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Era capace di staccare l’interlocutore dal presente . . .

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di Alessandro Spina

Cristina Campo (1923-1977)
(Cristina Campo moriva, non ancora cinquanta-quattrenne, a Roma l’11 gennaio 1977. Data la recente scomparsa di Alessandro Spina, qui sotto molto opportunamente ricordato da Flavio Marcolini, vorrei offrire alla lettura l’incipit dello scritto di Spina, Conversazione in Piazza Sant’Anselmo, pubblicato per la prima volta da Scheiwiller, Milano 1993, e ripubblicato poi da Morcelliana, Brescia 2002, con l’aggiunta di altri scritti, sempre di Spina, su Cristina Campo. Altre notizie su Cristina Campo traduttrice avevo pubblicato qui e qui. a.s.)

Il lutto per Cristina Campo fu un lutto di pochi. Perché stupirsi? La società letteraria era allora (il ‘77) occupata da altri personaggi, altri interessi, da polemiche che la Campo non ricordava che per deriderle, sdegnando di schierarsi con questi o con quelli:

Staccare la Spina

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Spinadi Flavio Marcolini

Dopo una breve malattia l’altroieri è morto a Brescia lo scrittore Alessandro Spina, che da anni viveva nel suo buen retiro in Franciacorta, in una tenuta secentesca nella campagna di Padergnone.

Nato a Bengasi nel 1927, Alessandro Spina è stato per decenni lo pseudonimo di derivazione verghiana dietro il quale si è celato Basili Khouzam, un facoltoso imprenditore milanese che in Libia aveva trascorso l’infanzia, dirigendovi poi l’azienda di famiglia dal 1953 al 1979.

Di  famiglia cristiano maronita, laureato in lettere con Mario Marcazzan, è stato un autore prolifico e un fine intellettuale, intrattenendo rapporti con figure di primo piano della cultura italiana: Bassani, Cristina Campo, Pietro Citati, Elémire Zolla, Vittorio Sereni, Alfredo Cattabiani e Claudio Magris.

Dopo il lungo soggiorno africano, era tornato in Italia dove viveva appartato dal mondo letterario. Schivo e riservato, Spina si era dedicato da sempre alla lettura, alla scrittura, al culto della musica (per anni si vantò di avere come unico lettore il compositore Camillo Togni) e dell’arte, coltivando pochi sceltissimi rapporti d’amicizia.

I numerosi romanzi (pubblicati via via da Mondadori, Garzanti, Rusconi, Scheiwiller, Ares, Morcelliana) costituiscono un ciclo narrativo ma unitario, che ripercorre con diversi spunti di estrema attualità la complessa e troppo spesso rimossa vicenda coloniale italiana: “Il giovane maronita”, “Le nozze di Omar”, “Il visitatore notturno”, “La commedia mentale”, “Le notti del Cairo”, “Ingresso a Babele”, “La riva della vita minore”. Pregevoli pure le “Storie di ufficiali”, dedicate al delicato tema dell’onore, e l’agile volumetto “Tempo e corruzione”.

Saggista e orientalista, aveva curato anche diverse traduzioni: la “Storia della città di rame”, le “Cinque novelle arabe”, la “Catastasi” di Sinesio di Cirene. Nel 2007 aveva vinto il Premio Bagutta con la monumentale opera “I confini dell’ombra” (ben 1268 pagine pubblicate da Morcelliana), nella quale aveva raccolto ben undici tomi della sua sterminata produzione. Pochi mesi dopo era di nuovo in libreria con i tre romanzi brevi raccolti in “Altre sponde” (Morcelliana, 2008).

Ma tutto era cominciato dall’apprezzamento che oltre cinquant’anni fa Cristina Campo ebbe modo di riservare alla sua novella “Giugno ‘40”, giudicandola “il miglior racconto scritto in lingua italiana”. “Lo mostrò a tutta Roma e questo cambiò la mia vita” ricordava Spina. Di quella vicenda, della figura della scrittrice toscana e della loro amicizia epistolare sono testimonianza due volumi, editi sempre da Morcelliana: “Conversazioni in Piazza Sant’Anselmo e altri scritti” (2002) e il prezioso “Carteggio” (2007).

Ai tempi dell’ultima guerra italiana in Libia era stato inseguito dalla stampa nazionale per un commento autorevole su quella tragedia e, più in generale, sulle “primavere arabe” nei paesi del Nord Africa, che conosceva come pochi in Italia. “Mi occupo di storia, non di cronaca”  si schermiva laconico, parco di informazioni anche sulle propria attività. “A questa età non c’è più tempo per orizzonti lunghi, non è più possibile incominciare alcunché”.

Eppure era stato al centro di una fitta rete di iniziative e attenzioni: nel 2009 la comunità di Bose gli aveva dedicato una singolare giornata di studi (gli atti sono stati pubblicati da “Humanitas”), nel 2011 “Paragone” lo aveva celebrato con un numero monografico e il quotidiano “Avvenire” gli aveva affidato dall’autunno del 2010 a quello del 2011 la rubrica settimanale ”realtà e finzione”, i cui articoli sono appena confluiti nel volume “Elogio dell’inattuale” (Morcelliana, 2013), l’ultimo guizzo del suo acume.

Luogo di culto frequentato con passione da un crescente numero di lettori innamorati della mente di uno dei più incisivi (almeno sub specie aeternitatis) quanto appartati maître à penser dell’Italia contemporanea, quei folgoranti pezzi d’autore hanno fatto scoprire o riscoprire, attraverso la sua penna attenta e cristallina, una nutrita serie di talenti misconosciuti del panorama culturale internazionale. Sotto la cifra stilistica della inattualità richiamata dal titolo, ad attestare una fisiologica estraneità allo stolto chiacchiericcio delle cronache mondane, le prose spiniane meditano e inducono a meditare sul destino nostro compagno, aiutando il lettore a disambiguarne gli enigmi. Lo scrittore vi ha disegnato l’affascinante cartografia dei suoi incontri, il dialogo incessante con i classici di una personalissima biblioteca ideale, la riflessione sul peso reale o fittizio dei contemporanei.

Fra affinità elettive e divergenze spiegate, questo ultimo libro, come molti degli altri in precedenza, ha proposto una letteratura concepita come esperienza di vita, delineando paesaggi narrativi e poetici di un nitore desueto.

Tutto quello che Alessandro Spina raccontava era pervaso di un’aura di autorevolezza, consegnato alla storia con un allure tenacemente aderente alla inattualità come ineludibile necessità per cogliere le persistenze nell’inesorabile scorrere del tempo.

“Delle guerre coloniali non importava a nessuno” – aveva detto al Festivaletteratura 2011 di Mantova, stigmatizzando “le scemenze scritte in Italia sulla guerra di Libia, che ha distrutto un terzo della popolazione”.

“Il senso di colpa non è al centro del nostro sistema mentale” osservava desolato. “Ci sono tanti Istituti per la storia della Resistenza ma, se almeno uno di essi venisse dedicato allo studio della resistenza libica, sarebbe un atto nobile e importante, un omaggio ai veri valori della Resistenza italiana”.

Da tempo non pensava più al futuro, Spina. “Non ho alcun progetto” ripeteva con la sua voce da crooner. “J’ai veçu, come diceva quel personaggio di un romanzo francese di ritorno da Parigi”.

Ciao Valter

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valter-a-cerviniaHo conosciuto Valter Binaghi 7 anni fa, in Toscana (quella sera era venuto a trovarmi Marco Rovelli per un bicchiere, si fece baldoria), per uno dei tanti inutili premi letterari dello Stivale. Che però se poi ti fanno incontrare belle persone in fondo non sono così inutili. Il giorno appresso tornammo a Milano in macchina – guidava lui – come due amici di vecchia data. Gli chiesi un pezzo per Nazione Indiana.

Sapevo che non stava bene, da tempo. Ci siamo scritti la scorsa settimana (mi ha regalato un suo testo che voleva leggessero solo gli amici) e con Franz Krauspenhaar eravamo pronti ad organizzare una rimpatriata. Oggi Giulio Mozzi mi ha dato la notizia della sua scomparsa.

Non so cosa dire.

Solo questo. Domani, alle 10.30, nella chiesa di Busto Garolfo ci sarà il suo funerale.

Ciao Valter.

