Carlo Carabba, Gli anni della pioggia, Ancona, Pequod, 2008, p. 60.
Oggi Robert Capa avrebbe compiuto 100 anni se a 47 non fosse saltato su una mina in Vietnam, allora Indocina. Quel che è stato in vita (“Il più grande fotografo di guerra” titola un giornale già nel ’39) e in morte parte da una premessa: era un profugo politico e razziale a partire da 18 anni.
La “drôle de guerre”, la guerra soltanto dichiarata alla Germania, si apre nel segno di una speciale drôlerie per il fotografo famoso grazie alle immagini strappate dal cuore dilaniato della Spagna: grottesca, paradossale, tragicomica. A Budapest e poi a Berlino, quando non era che un ragazzaccio senza arte né parte, poteva cavarsi da solo dal pericolo. Adesso Robert Capa ha scoperto che tutto ciò che è riuscito a conquistare con l’astuzia e il coraggio vale poco, addirittura gli si ritorce contro.
Di Gian Piero Fiorillo
Donna
Sono donna. Mia madre ha tamponato il sangue e mi ha portato sul lettino della cameretta. Ha chiuso la porta. “Adesso devi stare attenta” mi ha detto. “Purtroppo sei nata dalla parte sbagliata, il potere ce l’hanno gli uomini. Dovrai sottometterti spesso figlia mia, ma l’importante è farlo senza conseguenze”.
Non capivo. Non che non sapessi di cosa stava parlando, figurarsi. Non capivo il tono. E poi da lei non me l’aspettavo: non era femminista nata, come si vantava sempre con tutti? Che razza di discorsi mi andava facendo?
Fraintese il mio sconcerto. “Devi capire – disse – che gli uomini comandano, sono loro che danno gli ordini”.
“Tu sei un uomo?” le domandai a bruciapelo.
“Ma no! Cosa ti viene in mente, cara”.
“Beh, tu mi dai sempre ordini, fa’ questo e fa’ quest’altro dalla mattina alla sera”.
“Che c’entra, è un’altra cosa”. Si confuse. “Senti figlia mia, ricominciamo da capo, vuoi?”
“Mamma, lo so che cosa mi vuoi dire”.
“Beh, allora… meglio così”. Parve sollevata di poter evitare la penosa incombenza, ma mi ostinai a trattenerla.
“Da grande voglio fare il chirurgo” dissi. Non rinunciò a correggermi: “La chirurgo, ricordati che sei donna”. Continuò con quel tono moralistico che le donava tanto e ne faceva la persona che era: “È sempre bello fare qualcosa per gli altri. Si guadagna anche bene, ma il punto non è quello, il punto è la missione. Sì, fare il medico deve essere una missione”. Non ho mai capito la differenza fra il moralismo femminista e quello borghese, e in quel momento lo capivo ancora meno, poiché era lo stesso discorso che mi aveva fatto la mamma del mio ragazzo, qualche settimana prima. E lei non era certo femminista, anzi. Ma non solo il discorso era lo stesso, pure il tono di voce, l’esaltazione della parola missione, insomma tutto.
“Sì, mamma sta’ tranquilla. Per me è una missione”.
“Sono contenta di sentirtelo dire”.
“Voglio tagliare il pene a tutti gli uomini che si sdraieranno sul mio lettino operatorio, sarà questa la mia missione”.
Impallidì di colpo lasciando cadere il cellulare, che schizzò sotto il letto. Per colmo di sventura anche il mio cominciò a squillare in quel momento. Non mi ero ricordata di cambiare la suoneria, come facevo in genere tornando da scuola, e partì una canzone oscena, registrata con i maschi nell’intervallo. Lei, che già stava seguendo il telefonino sotto la branda, più che altro per prendere tempo e nascondere un incontrollabile tremito, ci mise qualche secondo a capire. Ci riuscì solo quando mi vide correre verso la borsa e cercare disperatamente il telefono per spegnerlo. Quando mi girai per guardarla era fremente davanti a me, gigantesca. Il manrovescio mi colpì con forza lasciandomi stordita. Mai, prima, mi aveva dato uno schiaffo.
Un attimo dopo eravamo in lacrime, accucciate per terra ai lati opposti della stanza, sbalordite. Aspettavo che facesse qualcosa per sbloccare la situazione: in fondo era lei l’adulta. Ma continuò a tremare senza riuscire a fare nulla e quando vidi un rivolo di saliva colarle dalla bocca, lei sempre così scrupolosa nelle apparenze perché essere presentabili in qualsiasi situazione è fondamentale, mi fece una grande tenerezza.
Come cambiano in fretta le cose, pensai mentre mi avvicinavo e la abbracciavo per rassicurarla. Sentii che piano piano si calmava. Si sforzò di fermare le lacrime e si pulì la bocca. Restammo senza parlare per un pezzo, abbracciavo la sua testa e continuavo ad accarezzarle i capelli. Mi chiesi se è sempre così, se le madri ridiventano improvvisamente bambine il giorno in cui le figlie diventano donne.
Le mosche
Il disco scese rapidissimo, ne colsi solo il bagliore e il sibilo crescente come di uno sciame d’insetti che si avvicinano. Si posizionò sopra di me a qualche metro d’altezza. Benché fossi distesa al sole in un costume che l’acqua rendeva trasparente, il Raggio mi perquisì a lungo mettendomi a disagio. Anche se era invisibile, lo sentivo frugare con intenzione sotto la mia pelle. Poi il disco parlò:
– Come sei arrivata qui?
– A cavallo, risposi indicando gli scogli e l’animale fermo nell’ombra.
– Non sai che questa zona è proibita?
– Perché mai? Un posto così bello, l’acqua più limpida del pianeta. E questa sabbia così sottile e luminosa che sembra polvere d’argento.
– È solo per questo che sei qui?
– Per questo e nient’altro.
– Questo posto è un cimitero.
