di cielo limpido e aria frizzante. Dal finestrino dell’aereo vedevo una distesa gialla uniforme, terra bruciata fino in lontananza, dove cambiava tonalità e si sgranava in una nube confusa che a poco a poco diventava cielo. Laggiù, il Nilo era una striscia verde che tagliava il deserto e andava a conficcarsi dentro all’orizzonte. E si perdeva, semplice e complicata, nelle profondità dell’Africa.

(Riccardo Ferrazzi ha pubblicato recentemente “Cipango!“, Leone Editore, 2013)

Sei poesie

6

 

di Gilda Policastro

Da Non come vita, Nino Aragno/I domani, 2013.

gilpol

 Autunno

Nemmeno per l’inverno
restavi 
E le lapidi invetriate
nel deposito 
deluttuoso 
della memoria

Come un film, risusciti in fermo immagine 
gialla al fotoshop riproducibile 
di Santi Alessia compagna
Vent’anni e bionda, e tu solo gialla
per i prodigi multipli
dell’erbitux
Non durerà, godetevi
la forza dei gravi duttili
Il peso dell’unheilbar 
Krebs non ci sta 
nella foto che parla
Di gialle foto in cerca su bianchi lenzuoli
obitori in feste di fiori come a macabri party
Dimettiamoci, se possiamo visitare
le intercessioni di vita nella cura della morte
Mi cerchi compagna 
mi trovi nemica 
nel gelo che dilava gli occhi 
a mai più guardare
Chissà se ci arriva a Natale, 
di malattia incurabile si muore 
(forse il cuore, sì, è stato il cuore che non ha retto)
ma solo dopo,
dopo l’estate 

-

Estate

Bambina ti levavo
dai seni gli occhi 
Nella riproduzione delle macchie 
a seguire
l’impietà di guardare
le masse colliquate intatte 
dall’erbitux

Inerti   
nel dolore inconvertibile
ti poso addosso le dita
per la misurazione delle masse
(coi tronchi meno grossi 
                                       si fanno i coperchi delle casse)

Filamenti d’ovatta mentre ti lavo 
i capelli e ben bene sotto le braccia
(le masse denutrite non proliferano in meno 
            di sei /dodici mesi 
                                             nel quaranta per cento dei casi)
Godere in analettico conforto 
anche di cose qui per noi indifferentissime 
(sfilaccia, l’acqua, l’ovatta, prendimi per favore dell’altra acqua)

E poi mai più,
che lavorare 
stanca le masse
e il contenimento è il vero successo, 
in oncologia

Questa 
non sei tu:
- Non il bene vecchio ma  il cattivo nuovo,
una massima di B., diceva B.*: 

-

Tre visioni

1. Hermann Nitsch

Dove si macella e si squarta, lì si cura 
mette le bende, il bisturi 
come incensi
sull’altare che immola 
l’organo in cancrena

Prima che la festa si rovesci in lutto
bianco, al chirurgo o al macello,
togli da sotto la carcassa
il lenzuolo         Nel camice
residuale rivive,
quando è macchia, la speranza 
al congiunto che vede,
da sotto la benda verde, altro bianco, 
di scampato a -

Nell’atrio che aspetta, si fissa  
l’infermità tra la vita e la - 
làvati, làvati bene quelle tue mani
mentre bevi, che fa bene 
al cuore, che squarti  
quando entri, con lame, e dove risali
lì sono gli altari  

Se il pane si spezza,
il  rosso lo versi a grumi: 
sul sacrificio bianco,
vive, fluidifica oppure coagula
ma si saprà dopo, 
dopo che sarà l’offerta 
senza intenzione, senza dono 

-

2. Louise Bourgeois

Chiami mamma e ti preda   
l’artiglio che accoglie
nella cella che dici ‘casa’ ed è  
culla crepata come ampolla 
di sotto alla fiamma

La stanza di sopra tiene appesi 
con i ganci gli arnesi,
al rimpasto che appare
nel banchetto di padre
Figlio lo espelli ruminato 
come bava, come scolo
emesso dallo scarico 
- uguale -

S’entra nello spazio 
in cui svuota la forza
combatti e godi, che non sei tu
che ghermisci, non è lei: ma siamo, 
siamo così, 
ancora
siamo
così 

-

3. Bill Viola

Avvicinati, più lento
e dimmi cosa vedi    La madre, vedo lui, 
non vedo nessuno, 
l’acqua, il fuoco, vedo chi li riceve
e i morti e i vivi 
capovolti 
nel riflesso che appare

Andiamo, andiamo piano
passiamo attraverso
e guardiamo com’è
il corpo ch’è mosso,
per finta, a far fine

quando muore, 
lo guardano altri
e da lontano tutti
più lenti di così,
molto di meno 
ci vanno 
accanto,  
dondolandosi piano

Prendi quei due, sembrano vivi       e sono
nell’acqua ch’è mossa non dai fiati
ma da come li vedi, 
piano, andando 
altrove 
che è fine, e ricomincia, per tutti, 
piano

-

I cari altri

Gli altri sono: 
mangiare il panino a morsi, 
gridare al telefono e 
sputare
             mentre lo fanno

I gesti che non durano, 
la bambina dire ciao dalla porta, 
e lui che ci hai dormito, una notte,
la mattina non ne sai il nome più
                      - ma non è come pensi

Gli altri sono: 
il ventre che spinge
sotto le calze, e sopra i seni 
le mani,
ma pensare che non resiste, 
e ochéi, ci sentiamo domani

Un’unica forma, o misura, ha il fare, 
il resto è represso 
dal vestito di madre, 
dal divieto, 
e più chiedono, gli altri, più ingombrano, 
meno ci stai 

con gli altri sono: 
i figli, morire, tu-figlia-loro-morti, 
e le coperte, e il velo 
e i pigiami e le giacche, 
gli altri le porteranno, li butteremo, 
e quel giorno non verrai
nel sogno a rimproverare

non come vita, ma più di dormire o meno, 
adesso non ricordare, non dire il nome, che non sai
degli altri, che a te chiedono, loro, 
di non andartene

e che hanno paura, 
non vanno a letto, non si sdraiano come d’amore,
eppure non passa, non va-e-non-viene,  e sono a metà

-

* Brecht; Benjamin.

--

[Dalla quarta di copertina]

È questo il libro della prima stagione poetica di Gilda Policastro. E proprio Stagioni è la metonimia che intitola la sua prima sezione. Prima in ordine di composizione ma, ciò che più importa, in termini “narrativi”: col mettere in scena il primo di una sequenza di lutti, inconsutile manto funebre che, alla pelle mentale di chi dice «io», a lungo è calzato come una guaina perfetta. Si dice «stagioni» e si vuol dire dei tempi vissuti, o che piuttosto tali non sono stati: e tuttavia riposti in quello che, con immagine beckettiana e pun rosselliano, viene definito il «deposito / deluttuoso / della memoria». Nei versi più celebri di quello che resta l’ispiratore primo e indiscusso («Sono un tronco, diceva qualcuno»), si cantavano «le morte stagioni, e la presente / e viva, e il suon di lei». Ecco: mentre le morte stagioni si prendono tutto lo spazio – in quest’intirizzito catasto degli estinti – della viva, coi suoi suoni, davvero non c’è traccia. E forse una radice, di questa coazione luttuosa che intride ogni fibra del libro, andrà cercata – oltre che nell’enciclopedia dei palinsesti lirici omaggiati, da Leopardi a Montale – nell’origine remota (ma a tratti rinvenibile), di chi scrive, nelle terre in cui a suo tempo Ernesto de Martino trovò la sostanza antropologica di Morte e pianto rituale. Come in quel repertorio la materia fonda del dolore, sorda e opaca, rilutta alla realtà storica e dunque a qualsiasi elaborazione, a ogni minimo movimento (così nella sequenza più lancinante: «E chi si muove da terra», con quel che segue). Proprio come i morti, per definizione «statici» nel flash che li imprigiona in immaginette votive, chi scrive si rappresenta recluso in una cellula di fiele: rintanato, diceva quell’altro, in un «letargo di talpe, abiezione / che funghisce su sé…». Ed è allora un bene – se non altro per la vita di chi afferma, qui, d’esserne priva – che questa stagione, col suo annichilito splendore catatonico, possa dirsi conclusa.