¡Que viva la traducción! – La letteratura italiana in Messico

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A cura di Ilide Carmignani, di Fabio Morábito

(Dopo le prime puntate in Spagna e Argentina – qui, qui e qui – ecco un nuovo contributo per capire che ruolo giochi la nostra letteratura fuori dai confini nazionali. Questa volta esploreremo il Messico grazie a Fabio Morábito, poeta, romanziere, studioso, traduttore dell’Aminta del Tasso e dell’opera omnia di Eugenio Montale. Ilide Carmignani)

Libero (di morire) come un fringuello

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fringuello-cartucciadi Flavio Marcolini

 

Dopo esser emerso come una delle parti più sconvolgenti del libro “Further Away” dello scrittore americano Jonathan Franzen (tradotto l’anno scorso per Einaudi col titolo “Più lontano ancora”), il massacro dei fringuelli che si perpetrava ogni anno nella stagione delle migrazioni sul colle bresciano di San Zeno ora è entrato in un film prodotto dallo stesso Franzen e presentato con successo al Documentary Film Festival di Sheffield.

La pellicola si intitola “Emptying the Skies” ed è stata girata dal regista Douglas Kass in collaborazione con Andrea Rutigliano, Sergio Coen e Piero Liberati, tre volontari del comitato contro l’uccellagione Cabs, l’associazione nota nelle valli bresciane come “i tedeschi” e oggetto in passato di ordinanze ad hoc da parte di sindaci nonché di interrogazioni parlamentari per allontanarli da quelle zone.

Birdwatcher di lungo corso, Franzen guida qui lo spettatore attraverso i rischi e le emozioni dell’impegno anticaccia, argomentando l’importanza di porre fine a questa strage. La troupe di Kass ha seguito le azioni del Cabs a Cipro, in Francia e nel Bresciano, con il sequestro e la distruzione di migliaia di trappole, reti, rami cosparsi di vischio per catturare a tradimento gli uccelli, gli scontri con i bracconieri, le denunce e il coordinamento con le autorità giudiziarie.

“Lo scrittore ci contattò nel 2010 – racconta il portavoce del Cabs Andrea Rutigliano – per un suo articolo sul bracconaggio. Ci vedemmo poi a Cipro per due giorni, durante i quali fummo gravemente aggrediti dagli uccellatori, fatto poi narrato dallo scrittore. Pubblicato il racconto, Franzen mi scrisse che Roger Kass, produttore del celebre ‘A History of Violence’, aveva letto l’articolo e voleva trasporlo sugli schermi. Gli dissi che era un’idea che avevo in testa da tempo – una missione difficile, uccelli splendidi, panorami mozzafiato, suspence e dedizione – ma irrealizzabile senza finanziamenti. Roger mi chiamò e ci incontrammo in Francia. Dopo aver subito con noi alcune aggressioni oltralpe e a Cipro, nell’autunno 2011 la troupe venne nel Bresciano, dove le mostrammo gli archetti, le trappole e le reti piazzate intorno ai capanni dei cacciatori. Videro e registrarono l’illegalità totale che verteva intorno al mercato dei richiami vivi. Filmò le missioni del Nucleo Operativo Anticaccia, durante la tanto vituperata quanto efficace Operazione Pettirosso. Spiegai a Kass il quadro legale della Direttiva Uccelli e come la Regione Lombardia per 20 anni avesse scientemente piegato la giustizia autorizzando l’abbattimento sistematico di milioni di uccelli protetti (fringuelli, peppole, pispole, frosoni)”.

“L’anno prima – informa – mi ero recato a cercare archetti sul colle San Zeno e insieme a una volontaria inglese avevo rivisto per l’ennesima volta una scena allucinante. A poche decine di metri dal rifugio del Passabocche tre cacciatori sparavano in fila agli stormi di fringuelli che passavano a 5 metri sulle loro teste attraversando il valico. Si vedevano i piccoli uccelli cadere a decine sul prato, raccolti dalle solerti mogli dei cacciatori, alcuni saltellare via feriti nel bosco e perdersi fra le foglie, ignorati dai cacciatori che continuavano incessantemente a sparare sui gruppetti che migravano. Era una violenza disgustosa, lo dicevano anche gli escursionisti che assistevano allo spettacolo”.

“La settimana seguente – prosegue – mi reco da solo sul Passabocche. C’è nebbiolina bassa e un passo straordinario, come ogni anno a metá ottobre: passano fringuelli incessantemente, in piccoli gruppi, richiamandosi di continuo. Alle 7 non c’é nessuno stranamente, ma si sentono spari ogni secondo poco lontano. Cosí mi incammino in direzione di San Zeno, al passo Gale, quel lembo di colle che la Provincia ha tenuto aperto alla caccia. E’ una raffica di colpi continui. Appena alle spalle del colle a terra vedo subito una pispola ferita, nessuno la reclama. Ha un’ala rotta dai pallini e saltella via terrorizzata. Io supero il dosso e mi trovo nel mezzo della scena del crimine: intorno a me ci sono una trentina di tiroavolisti che sparano in continuazione. Mi piazzo nel mezzo fingendomi un escursionista suicida e riprendo tutto, soprattutto il numero di spari al secondo. Due volte vengo colpito anche io, ma i cacciatori neanche mi dicono di spostarmi, talmente sono presi dalla foga di ammazzare tutti i fringuelli che passano sopra le loro teste. Riprendo scene comiche se non ci fosse da piangere: un cacciatore che per uccidere uno stormo si inarca fino a cadere all’indietro, i cani che corrono su e giú per star dietro alle decine di fringuelli che saltellano feriti dappertutto. Alla faccia dei controlli, della caccia in deroga in condizioni rigide e con piccoli numeri. È una carneficina che il video solo in parte riesce a rendere”.

Il fine settimana dopo Andrea torna con i volontari della Lega Abolizione Caccia, per rallentare il massacro e riprendere ancora. “Riusciamo nel secondo obiettivo, non nel primo” afferma. “I migratori devono passare per quel colle perché così gli insegnano milioni di anni di storia, e i cacciatori tirano su tutto, fringuelli, pispole, allodole, lucherini. Poi si accendono i richiami elettromagnetici nelle tasche per far tornare indietro quelli che si erano salvati al primo passo”.

Dopo aver ricevuto il film, il Commissario Ue all’Ambiente Janez Potočnik scrisse all’allora ministro Corrado Clini chiedendo la fine degli abusi sulle deroghe, “tant’è – osserva Andrea – che nel 2012 non c’é stato nessun “caso San Zeno” e i cacciatori si sono ritirati in buon ordine da quella zona. Come ha detto uno di loro, ‘questo video ha fatto piú male alla caccia di tanti anni di battaglie degli animalisti’. Quello che succedeva sul colle San Zeno accade ancora ogni giorno a Malta, in Francia, in Spagna, a Cipro. Fra i 200 e i 300 milioni di uccelli vengono uccisi dalla caccia intorno al Mediterraneo ogni anno; viene anche da chiedersi se la caccia non sia la prima causa di scomparsa degli uccelli in Europa”.

Ma questa pratica nel nord Italia non è scomparsa: “Scene analoghe – assicura – le abbiamo riviste sulle alture di Lumezzane, in aree off limit visto che le chiavi della strada di accesso le hanno solo i cacciatori, o sul passo del Lavidino.”

video arte #23 – adrian paci

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Adrian Paci, Centro di permanenza temporanea, 2007.

La muta

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di Gianluca Cataldo

Ma le tue responsabilità?
Un quarto va ascritto all’ereditarietà,
un quarto alle circostanze, un quarto alla
casualità: solo un quarto di responsabilità è mio.
(Akutagawa Ryūnosuke, trad. L. Origlia)

Non parlo del dubbio, che di questa moneta bicefala è il volto attivo e dinamico, ma dell’incertezza, che ne è l’aspetto passivo, perché mi è esterno e mi rende impotente, incapace di dare una risposta. Ho sempre dubitato tanto, di tutto, e mi sono sempre mossa – avanti o indietro – lungo la linea della mie consapevolezze, o delle mie convinzioni monolitiche, ma dinanzi all’incertezza mi blocco, giro a vuoto in una laconica circolarità. Impotente. E mentre fuori dalla finestra sento grida e boati io mi sento innocua, con tutti i muscoli intorpiditi, tutti, da quello della vanità e quello della volontà, passando per i polpacci e i tricipiti. Mi sono rinchiusa in casa ormai da un paio settimane, e un fetore sottile sta poco a poco attraversando le stanze, scovandone ogni interstizio. A me non importa. Puro è colui che accetta la santità, lo scontro in piazza e il martirio, mentre io ho voluto rinunciare alle icone, e mi sembra l’unica scelta che abbia mai davvero preso.