Schizzai in piedi impaurita. La fine non poteva venire così, improvvisa e orrenda. Cominciai a correre sulla spiaggia, pazza d’angoscia: avevo sentito parlare dei cimiteri radioattivi, ma non pensavo di poterci finire dentro a galoppo. E avevo anche coinvolto Elena, la compagna di tante corse, con cui avevo condiviso i battiti del cuore e il pulsare del sangue, il sudore e l’odore dei corpi, il momento del ristoro. La cavalla sarebbe morta con me.
La bella Elena capì il mio stato d’animo e mi raggiunse strofinando la testa contro la mia spalla, come faceva quando voleva essere cavalcata. Le saltai in groppa e partimmo velocissimi per un’improbabile fuga. Guardavo i riflessi marini piangendo per il male che si nascondeva nell’acqua limpida, in quel paesaggio d’incanto in cui solo ora mi sembrava di percepire un inaspettato spettro di colori o la crescita esagerata della vegetazione sulle dune. Non avevo il tempo né la voglia di darmi della stupida. Volevo solo farla in barba al disco e sfuggire alla condanna già decretata.
Cozzammo a velocità folle contro il Raggio proiettato sulla parete magnetica del cimitero, e ricademmo storditi sulla sabbia. In un attimo il disco si portò sopra di noi. Elena nitrì cercando di rialzarsi, ma il colpo era stato molto forte e faceva fatica.
– Almeno lei, dissi, salvate almeno lei.
– Nessuno può uscire dalla zona.
– Perché tanto rigore?
– Chi entra nella zone è irrimediabilmente contaminato.
– Allora fate presto.
– Non c’è fretta. Presto arriveranno le mosche.
– Le mosche! Le mosche no, per favore.
– Sono affamate, non ci metteranno molto.
Intravidi una possibile salvezza: – Lo dite solo per spaventarmi, le mosche attaccano i morti, e noi due siamo vive.
– Già, gracchiò il disco, ma le mosche non lo sanno.
( questi due racconti di Gian Piero Fiorillo, che si è interessato delle problematiche della salute mentale in vari suoi interventi e libri, fanno parte di un più vasto lavoro narrativo inedito. G.M.)
Sabato 26 ottobre 2013 alle ore 18:30
a Bologna, presso la Libreria delle Moline
(via delle Moline 3)
presentazione del primo libro
della collana SYN _ scritture di ricerca
Figurina enigmistica
di
Mariangela Guatteri
Martedì 22 ottobre 2013: Le nuove scritture.
Silvan
Segato in due.
Scisso in sezioni cubiche.
Sparito.
In un cerchio di fuoco, senza scarpe
svelando al primo colpo le mie carte
storcevo un cucchiaino
(l’orologio schiacciato in un pestello)
con un buco vistoso nel calzino.
di Francesco Forlani
Ieri sono andato con Giulia a vedere lo spettacolo di Paolo Musìo. In una piccola sala, spazio teatrale Idiòt in zona Porta Palazzo a Torino. Si entra da un fatiscente portone dai muri scrostati, scenografia urbana involontaria che tanto sarebbe piaciuta a Luca Ronconi; si attraversa un terrazzo a ringhiera di vago sapore siciliano, e da una porta si accede nelle tre salette, rigorosamente bianche su cui spiccano un vecchio lavacro di pietra, panche di legno, e un jukebox oracolare.
Quando stamattina ho aperto davanti a me i due inserti, La lettura del Corriere, e il Domenicale del Sole 24 ore, ero indeciso da quale cominciare. La lettura corrisponde, in un immaginario meeting di atletica, a una corsa di 200 metri, fai in fretta a trovare in mezzo al chiacchiericcio generale proposto quell’un-due articoli in grado di giustificare la spesa. Il Sole ha quasi sempre il respiro ritmato e costante della maratona. Poche cose inutili, poco guizzo però.
«Non chieder più nulla,
sappi goder del tuo stesso dolore,
non adattarti per fuggir la morte;
anzi da te la vita nel deserto
fatti – che sia per gli altri nuova vita;
non disperare, ma rinuncia ai vani
aspetti della vita, e nel deserto
sarai tranquillo: dalla tua rinuncia
rifulgerà il tuo atto vittorioso,
APГIA sarà il tuo porto ΔI’ENEPГEIAΣ»
Il dialogo-intervista a cura di Cristina Taglietti, con Alessandro Piperno e Silvia Avallone si può trovare qui, mentre i versi che avete appena letto, da una poesia di Carlo Michelstaedter, li potete ritrovare in un delicatissimo articolo del nostro Sparzani, di qualche tempo fa.
Ieri sono stato a vedere lo spettacolo di Paolo Musìo, Eremos, per la regia di Theodoros Terzopoulos. Il testo, tratto dall’opera “La persuasione e la Rettorica” di Michelstaedter (Adelphi) è stato adattato dall’interprete. Sabato era la quinta data e la media di spettatori è di venti per rappresentazione. Venti spettatori disposti su due file di panche messe una di fronte all’altra. Un proiettore di luce ad altezza uomo è puntato sull’attore che ad esso si rivolge durante tutto il monologo. Noi spettatori siamo presi nel mezzo di questi due flussi, di luce e di parole, luce e parole che agiscono sul corpo dell’attore, lo scorticano, lo trasformano negli umori, sudore e saliva che modellano il terriccio stretto prima nei pugni e poi lasciato cadere ai propri piedi. Un’esperienza radicale, militante.
Avallone, libero, Piperno stopper, ci dicono qualcosa in difesa della letteratura. O almeno vorrebbero e per capire da chi o da cosa un’idea ce la danno sicuramente titolo e cappello introduttivo alla chiacchierata.
La letteratura non è militante
«I libri cambiano noi, non la società. Niente impegno politico, solo spazi liberi»
Ma per entrare nel merito della questione riporto un passaggio che secondo me offre spunti interessanti, a proposito.
“Claudio Magris sostiene che l’utopia di Don Chisciotte, destinato comunque a essere sconfitto, è un movente per scrivere, che la letteratura ha il compito di far sentire, in qualche modo, questa necessità di migliorare il mondo.” recita il redazionale.