Andrea Cortellessa

Gilda Policastro è nata a Salerno e cresciuta in Basilicata; vive a Roma. Italianista e critica letteraria, collabora con riviste, quotidiani e lit-blog. La sua prima raccolta, Stagioni e altre, è uscita nel Decimo quaderno di poesia contemporanea (Marcos y Marcos, 2010). Nel 2010 ha pubblicato per i tipi della d’if il prosimetro La famiglia felice (vincitore del Premio Mazzacurati-Russo nel 2009) e nel 2011, per Transeuropa, Antiprodigi e passi falsi (vincitore del premio Antonio Delfini nel 2009), con un cd di interazioni poetiche e musicali. Nel 2010 Fandango ha pubblicato il suo primo romanzo, Il farmaco; cui fa ora seguito, per lo stesso editore, Sotto.

y

21
Immagine di Grazia Coppola
Immagine di Grazia Coppola

Con il simbolo Y si indica uno dei cromosomi sessuali;

l’altro, presente nel sesso eterozigote, si indica con X.

Nei maschi umani fertili la metà degli spermatozoi porta

un cromosoma Y e l’altra metà un cromosoma X, mentre

nelle femmine tutte le uova contengono un cromosoma X;

il cromosoma Y determina nella specie umana il sesso maschile.

Amyci
di
effeffe

Si parlano, si dicono cose

Un pugno, uno schiaffo
Un pugno o uno schiaffo?
Qualcosa di simile a un piatto che cade, un frastuono ma senza rumore diciamo nell’anima, che non si sente da fuori e che dentro fa male, fa male boia, e sanguina
Allora si vede se sanguina?
No, non si vede. Uno sbattere di finestre, anzi di porta

Si parlano, si dicono cose e le ripetono

No, non si vede. Uno sbattere di finestre, anzi di porta
Di porte o finestre?
Qualcosa che era aperto e che entravi, senza bussare, senza  dire se c’era qualcuno, uno sbattere di ciglia, nessuno, e che ti ritrovi a passare e c’entri dentro come nel  burro come  nell’acqua
Burro o acqua?
Come l’acqua. Erano lacrime non so se di prima o di dopo
E si vedevano allora?

Si parlano, si dicono cose e le ripetono, non si capiscono più quando quasi in fondo alla strada si fermano

E si vedevano allora?
Non si scorgevano manco al microscopio manco alla lente manco. Piangevano  dentro e rigavano quasi le cose che al solito sono all’interno. il cuore, il cuore, lo stomaco
Il cuore o lo stomaco?
Qualcosa che batte, dum dum, però è come un battito sordo, sordo dum dum che si sente, però, e non sai se è soltanto il raggrumo, il raggrinzo, la pelle, la pelle di dentro che suona come un tamburo, capisci  no?
No non capisco
Un dolore un pizzico un morso di ciuccio, capisci?
Nemmeno
Una botta tremenda, la faccia che sembra nemmeno pensare,  e si gonfia  a pensare se quella cosa davvero ci stava,  davvero era giusta, davvero era ben meritata

Si parlano, si dicono cose e le ripetono, non si capiscono più quando quasi in fondo alla strada si fermano, e quasi senza guardarsi il giovane prosegue prendendo una strada allora che l’altro più vecchio di poco, di poco che nemmeno si vede, continua sull’altra

Una botta tremenda, la faccia che sembra nemmeno pensare,  e si gonfia  a pensare se quella cosa davvero ci stava,  davvero era giusta, davvero era ben meritata
La faccia, ma allora si vede da fuori?
No, non si vede, ma è dentro, ed è  così dentro che non puoi neppure sapere se è una ferita profonda, se è un taglio, è già cicatrice
Un taglio o è cicatrice?
Un taglio? Una cicatrice?

Si parlano, si dicono cose e le ripetono, non si capiscono più quando quasi in fondo alla strada si fermano, e quasi senza guardarsi il giovane prosegue prendendo una strada allora che l’altro più vecchio di poco, di poco che nemmeno si vede, continua sull’altra. Erano amici da molto, da molto, da prima

I poeti appartati: Eliana Deborah Langiu

1

La silloge del disonore

La Silloge del Disonore

Giovedì 3 ottobre, alle 21, Eliana Deborah Langiu ha presentato alla libreria Trebisonda, La Silloge del Disonore (Galassia Arte Edizioni), da Malvina, eroica libraia di San Salvario a Torino.

Di questa sua opera ha scritto Maria Grazia Calandrone sul numero 284 (Lugio Agosto) di Poesia

“Eliana D. Langiu analizza la sventura di essere creatura umana in territorio di guerra, ovvero in luoghi completamente disertati dalla grazia. E lo fa inserendo il gergo tecnico militare in una lingua dell’umanesimo.
La Silloge del Disonore – dedicata alla missione in Afghanistan come centro del vissuto bellico più prossimo – si divide in tre sezioni, anticipate da una introduzione, aspra abbastanza da farci aprire le orecchie, come avvertiti da un’iscrizione sul cancello: qui non si usano simboli o lirismo, qui si analizzano i resti, si avanza frantumati tra i frantumi di ciò che è stato umano. Le quattro parti del ragionamento di Langiu, ciascuna aperta da una citazione da L’arte della guerra di Sun Tzu, possono essere applicate a qualsiasi conflitto: la stessa autrice precisa di avete scelto l’Afghanistan a causa della quantità di notizie diffuse proprio a ridosso di noi, che le ha offerto l’occasione di mettere al lavoro la leva silenziosa della poesia. in un discorso divulgativo confezionato in anni recentissimi, nel cuore di un errore umano che è partito dalla definizione della nostra missione di pace.“

Ho chiesto a Eliana di dare la possibilità ai lettori di Nazione Indiana di leggere alcune delle poesie contenute nella silloge. Eccole. effeffe

 

Ouverture


Quando le forze delle stesso Stato si combattono a vicenda,
questo è territorio dispersivo. […]
Dunque, su territorio dispersivo, non combattere.

Sun Tzu, L’Arte della Guerra.

con il coltello

nel petto

apro

da far uscire esistenze

dal taglio longitudinale

perpendicolare al cesareo

si aprono vite a croce
a piste desertiche

deserto questo vivere
a pezzi
tessere dei tuoi ricordi ricucite
chiusi a chiave

bianche pagine non stampate
scritte con succo di limone
criptate
a profani

eretici del rigirare esistenze tra le righe
nell’opportunismo poetico
in questa forma scolpita in forma aperta

di porta socchiusa a spiare

una squarcio quadretto familiare acustico
fa valutare te
persona
quasi raggiungibile l’umanità
di cui ti liberi nei liquidi torbidi
di bottiglie agli sgoccioli

odio e fastidio declinano l’affetto
quel poco che basta al ribrezzo
della normalità cui ti riferisci
che quasi nella polvere
a linee orizzontali e un poco oblique
a sostenere oggetti neri longilinei
nel giallo sabbioso di una terra

rivedo la figura e il viso
che per errore ho cancellato
tanti anni trasmissioni video
per rivedere un volto ignoto e nitido

nella casuale registrazione del ricordo

PARTE I

Per sottomettere un nemico, devi valutare te stesso, valutare lui,
e ottenere il sostegno del popolo. Questo è tutto.
Sun Tzu, L’Arte della Guerra.