Borghesiana, Giardinetti, Alessandrino, Tomba di Nerone

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di Alessandro De Santis

Borghesiana
Ore 20,50. Nella folla. Spaurito. Pericoloso
Cammina senza sosta, Claudio
sempre la stessa musica
a cui hanno tolto l’audio

Le isolatitudini di Massimo Maugeri

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Nella bella e partecipata prefazione, Valerio Evangelisti scrive  a proposito del romanzo Trinacria Park di Massimo Maugeri :”esiste sul serio una verità siciliana? Si direbbe di sì. Per scoprirla, però, occorre liberarsi delle incrostazioni menzognere che si sono accumulate sull’“isola inesistente” nel corso di decenni, se non di secoli. Dopo si potrà affermare che l’isola esiste per davvero.. ” Per riuscire nella cosa, aggiungo io,  l’autore è ricorso a un dispositivo narrativo tanto sempice quanto efficace. Duplicare l’isola in un’isola in miniatura e soprattutto filtrare la realtà attraverso lo specchio di una telecamera. Non voglio qui svelare alcunchè, quartadicopertinizzare il mio intervento che vuole essere una semplice introduzione all’estratto che ho chiesto a Massimo di pubblicare e mi limito dunque a dire due cose.  Dalla parte dello stile l’autore è riuscito a trovare i toni giusti, i colori linguistici nei fittissimi e numerosi dialoghi, in misura di dire oltre che raccontare le varie vicende, quasi seguendo alla lettera la tecnica a specchio del Caravaggio. Dall’altra sembra risuonare in modo costante pagina dopo pagina, come un vento inarrestabile, il rumore di una telecamera accesa, la sola in grado di dirigere uno scudo – ancora uno specchio – tutto moderno capace come quello offerto da Atena a Perseo di annientare Medusa. Una cinepresa che ricorda quella pirandelliana di Serafino Gubbio Operatore, la sola che possa tenere testa alla realtà senza esserne pietrificati dalla sola visione. effeffe

Capitolo undici

da Trinacria Park
di
Massimo Maugeri

«Bentornati. È sempre Marina Marconi che vi parla dagli studi televisivi di TPN, Trinacria Park Network. Oggi abbiamo con noi il direttore artistico del parco, Gregorio Monti. Lo conoscete tutti, quindi non mi perderò in dettagli: attore, autore e regista di teatro, critico letterario e, in un’occasione, persino attore cinematografico».
«Attore cinematografico una volta sola. Ha fatto bene a sottolinearlo».
«Una volta sola… però a Hollywood».
«Pecca una volta e sarai considerato peccatore per sempre».
«Ma come, dottor Monti, mica è un peccato recitare a Hollywood!».
«Lasciamo perdere».
«Invece direi di approfondire e di entrare subito nel vivo dell’intervista. Credo che ai nostri telespettatori possa interessare, dato che in questi giorni anche alcuni quotidiani ne hanno parlato. Del resto in quell’unico film ha recitato al fianco di una nota signora italiana del grande schermo internazionale: Gloria Auteri. Non è mica da tutti, no? Per chi non lo sapesse, dico che Gloria Auteri era la madre del nostro direttore, Monica Green».
«Pur non avendo mai amato Hollywood, sono sempre stato in ottimi rapporti con Burt Green e Gloria Auteri. Anzi, diciamo che ero considerato un amico di famiglia. Comunque Gloria ha cominciato con il teatro e ha esordito con me sul palcoscenico».
«Lei è stato l’ultimo ad aver visto i Green vivi. In un’intervista ha dichiarato che questo fatto, più l’amicizia che la legava alla famiglia, l’ha spinta ad accettare la proposta di Monica Green».
«Esatto».
«E ora lei è il direttore artistico del Trinacria Park».
«Così dicono. E così pare».
«Sarà una bella esperienza».
«Vedremo».
«Non mi sembra molto convinto».
«Io non sono mai molto convinto per natura. Anzi, non sono mai convinto di niente. È nel mio carattere».
«Per lei che è siciliano però, scusi se glielo dico, dovrebbe essere esaltante poter gestire la direzione artistica di un megaprogetto come quello del Trinacria Park. O no?».
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«Nemmeno l’esaltazione rientra nel mio carattere. Vede, signorina, lascio la convinzione e l’esaltazione agli stupidi e agli ignoranti. In ogni caso sono molto contento di poter svolgere la funzione che mi è stata offerta. Il progetto è ambizioso e io sono uno di quelli che non si tira indietro e che ha sempre considerato l’ambizione come uno strumento per andare avanti e migliorare. Ma mi creda, la mia sicilianità non c’entra nulla».
«Ma come… un siciliano doc come lei che torna in Sicilia dopo tutti questi anni per una cosa così importante…».
«Sento odore di provocazione. Ho la sensazione che lei stia deliberatamente tentando di portarmi su terreni che in genere evito di calpestare. Comunque… un “siciliano doc”, come mi ha definito lei, non lascia mai la Sicilia. Nemmeno per un attimo. Ci rimane sempre ancorato, con il cuore e con la mente».
«Però era da tempo che non tornava. Voglio dire, lei ha vissuto al Nord e all’estero per gran parte della sua vita».
«Signorina, stia attenta. Un siciliano vero non potrà mai allontanarsidalla Sicilia. Dico sul serio. Potrà essere distante centinaia di chilometri, ma avrà la Sicilia sempre dentro di sé».
«Ma non è un luogo comune, questo?».
«No. Non lo è».
«Mi dica, allora: ha mai avuto nostalgia in questi anni? Le sono mancati alcuni luoghi? Magari le vie dove passeggiava da ragazzo?».
«Certo che ho provato un senso di nostalgia per i miei luoghi! Mi sono mancati, sì. Ma non li ho mai sentiti distanti».
«E le persone?».
«Tra luoghi e persone di Sicilia preferisco i primi».
«Che vuol dire?».
«Lo sa benissimo che voglio dire. Ho visto che tiene nella cartella la copia di un noto ritaglio di giornale…».
«Si riferisce a questo?».
«Esatto».
«È un suo vecchio articolo in cui sostiene che la Sicilia senza siciliani sarebbe quasi come una pianta senza parassiti. È un’affermazione di più di vent’anni fa: lo pensa ancora?».
«Vede, per via di quell’articolo sono stato odiato. Era un’evidente provocazione che non è mai stata capita fino in fondo. Il risultato è che mi sono fatto molti nemici e mi sono beccato parecchi insulti. Comunque lei mi chiede se lo penso ancora. La risposta è no. Oggi toglierei quel “quasi”».
«Addirittura».
«Non c’e dubbio. Io sono uno di quelli che se incontra un siciliano fuori dalla Sicilia cambia strada».
«Perché?».
«Perché non sono ipocrita».
«Lo sa che sono siciliana anch’io?».
«Sì. Mal comune, mezzo gaudio».
«Queste sono affermazioni spiazzanti. Mi scusi ma ci tengo a dire che, da siciliana, ho sempre considerato i miei conterranei come persone accoglienti e affettuose».
«Il popolo siciliano è accogliente e affettuoso, signorina. Soprattutto nei confronti di chi viene da fuori. Non c’è dubbio. Il problema sta nella reciprocità dell’affetto tra conterranei, come li ha definiti lei. Quello che voglio dire è che alcuni siciliani si vogliono bene di un affetto letale. Si vogliono così bene che finiscono con lo stritolarsi nel loro reciproco abbraccio».
«Anche il suo può essere un abbraccio letale?».
«Da questo punto di vista sono un siciliano sui generis».
«Ne è sicuro?».
«Certo. Ora le faccio io una domanda sui siciliani. Lo sa qual è l’impegno principale di un siciliano?».
«Me lo dica lei».
«Non quello di portarsi avanti, ma quello di evitare di essere sopravanzato dai suoi conterranei».
«Va be’… questa non mi pare una prerogativa dei soli siciliani».
«Si fidi, signorina. Esiste un certo tipo di siciliano che baratterebbe senza problemi il proprio successo con l’insuccesso altrui».
«Lei è mai stato sopravanzato?».
«No. Ma per non essere sopravanzato ho deciso di lasciare la Sicilia, altrimenti sarei potuto rientrare anch’io nella categoria. Ho lasciato la Sicilia solo con il corpo, però. Non con la mente né con il cuore».
«Però, mi scusi, se parla così poi non si può lamentare se la contestano o se arrivano persino a odiarla e a insultarla. Voglio dire… un po’ se la cerca!».
«Non so se me la cerco. In ogni caso non mi lamento. Bisogna avere il coraggio di dire ciò che si pensa. Naturalmente dopo aver pensato a ciò che si sta per dire. La verità è che i siciliani sono i primi a parlar male della Sicilia, ma guai se lo fa qualcun altro. Io invece dico di amare la Sicilia. La Sicilia è bella, anche se dorme. È una bella addormentata in mezzo al mare. In ogni caso, amo la Sicilia e detesto certi siciliani. Lo sostengo da sempre e continuerò a sostenerlo. Il prezzo che ho dovuto pagare è quello di aver girato i teatri di tutto il mondo per sentirmi acclamare ovunque… tranne che in Sicilia».
«Però, in fin dei conti, è siciliano anche lei. O no?».
«Lo sa in cosa lo sono molto?».
«Scommetto che me lo sta per dire».
«Nell’essere individualista. Sono un fottuto individualista».
«C’è chi dice che è l’uomo moderno a essere individualista».
«Da questo punto di vista le assicuro che i siciliani sono molto moderni… e io sono tra questi».
«Mi scusi, ma allora perché ha accettato la direzione artistica del Trinacria Park?».
«L’ha detto lei stessa. Perché sono legato a Monica Green da un affetto di antica data. Poi perché il progetto è interessante e rappresenta una sorta di sfida. Ma anche perché, non lo nego, l’assegnazione della direzione artistica del progetto Trinacria Park a Gregorio Monti ha fatto rodere, e farà rodere, il fegato a molti. E questa, per me, è moneta non quantificabile. L’idea di gente che sbava pronunciando il mio nome mi fa arricriàri. Vado proprio in sollucchero».
«Ho l’impressione che lei, in fin dei conti, stia solo recitando una parte».
«Tutto è possibile».
«Parliamo del parco. A suo avviso il Trinacria Park potrà davvero con tribuire al rilancio della Sicilia?».
«Non lo so. Sono un uomo di cultura e di teatro, non un economista».
«Lei è un uomo di teatro, uno dei più importanti a livello internazionale. Però le è rimasto il nomignolo di “Vittorio Gassman del Sud”».
«Marina Marconi, scusami se passo a darti del tu, ma tu chiamami di nuovo Vittorio Gassman del Sud e io telefono in diretta a Monica Green e ti faccio licenziare in tronco. Guarda che sono un vecchio incazzoso».