PIPERNO — Per me no. Credo che la letteratura possa al limite migliorare chi legge e chi scrive, ma credo che contaminarsi sia anche un pericolo per l’arte stessa. Se pensi troppo a migliorare il mondo e non a fare un buon libro, non va bene. E un buon libro può anche peggiorare il mondo. Si dice sempre che nella Germania nazista c’era un gran consumo di musica classica, di cultura alta, di autori come Goethe. Ci sono società operaie che non hanno alcuna attitudine alla lettura e che sono tanto meglio della borghesia nazista. Pure la parola migliorare mi lascia perplesso.
AVALLONE — Nel libro puoi essere impopolare, raccontare storie fastidiose, ma tutto questo è vitale. È fondamentale nella scuola: per diventare cittadini curiosi gli studenti devono imparare a esercitare questa libertà. Più che un impegno politico alla maniera di Sartre, è un impegno morale che, per me, significa non essere indifferenti. È un’altra virtù della letteratura: vivere le vite degli altri senza giudicare, benché siamo in una società violenta che, come in certi programmi televisivi, ama inchiodare una persona a un ruolo, a un reato. La letteratura complica l’esperienza, oltrepassa il giudizio e ti permette di vedere il mondo attraverso altri occhi. È un modo per prendersi cura delle vite degli altri.

Perché questo passaggio? Forse perché Claudio Magris ha dedicato a Carlo Michelstaedter un posto privilegiato nel romanzo “Un altro mare”, (Milano, Garzanti- Gli Elefanti 2003) che ha per protagonista Enrico Mreule, insieme a Nino Paternolli, grande amico del giovane filosofo? Forse, più semplicemente perché è l’unico passaggio di tutta la conversazione, piacevole tutto sommato e nient’affatto “pretenziosa” espressamente dedicato alla questione, affaire di questi tempi classificato come “intellò stronzi e peggio ancora se romanzieri intellò”. Se la risposta di Piperno può sulle prime lasciare perplesso e sulle seconde pure, più precisa è Silvia Avallone quando ci ricorda che la parola impegno debba intendersi non necessariamente come politico, “alla Sartre” ma morale, alla Camus, aggiungiamo noi. Ma allora cosa è un impegno morale? Una professione da intellettuali, un mestiere da romanzieri o una vocazione da uomini e donne di cultura?
http://youtu.be/RQTbRVHmtmA
La voce dell’attore sorge da una parola doppia, biascicata, dionisiaca, incomprensibile e soltanto dai due toni riconducibile a due anime diverse. Anche il corpo, figura dell’interprete, è in dialogo costante con l’ombra che gli fa da controfigura sullo sfondo, doublure, in francese, risvolto del personaggio, due volte defigurato. Sembra di essere nel mito platonico della caverna, e la ricerca di assoluto e di verità, di Michelstaedter\Musìo, tutta rappresentata in quella frontalità con la luce, le fiamme che generano dalle cose, dalla loro verità, soltanto l’ombra. Noi spettatori fissiamo allora il volto di chi vede in faccia le cose, la vita, la morte, ma soprattutto il tempo-immagine senza il quale nessuno e niente sarebbe possibile. In un dialogo impossibile tra il tutto, il troppo, e il niente come nell’epigrafe testamento del giovane filosofo, didascalia di un disegno di una lampada fiorentina.

La lampada si spegne per mancanza d’olio
io mi spensi per traboccante sovrabbondanza
Il testo, le note di Carlo Michelstaedter si uniscono molecolarmente ai frammenti di Eraclito, recitati senza testo a fronte, arcaici, appena appena riconoscibili. Sembra accadere alle parole quanto viene “detto” poco dopo:
Due sostanze si congiungono chimicamente: cessano entrambe dalla loro natura, mutate nel vicendevole assorbimento. La loro vita è il suicidio. Per esempio il cloro è sempre stato così ingordo che è tutto morto, ma se noi lo facciamo rinascere e lo mettiamo in vicinanza dell’idrogeno, esso non vivrà che per l’idrogeno. L’idrogeno sarà per lui l’unico valore del mondo: il mondo.
Per quell’atomo di cloro è questione di vita o di morte. Da quando, in qualunque modo, avvenuto alla vita mortale, ebbe coscienza clorosa, ha sperato disperatamente; il suo occhio guardava la tenebra e non vedeva cosa che fosse per lui: la sua vita è stata un dolore mortale. Se noi ora gli avviciniamo l’idrogeno, nell’oscurità gli apparirà una luce lontana, indistinta, ed esso si risveglierà nel crepuscolo a una più precisa speranza, finché giunto l’idrogeno nella data vicinanza, il cloro vedrà tutto chiaro l’orizzonte, ed affermerà la sua vita ormai certa – nel piacere mortale dell’amplesso. Ma soddisfatto l’amore, la luce anch’essa sarà spenta, e il mondo sarà finito per l’atomo di cloro. Cloro, idrogeno. I loro mondi diversi ma correlativi così che dall’amplesso mortale avesse d’attender poi e soffrir la sua vita: l’acido cloridrico.
Nella lontananza dell’idrogeno, il cloro attende inerte. La condizione per il suo volere non è in lui, ma in ciò che è per lui mistero, infinita oscurità, contingenza delle cose, caso.
– In questa attesa, per questo sentimento del tempo inutile il cloro nella lontananza dell’idrogeno s’annoia.