non ringraziarmi per le cattive parole
sono parole vere

è la verità l’evoluzione un divenire

dici non contare su di me per quelle buone
un male portatore di bugie e mezze verità
masticate nel chicco di caffè corretto
perduto nel sambuca
verde vetro del bancone

in tua presenza
tessi arazzi di cattivo gusto
con le dita
tenute appese dai capelli grigi

siete in tanti appesi ai fili
di un coiffeur a sorpresa
dalla forbice facile e distratta
che taglia rasoiate dalla strada
o da una torretta

non mendicare quindi la tua unicità
venduta a mazzi di generazioni e scelte
non sei unico nemmeno in questa strada

città fu bellica per antonomasia

dio tua patria e famiglia

nel rinnegarlo costante
nell’accusarlo negl’altri
tua allucinazione karmica
vomitata su parole secolari
che poco hanno a che fare
con esperienza ecclesiastica

lo sottolinei ad ogni pie’ sospinto
questo cristo questa chiesa
che ti stanno tanto a noia
dalla scatola stretta che ti muove
non avendo dubbi sull’essenza cristianica
dell’interlocutore

prendi le distanze capitano
distanze di pensiero
tra te e te dieci anni prima
persona persa fraintesa
in congelata adolescenza

dio patria famiglia
affondano radici in te come
radici di un ficus secolare
invadono la strada i marciapiedi le case
la necessità deflagrante
di uccidere il cristo e sue diramazioni
sublimano esplosioni di polvere e chimiche
esaltazioni di potere decisionale

occasionale incontro favorisce criptate
battaglie di urne contraddizioni
nel tuo mostrarti agile
nello schivare l’eredità pesante di un paese
immensamente chiesa
di cui rinnegandola sei parte

blocca la crescita una vita accademica
sono ore di scultura a inaridire
il punto di vista
l’equilibrio sul limite estremo
troppo presto
sul tempo di crescita

la bocca si accosta alla vita
stordita dal non oltre
l’oltre girandola a vortice
tentativi di banali trasgredire

ascolti ascolti oltre mai presente
nei giri veloci d’inchiostro nero
della penna ricercata

nei giorni di terra lasciata
a casa

PARTE II

Col termine terreno, intendo la distanza, e se il territorio da percorrere è agevolo

o arduo, se è ampio o ristretto, e le eventualità di sopravvivenza o di morte che offre.
Sun Tzu, L’Arte della Guerra.

neve o polvere senza continuità
questa terra ignara a chiazze
degli eserciti
degli amici dei nemici

di questo simbolo vivente di democrazia
acquisita ad occidente
per tutti quelli che stanno ad ovest dell’Afghanistan

karzai presidente a macchia di leopardo
karzai sindaco di Kabul

la concentrazione bassa di attentati
nei territori più calmi
della NATO

non cambia la disposizione mentale
in vista della personale esplosione

divise e mezzi blindati
sono sempre equivalenti della guerra
per una popolazione occupata

sebbene non siano mancati casi
di evidente discriminazione
delle basi

le trame che ci legano l’un l’altro
ci sfogliano per strada pezzi a pezzi
non più uomini o donne ricordi

il vivo continua la sua vita per istinto
la sopravvivenza a volte è solo
questione di scelta

al di qua di una professione
quasi morti bianche sempre omicidi
alla fin fine
commessi da mani trasparenti
nate senza impronte né segni
mani di bambole assenti di linee
tirano i fili e succede che le trame
non reggano si spezzino prima
del tempo

una morte bianca è sempre casuale
ti pesca come una roulette russa e cadi
nella polvere perdendoti in quello
che ti è accanto

come chiedere scusa e le scuse
non sono mai abbastanza davanti
al disonore dei fatti

il quotidiano preferito
restituisce la giusta indignazione
su misura per le nostre inclinazioni politiche
in tutto questo non capiamo è tutta
un’astrazione questa metrica d’articoli
questo gergo editoriale
segna vendite e titoli più che le notizie
e non sapere cosa fare è forse l’unico
senso

ci restituiscono i giornali notizie calibrate
senza sottotesto
e lo cerchiamo per morbosità della natura

forse è vero che non c’è complotto
è tutto semplice tutto naturale

una giungla di cemento armata
di segnali e mezzi

che se non li capisci sei il prossimo a cadere

poi succede nella previsione
del disgelo
il nemico sorprende d’esuberanza
il nemico senza forma
il nemico senza faccia

a scadenza annuale prevedibili
i mezzi i tempi
solo i gusti più teatrali
tirano a contrattazioni fuori sede
tirano a delegittimare

chiusi nelle basi
chiusi nelle basi finché passa
questa primavera
finché smette di saltare a zolle
questa terra

ed è ritorno

PARTE III

Quando sei inferiore in tutto, se puoi ritirati.
Sun Tzu, L’Arte della Guerra.

un tuffo

dall’argilla alla vita
nella vita d’asfalto
vortici colorati della movida
tutto distante e stinto e confuso
nella gradazione della ripresa
di coscienza civile

ritorni mai del tutto

pezzi lasciati a parte sulla pista
segnaletica enzimatica
nella mappa grigia

si allontana il malessere
della tua pelle

è un incendio lontano fa capolino
se provo a pensarci tra il giorno e la notte

è con mia nonna l’incendio della tua pelle

è con i morti

resta una traccia nella memoria
un rievocare soffocato di sensazioni

è rapido cambiare tra l’uno e l’altro viaggio
nel tempo che porta cambiamento

nella sua definizione

lascio laggiù
i quattro graffi nella memoria
corto circuito destinato a bruciare nella scatola nera

costruisco in difetto il contenitore

non esisti negli altri universi sei morto
è in questo che ti ostini a vivere
per tentare di uccidermi
snocciolo parole per esorcizzarti
per ricacciarti nella tomba
da cui vieni

assetato di sangue vitale povero
come questo mio sangue annacquato
da decenni mestruali
periodicamente la tua mano
mi lacera l’utero
periodicamente la tua mano
strappa ovuli maturi

ti ricaccio dentro all’aut aut mentale
affondo un pugnale passando
a misura
all’ingresso dell’utero

avverto l’apparato riproduttivo
del pericolo

alle spalle di Pinocchio

1

di Antonio Sparzani

La Volpetta e il Gattofano si conoscevano da tanti anni, erano diventati amici da quel giorno in cui in birreria avevano dato luogo a una storica sceneggiata che li aveva trovati alleati per la pelle e che aveva suggellato un’amicizia duratura.
Poi avevano scelto strade diverse, anche per non farsi la guerra l’un l’altro e non pestarsi i piedi e farsi ombra – l’unica rivalità tra loro era quella delle cravatte: la Volpetta aveva, e sempre mantenne, un gusto più sicuro e raffinato in materia che non il Gattofano – così che avevano concepito quella straordinaria strategia di militare in fazioni diverse, e spesso opposte, mantenendo però una infrangibile solidarietà di fondo. Per ricordarsela sempre si dicevano spesso “veDremo! veDremo!”

Cari signori con i piedi neri

15

di Giacomo Sartori

Cari signori

con i vostri piedi neri e magri

che spuntano dalle cerate

(donate da noi

teniamo a precisare)

ci accusate di questo e di quello

ma è facile biasimare

bisogna che capiate

che la colpa non è nostra

sono i nostri colleghi

Lettera al Presidente della Repubblica e al Presidente del Consiglio…

18

di Franco Arminio

illustri rappresentanti del popolo italiano

vi chiedo di considerare la possibilità di indire una giornata di lutto nazionale

per i morti di Lampedusa.

Sarebbe un gesto che renderebbe agli alleati europei la misura della nostra difficoltà

ad

Frammenti dalla fuga di un fuggiasco (2)

0

Di Giorgio Mascitelli

 

Sono immerso nell’acqua melmosa fino al collo; primo o poi dovrò uscirne. Intanto essi non sono passati. Ma non posso ancora uscire perché essi potrebbero passare.

Adesso che sono nella melma fino al collo, perché qui l’acqua è melmosa, è il momento giusto per chiedersi se l’avrei fatto lo stesso, se avessi previsto che poi mi sarebbe capitato tutto quanto mi è capitato!

Ma ogni Austerlitz  ha la sua Waterloo, che è vero, ma non c’entra nulla con i miei casi passati né presenti. Ho fatto solo il mio dovere. Certo quando si è fatto il proprio dovere e si è rimasti soli, ci si sente un po’ dei pirla. Ma si tratta di una visione estremamente soggettiva. Non mi sembra che essi mi considerino un pirla, non mi considerano nulla probabilmente.