«Di questo me n’ero accorta. Parliamo più in dettaglio del Trinacria Park e del suo coinvolgimento nel progetto in qualità di direttore artistico. Sul Corriere dell’altro ieri è uscito un articolo a sua firma dove sostiene, in soldoni, che il Trinacria Park può far benissimo a meno di Hollywood».
«Certo che ne può fare a meno! Guarda che anch’io, come la Green, ho amicizie hollywoodiane. Ciò non toglie che la marca Hollywood, come dico sempre, non mi piace. E non mi piace la sudditanza psicologica nei confronti del grande schermo americano. Questo lo sannotutti».
«Ma allora come mai Monica Green si è rivolta proprio a lei per questo incarico? Voglio dire, la Green, che è sostenuta dai vertici della Graskon Pictures, ritiene i contatti con Hollywood es senziali per la buona riuscita del progetto Trinacria Park…».
«Vuoi sapere perché? Perché sono un numero uno. E perché si fida di me».
«Bene, passiamo ad altro. Nei giorni scorsi ha avuto modo di esprimere, seppur velatamente, un certo rammarico per la scelta di alcuni attori. Lei ha parlato di scelta, ma tra le righe si legge la parola imposizione ».
«Ti sei costruita una bella rassegna stampa. Complimenti!».
«Diciamo che rientra tra i miei compiti».
«E tu sei brava a fare i compiti…».
«C’è qualche nome che le è stato effettivamente imposto?».
«Partiamo dal presupposto che io sono uno di quelli che non si fa imporre nulla da nessuno. Nella fattispecie, se ci fosse stato qualcosa che non mi garbava davvero me ne sarei andato sbattendo la porta. Se così non è stato significa che: o è tutto a posto, oppure ho deciso di adeguarmi».
«Quale delle due?».
«Mi sono adeguato perché è tutto a posto».

Dieci poesie

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di Giovanni Turra

 

Da Con fatica dire fame, inedito.

 

Mandare a memoria la tua vita

Mandare a memoria la tua vita,
mandarla indietro,
com’è dell’orologio a parete
al cambio dell’ora.
Con tatto d’entomologo
ne sposti indietro l’elitre
delle lancette:
un volo di lancette sul quadrante,
tutta la tua vita in un botto.
E s’accampano di getto,
come usciti dall’armadio,
i tuoi morti tutti e due.
A mezzo busto dentro una cornice,
in un giorno di sole.

*

Riflettere quel poco
com’è dei sottoposti.
Darsi da fare invece, darci
dentro. Ne viene alla vita una lena
che piace. Tant’è:
si affinano i dolori,
la gioia giubila di più.

Come se mai al mondo
sogni fossero esistiti
e baci
e giardini fioriti.

*

Cannocchiale

‘Io torno sempre indietro.
Dirigo la mia lente qui davanti
in quel niente.’

È l’ora.
L’impiegata si scioglie una scarpa.

Un piede a sera che cos’è
se al collo si avviluppa
la nera cucitura di una calza.

L’elastico sbandito se n’è sceso
più giù del sottanino. Un ginocchio ammicca
˗ acceso globo, mica ˗
fronte liscia nel buio e senza appigli
al nostro sguardo muto.

*

Quando
una fiammata d’ultimo sole
la sagoma mi riporta
nera
della casa che ho di fronte
e mi stampa
sulla guancia l’ora esatta
“Il lavoro – mi dico –
è finalmente la tua vita.
La tua stanchezza la tua felicità”.

Una beatitudine sorda
da primo uomo sulla luna
allarga la mia vena.

*

L’annuario del telefono

Sfogliare l’annuario del telefono,
cercarvi famiglie scomparse da tempo,
gli amici, i personaggi famosi.
Trovarne i cognomi, non i nomi,
quasi che volessero a quel modo
tenerti lontano.

«Sono io», gratta il microfono spento
da giorni. «Sono tornata, sto bene.»

*

La spesa

Il futuro è appena più in là,
oltre la data di scadenza
del cartone delle uova
– quel giorno tatuato
in grassetto e nero.

Nessuna cosa nuova nei discount
poté mai avere inizio:
mutare forma la materia,
il latte cagliare,
gettare le patate i propri butti.
E finisce per stremarti
questo venir meno delle idee.

A capo chino sopra la vaschetta
del frigo, e genuflesso,
mentre disponi
nei suoi scomparti la tua spesa,
ecco ti scoppia nel cervello
un lampo senza aloni.

*

Il vizio

… è stata rinvenuta infine,
nel bagno, dietro il paravento,
tutta l’obbrobriosa biancheria
di un’intera settimana.
Anche due cambi al giorno – cinturino
compreso d’orologio – per mondarsi
di un vizio solitario …

Unicamente per dovere d’ufficio
rimestano nel cupo
brago di una vita. Proprio lui,
l’inquilino del piano di sotto,
anonimo, gentile,
colpevole in extremis
per legge di natura.

*

Toeletta #1

Lui pure nello specchio accanto a me:
mio padre, il mio
barbiere.

Ne spiccia un capillare,
e la coscienza s’apre.
Una rossa rosellina
sul mio labbro spiumato.

Io figgo gli occhi miei
negli occhi oscure fiaccole
di lui. Di faccia atterra
sopra la mia faccia,
incontrandomi al di là
del getto d’acqua. Mi sguarda.
E sana con un bacio la mia bocca.

*

Toeletta #2

L’implume che dal nido alza l’ala
e non s’attenta, e subito la cala
son io

e giungo infine all’atto.
Nottetempo o nel cuore d’una siesta
da me m’incido un solco
mortale e sconosciuto.

Ma a uno svolo improvviso di cortina
un gorgo d’acque e cielo
dal fondo del piancito…

Una donna ne vien su:
la permanente afro dei vent’anni
˗ mia madre nei cortei ˗
e lo sguardo mai domo di Giunone,
vaccino e cretinetti.

*

Con fatica dire fame

Issata sopra molle è la mia testa
e balla a ogni alzata di spalle
e crolla giù. E se faccio no col capo,
mi si rovescia l’occhio nell’occhiaia.
Non ho equilibrio come vedi
né sostegno alcuno. E calzo
spaiati due trentotto, entrambi
destri. E non posso portar pesi.
Neppure la sportina con il miglio
e la foglia di lattuga.
E quando con fatica dico fame,
mi accennano con gridi dalla strada,
non mi lasciano frinire.

[Prove tecniche di trasmissione]

4

di Giorgia Romagnoli

*
che si sente. suono ripiegato dentro perché sia fuori. non rimango io, divento suono. risuono dentro.

*
è urlando che si viene al mondo. ci si inaugura così, rinnovandosi, rendendo sonora l’esistenza.