(Lo spettacolo si replica il 25-26-27 ottobre, ore 21, Spazio idiòt, via S.G.B. La Salle 16 A, 10152 Torino)
La sensazione che ho avuto, a lettura ultimata della discussione è stata non tanto quella di una vera e propria solitudine, autentica matrice di ogni creazione letteraria. Non solitudine, ma isolamento da intendersi qui nel suo significato medico di convalescenza. Ancora una volta, si ha come la percezione che il pensiero, la libera creazione, la cultura, non ne vogliano più sapere della battaglia, dell’ideologia, della comunità; basta i J’accuse ma pure Zola, il romanziere francese, mentre per Zola calciatore sardo si potrà soprassedere. Sembra, a conti fatti, permanere l’equivoco di fondo, sul senso da dare alla parola impegno. E una domanda, semplice quasi banale, sembra affacciarsi, timidamente, sulla questione: ma oggi dove e come l’impegno intellettuale sta monopolizzando la creazione? A me sembra che dalla fine degli anni settanta manchino, purtroppo, per fortuna, in Italia, parole d’ordine, partiti della cultura, obblighi politici per gli intellettuali, linee editoriali dettate dai partiti, anche perché i partiti pare che se ne siano andati da molto prima. Insomma mi sembra che tutti vogliano disertare la battaglia quando della battaglia non si hanno tracce da un bel po’. L’impegno, ha ragione Silvia Avallone, è morale, ricerca della verità, e la verità può a volte costare la vita, come nel caso dell’appena ventitreenne Carlo Michelstaedter. O la prova fisica e morale che un interprete come Paolo Musìo ha voluto dare in una piccola sala di teatro di ricerca, nel cuore del mercato di Porta Palazzo, l’unico mercato a mantenere qualcosa d’umano. In questo presente.
Né alcuna vita è mai sazia di vivere in alcun presente, ché tanto è vita, quanto si continua, e si continua nel futuro, quanto manca del vivere. Che se si possedesse ora qui tutta e di niente mancasse, se niente l’aspettasse nel futuro, non si continuerebbe: cesserebbe di esser vita. Tante cose ci attirano nel futuro, ma nel presente invano vogliamo possederle.
Io salirò sulla montagna – l’altezza mi chiama, voglio averla – la ascendo, la domino; ma la montagna come la posseggo? Ben son alto sulla pianura e sul mare, e vedo il largo orizzonte che è della montagna; ma tutto ciò non è mio. Non è in me quanto vedo.
Il mare brilla lontano. In altro modo esso sarà mio. Io scenderò alla costa, io sentirò la sua voce. Ma se mi tuffo nel mare, se bevo il salso, se esulto come un delfino – se m’annego – ma ancora il mare non lo posseggo: sono solo e diverso in mezzo al mare.
Né chi cerchi rifugio presso alla persona ch’egli ama – potrà saziar la sua fame: non baci, non amplessi o quante altre dimostrazioni l’amore inventi li potranno compenetrare l’uno dell’altro: ma saranno sempre due, e ognuno solo e diverso di fronte all’altro. –
Tutti lamentano questa loro solitudine, ma se essa è loro lamentevole – è perché, essendo con se stessi, si sentono soli: si sentono con nessuno e mancano di tutto.
Ognuno vuole dalle altre cose nel tempo futuro quello che in sé gli manca: il possesso di se stesso: ma quanto vuole e tanto occupato dal futuro sfugge a se stesso in ogni presente.
Così si muove a differenza delle cose diverse da lui, diverso egli stesso da se stesso: continuando nel tempo. Non sa ciò che vuole, non sa ciò che fa perché lo faccia: non ha se stesso: finché vive in lui irriducibile, oscura la fame della vita.
Perciò è ognuno solo e diverso fra gli altri, ché la sua voce non è la sua voce ed egli non la conosce e non può comunicarla agli altri.
“La persuasione e la Rettorica” di Carlo Michelstaedter (Adelphi)
di Domenico Fornara (diplomatico)
(pubblichiamo una risposta al nostro “Diritto d’asilo: una proposta politica“).
Idee condivisibili (sostengo da sempre che occorra uscire da una mentalità di emergenza e lavorare su programmi di migrazione/asilo di medio lungo termine, armonizzati in ambito UE, non dettati unicamente da esigenze di sicurezza) ma irrealizzabili per motivi di ordine giuridico ed organizzativo. Innanzitutto lo status di rifugiato è giuridicamente incompatibile con la presenza dell’interessato nel proprio paese; lo stesso vale per il richiedente asilo: ne ha titolo chi fugge dal proprio paese, ritenendosi perseguitato, e chiede protezione ad un altro stato.
Ai sensi della Convenzione di Ginevra sul diritto dei rifugiati del ’51 e di tutti gli altri strumenti giuridici in materia il passaggio della frontiera è condizione necessaria. Finché il richiedente si trova “a casa” non puo’ giuridicamente essere considerato un rifugiato e se palesa le sue intenzioni rischia di peggiorare la propria condizione di perseguitato inimicandosi ulteriormente le sue autorità (per carità, non voglio minare il principio di libertà di parola, descrivo solo una condizione di fatto in molti regimi autoritari).
In paesi di grandi dimensioni l’aspirante richiedente asilo potrebbe inoltre non trovarsi nella capitale, ma a migliaia di chilometri di distanza, e non è affatto detto (anzi) che le autorità locali lo lascino liberamente scorrazzare per andare a chiedere asilo presso le ambasciate occidentali. Ed ove riuscisse ad ottenerlo grazie ad una interpretazione estensiva del principio di territorialità (considerando l’ambasciata extraterritoriale e l’ingresso in essa alla stregua del “passaggio di frontiera” di cui sopra: esistono dei casi, vedasi Assange), si porrebbe poi il problema di dover nuovamente transitare sul territorio del proprio paese per raggiungere porti o aeroporti. Anche in questo caso non è affatto detto (a-ri-anzi) che le locali autorità lo lascino passare e partire. Finirebbe per blindarsi nell’ambasciata e rimanerci sine die (ricordo il caso di persone che sono rimaste per oltre vent’anni nel compound di una nostra ambasciata), contribuendo peraltro a peggiorare le relazioni tra lo stato di bandiera dell’ambasciata e lo stato ospite.
Da un punto di vista pratico, inoltre, il riconoscimento dello status di rifugiato implica approfonditi studi sulla situazione del suo paese di provenienza e – soprattutto – su quella specifica del richiedente asilo che richiedono ripetute interviste alla persona, raccolta di elementi e testimonianze ed una expertise complessa e composita (in Italia il lavoro viene svolto da diverse Commissioni territoriali, coordinate da una Commissione nazionale: di esse fanno parte molti funzionari ed esperti provenienti da diversi ministeri, associazioni ed organizzazioni internazionali). Queste expertise non esistono nelle Ambasciate.