E giù un altro starnuto. Intanto il giorno trascorre, essi non passano e io resto nell’acqua fino al collo con un raffreddore incipiente. Dovrei sollevarmi dall’acqua e nascondermi in altro modo perché mi sembra più saggio a questo punto camminare di notte. Comincio a non essere più molto soddisfatto del mio piano. Per la verità non sono soddisfatto di molte altre cose. Forse ho perfino la febbre. Forse è meglio che mi tiri fuori dall’acqua. Devo cercare di asciugarmi alla bell’è meglio, che poi è quello che ho sempre fatto. Tutto quello che mi è capitato ho cercato sempre di affrontarlo alla bell’è meglio. No, non è vero: ho anche cercato di fare dei piani, ma spesso i miei piani sono finiti come questo di nascondermi nello stagno. Nuova salva di starnuti. Dovrei veramente tirarmi fuori dall’acqua. Magari dovrei fare come quel tale che era uscito dalla palude tirandosi su da solo per il codino dei capelli. Ma ciò mi sembra difficilmente realizzabile in primo luogo perché non porto il codino, in secondo luogo perché questo significherebbe forzare la mano alla pur vivida fantasia della mano che mi fa parlare.

La insoddisfazione nasce da me o dagli eventi? Questa è una domanda doverosa per rispondere con piena razionalità alla quale occorrerebbero tali e tanti elementi che non basterebbe una sola vita per accumularli. Quindi è una domanda a cui si risponde sulla base di qualche indizio spesso confuso. Non è serio invece rispondere che nasce da entrambi i fattori perché questo lo sanno anche i bambini. I miei indizi andavano verso gli eventi.

Ma insomma l’inverno della nostra insoddisfazione cederà mai il passo a una primavera se non di armonia e conciliazione almeno di speranza?

No, non ci sono più le stagioni, porca miseria!

 

 

 

Se c’è una cosa che mi fa tanto male è l’acqua dello stagno. Ho fatto bene a uscirne semplicemente con le mie gambe perché così posso sfruttare le ultime ore del giorno per asciugarmi e riposarmi. Ho strizzato meticolosamente le mie mutande, che per fortuna non hanno perso il colore. Dovrei assumere del paracetamolo, che, anche se ingerito a stomaco vuoto,  a differenza dell’acido acetilsalicilico non dà disturbi gastrici ed è pertanto il più indicato per il fuggiasco. In ogni caso non ho con me né l’uno né l’altro, perciò tremo, batto i denti e mi sento stanchissimo. Mi incamminerò dopo il tramonto e dopo aver mangiato un po’ di briciole di wafer che ho trovato sul fondo della bisaccia.

Dunque, riassumendo la mia situazione, sono fuggito sfruttando una circostanza favorevole senza aver messo a punto un piano, quando ho ideato il piano, esso si è rivelato molto più dannoso della stessa pervicacia degli inseguitori così che ora sono digiuno, febbricitante e stravolto. Ciononostante continuo a essere insoddisfatto con gli eventi e non con me. Il partito più saggio, a questo punto, sarebbe quello di arrendersi, di consegnarmi, di rimettermi alla clemenza della corte, di abbassare la testa. Perché non lo faccio? Perché non sono ancora abbastanza stanco per rinunciare a essere me stesso. Veramente l’ostinazione fa fede.

Fedele alle mie deliberazioni, pertanto, dopo il tramonto mi metto in cammino con l’unico vantaggio, non strategico, di non essere appesantito nella mia marcia da cibi poco digeribili.

Sento un rumore che viene dal cielo, proprio sopra le mia testa, tipo flap flap. No, è più forte, è piuttosto un vron vron. Ma è più ripetitivo come se fosse una sorta di cutucutucu. Sì, è proprio un cutucutucututu. Alzo gli occhi e non ti vedo un elicottero che ha pure acceso il riflettore. Stanno forse usando l’elicottero per cercarmi?

– Arrenditi!- Dice una voce all’altoparlante- Abbiamo i visori a infrarossi, ti sgamiamo in un secondo!

Starei per arrendermi, prima ancora di accorgermi che stanno parlando alla cieca perché mi hanno superato abbondantemente, quando si fiondano in picchiata un bel pezzo davanti a me gridando all’altoparlante:

– Ti abbiamo beccato! I visori a infrarossi non ingannano mai!- Dall’elicottero che riprende quota come uno sparviero scornacchiato gridano qualcosa come:

– Adoriamo l’odore del napalm alla mattina presto.

Ma è ancora notte e l’elicottero si allontana, prosegue il suo giro, ma da bordo urlano un “torneremo!”.

Adesso, nonostante i tremiti, mi sforzo di trattenere il respiro, anche se è perfettamente superfluo, visto che non mi hanno localizzato neanche prima. Starei per prendere tutta una serie di provvedimenti di dubbia utilità, visto che per sfuggire a un elicottero basta camminare sotto gli alberi di notte, ma mi distrae per fortuna la curiosità impossibile da soddisfare di sapere cosa hanno scambiato per me.

Beh, se usano perfino l’elicottero per inseguirmi vuol dire che come fuggiasco qualcosa valgo, porca miseria!

 

 

C’è una casa nel bosco: la vedo, la intravvedo, ora che il sole sorge di nuovo. Io sono sporco, stanco, affamato, ho la barba incolta. La foga con cui mi sono dato alla fuga si sta esaurendo inesorabilmente.

Mi chiedo se, conciato così, mi daranno ricetto. Certo se decidono di accogliere un fuggiasco non possono pretendere che si presenti da loro lustrato e inamidato. D’altra parte vedendomi arrivare così, non mi lasceranno certo parlare e spiegare che sono un fuggiasco, ma mi cacceranno. Non so neppure se mi convenga rivelare che sono un fuggiasco, magari sono delle spie o addirittura essi si sono nascosti nella casa per tendermi un’imboscata. Forse mi conviene girare al largo. Ma girare dove e per dove conciato così? In realtà l’unico elemento di ottimismo in questa situazione  deriva dalla mia memoria cinematografica.

Magari è una casa disabitata, ma è troppo ben tenuta per esserlo. Magari sono via per il week end, ma a parte che oggi dovrebbe essere un giorno feriale, in effetti anche il week end potrebbero trascorrerlo qui all’aria sana degli Appennini.

La natura, tuttavia, interviene a togliermi da questo penso stato di incertezza perché dopo una mia poderosa salva di starnuti si accende la luce e si apre una finestra della casa. Una donna di mezz’età mi squadra con un’aria non priva di severità e mi domanda:

– Sei della comune?

– Sì.

– Peccato che qui in zona non ci sia nessuna comune, pirla.

– E va bene: sono un fuggiasco.

– Ma guarda un po’. Credevo che fossi un rappresentante di aspirapolveri.

Poi mi passa dalla finestra una canna e del sapone e mi dice di lavarmi prima di entrare in casa; quando avrò finito, uscirà suo marito che mi porgerà dei vestiti puliti e asciutti. Mi lamento che è fredda e lei replica che un fuggiasco dovrebbe già baciarsi i gomiti, se gli riesce di lavarsi. Quando ho finito, arriva il marito, un omone barbuto ma buono, che mi porge un asciugamani e dei vestiti. Mi offro di comprarglieli, invero non sapendo con quali soldi, visto che ho solo pochi spiccioli nelle tasche, ma l’uomo declina l’offerta. Dice che sono abiti ormai vecchi ed essendo loro anticlericali preferiscono darli a me piuttosto che alla Caritas.

Finalmente posso entrare in casa.  Sul tavolo in cucina c’è una scodella di caffellatte fumante e due piatti pieni di biscotti, oswego nell’uno e krumiri nell’altro. La padrona di casa mi dice di mangiare quelli che voglio. Io le chiedo se posso mangiare tutti e due. Acconsente un po’ infastidita. Dopo che ho terminato la mia colazione, il marito mi dice che dietro la casa, nel capanno degli attrezzi, c’è una branda: oggi posso riposarmi lì, ma al tramonto me ne devo andare. In compenso mi faranno trovare la mia bisaccia piena di provviste e anche a mezzogiorno sua moglie mi porterà un piatto di pasta e un bicchier di vino. Io chiedo se non hanno paura ad aiutarmi.