*
si sente risalire, scorrere nelle vene, attraversare il corpo violentemente. si riversa dentro, udibile dall’interno, inaudito al di fuori. ne farò un gioiello di fragili sonorità tremanti.

*
fare tutto per permeare, reso percepibile il fuoco dentro. premere,tremare,demolire il corpo e ricostruire. coi colori, i dolori di un suono vivo in un corpo stanco, al fianco, fiacco, in bianco, arreso e storpiato; dì: doppio suono.

*


silenziosi avanzano per cercare di capire 
come se -  
            sentito parola sonante - 
non più senso - solo suono. 
abbandonato - portato fuori 
il resto -  
            un sussurro.

*

instaurare decadenza. decadimento post- reale. posdomani- dominio dei sensi. ritrovata l’esigenza- più esigua- si farà ritorno a ciò che è altro- che non sta qui- che più che altro. riferisce l’esperienza- dominio della mente. le persone che reagiscono diversamente verranno divise, quelle che reagiscono allo stesso modo verranno organizzate in gruppi da sei. (fare ritorno dal ritorno non ci è dato. l’orecchio reagisce diversamente- o allo stesso modo- a seconda delle evenienze e dell’esasperazione). le persone che reagiscono diversamente dalle altre verranno isolate e poste dentro stanze insonorizzate. le persone che

P quadro astrale: Silvio Berlusconi

14

silvio b. tema natale

L’uomo che non è. Il caso astrologico di Silvio B.
di
Livio B.

Mi occupo (fra l’altro) di astrologia da 30 anni, e proprio perciò non mi sognerei mai di giudicare una persona dal suo cosiddetto tema natale. L’astrologia è per ora tutt’altro che una scienza, anche se le ricerche più recenti fanno sperare che possa diventarlo (rivoluzionando presumibilmente tutto il suo attuale impianto teorico, a partire dalla improbabile e arbitraria suddivisione dell’eclittica in 12 segni…). Inoltre, seppure fosse una scienza, la psiche umana resta un’entità troppo imperscrutabile, complessa e sfuggente per giudicarla o solo analizzarla con qualsivoglia strumento di misurazione discreta, qual è il reticolo grafico-numerico della carta celeste. Nella psiche vi è dell’incommensurabile, si potrebbe dire.
Tuttavia l’oroscopo del noto personaggio Silvio B. mi sembra offrire un quadro così corrispondente a quello che una persona dotata di un minimo di intuito e sensibilità può farsi della sua personalità, da risultare interessante. In sostanza mi pare che qualsivoglia astrologo, bene o mal disposto nei suoi confronti, non possa non sorprendersi della debolezza del suo tema natale, e del quadro di povertà interiore che esso delinea. Ci si attenderebbe di rintracciare almeno segni della sua proverbiale ed anzi in un certo senso innegabile vitalità ed esuberanza, della sua inesauribilità fisica, delle sue favoleggiate virtù erotiche, della sua travolgente simpatia… niente di tutto questo. Il quadro che emerge dal tema di Silvio B. è quello di un uomo vuoto, la cui smisurata ricchezza materiale ha esattamente la funzione di compensare un’altrettanto smisurata povertà e pochezza interiore.

http://www.youtube.com/watch?v=3-PjsarOf2k
Un solo stellium positivo, un solo centro energetico è presente nel quadro: la gradevolezza bilancina, la capacità di compiacere l’aspettativa dell’altro, e un innato senso dello spettacolo, significati dall’esatto quintile, aspetto legato alla V casa, del gruppo Sole-Ascendente-Mercurio in Bilancia all’espansivo Giove nel suo domicilio del Sagittario, e a Plutone. Sfruttando e direi spremendo esasperatamente, nevroticamente e compensativamente quest’aspetto, B. è riuscito a costruire un’immagine di sé positiva, di persona estroversa, generosa, smagliante, cui non corrisponde nessuna struttura o attività psichica reale.
Guardiamo ad esempio la Luna, significatore del polo interiore, femminile, yin e passivo della psiche: congiunta strettamente a Saturno, ci parla di solitudine, freddezza, calcolo, privazione, di un io incapsulato e ingabbiato dal super-io, addirittura, inopinatamente, di depressione e malinconia. E’ in Pesci, ma opposta al suo governatore Nettuno, e ciò non può significare che la negazione delle potenzialità empatiche pescine, e l’azzeramento di ogni percettività. E’ il Silvio B. totalmente incapace di ogni emozione che non sia materiale e sensoriale, è il grado zero dell’interiorità e della spiritualità, è il deserto immaginativo, culturale, etico, è il nulla addobbato e camuffato, e l’esuberanza contraffatta, la dappocaggine surrogata dal simulacro sociale della dovizia, dell’eccesso e della potenza. Silvio B. è strutturalmente incapace di concepire altri valori che non siano il denaro e il successo, la sua debole immaginazione lo condanna a non vedere altro nel mondo che una merce, e nella vita un meccanismo di accumulazione.

Guardiamo Venere, la libido e l’affettività. Almeno qui ci saremmo aspettati qualche segno di energia, di delirio, di lussuria e sibaritismo, una Venere dalle pulsioni non certo profonde, ma almeno potenti e imperiose. E invece anche la Venere è lesa, fiacca, esiliata, minata da una quadratura a Plutone, governatore del suo segno, una Venere che ci parla di angosce e fobie, che tenta di sconfiggere la paura plutonina del vuoto e della morte, e incapace di far fluire la libido nelle sedi biologiche naturali. La soccorre certo un floscio sestile al Marte-fallo, ma di quale Marte si tratta? Un Marte nel segno più puritano, sfiancato e esangue, la Vergine, seppellito in XII casa, debolmente opposto alla Luna.
Tutti gli aspetti in generale, tranne i quintili a Giove-Plutone, sono deboli, plastici, imprecisi, e delineano una personalità avvolta nel grigiore, informe, deforme, amorfa, larvale. Una larva psichica, ecco l’immagine precisa, cui l’affabulatorio e verboso Mercurio supplisce, raccontando una vicenda psichica che non è mai accaduta, inscenando un personaggio fittizio. Il problema è che nemmeno questo racconto, questa narrazione come direbbe un suo oppositore, ha caratteristiche apprezzabili, si tratta più che altro di una cronaca pedissequa e meccanica, che sta a un vero racconto come una delle sue insipienti barzellette sta a un romanzo di Tolstoj.

Silvio B. è un vuoto che si sostituisce con una barzelletta, un involucro che colma il proprio vuoto strutturale con una diegesi fantasmagorica e fantasmatica, che non assurge però alla dignità di racconto e si ferma a quella di gag. Più sottilmente, potremmo supporre che B. volontariamente si elide, e sostituisce con un plot psichico, che è in realtà una gag. Ciò gli permette di assorbire totalmente l’altro nell’elementare congegno narrativo in cui consiste, e nel contempo installarsi nel suo grossolano godimento.
B. caimano? B. gaudente? questa analisi mi è sempre parsa superficiale o ingenua. B. essendo un vacuum, una maschera, non ha una carne propria con cui e da cui godere, gode per delega attraverso il corpo dell’altro, tanto più quanto costui è più istintuale e desiderante, ad es. una marocchina 17enne o una casalinga isterica in piazza. B. non uccide, perché è nel corpo dell’altro che egli si insedia per esserne agito e esistito. Anzi, egli fa del bene, alimenta e sostiene chi deve godere al suo posto. E’ un agnello, un virus e un benefattore.
Se nessuno può amare davvero l’altro, se non per un equivoco, o per un erroneo traboccamento o rottura della propria integrità, Silvio B. sfrutta il vantaggio ineguagliabile del non essere, e dunque di non essere nemmeno un altro. Questa è la sua forza. Silvio B. piace, e non può non piacere, perché consiste in questo atto del piacere, si è strutturato a forma del desiderio dell’altro, e non essendo in sé nulla, vi coincide esattamente.
Tutto questo dove è scritto? Beh, nel tema natale, nelle stelle. Non lo dico io, lo dicono le stelle.

Baghetta 2013

3

“A cosa servono i poeti in tempo di bisogno?” – anzi: “Come servire i poeti in tempo di bisogno?”

http://www.youtube.com/watch?v=QovHtczoXsg&feature=youtu.be

Il mare in Testa (senza più Lega)

5

20.000 Leghe (in fondo al mare)
di Gianmaria Testa

Il primo fu Capo di Buona Speranza
chiuso per legge e decreto speciale
che la smettessero le onde pacifiche
d’imbastardire quell’altro mare.

Poi fu la volta di Panama e Suez
e quindi del Bosforo e di Gibilterra
ogni maroso pretese il rispetto
della sovrana indipendenza.