Le nostre rappresentanze diplomatiche inoltre, già piccole per definizione, sono letteralmente “alla canna del gas” a seguito di continui tagli al bilancio del Ministero degli Esteri (altri sono in arrivo…) e non potrebbero mai raccogliere tale sfida. Faccio un esempio concreto: la nostra ambasciata a Khartoum (Sudan) conta due funzionari (incluso l’ambasciatore) e cinque impiegati inviati dall’Italia: totale sette persone che devono gestire tutto lo spettro di rapporti politici, di sicurezza, commerciali, consolari, sociali, culturali (continuo?…) con il paese africano e la comunità italiana residente. Ad essi si aggiungono una manciata di contrattisti locali (che, in quanto tali, non hanno potere decisionale, ma sono solo esecutivi: segreteria, autisti, ecc). Attualmente in Sudan ci sono circa 1.880.000 sfollati interni (molti dei quali potrebbero avere titolo a chiedere asilo altrove). Se decidessimo di aprire uno sportello “richiedenti asilo” presso la nostra Ambasciata, cio’ avrebbe un enorme “pull factor” e, con ogni probabilità, molti di questi sfollati potrebbero volersi presentare presso la nostra ambasciata. Lascio immaginare le conseguenze.
Cio’ senza contare che in alcuni paesi le condizioni politiche e di sicurezza sono tali per cui la maggior parte degli stati occidentali ha interrotto le proprie relazioni diplomatiche chiudendo di fatto l’ambasciata (es. Siria) o gestisce i propri rapporti bilaterali da un’altra sede vicina (Somalia, per cui abbiamo un ambasciatore dedicato ma di fatto residente a Nairobi). Ed i poveri siriani e somali (che peraltro costituiscono buona parte dei nostri richiedenti asilo) come li gestiamo? Ps. Se qualcuno vuole suggerire di potenziare la nostra rete estera per affrontare meglio le nuove sfide (come anche questa) sappia che mi troverebbe d’accordo.
Faccio tuttavia presente che la tendenza è ahimè inversa. Il nostro Ministero degli Esteri, che già era meno staffato e finanziato rispetto a quelli dei nostri partner occidentali di riferimento, ha visto ridotto il suo budget del 40% negli ultimi 5 anni. Nei prossimi giorni ci accingiamo a chiudere una trentina di uffici all’estero e, stando alla manovra attualmente in discussione in parlamento, nei prossimi due anni le risorse per le indennità del personale all’estero (già drasticamente ridotte negli ultimi anni) verranno tagliate di ulteriori 20 milioni di euro. Non si fanno i conti senza l’oste…
Il documentario Enjoy Poverty (2008) dell’artista Renzo Martens esplora l’immagine della povertà che l’Occidente ricco ha dei paesi cosiddetti in via di sviluppo; è uno dei pochi seri tentativi di misurarsi con le difficoltà dell’impegno politico dell’arte contemporanea. Pubblico qui il trailer e l’unico frammento disponible online. Il resto è paradossalmente, o in perfetta coerenza con la ‘protezione’ dei confini, protetto da copyright. http://renzomartens.com/episode3/film
di Andrea Inglese
Utilizzerò questo post come un pro-memoria, una pagina di diario dove appuntare (in pubblico) alcuni nodi che mi interessano, e formulare ovviamente buoni propositi intellettuali: “è ora di chiarire questo, di approfondire quest’altro, ecc.”. L’innesco di queste riflessioni è stato l’intervento di Giulio Marzaioli e, anche, un commento di Mariangela Guatteri, sulla “poesia di ricerca”.
Sono andato a rileggermi, innanzitutto, l’indice del n° 3 (aprile 2007) di Per una critica futura. Quaderni di critica letteraria.
a cura di Fausto Pagliano
20 ottobre, domenica, ore 19.00
Laboratorio Primo Aprile, via Nicola d’Apulia 12, Milano
Alla conclusione della mostra vi sarà una chiacchierata tra il curatore e Biagio sulla pittura, sulle opere esposte tra scelte di stile e di materiali e riflessioni sull’esperienza artistica e poetica.
Il segno come scrittura, il segno come materia.

di Giacomo Verri
Settant’anni fa l’incubo nel Ghetto romano. In presa diretta Debenedetti scriveva un libro sveltissimo e luminoso, 16 ottobre 1943, una tra le più sentite testimonianze della tragedia che si perpetrò il 16 ottobre del 1943 nei confronti della comunità ebraica. Quel giorno 1024 persone vengono prelevate tra le vie, nelle case, negli esercizi. L’azione è capillare, un lavoro fino che trecento SS compiono abitazione dietro abitazione, seguendo lo storto rigore di certi elenchi approntati per i tedeschi da qualche ariano ‘piccolo piccolo’, mosso da una troppo alacre viltà. La razzia ha inizio intorno alla mezzanotte del venerdì 15; a quell’ora ogni buon ebreo è coricato in letto; alcuni si mettono a sedere, altri s’azzardano a raggiungere la finestra. Di là dai vetri ci sono gli elmetti delle truppe tedesche: sparano, urlano e niente altro. “Facessero qualche cosa, sfondassero una porta, una saracinesca, una bottega, almeno si capirebbe il perché. […] È come il mal di denti, che non si sa quanto può durare, quanto può peggiorare”.
Sappiamo che peggiorò, sappiamo che la situazione se ne andò in una somma disgrazia. Ma non di colpo, non subito. Ed è proprio questo clima di incertezza torbida, di tentennamenti catastrofici, di lenta e ignara agonia a fare lo spessore tragico della vicenda narrata. Debenedetti lavora con la lima della finzione per dare il risalto più grande al vero. Fa ciò che recentemente Siti ha attribuito al Realismo: “coglie impreparata la realtà, o ci coglie impreparati di fronte alla realtà”. Basta fare alcuni più precisi – ancorché incompleti – prelievi dentro al testo, là dove esso si allontana dagli attributi della cronaca-documento (nella quale categoria il libretto può essere collocato), optando per una struttura più letteraria, quella che Giuliano Manacorda ha definita “un’invasione della narrativa nella saggistica”. Qui sta l’aspetto maggiormente efficace del racconto-resoconto debenedettiano.