A questo punto è la donna che risponde:

– No, non abbiamo paura e non siamo neanche delle spie.  Semplicemente non importa nulla quello che facciamo noi. Gli costerebbe troppo controllare se ti aiutiamo o meno e alla fine non cambia niente: da qui, dopo qualche ora di cammino, arriverai sulla cresta di un monte dove c’è un paesello ormai abbandonato. Da lì puoi solo scendere lungo la provinciale oppure seguire il sentiero che sbocca in un posto chiamato le Bocche di fra’ Serafino. Lì ti aspettano e ti riprendono. L’importante è che tu vada in una certa direzione e per questo basta controllare due o tre snodi. Per il resto anche se gli sfuggi per un po’, poi ti ripigliano e gli costa di meno così. Anche sull’elicottero risparmiano: un tempo veniva usato una notte intera, adesso fa un giretto di un’ora e se ne torna a casina.

– Ma allora perché mi aiutate?

– Perché tu serbi un buon ricordo di noi-. Poi mi fa cenno di andare a riposare nel capanno degli attrezzi.

E io che mi sono anche preso il raffreddore per questa fuga, porca miseria!

 

 

Paese mio che stai sulla collina, ora ti vedo anche se c’è buio. Sei un po’ bruttarello, come una specie di Rio Bo, ma più del cazzo però; mi pare che si chiama Sarchiapone o qualcosa del genere. O forse dovrei dire “ si chiamava”, visto che non ci abita più nessuno. Però le case ci sono ancora e dunque il paese c’è ancora, ma gli abitanti non ci sono più, pertanto il paese non c’è più. Non è che sia poi una questione  così importante.

Entro in una casa, che deve essere quella dell’ultima vecchina che hanno portato un paio d’anni fa in una casa di riposo perché c’è  ancora appeso al muro un calendario di frate Indovino dell’anno 2010. Apro la bisaccia: due scatolette di tonno, una forchettina di plastica, due pagnotte fatte da loro, una mela, i pochi oswego che non ho mangiato al mattino. Non è che si sono sprecati, forse avevano paura che metta su pancia. O forse è quanto basta per arrivare alle Bocche di fra’ Serafino.

Insomma questo è il tempo che mi è dato ed è inutile che cammini carico come un mulo. Magari essi stanno scommettendo se scendo dalla provinciale o dalle Bocche di fra’ Serafino. Io però sono stanco e mi fermo qui. Temporeggio assolutamente, per così dire. Quando non si ha più tempo, l’unica cosa seria da farsi è sprecarlo. Ho deciso di far perdere del tempo a me e a loro.

Che essi vengano a prendermi! Perché fare ancora fatica? Io li aspetto qua e così se hanno scommesso, nessuno vince la scommessa.

All’alba mi rifocillo e il pallido sole  rende il paese ancora più tetro, il ricordo della mia allegria è l’unica nota stonata in questo paese fantasma in cui un fuggiasco aspetta che lo vengano a prendere. Certe volte il giorno si annuncia più buio della notte perché quella alla fin fine fa soltanto il suo lavoro, come tutti o quasi.

Ci vorrebbe una mossa improvvisa, una giocata alla Roberto Baggio che cambi la situazione, ma Baggio ha smesso di giocare da molto tempo.

Un raggio di sole illumina una biro che si trova su un tavolo. Scrive ancora. Non è che abbia molto senso annotare i propri pensieri sul retro del calendario di frate Indovino per poi riappenderlo alla parete. Ma non dipende da me sapere se sia un’azione del tutto priva di senso o meno.

Sento che essi vengono. Ormai sento i rumori dei motori dei suv, sento i latrati delle cagne, sento le imprecazioni perché hanno dovuto consumare la benzina per salire fin qui e perché nessuno ha vinto la scommessa.

Essi sono arrivati, porca miseria!

 

( fine)

 

Frammenti dalla fuga di un fuggiasco (1)

0

Di Giorgio Mascitelli

 

Sento i latrati dei cani nelle mie orecchie, sulle mie spalle, lungo la spina dorsale. Ma dev’essere uno scherzo della tensione o il frutto di un’immaginazione troppo viva: chi, realmente, nel 2013 con tutti i mezzi tecnologici a disposizione e senza la necessità di localizzarlo con il fiuto inseguirebbe un fuggiasco con i cani? Credo che oggi un buon satellitare o un buon suv o meglio ancora un’accorta combinazione del loro uso possa svolgere il lavoro di cento molossoidi. Sì, non è possibile che ci siano i cani: vuol dire che sento le voci, porca miseria!

Questo è il risultato dei troppi film che ho visto: sono un fuggiasco dovrei occuparmi di suv , di satellitari, di vie di fuga, di procurarmi vestiti nuovi e invece sono qui a preoccuparmi dei cani. Veramente il mondo era più tranquillo quando Hollywood non c’era. Se anche le orecchie mi tradiscono, la mia mente sa bene che non è possibile oggi, in un 2013, che mi inseguano ancora con i cani come se fossi fuggito dalla piantagioni di cotone o dai Piombi. C’è la tecnologia, ci sono i metodi raffinati. E’ che alle volte io penso troppo; anche in un momento d’azione come questo mi fermo a pensare e la fantasia sbrigliata si mette a correre: c’è un eccesso di produzione nella mia fantasia e occorrerebbe davvero un piano d’austerità. Per fortuna c’è una mente razionale che non si lascia ingannare dagli improvvidi conati della fantasia.

Ora, però, è meglio che corra.

Non c’è il fiato. E’ vero che la disperazione fa muovere le gambe, ma non c’è il fiato. Il fiato è un parametro oggettivo. La lena con cui fai le cose può dipendere da fattori soggettivi: dovrebbe esserci sempre, invece talvolta c’è e talvolta non c’è, ma quando manca il fiato, allora non si può discutere, non c’è spazio per la psicologia. Quando ero un ragazzo, si dava grande importanza ai bioritmi; poi questi sono scomparsi. Oggi si ritiene che la verità sia nei numeri, che è una gran bella verità, peccato che non ci sia un’adeguata formula numerica per espimerla.

Allora, se non ce la faccio a correre, non resisto a voltarmi indietro per un attimo, a osservare i miei inseguitori e nella penombra le vedo. Sulla cima della collina di fronte attorniate da suv e satellitari e numerose bocche da fuoco ci sono tre cagne magre, studiose e conte.

Non posso avere anche le allucinazioni, oltre a sentire le voci, non posso tradirmi anche gli occhi, oltre alle orecchie. Statisticamente è più probabile che mi inganni un solo organo ( la mente razionale) anziché due, gli occhi e gli orecchi.

Essi hanno davvero i cani, porca miseria!

 

 

Benchè non abbiano l’imponente maestà delle vette alpine, gli Appennini sono provvisti di un loro ruvido fascino che li rivela montagna faticosa, tignosa, poco generosa, perciò degna di imprese insolite quale la mia fuga. C’è in tutto questo una nota rassicurante e sono i lontani echi dei rumori motoristici provenienti dai viadotti autostradali che con intermittenza crescente in ragione della notte che avanza giungono alle mie orecchie. Abbiamo già visto prima che non devo diffidare delle mie orecchie. La stagione è indeterminata: ha piovuto da poco e il terreno è bagnato, ma non fa propriamente freddo.  Potrebbe essere una fine d’inverno  tiepido o una primavera così così o un inizio d’estate molto fresco o un autunno che, pur conservando ancora il ricordo dell’estate, già si predispone all’arrivo della stagione morta. D’altronde non ci sono più le stagioni.

Non ci sono più neanche i rumori dei cani o dei suv. Ma dal pendio in cui mi trovo non riesco a vedere nulla e poi è scesa completamente la notte. Non mi sembra neanche una notte di luna piena, cosa che fa il mio gioco non perché abbia timore dei lupi mannari, ma perché così è difficile scorgermi. Non mi devo rilassare, però, non devo pensare neanche per scherzo che abbiano rinunciato a seguirmi. Essi non rinunciano mai. Può essere che essi ritengano che anch’io dorma da qualche parte e che possano raggiungermi con tutto agio al mattino presto oppure essi sanno meglio di me dove mi trovo e ogni via di fuga è bloccata. Potrebbe essere una situazione come quella in un libro di fantascienza che lessi tanto tempo fa, in cui il protagonista veniva inviato in un piccola colonia umana in un pianeta disabitato lontano dal sistema solare, ma poi quando erano stati uccisi quasi tutti gli abitanti della colonia,  perlopiù dei rottemi umani, scopre di essere sulla Terra. Certo io so di essere sulla Terra e non mi trovo in una colonia umana, ma a parte questo la situazione è uguale. Nella piccola bisaccia che ho con me ci sono solo dei wafer alla nocciola, che si sono sbriciolati, e un formaggino Mio, che tiene abbastanza dignitosamente; inoltre sono due giorni che non mi cambio le mutande e mi sono pulito con una foglia quando ho espletato le mie funzioni fisiologiche. Questo tanto per chiarire che i problemi del fuggiasco non sono soltanto relativi agli inseguitori, al dove andare, al che fare, ma anche una grave assenza di tutti i comfort che in una vita moderna sono degli standard ormai.