Niente più scambi di acque e di pesci
niente più giri del mondo in veliero
tutti i canali rimasero chiusi
a qualunque passaggio di flutto straniero.

Così per un poco tornarono chete
le acque dei mari di tutto il pianeta
ma non durò molto che un’onda riprese
a dir ch’era tempo di farla finita.

Successe che un giorno nel mare nostrano
lo Jonio pretese di stare da solo
e così vollero pure il Tirreno
il mar di Sardegna e l’Adriatico al volo.

Insomma -nessuno si mischi a nessuno-
tuonavan le acque dei bassi fondali
-ognuna rimanga ancorata ai suoi porti
e bagni soltanto le sabbie natali-

Sembrava finita ma era solo l’inizio
e anche così fu ben brutto vedere
in quel che era stata la grande distesa
lo strazio dei fossi a dividere il mare.

Era solo l’inizio, come già si diceva
perché ora la febbre secessionista
andava ammalando ogni singola riva
e niente e nessuno riusciva a dir basta.

Così da Trieste alla punta pugliese
e dalla Sicilia alla Costa del Sole
ogni più piccola cala pretese
l’indipendenza e non solo a parole.

Ma la questione divenne barbina
quando si presero goccia con goccia
e ognuna guardando la propria vicina
diceva -vai via o ti rompo la faccia-

Il mare fu presto una grande rugiada
inutile ai pesci e a qualunque creatura
morirono il tonno, l’acciuga, lo spada
restarono in secca le barche d’altura.

E poi un giorno, o una notte, non so
accadde qualcosa di ancora più strano
conoscete la formula H2O
si quella dell’acqua, che tutti sappiamo.

Ebbene l’idrogeno trovò da ridire
sostenne di avere la maggioranza
e quindi il diritto sovrano di ambire
all’ormai sacrosanta indipendenza.

Ci fu come un vento, un soffio infinito
e l’acqua dei mari s’invaporò in cielo
rimase un deserto di sale e granito
ma buio e profondo più nero del nero.

Nota
Il testo è stato pubblicato in un sito che considero imprescindibile per chi ami il mondo della canzone e l’anima che c’è dentro. effeffe

La foglia ha due metà

3

di Giampaolo de Pietro 

 

 

Non possiamo affermare che il tempo funzioni esattamente come funziona un orologio

 

 

 

*

 

 

 

È giusto il tempo

che trovi. Lo

aggiusto con te.

Non c’è un secolo

da perdere. Guaio

ad orologeria che –

o gioia che ti celerei –

disinnescando

un’impressione falsata

se ne va via

da sé, da me da te.

 

 

 

*

 

 

Ci sono parti del

nostro corpo che

apprendono,

attendono

ancora. Anidride.

Acqua sulla

luna, carbonica.

 

 

 

Note su filo orecchio. giampaolo de pietro

 

 

 

Ah le nuvole! Le

forbici. Lo spazio

da ritagliarsi. E a

non riconoscere i

sassi, nome per

nome. Ah, le pure

paure povere. E

noi neanche ai

proverbi

considerati leggi.

Noi concessi a

precipizi o

sorrisi. Le care

paurine.

 

 

 

*

 

 

 

eccetera

eccedere

 

 

 

*

 

 

 

cartonare giorno/e/notte

o libro o voglio

cadere in un sonno a

rispostiglio

/cascare in buona trappola/

 

 

 

*

 

 

 

Ieri/Oggi mi sono sentito spoglio

Domani/ spero in una veste di accenni che

Dopodomani/ mi ricopra di foglie

nuovamente/e/ per sempre.

 

 

 

*

 

 

 

eccedere eccetera

 

 

 

Note per una finestra continua

 

 

 

Parlarti

Capovolgere questo

Precipizio del senso

E abbattere il leggero contrasto

Cioè farlo cadere lì dov’è, sul posto

Di me e te, al centro, trasparente tanto

Da lasciarci avvicinare le voci e ancora

I loro tuoni morbidi

 

 

 

*

 

 

 

(se) So precipitare in una fila di immagini

so canticchiare a testa in radio

ho una stazione privata, tutta suonata

so interrompere una fila sbagliata di ‘pensa te!’

magari per avere pasticciato sulla carta

per non avere il minimo senso del disegno, ma

un senso figurato del bisogno di respiro e di concerto

tra matita segno e forma indefinita forse me lo so

inventare non proprio a caso, forse a specchio di quello che

osservo intorno alle coscienti e incoscienti cose che scorgo e

talvolta scopro senza nominare senza chi mi si siano volontariamente

presentate davanti la porta di casa, ma la porta di casa io

forse la ho dove non si bussa, dove aspetta una sola foglia

 

 

 

*

 

 

 

I giorni della

tua settimana

hanno i capelli

lungo la mia schiena

 

 

 

*

 

 

 

vorrei io

essere

fotografato

con uno

straccio di carta

in due mani, come

fosse un gran peso,

un autoritratto sostenuto

 

oppure s’una mensola

com’eravamo a posto, al

posto giusto di due asterischi

e la polvere

 

 

 

cane de pietro

 

 

 

anno

dato

minuto

 

 

anno

dato

giorno

 

anno

dato

ramo

 

anno

dato

tronco

 

 

 

*

 

 

 

Guardare i

palazzi di notte

e invertebrarli.

Con quelle fronti

lisce e quegli

aspetti davvero

imponenti,

sembrano

dormire

sull’attenti, in

piedi come

cavalli.

 

 

 

*

 

 

 

[Le immagini sono di Giampaolo De Pietro.

 

I testi sono tratti da Giampaolo De Pietro, La foglia è due metà, buonesiepi, 2012.

 

Sotto l’indicazione dell’editore trovo Gertrude Stein: “Dopo tutto, osservò, abbiamo bisogno di farci stampare. Uno scrive sì, per sé e per gli sconosciuti, ma se manca un editore spregiudicato, come si può venire a contatto con questi sconosciuti?”]

 

 

 

*

 

Progressione in rosso

4

di Nicola Ponzio

Parola.

Parola.

Due parole.

Tre parole rosse.

Cinque parole ed un endecasillabo.

Otto parole per evidenziare la fisicità della scrittura.

do you remember TQ?

22

Che fine ha fatto TQ?
Pubblicato il 4 giugno 2013 · in alfabeta2,
di
Vincenzo Ostuni

Che fine ha fatto TQ, gruppo di intellettuali trenta-quarantenni, le cui prime mosse vennero seguite con clamore dai quotidiani nella primavera del 2011, il seguito con qualche interesse, poi con degnazione, gli ultimi sviluppi passati sotto silenzio (se non da questa rivista)? Hanno pesato, sì, le caldane della stampa, sempre più disattenta, spettacolare, conservatrice. Ma c’è dell’altro.

Va detto: Generazione TQ, che oggi langue, è stata il tentativo meno fallito di articolare proposte collettive radicali – di stampo grosso modo marxiano – e di uscir fuori dal pelago d’irrilevanza, o d’ignavia che ha impeciato gli intellettuali di quella generazione. TQ ha lasciato documenti e forse qualche eredità; eppure ha finito di funzionare. Non perché le sue proposte non siano state realizzate; ma perché neppure sono state ascoltate: le parti con cui TQ avrebbe potuto dialogare le hanno opposto un muro di disinteresse. Si ricordi il bel manifesto TQ sui beni culturali, battezzato da Salvatore Settis su «Repubblica» e poi escisso, come cisti antiliberista, dal dibattito in cui giganteggiava il documento nano, e moderato, del «Sole 24 Ore». Ma c’è ancora dell’altro.

Le forze vitali di TQ, tutti i suoi membri più influenti, se ne sono progressivamente disamorati. Come anche, infine, il sottoscritto. Decisiva l’indifferenza delle controparti: stampa, politica, industria culturale; ma forse per alcuni è troppo tardi per scimmiottare un radicalismo che non hanno mai avuto, cresciuti negli anni Ottanta a retorica antiradicale, pasciuti nei Novanta a fine della storia. Troppe influenze negative, troppo pochi anticorpi. Prima generazione precaria nelle bolge della gerontocrazia, ci siamo fatti un «culo tanto» per un reddito decente, per pubblicare qualche libretto, per sciorinare in tagli secondari di quotidiani maggiori, o almeno in festival letterari, la nostra sfavillante tuttologia postideologica: ora dovremmo anche marciare contro il mercato, che ha già vinto ovunque, e nei resti del cui camembert abbiamo rosicchiato fin qui?