E così alcuni passi, mentre fanno risuonare Manzoni, riescono a sortire effetti di tragicomica assurdità: “Non la macilenta salmodia del cantore sperduto sul lontano altare; ma dall’alto della cantoria, nella romba osannante dell’organo, il coro dei fanciulli gloriava un cantico di sacra tenerezza […] Era il mistico invito ad accogliere il Sabbato che giunge, che giunge come una sposa. Giungeva invece nell’ex Ghetto di Roma, la sera di quel venerdì 15 ottobre, una donna vestita di nero, scarmigliata, sciatta, fradicia di pioggia”. Questa che incede, ricordandoci il don Abbondio in procinto di fare l’incontro coi bravi, è la Celeste, una tizia strana, un po’ tocca, “una chiacchierona, un’esaltata, una fanatica”. Il caso vuole che capiti proprio a lei il compito fatale di portare la nuova dell’arrivo dei tedeschi. Pochi le prestano orecchio, nessuno le crede. Siamo quasi di fronte a una scena da tragedia greca, alla sciagura di una verità negata. E proprio così si apre 16 ottobre 1943: con una diminuzione di realtà a favore di una quieta ignoranza, con la mancata intelligenza iniziale che è cifra della caduta successiva.
Ma accanto ai guasti della conoscenza, c’è pure la pigrizia della coscienza, indurita nelle proprie abitudini, anche ancestrali. L’autore ne elenca diverse: quella, per gli ebrei, di coricarsi per tempo: “forse la memoria di un antico coprifuoco è rimasta nel loro sangue; di quando, al cadere delle tenebre, i cancelli del Ghetto stridevano con una inveterata monotonia […] a rammentare che la notte non era per gli ebrei, che per loro la notte era pericolo di essere presi, multati, imprigionati, battuti”. E poi: “contrariamente all’opinione diffusa, gli ebrei non sono diffidenti. Per meglio dire: sono diffidenti, allo stesso modo che sono astuti, nelle cose piccole, ma creduli e disastrosamente ingenui in quelle grandi”. Gli ebrei minimizzano, gli ebrei sperano, gli ebrei “hanno un disperato bisogno di simpatia umana”.
Amore non corrisposto. Perché al contrario i tedeschi avanzano robotici, non si lasciano comprendere. Sono autori e personaggi, a un tempo, di un gioco perverso e grottesco dalle regole illeggibili. Ma fanno davvero paura. È l’inizio della fine. È la realtà che strappa la fantasia più terribile. Accanto agli ebrei razziati, i giovani soldati ridono felici di poter visitare la città eterna. Con le vetture colme di esistenze rubate visitano “Piazza S. Pietro, dove parecchi dei camion stazionarono a lungo. Mentre i tedeschi secernevano i wunderbar da costellarne il racconto che si riservavano di fare, in patria, a qualche Lili Marleen, dal di dentro dei veicoli si alzavano grida e invocazioni al Papa, che intercedesse, che venisse in aiuto”.
È quasi l’epilogo dell’assurdo 16 ottobre 1943. Il resto è Storia. La tragedia più grande arriverà nelle ore a venire, nei giorni, nei mesi successivi. Le Fosse Ardeatine, Kappler e poi Priebke. Ma è il libro di Debenedetti a raccontare l’inizio di una storia che ancora pulsa nel cuore di Roma. Una storia da conoscere, una memoria da conservare.
di Giulio Marzaioli
Quando si legge in merito alla c.d. scrittura di ricerca, l’unica costante sembra essere l’impossibilità di addivenire ad una definizione chiara e condivisa.
C’è chi intende per ricerca qualsiasi percorso di approfondimento e mutamento di un’esperienza letteraria, e allora potrebbe escludersi da tale ambito l’opera di chi non sembra modificare mai il proprio approccio alla stesura del testo. Ancora, chi riduce al criterio di ”sperimentazione” il segno distintivo, senza considerare che nel metodo sperimentale la conferma o falsificazione di un’ipotesi deve ricondurre alla formulazione di una legge; risultato, questo, che non solo avviene raramente (trovandoci spesso di fronte a scritture che, al contrario, sembrano voler dimostrare teorie già preventivamente asserite), ma c’è da augurarsi che non avvenga troppo spesso, dovendosi altrimenti richiudere l’arte all’interno di gabbie concettuali.
Abbiamo ricevuto da Massimo Parizzi, amico di Nazioneindiana, una mail che ci sembra importante pubblicare tal quale. È un’indicazione rivolta a chi sente l’esigenza di fare qualcosa di concreto per le condizioni dei profughi giunti a Lampedusa.
Cari amici,
mia sorella Franca, medico, vive da anni a Lampedusa, dove, con la nuova giunta, è diventata assessore alla sanità e, fra altre cose, all’accoglienza e primo soccorso ai migranti. Suo figlio Matteo, che vive lì anche lui, ha partecipato fin dall’inizio ai soccorsi in mare. Qualche giorno fa, roso dal senso di impotenza (come tutti noi, credo), ho chiesto a Franca che cosa potevo fare.