Quando giungo a mezza costa d’un colle, vedo i bagliori di un fuoco in lontananza alle mie spalle e capisco che sono loro che si sono accampati. Se essi hanno i cani con loro, possono anche accendersi un falò, porca miseria!

 

 

C’è già buio, un buio pesto, ma sono arrivato in cima a un altro colle e la discesa è breve perché mi imbatto in uno stagno. Allora mi viene in mente un piano astutissimo, che ho già visto una volta in un film: adesso mi metto a dormire qui vicino, poi prima dell’alba mi immergo nello stagno fino alla testa, nascondendomi con le ninfee o addirittura immergendomi e respirando con una canna che spunterà dall’acqua come un giunco, quando essi passeranno e andranno oltre. L’unica cosa che devo studiare con attenzione è un nascondiglio sicuro per la bisaccia nella quale metterò anche i vestiti, salvo le mutande che così si lavano e nel deprecabile caso che mi dovessero beccare, avrei comunque un minimo di dignità.

Nel caso di cattura e, più in generale, di sconfitta non sono mica sicuro che bastino le mutande per salvare la dignità; anzi ho l’impressione che, anche se fossi vestito di tutto punto perfino con i gemelli da cresima ai polsini della camicia, non ci sarebbe alcuna dignità. Per coloro che perdono o scappano non c’è nessuna dignità ed è tornata la scelta tra essere  nulla ed essere male. A tal punto il mondo è stanco di me da cacciarmi così con ignominia?

Se solo avessi un’altra via d’uscita. Invece ora che è mattina sono immerso fino al collo nell’acqua dello stagno e certo non è il luogo adatto per cercare altre vie d’uscita. Mi ricordo che, quando ero bambino, c’era una pubblicità in televisione di un signore con l’acqua fino al collo in un bagno in camicia e cravatta, che reclamizzava una nota ( allora) marca di detersivi. Anch’io sono come lui, ma sono senza camicia e cravatta e non reclamizzo nulla: come cambiano i tempi!

La rana in Spagna gracida in campagna. Però poi starnutisco e faccio scappare i girini. Il raffreddore, avevo sottovalutato il raffreddore, ma per fortuna non passa nessuno. Non si sentono i latrati dei cani, degli uomini e dei suv. Non si sente nulla di nulla.

Le grandi fughe nella storia sono riuscite certo anche per l’intraprendenza individuale, ma soprattutto per un adeguato sistema di appoggi esterni. Insomma le grandi fughe sono un po’ come le grandi imprese sportive in solitaria: sì in solitaria, ma solo da quel lato della telecamera. Devo ammettere che ho sottovalutato questo aspetto al momento della mia fuga. Devo anche aggiungere che questa cosa mi è venuta in mente solo stando nell’acqua per un certo lasso di tempo. Evidentemente l’acqua, a dispetto di un’imponente tradizione che la indica come foriera di oblio, rafforza invece la memoria o la ristabilisce. Ma forse perché questa è acqua stagnante e l’altra che scorre. Comunque nel mio piano di fuga non avevo tenuto abbastanza in considerazione o  sarebbe meglio dire per nulla tale dato della storia. L’idea di corrompere il guardiano a cui scadeva tre giorni dopo il contratto a progetto con trenta euri non è stata male. Gli  ho chiesto di lasciarmi pisciare contro un albero nel corso di un trasferimento e poi si è ferito da solo con un sasso di modo da simulare una mia aggressione, non senza avermi dato prima la mia bisaccia, nella quale avevo messo qualche genere di conforto. Tanto lui sapeva che non gli avrebbero fatto storie perché sarebbe stato maggiore lo scandalo che la traduzione di un prigioniero sia sorvegliata effettivamente da una sola persona, per di più non di ruolo, anziché dalle due previste dalla normativa. Sì l’inizio della mia fuga può essere definito brillante, ma poi francamente di brillante non c’è stato più nulla.

E nessuna sa nemmeno che sono fuggito, porca miseria!

 

( continua)

Albert Camus, une valse à trois temps. Milosz, Micromega e Berardinelli (terzo tempo)

5

di
Francesco Forlani

E così eccomi giunto alla terza ed ultima puntata di questa incursione su Camus. Le puntate precedenti qui e , e una considerazione che devo subito fare e che potrei riassumere con questa formula: ma per essere intellettuali bisogna per forza essere stronzi?

 

 

Le pluriel ne vaut rien à l’homme et sitôt qu’on
Est plus de quatre on est une bande de cons.
Il plurale non vale niente per l’uomo e non appena si
è più di quattro si diventa (subito) un branco di stronzi

Georges Brassens, le pluriel

Leggere dapprima l’editoriale di Paolo Flores d’Arcais uscito sull’ultimo numero di Micromega consacrato alla figura dell’intellettuale e, subito dopo, la mite, argomentata, frontale stroncatura di Berardinelli apparsa sul Foglio , permette a mio parere di capirci un po’ di più su questa benedetta faccenda degli intellettuali e proverò a dirvi perchè.

Innanzitutto cercherò di mettere in relazione le due voci attraverso la figura del contenzioso, Camus in persona, proponendo una piccola scoperta fatta proprio mentre studiavo più a fondo la questione.
In una conferenza di Albert Camus al McMillin Theater Columbia University (New-York) il 28 marzo 1946, intitolata, la crisi dell’uomo (la crise de l’homme camus è possibile leggerla tutta, in francese) c’è un passaggio su cui vale la pena soffermarsi.
Camus si rivolge a degli studenti americani, la sala sicuramente piena, molta emozione e a un certo punto dopo avere parlato di sè come di una generazione confrontata a fatti storici notevoli, due guerre, il nazismo, dice:

“Et que justement, il sera plus intéressant pour vous que je parle, plutôt qu’en mon nom personnel, au nom d’un certain nombre de Français qui ont aujourd’hui 30 ans et qui ont formé leur intelligence et leur Coeur pendant les années terribles où, avec leur pays, ils se sont nourris de honte et ont vécu de révolte. Albert Camus ha trentatrè anni (Mondovi, 7 novembre 1913) e parla a nome di giovani che si sono nutriti di vergogna e che hanno vissuto di rivolta.
Poi aggiunge: Après quoi, il leur a fallu s’occuper de la terreur ou plutôt la terreur s’est occupée d’eux. Et ils se sont trouvés devant une situation que, plutôt que de caractériser dans le général, je voudrais illustrer par quatre histoires courtes d’un temps que le monde a commencé d’oublier mais qui nous brûle encore le coeur.