Noi siamo scrittori e – così si esprimeva qualcuno poco prima di confluire in TQ – nostro dovere è creare capolavori. Del resto si occupino i politici di professione, i nevrotici dell’idealismo. A noi cavalcare la tigre dell’arte. Anche se, come un’auto da corsa, tappezzata di adesivi del Male: è sempre stato così. TQ ha avuto anche il merito di una visione, oltre che radicale, intellettivamente impegnativa. Primo risultato: alcuni se ne allontanarono presto perché troppo moderati, troppo compromessi; altri perché consapevoli di non rispondere ai pur laschi criteri di qualità letteraria che si andavano promuovendo.

Ma, anche fra chi rimase, qualcuno è a disagio nel vedersi attribuire una difesa della «qualità», quest’incubo zdanoviano; arrossisce all’idea che lo si scambi per un movimentista da strapazzo; teme forse d’essere espulso da editori e giornali come un sottosegretarietto ammonito a più diplomatica mitezza d’accenti. E poi non ammette un grado eccessivo di intellettualismo. Ah, l’antintellettualismo, il culto pseudodemocratico della volgarizzazione non come alto strumento pedagogico ma come unica via alla conoscenza! L’odio – tranne salamelecchi d’obbligo – di qualunque specialismo, di qualunque scrittura che resista alla nostra facilità d’interpretazione, di qualunque discorso che implichi più di due subordinate per periodo!

È l’antintellettualismo la tabe della nostra generazione, il motivo per cui non reagisce alle più triviali apologie del mercato, all’appannarsi dell’editoria generalista in un giulebbe mid-low-cult. Esso coinvolge anche alcuni ottimi scrittori: che i loro capolavori, glielo auguro, rimangano; ma la loro coscienza politica è d’acqua fresca. Forse meritiamo la nostra, o meritano la loro, irrilevanza sociale, cognitiva e spesso, in fondo, estetica.

Forse dovremmo scioglierci e accostarci, come singoli, ai pochi barlumi che si apprezzano in giro, nei teatri occupati, nei movimenti politici. E ricominciare, novecentescamente da soli o in gruppi sparuti, a lanciare ormai flebili urletti d’allarme. Forse invece no: forse è ancora possibile e utile una voce radicale collettiva e qualificata, più omogenea e agguerrita di TQ. Le due chance sono separate da un crinale strettissimo, e alcuni di noi lo percorrono senza realmente decidere da che parte discendere.

Mitocrazia

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Alegre-mitocrazia(Pubblico più che volentieri un estratto dall’introduzione di Yves Citton, Mitocrazia. Storytelling e immaginario di sinistra, Alegre 2013, che ha una prefazione di Wu Ming 1 e una postfazione di Enrico Manera, che qui ringrazio, assieme alla casa editrice. G.B.)

di Yves Citton

Dico alla gente che ha già provato tutto,
ma che ora è tempo di provare la mitocrazia.
Hanno avuto la democrazia, la teocrazia.
La mitocrazia è ciò che non siete mai diventati
di quello che dovreste essere.

Sun Ra

 “Soft power” e scenarizzazione

Nessuno è ancora riuscito a stabilire cosa può un racconto. Alcuni di noi si sentono urtati dai “miti” con cui veniamo cullati, altri denunciano le “storie” che ci vengono raccontate; ad altri ancora piace credere che sia sufficiente trovare una buona “story” per portare gli asini alle urne, le pecore al supermercato e le formiche al lavoro. Quest’opera, piuttosto che offrire facili ricette o denunciare, invita a esplorare i poteri propri del racconto; parallelamente, propone un racconto della natura mitica del potere: la mito-crazia. […]

In primo luogo proveremo a fare il punto sull’immaginario del potere, seguendo gli sviluppi recenti di una riflessione che ha segnato un certo pensiero politico, riconducibile alla fortuna di Spinoza, Gabriel Tarde, Michel Foucault e Gilles Deleuze. Si cercherà quindi di munirsi degli strumenti per individuare e comprendere il funzionamento di un potere apparentemente “soft” (soft power), quel potere che si insinua, suggerisce, stimola, più di quanto non vieti, ordini, o costringa, un potere che orienta i comportamenti, “conduce le condotte”, situandosi al livello del flusso di desideri e di convinzioni canalizzato dalla rete di comunicazione mediatica.

Inoltre, per quanto riguarda le pratiche della narrazione e dello storytelling, ci sforzeremo di fare le debite distinzioni al fine di identificare quanto ci sia di realtà, quanto di proiezione e quanto di potenziale emancipatorio.

Per tentare di comprendere in che modo la strutturazione narrativa costituisca una precondizione necessaria dell’agire umano, nonché un orizzonte all’interno del quale assemblare e integrare i nostri singoli gesti quotidiani, faremo ricorso a diverse discipline (all’incrocio tra l’antropologia, la sociologia, la narratologia e la semiotica). Sarà l’occasione per chiedersi perché e come le risorse dello stoytelling siano state monopolizzate dalle ideologie reazionarie (“di destra”), e quali siano le condizioni in cui delle politiche emancipatrici (“di sinistra”) potrebbero riappropriarsene.

Cercheremo infine, nel punto d’incontro tra pratiche della narrazione e dispositivi del potere, di offrire una definizione di un tipo di attività particolare, la scenarizzazione.

Raccontare una storia a qualcuno non implica solo articolare determinate rappresentazioni d’azione seguendo una specifica successione, ma comporta anche “condurre le condotte” di chi ascolta, a seconda dell’inclinazione conferita alle articolazioni e alle concatenazioni. Mettendo in scena le trame dei personaggi (fittizi) del mio racconto, contribuisco – in maniera più o meno efficace, più o meno incisiva – a scenarizzare il comportamento delle persone (reali) cui rivolgo il mio racconto. Quest’attività di scenarizzazione va analizzata sia dal punto di vista delle sue caratteristiche intrinseche, legate alla natura del racconto narrativo, sia per quello che riguarda le sue ripercussioni all’interno dei nostri dispositivi mediatici. Passare dalla problematica della narrazione a quella della scenarizzazione significa chiedersi in che modo – attraverso quali strutture della comunicazione e con quali effetti possibili – una storia possa coinvolgere un pubblico e orientarne i futuri comportamenti.

Le intuizioni generali che concernono questo potere della scenarizzazione che l’opera cerca di analizzare sono invero molto comuni. Tutti percepiamo che la sua distribuzione non corrisponde, se non in misura parziale, con la distribuzione dei poteri politico, giudiziario, e economico. Tutti noi sappiamo che le decisioni dei direttori del telegiornali di includere o meno una determinata notizia, o un argomento di dibattito, o un interlocutore nel proprio notiziario svolgono un ruolo determinante nel funzionamento quotidiano e negli orientamenti generali delle nostre democrazie mediatiche. Tutti noi percepiamo che ciò che è detto (e ciò che è pensato) all’interno dei nostri dibattiti politici, ciò che è comprato nei nostri supermercati, ciò che ci incentiva a lavorare, a obbedire, ad accettare, a resistere, o a inventare un altro mondo possibile, non dipende solo da quanto vediamo e capiamo del mondo che ci circonda, ma anche dai diversi modi in cui ciò che giunge a noi è messo in scena, allestito e scenarizzato.

Quali sono i nodi attorno ai quali si costruisce il potere di scenarizzazione?

Con quali agganci attira la nostra attenzione? Quali sono i punti su cui fa leva? Quali disuguaglianze strutturano la sua distribuzione? Quali ostacoli precludono ai più l’accesso ai suoi effetti moltiplicatori? Quali potrebbero essere le rivendicazioni di uguaglianza tali da far saltare le preclusioni determinate dall’immaginario comune del potere e far sì che si prenda in considerazione il potere della scenarizzazione? In che modo delle politiche di emancipazione (“di sinistra”) possono riappropriarsene senza cinismo e senza falsi pudori? Come definire “la sinistra” a partire dal modo in cui “enuncia”, allo stesso modo in cui la si definisce in base al contenuto delle sue rivendicazioni? Queste sono le domande che verranno poste nel corso dei sei capitoli di questo libro.

[…]

Tanto vale dire subito che il potere della scenarizzazione descritto nelle pagine seguenti non ha niente di nuovo. Lo si può facilmente ricondurre alle messe in scena del potere reale di Luigi XIV o alla scenografia dei Trionfi degli imperatori romani. Gli umani si sono “messi in scena” da quando hanno cominciato a parlarsi, a sedursi, a battersi e a raccontarsi delle storie. Ma, se il potere di scenarizzazione è vecchio quanto il mondo, tuttavia le sue condizioni di esercizio, i suoi canali di diffusione, il suo grado di concentrazione, l’intensità e la precisione con i quali può sperare di influenzare i comportamenti umani evolvono invece costantemente. Mai infatti con la stessa intensità che al giorno d’oggi i modi di regolazione sociale si sono fondati su potere di scenarizzazione. In questo senso lo studio dei fenomeni di scenarizzazione si impone oggi con inedita urgenza, nonostante la loro identificazione possa essere illustrata grazie ad un racconto vecchio più di due secoli.