Un milione d’anni fa ecco Mohamed. Fuggiva da Mogadiscio per salvarsi la vita. Lo rinchiudevano cinque mesi a Ganfuda prigione libica di Bengasi e «il direttore della prigione si chiama Ibrahim, lui ha deciso che se vuoi essere libero devi pagare denaro». Mescolava la scabbia, le zecche, i soldi, la libertà, confezionava la vela, costruiva la zattera e «c’è questa grande nave» e «noi eravamo 260» e «qualcosa del genere» e «troppa gente». Ma: Portopalo. Ma: un’ascesa. Verticale. Verso Perugia. Cammino nel sacrosanto diritto del profugo a vivere. Fabrizio Ricci raccolse la storia nel video. Mohamed raccontò, mostrò, spiegò. Era infermiere. A Mogadiscio. Disse del viaggio. Disse: «Come animali». Oggi è uomo, nel suo diritto, infermiere, lavora da noi, in una clinica, «non posso lamentarmi», spiega, «di come vanno le cose». La famiglia è venuta a trovarlo. La famiglia è tornata in Somalia. Nel video, un milione di anni fa, aveva lo sguardo scottato. Diceva: «Fate qualcosa». «Fate qualcosa di diverso». Diceva: «Non respingeteci». «Come animali». [D.O.]
di Giacomo Sartori
Cominciamo dai fatti. In quest’autunno ancora mite in tutte – dico tutte – le vetrine delle belle librerie della città estera dove mi trovo c’è la traduzione di una merda di Paolo Giordano. Ma no, già parto male, il prodotto di Paolo Giordano devo chiamarlo romanzo, non merda. Lo sappiamo tutti, fin dall’inizio romanzo ha voluto dire merda e nettare, borghesia ottusa e animi illuminati, baldanzosa ignoranza e monacale erudizione, bigottismi e trasgressione, logorrea e essenzialità, abissi spirituali e sgualcite banconote, accademici sovrappeso e geniali morti di fame, popolo e elite, nauseanti luoghi comuni e eterea intelligenza, inondazioni editoriali e tirature infime (o postume), piattezze letterali e strati sotterranei di senso, verità sull’uomo e prevenzioni del tempo, artifici retorici e libertà espressiva, romanticherie e rigore dell’analisi, frasi dozzinali e perle linguistiche. E anzi, proprio in questa dialettica tra opposti inconciliabili, e nell’impossibilità di tracciare precise linee di demarcazione (e ancora più di teorizzarle), sta forse l’essenza dell’inafferrabile genere. Quindi mi correggo, questa mercetta tipografica non la chiamerò più merda, ma romanzo. Romanzo a tutti gli effetti. Romanzo che io non leggo, e non leggerò mai, che non ha nulla ha a che fare con la mia idea di romanzo (e con i romanzi e non romanzi che scrivo io), ma comunque romanzo. E mi scuso anzi per aver usato quel vocabolo, per la mia volgarità: non volevo offendere nessuno. Chi mi conosce sa che a parte qualche asmatica intemperanza sono una persona mite e tollerante (e anzi sempre più con l’età). L’insignificante Giordano ha tutto il diritto di scrivere le inezie che scrive, e contento lui se ha tanti lettori. No, sbaglio: non solo ha diritto, ma deve assolutamente scrivere le coglionerie che scrive, il Romanzo, la Letteratura, ne hanno bisogno. Non potrebbero esserci i poli sublimi, senza i paoli giordani.
[È scontato che adesso sarò accusato di essere invidioso di Paolo Giordano, o insomma del suo successo, di essere il tipico scrittorucolo frustrato che sfrigola nel livore. Giuro sulla Bibbia, o sui volumi della Recherche, che non sono invidioso di Paolo Giordano o della sua notorietà. Come non potrei invidiare un signorotto che conduce una Ferrari, perché a me la sua Ferrari non dice nulla, e tanto meno la tipologia umana che ama possederla e fregiarsene. So però che sono parole inutili: già dalle prime righe sono stato bollato come un geloso fallito, quindi lascio stare.]
Riveniamo ai fatti: in tutte le vetrine delle librerie (e anche dei giornalai!) della città dove sto c’è questo lucido romanzo di Paolo Giordano, che è il contrario di quello che io reputo un buon romanzo, ma è pur sempre un romanzo (si noti che faccio dei progressi). Questo romanzo è pubblicato da un’ottima e gloriosa casa editrice del paese dove mi trovo adesso. Un editore che qualche anno fa (dico qualche, non dieci) non avrebbe nemmeno preso in considerazione uno scrivente come Paolo Giordano. A costo di andare a scovare (e magari in un periodo in cui la narrativa italiana non aveva la cote!) autori italiani poco noti, o non ancora noti, a costo di correre il rischio (succedeva) di vendere solo qualche centinaio di copie, per poi pubblicare un’altra opera dello stesso, che a sua volta vendeva qualche centinaio di copie (succedeva). Adesso invece questo solido pilastro delle lettere traduce Paolo Giordano, e a quanto intuisco non prende nemmeno più in considerazione autori italiani che non siano come Paolo Giordano. Questa è un’autentica rivoluzione, che io, che non so in fondo nulla dell’editoria (mi interessano i dettagli?), e che frequento sporadicamente persone che ci lavorano, e non vado alle fiere, e ho tutt’altro per la testa, rilevo nelle vetrine delle librerie davanti alle quali mi fermo. [Certo gli addetti al mestiere, se leggessero queste mie parole, avrebbero a questo punto un sorrisetto di condiscendenza: avrebbero perfettamente ragione.]
Devo del resto confessare che non entro spesso in libreria, nella città dove mi trovo, anzi molto di rado. Il problema è che se entro compro dei libri, perché a me i libri piacciono molto, e trovo sempre qualcosa che mi entusiasma. Se faccio l’erroraccio di entrare, acquisto tre, quattro, cinque libri (quando ne compro uno solo è perché sono di fretta, o la libreria proprio non mi garba, ma mi dispiace che il libraio mi veda uscire a mani vuote: oltre ai libri amo anche i librai), che qui sono molto costosi (in altri periodi erano meno costosi che in Italia, ora non è così). E insomma arrivo poi a casa con la mia piletta di libri nuovi fiammanti, e mia moglie vede che invece di aver fatto la spesa ho comprato solo libri, e il frigo resta vuoto. Mia moglie è molto comprensiva, e anche lei ama molto i libri, ci mancherebbe, però insomma le piace anche che nel frigo ci sia qualcosa, quando ritorna stanca dal lavoro. Questo è il motivo per cui lotto con me stesso per non entrare nelle librerie. Beninteso con la stessa difficoltà e gli stessi cedimenti che hanno i giocatori di azzardo nei confronti dei luoghi manigoldi dove si gioca. Però insomma in questo dominio posso essere fiero di me, di solito riesco a padroneggiare le mie pulsioni (per prudenza le vetrine le guardo soprattutto nelle mie passeggiate notturne, quando so che non corro alcun rischio di poter entrare a spendere i quattrini destinati al cibo).