(Al che, hanno dovuto farsi carico del terrore o piuttosto il terrore si è fatto carico di essi e si sono trovati davanti a una situazione che piuttosto che caratterizzarla su un piano generale, vorrei illustrare attraverso quattro brevi storie di un tempo che il mondo ha cominciato a dimenticare, ma che ci brucia ancora il cuore”)

A questo punto Albert Camus ( avrà chiesto il permesso di accendersi una sigaretta? Gli sarà stato accordato? Fumavano in aula all’epoca? Ma Berardinelli fuma? ) traccia le sue quattro storie ( sembrano affreschi, c’è qualcosa dell’ordine del pittorico più che del cinematografico nei racconti)

1) Dans l’immeuble de la Gestapo d’une capitale européenne, après une nuit d’interrogatoire, deux inculpés encore sanglants se trouvent ligotés et la concierge de l’immeuble [fait soigneusement le ménage], le coeur en paix puisqu’elle a pris sans doute son petit déjeuner. Au reproche d’un des torturés, elle répond avec indignation une phrase qui, traduite en français, donnerait à peu près ceci : « Je ne m’occupe jamais de ce que font mes locataires. »

2) À Lyon, un de mes camarades est tiré de sa cellule pour un troisième interrogatoire. Comme on lui a déchiré les oreilles, lors d’un interrogatoire précédent il porte un pansement autour de la tête. L’officier allemand qui le conduit est le même qui a assisté déjà aux premières séances et c’est pourtant lui qui demande avec une nuance d’affection et de sollicitude dans la voix : « Alors,comment vont ces oreilles ? »

3) En Grèce, à la suite d’une opération des Maquis, un officier allemand se prépare à faire fusiller trois frères qu’il a pris comme otages. La vieille mère se jette à ses pieds et il consent à en épargner un seul, mais à condition qu’elle le désigne elle-même. Comme elle ne peut se décider, on les met en joue. Elle a choisi l’aîné, parce qu’il était chargé de famille, mais du même coup, elle a condamné les deux autres comme le voulait l’officier allemand.

4) Un groupe de femmes déportées parmi lesquelles se trouve une de nos camarades, est rapatrié en France par la Suisse. À peine entrées sur le territoire suisse, elles aperçoivent un enterrement civil. Et ce seul spectacle les jette dans un fou rire hystérique :« C’est comme cela qu’on traite les morts ici », disent-elles.

Tralascio le ultime tre e mi concentro sulla prima.

Dans l’immeuble de la Gestapo d’une capitale européenne, nel palazzo di una città europea, après une nuit d’interrogatoire, dopo una notte d’interrogatori i due prigionieri ancora sanguinanti deux inculpés encore sanglants se trouvent ligotés sono legati e la portiera del palazzo et la concierge de l’immeuble [fait soigneusement le ménage sta facendo meticolosamente le pulizie], il cuore in pace le coeur en paix puisqu’elle a pris sans doute son petit déjeuner. dal momento che, (e qui Camus ci va pesante), ha fatto certamente colazione. Au reproche d’un des torturés, al rimprovero di uno dei due torurati, elle répond avec indignation risponde indignata con una frase che tradotta in francese suonerebbe all’incirca così: une phrase qui, traduite en français, donnerait à peu près ceci :

« Je ne m’occupe jamais de ce que font mes locataires. » « Non bado mai a quello che fanno i miei inquilini »

La stessa storia, ma con alcune modifiche che reputo non inessenziali, la troviamo nei Carnets II,(janvier 1942 – mars 1951) e più precisamente nella sezione che reca come data il 1943; tre anni prima della citata conferenza.

La concierge de la Gestapo installée dans deux étages d’un immeuble rue de la Pompe. Au matin, elle fait le ménage au milieu des tortures. « Je ne m’occupe jamais de ce que font mes locataires. »

Se nella versione americana si parla di un palazzo di una città europea, in questa, precedente, non solo veniamo a sapere che la scena si svolge in Francia, a Parigi, ma conosciamo perfino l’indirizzo, Rue de la Pompe. (quartiere molto borghese, si noti) E ovviamente la portiera non esprime qualcosa che in francese suonerebbe più o meno così, ma dice esattamente la frase che dice:

« Je ne m’occupe jamais de ce que font mes locataires. » « Non bado mai a quello che fanno i miei inquilini »

Perché questa dislocazione? Camus di certo non mente quando dice nella conferenza che si tratta di una città europea, però generalizza un racconto che nella prima stesura, senza la drammatizzazione della seconda, riempie il vuoto del dialogo tra la donna delle pulizie e il torturato, dialogo che la battuta della donna lascia intendere.

Riprendendo i Carnets ci accorgiamo di un altro dettaglio per nulla insignificante. La pagina comincia infatti con un titoletto: Création corrigée. Il riferimento è a un episodio riveduto e corretto? Ma più avanti troviamo una riflessione che rende questa nostra analisi ancora più interessante, se vogliamo. Proprio verso il finale, Camus scrive:

Démonstration. Que l’abstraction est le mal. Elle fait les guerres, les tortures, la violence, etc.
Problème : comment la vue abstraite se maintient en face du mal charnel – l’idéologie face à la torture infligée au nom de cette idéologie.

Dimostrazione, Che l’astrazione è il male. Fa le guerre, le torture, la violenza, ecc
Problema: come la vista astratta si regge di fronte al male carnale – l’ideologia di fronte alla tortura inflitta in nome di questa ideologia

consclusions

Bene. Per tornare alla querelle Berardinelli vs Micromega, la questione non è tanto quella di sapere se è stronzo Berardinelli a dire che stronzi sono quelli di Micromega per il semplice fatto di mettersi in quattro ( il riferimento è alla canzone pluriel di Brassens che tra l’altro, nel video che ho postato sembra insieme a Ferrat tener testa al sosia di Giuliano Ferrara sulla questione degli intellettuali.) o che più generalmente è da stronzi fare gli impegnati sia che si tratti dell’impegno intellettuale o degli impegni di regime.
Berardinelli per esempio insiste molto sulla dimensione “solidaire solitaire” di Albert Camus e tradita dagli intellettuali italiani, attribuendo però alla felice formula un senso completamente diverso da quello originario, e riducendola a intellettuale in solitaria, che in qualche modo, altrove, lo stesso Berardinelli si attribuisce. D’accord, però Camus si definiva solidale della gente comune.
La querelle si gioca, ce ne rendiamo subito conto, sul piano della concretezza.

Facciamo astrazione dell’infelice sottotitolo dell’articolo: Tra Sartre e Camus, Vattimo e Heidegger, meglio la sentenza di Pasolini ( più in là nel testo: “Niente è più ridicolo dell’impegno di uno stronzo”.) Ma soprattutto del titolo dell’articolo di Berardinelli: Intellò, ridicoli e stronzi. Fare astrazione del giornale su cui scrive Berardinelli quello, però, non si può.
Come non sottoscrivere certi passaggi di Berardinelli, come quando per esempio, proprio a proposito dell’editoriale di Flores d’Arcais, scrive:

La democrazia è una bella cosa. Credo che sia l’ultima vera utopia.Ma la democrazia culturale ha riempito l’ambiente di prodotti di quart’ordine, ha lavorato a diffondere consumi culturali quotidiani che minano e tendono a vanificare la cosiddetta libertà di pensiero e di coscienza dei cittadini. E poi: quali scontri filosofici e culturali si sono visti fra intellettuali schierati a sinistra? Si discute, ci si scontra su Repubblica o anche su MicroMega? Non mi pare.
L’intellettuale che si ribella lo fa per ragioni sue e lo fa anche se è solo. Ma se lo fa da solo può succedere che sia accusato, come è avvenuto con Orwell e Camus, di essere un individualista irresponsabile e di essere di destra. Paolo Flores delinea un modello di intellettuale impegnato, ma un modello non c’è, o è meglio evitarlo. Eccezionali critici della società moderna, borghese e mercantile, o delle dittature, sono stati cristiani, liberali, individualisti, conservatori, scrittori e poeti del tutto antipolitici. E’ un impegno anche non avere nessuno interesse a quello che i ricchi e i potenti possono regalarti e mostrare, in privato e in pubblico, questo disinteresse.

Riprendendo la storia delle due versioni del racconto fatto da Camus, sull’origine del male, l’impressione che si ha è che l’editoriale di Paolo Flores d’Arcais sia in qualche modo la versione americana, quella rivolta agli studenti, narrativizzata per quanto meno concreta, mentre la riflessione di Berardinelli più restìa all’astratto, succinta, diretta come nella versione dei Carnets. In una Camus parlava agli studenti e nell’altra a se stesso. Questo ho pensato. Poi però rileggendo la recensione di Berardinelli, un passaggio attira la mia attenzione, la imprigiona, la soffoca:

Fare bene il proprio lavoro non è un ripiego, come dice Flores. Farlo bene significa farlo secondo l’etica che quel lavoro prevede e anche contro le condizioni sociali, istituzionali in cui lo si fa.

« Je ne m’occupe jamais de ce que font mes locataires. » Risuona la frase della donna delle pulizie che rifiuta di dare un bicchiere d’acqua a un torturato. Sembra dire proprio così anche se a rigor di logica, e stando a quanto lo stesso afferma da qualche anno sulla libertà che gli è data in certi giornali, sembra piuttosto la frase del suo direttore, magari leggermente parafrasata: « Je ne m’occupe jamais de ce que font mes rédacteurs. »

Elektro-poetry a Milano (Libreria Popolare di via Tadino)

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lettere perfo All’interno degli incontri di Tu se sai dire dillo,

LIBRERIA POPOLARE DI VIA TADINO

 via A.Tadino 18  – 3 ottobre, giovedì – ore 21

Andrea Inglese e Stefano Delle Monache presentano il libro Lettere alla reinserzione culturale del disoccupato + cd There’s a choir in the straw stack (ed. ItalicPequod, 2013), in una performance per voce e live electronics insieme con Giovanni Cospito.

L’amicizia adulta

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di Andrea Carraro

(Un estratto da Andrea Carraro, Come fratelli, Barbera editore, 2013, 256 p.)

Capitava che andassero a comprare il fumo, era un’occasione per stare insieme. Andrea lo andava a prendere verso le dieci dopo cena, Dario scendeva con comodo e poi compariva sulla strada illuminata a giorno dai lampioni e dalle insegne dei negozi. Spesso pioveva. Le rotaie del tram scintillavano in una curva luminescente: pareva uno scorcio di Lisbona immortalato da un bravo pittore di strada.

Linea (Borbonico-Orfica) contro Linea (Lombardo-Fiorentina)

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Antologia Puglia copertinapiatta

Qualche tempo fa ho dedicato a Claudia Ruggeri un passo nella rubrica “I poeti appartati”. Grazie a Michelangelo Zizzi ho così potuto leggere un saggio di Eliana Forcignanò, contenuto in un libro che sarà presentato a Milano questo mercoledì.   Claudia Ruggeri o della Coincidentia Oppositorum sul palcoscenico della poesia

(il pdf del saggio è possibile scaricarlo al link precedente)

Di seguito le informazioni del caso. effeffe

LietoColle Libri, in collaborazione con Fucine Letterarie, presenta “A Sud del Sud dei Santi. Sinopsie, Immagini e Forme della Puglia Poetica. Cento anni di Storia Letteraria” (LietoColle) a cura di Michelangelo Zizzi, Mercoledì 2 Ottobre 2013 alle ore 21.00, presso la Libreria Popolare, sita in via Alessandro Tadino n.18 a Milano.

 

La presentazione sarà curata dal giornalista Pietro Berra.

 

Nel corso della serata interverranno i poeti Maurizio Cucchi e Andrea Leone e il curatore Michelangelo Zizzi.

 

 

Si tratta di lavoro massivo, che ha coinvolto una decina di critici e che gode della cura di Michelangelo Zizzi. L’opera, voluta da LietoColle Libri, rappresenta il più completo organo di classificazione e conoscenza critica della poesia pugliese, che – per quanto obliata, spesso, dalla grande editoria italiana – ha costruito il midollo spinale delle cosiddette linee orfiche o borboniche contro le cosiddette lombarde o fiorentine.

 

Il saggio rilancia integralmente la poesia meridionale all’interno di una dialettica storico-critica, che si è assopita dopo l’Unità d’Italia nel pretesto ideologico di una discrasia tra Sud e Nord.

 

Con questo lavoro il curatore e la sua equipe di critici si congedano dalle forme parziali, e quasi metapoliticamente partitocratiche, con le quali si è stati soliti affrontare il discorso critico intorno alla poesia pugliese.

Questa è infatti la migliore storia letteraria e metacritica sulla poesia pugliese, analizzata e letta per un periodo di tempo degli ultimi cento anni. La metacritica è una forma/stato che agisce secondo un criterio militante e di carisma leggendo senza troppe resistenze o sfinimenti cartesiani il mondo della poesia come un mondo valoriale. Gli autori esaminati vengono restituiti al luogo di grandezza che a loro compete. La Linea Borbonico-Orfica, questa categoria che assomiglia ad una zona limite tra il mito e la atopia equalizzante, ha costituito il principio di luce/guida dell’Opera. Finché non si è giunti sinopticamente allo Stato di Essere, non ragionevole, non mediato, di una forma intransitiva che è la poesia medesima nella sua impossibilità a dirsi fuori dall’Opera.

 

A Sud del Sud dei Santi contiene quattordici monografie sui maggiori poeti degli ultimi cent’anni: da Vittorio Bodini a Claudia Ruggeri; da Girolamo Comi a Carla Saracino; da Antonio Verri a Vittorino Curci; etc.

E inoltre si pregia di quattro mappe geoletterarie notevolmente dettagliate, nelle quali (oltre ogni limacciamento in campo di calcio nel retro di parrocchia) sono restituiti a realtà storica sia i grandi che i dimenticati; i poeti della domenica come gli incompresi. Raccogliendo, pertanto, tutti gli scrittori pugliesi in versi che – per motivi storici, ipostorici, documentaristici o effettivamente estetici – sono degni di essere tramandati.

Correda il lavoro un’antologia dei testi dei migliori poeti.

“Sali e tabacchi. Libri e detersivi.” Su Antonio Franchini

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di Ornella Tajani

Un dilettante. Se alla figura di editor impietoso, cristallizzata nel lapidario commento che Walter Siti gli attribuisce in Resistere non serve a niente , Antonio Franchini affianca quelle di docente di scrittura creativa, giornalista mancato e partenopeo in esilio, nella creazione letteraria preferisce considerarsi uno scrittore ai margini del mercato, una sorta di amateur compétent.

Les inédites: Ilaria Seclì

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foto+non+pervenuta

Poesie inedite

di

Ilaria Seclì

L’abilità a riprendersi gli effetti personali
svuotare case e poi riempirle, varcare soglie
entrare e uscire dall’uscio, uscire/entrare
portare i minimi resti di una storia e certi odori,
incensi, candele, l’angelo di Laura. Altri,
stranieri, cuciono trame di disagi nuovi.
È vero, non ci sono più le mezze stagioni
le chiavi seguono mappe di morti desideri
infilate a toppe di meccanica sopravvivenza
resta la parola ripudiata dai vocabolari
ora postuma nella panchina del giorno
data in eccesso e sconosciuta ai calendari.
***
Se la profondità non ha letto per l’acqua
resta richiamo d’inferno e pietre, occhi di bambino
prestati a voglie adulte, il gioco è strada secca
coi morti che arrivano e uomini in ray-ban
acconciati di nero mentre il sensale
comanda di aspettare feretro e campane
segnano le ore dell’antistoria, disappartenuto
mondo e infuocate panchine per i fatti del reale
con occhi e bocche protesi all’estranea
portata da elementi sconosciuti a interrogare
la poca misura d’acqua tra il mare e il male.

***
Le antenne dalla finestra sono le stesse ovunque
e i nomi delle vie fatti lama a ogni incrocio
chiavi alterne di memorie a nascondino, vi ho viste città
vi ho camminate -ora fatemi passare- i petali, le mappe,
disonesto amore per il perso mentre viene vita nuova
col bianco non ancora bianco e ancora esilio e ancora
l’avvicinarmi a te per non averti, la conta di distanze
certe, mala sutura tra questo e quello il tuo volere e il mio
la forma che alla nuvola manca all’acqua alla vita
è tutta qui in carne e ossa, passi respiri insonnia.

***
per esempio se ti dico che ritorna il nono mese
da Monte Nero a Settembrini le animate solitudini
e sfocato torna a testa bassa un comizio di paese
un lenzuolo sbandierato sono, un popolato nulla, e un po’ ci credo
l’acqua è vecchia e il box nuovo, il viale l’ha ingoiato un rubinetto,
strade nuove sotto i passi, l’abat-jour sul lato inverso
meridiani e paralleli coi respiri che rinascono da scatole
scocciate e poi riaperte -a che vale- chi teneva il numero dei pacchi
stava inerme e niente è nuovo, ma quel rumore morso
lo schianto lento appena sopra l’ombelico
cosa dice cosa dice cosa dice