Ma torniamo ancora ai nomi italiani nelle vetrine delle librerie della città di cui parlo. Se si trattasse solo di Paolo Giordano sarebbe niente. Il problema è che in questo momento affacciati alle belle strade ci sono molti altri romanzi italiani che nella mia testa finiscono nella stessa categoria in cui è cascato quello di Paolo Giordano. Veramente tanti. Troppi. E la maggior parte pubblicati da gloriose case editrici che fino a qualche anno fa avrebbero disdegnato mediocrità del genere. Adesso non voglio fare dei nomi (già mi sono inimicato per tutta la vita il simpatico Paolo Giordano, per un post può bastare), ma insomma ci siamo capiti, parlo di quella desolante medietà (talvolta con qualcosa di buono, e/o accattivante, ci mancherebbe) che più sopra mi sono lasciato andare a chiamare pubblicamente (in privato la mia testa fa quello che vuole) merda. [Del resto la pensano come me, è noto, l’ottanta per cento dei critici, anche se per vari motivi spesso si limitano a mugugnare in privato o a rimpiangere i bei tempi passati, il cinquanta per cento degli addetti nelle case editrici, il trenta per cento dei librai e il venti per cento dei giornalisti culturali)]. Ma intendiamoci, aguzzando bene lo sguardo qualche bel nome italiano, certo un po’ sul lato, o nell’angolino, qualche volta c’è. Siti, per esempio, confezionato da un editore molto elegante e molto prestigioso, anche se davvero di nicchia.
E allora mi accorgo, lì davanti alla vetrina notturna, che sono parecchio preoccupato. Ma i lettori di questo paese, mi chiedo, avvezzi a ben altri nutrimenti (almeno nel passato), ameranno davvero queste insulsaggini italiane? La traduzione concorre forse a mascherarne almeno in parte l’idiozia? O le leggeranno perché è quello che passa il convento, come mandano giù i pomodori senza sapore, ormai ineludibili sui banchi della verdura? [Quando chiedo a mia madre novantaduenne: ti è piaciuto Paolo Giordano? Lei risponde: sì. Guardandola negli occhi: Ma ti è piaciuto DAVVERO? Pausa, poi: No] O forse il pubblico é ormai costituito prevalentemente da zittelle con cagnolino e papille gustative atrofizzate, visto che i giovani non leggono più? Quanto pesa questo fattore sociologico? E questo supposto rincoglionimento dei lettori va forse di pari passo con il pensiero unico? Perché proprio l’Italia è all’avanguardia in questo genere di laccate mercine? Davvero i critici italiani non hanno alcuna responsabilità, con i loro scafati silenzi, con i loro inspiegabili imballamenti, la loro pigrizia a leggere, la loro lamentosa pavidità? E che dire degli addetti delle case editrici che presuppongono che mia madre e il resto della gente – che disprezzano (altro che altezzosità di chi crede ancora – candido e arcaico! – alle qualità!) – non abbia cervello? E questi politici, rei del genocidio della cultura? Ma che ne sarà allora della carica innovativa e ermeneutica del romanzo, che per qualche secolo ci ha regalato perle così belle? Se le cose vanno così in fretta, l’anno prossimo troverò ancora Siti in vetrina? La forma romanzo può sussistere, se si annienta uno dei suoi due poli? Resisterà un manipolo di catacombali buongustai, o saranno cancellati anche quelli? O tutto all’opposto per qualche motivo ci sarà un magnifico riscatto dell’intelligenza e dello spirito critico e dell’apertura mentale e del gusto, e si tornerà a un affastellamento di geni, come è successo in qualche epoca (anche recente) della storia letteraria? Tutte domande molto ingenue (e in parte anche interessate: anch’io scrivo romanzi), di un poveraccio fuori da tutto (e che certo non è stato alla fiera di Francoforte) e molto invidioso della mediatica coglioneria di Paolo Giordano.
di Giovanni Giovannetti
(prelevo, con il consenso degli interessati, questo molto interessante scritto dal Primo Amore, a.s.)

«Se alle elezioni politiche avessimo proposto l’abolizione del reato di clandestinità il M5S avrebbe ottenuto percentuali da prefisso telefonico». Lo ha detto Beppe Grillo, con buona pace della ragione, dell’interesse nazionale e di ogni residuo di idealità, in linea col più becero-populista-opportunista leghismo sedimentato nel maroniano “pacchetto sicurezza” che, il 24 aprile 2009, introdusse l’odioso reato di immigrazione clandestina (clandestino diventava anche chi non poteva più disporre del permesso di soggiorno).
di Domenico Talia
«Caro La Cava, … vorrei tanto leggere i suoi Caratteri: da anni seguo la Sua attività, e sempre ho letto le Sue cose con grandissimo gusto. …» Inizia così, con una lettera spedita il 3 Maggio del 1951 da Racalmuto (nell’entroterra della provincia di Agrigento) a Bovalino (sulla costa jonica della provincia di Reggio Calabria), il lungo e denso scambio epistolare tra Leonardo Sciascia e Mario La Cava durato quasi quarant’anni. Una corrispondenza iniziata quel giorno e conclusa nel giugno del 1988 con un’ultima lettera di La Cava all’amico siciliano in cui si parla, come in tutte le altre, di letteratura e di vita. Trentasette anni di corrispondenze che compongono un ricco taccuino letterario a due voci. Un lunghissimo incontro epistolare che diventa anche un’auto-descrizione, che i due scrittori offrono inconsapevolmente, delle loro vite e delle opere dalla loro genesi fino ad arrivare alla pubblicazione e diffusione.