A margine di una tale riflessione, vale comunque la pena di precisare che – ovviamente – non tutto il potere è diventato soft. I capitoli che seguono potrebbero certo legittimamente esser tacciati di ingenuità o di idealismo se si avesse la pretesa di presentare in queste pagine la teoria del potere. Dire “il” potere, in quest’inizio di terzo millennio, significa anche (e ancora) dire le bombe che distruggono le case e le vie in nome della sicurezza degli Stati, i soldati o i poliziotti che sparano sulla folla, significa parlare del potere che si abbatte contro i resistenti picchiati e reclusi senza processo, quello che si manifesta attraverso le decisioni unilaterali di chiudere le imprese perché i tassi di profitto non sono ottimali, il potere dei divieti alle donne (o ai più gay di noi) evocati in nome della sacralità religiosa, il potere delle condizioni di lavoro neo-schiaviste che sono imposte ai lavoratori clandestini, significa la violenza fisica, simbolica o legale che si abbatte contro gli stili di vita alternativi e marginali, senza contare tutti i piccoli soprusi, tutte le umiliazioni, le rigidità e le assurdità che che sono il pane quotidiano dell’apparato burocratico. É senza dubbio e innanzitutto di questo potere – hard power – che si dovrebbe parlare se si avesse la pretesa di parlare del potere (in generale e in tutte le sue forme).

Non si tratterà quindi in nessun modo di sminuire, di relativizzare, o di dichiarare obsoleta questa massiva realtà dell’hard power, ma piuttosto di far notare come si trova spesso ritrasmessa da altre forme di potere, apparentemente più “miti”.

[…]

Ciò che si vuole mostrare è che “raccontarsi delle storie” non è solo inevitabile, ma spesso addirittura salutare, e che “la società dello spettacolo”, più che suscitare querule lamentele, dovrebbe esser d’ispirazione per una contro-scenarizzazione. Gli ultimi decenni si contraddistinguono per l’incapacità che ha dimostrato la “sinistra” di raccontar(si) delle storie convincenti. Per delle ragioni che cercheremo di capire, la “destra” (autoritaria, neoliberale e xenofoba) è riuscita a diffondere un insieme aperto ma relativamente coerente di storie, immagini, fatti di cronaca, informazioni, statistiche, slogan, paure, riflessi e di oggetti di dibattito che si alimentano reciprocamente all’interno di uno stesso “immaginario di destra”. La forza (soft) di questo immaginario è stata tale da colonizzare i discorsi di numerosi dirigenti di alcuni partiti che si rivendicano tuttavia ufficialmente di “sinistra”. Come è riuscito questo “immaginario di destra” a imporsi e a scenarizzare ampie porzioni della nostra vita politica? Queste sono le questioni di fondo che costituiscono l’orizzonte della riflessione che segue.

L’ipotesi è che lo smarrimento attuale della “sinistra” (quella ufficiale) abbia a che vedere con un blocco e con un deficit inerenti all’immaginario del potere ch’essa non è riuscita a rinnovare. Il patetico disorientamento dei suoi dirigenti e delle sue organizzazioni collettive, in Francia come in numerosi altri paesi europei, che contrasta con la vitalità di certi movimenti “para-politici” di resistenza e di creazione, può esser in larga parte attribuito alla mancanza di un collante immaginario che permetta di tenere insieme tutte le sensibilità, i sentimenti, le evidenze, le speranze, le paure, gli slogan e le rivendicazioni di cui facciamo l’esperienza isolata, senza tuttavia riuscire a imprimervi una forza collettiva di partecipazione condivisa.

Quando si parla (a torto) della “fine delle ideologie”, che sia per rallegrarsene o per rimpiangere l’epoca dei grandi antagonismi binari e strutturanti, ci si fa sfuggire la specificità di ciò che oggi è importante ricostruire: non tanto un sistema di idee, coerente e totalizzante, fermamente ancorato al rigore del concetto e capace di rassicurare gli animi inquieti con la sua pretesa d’avere una risposta per tutto (un’ideologia), bensì piuttosto un bricolage eteroclito di immagini frammentarie, di metafore dubbiose, di interpretazioni discutibili, di intuizioni vaghe, di sentimenti oscuri, di folli speranze, di racconti senza cornice e di miti interrotti che prendano insieme la consistenza di un immaginario, tenuto insieme, ancor prima che da una coerenza logica, dal gioco di risonanze comuni che attraversano la loro eterogeneità per affermare la loro fragilità singolare. É alla costituzione di un siffatto immaginario che questo saggio vuole offrire il proprio modesto contributo.

Intervista immaginaria di Fernando Arrabal per La Repubblica

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Interview imaginaire (La Repubblica)

di
Fernando Arrabal
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La Repubblica.- Che cosa rimane oggi del “Panico… mieux, que pense le Panique des bons sentiments?
Fernando Arrabal.- Ils devraient être neutres, comme le chocolat…
La Repubblica.– … vous éblouissent-ils..?
FA.-…sans m’éclairer…
La Repubblica.-…mais, la spéculation qui gravite autour d’eux…
FA.- … l’artiste projette ses flammes, comme la sublime Mila Moretti … ou sa lave… ou sa démence… Warhol m’a dit le 8 mars 1982 “ton Greco a fait ce que je tente : inverser les relations de l’homme avec l’art”…
La Repubblica.- Entre un fleuve d’excréments et un petit ruisseau de bons sentiments, dans  lequel des deux préfère plonger le Panique ?
FA.- L’impur peut se transformer en croyance. Comme le montre la sublime Mila Moretti en “Sotto le stelle niente muore” . On passe de la précision à l’épilepsie. Je pratique l’art « microscopique » des bons sentiments seulement lorsque je danse frénétiquement…

La Repubblica.-…vous dansez avec Zarathoustra?
FA.- J’ai beaucoup dansé avec Suzanne et Beckett dans leur mansarde de la rue des Favorites … (je moins dansé avec lui que Peggy Guggenheim…). Je ne danse plus que par-dessus ma tête comme le poulet sans plumes de Socrates
La Repubblica.- Adesso il suo teatro, mi pare, è molto più rigoroso, meno eccessivo, meno trasgressivo, perché? Vous êtes, dites-vous, un peintre frustré…
FA.- …comme Dario Fo, m’a dit-il …le destin me fait (malheureusement) jouer le rôle du bouc émissaire: une mouette sans sous-marins.
La Repubblica.- Le pouvoir culturel a-t-il un sexe?
FA.- C’est pourquoi il communique sous une burqa.
La Repubblica.- L’humour occupe une place importante dans votre œuvre.
FA.- Comme sentiment quasi aristocratique qui me permet de me moquer de moi-même….
La Repubblica.- …est-il prémédité ou dicté par le hasard ?
…j’ai moins d’humour que par le passé… 38 fois moins…
La Repubblica.- …pas 39 fois…?
FA.- …longtemps je croyais être de petite taille, avoir une tête monstrueusement grosse et être pestilentiel… Désormais je sais que suis très grand, que ma tête est petite, et que je dégage des effluves de rose.
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La Repubblica.- Contrairement à Breton, pensez-vous que … ?
FA.- …pendant les trois ans de ma présence quotidienne au café surréaliste je ne comprenais pas lorsqu’il me parlait ou nous parlait du merveilleux et encore moins de magie, ou des visionnaires… Dali ou Allen Ginsberg étaient plus ébouriffants et Louise Bourgeois moins détaillée
La Repubblica.- Si Cervantès revenait parmi nous et réécrivait son Don Quichotte, sous quelle forme se réincarnerait l’Homme de la Mancha ?
FA.- En flamant rose. Cervantès n’était pas du tout favorable au personnage de Don Quichotte. Il le ridiculise. J’aimerais écrire « La confusa » , pièce disparue dont il était très fier.
La Repubblica.- Comme Duchamp vous pratiquez les échecs,
FA.- Même de dos …en simultanée …ou aveugle. Avec lui nous préférions analyser des parties de M.Tahl . Je l’imaginais séductrice comme Rrose Sélévy.
La Repubblica.- Quelle a été l’influence des échecs sur votre œuvre ?
FA.- Aucune. Parce que c’est une pratique quotidienne. Je ne peux imaginer aller me coucher sans y avoir joué.
La Repubblica.- On imagine … que pour vous c’est un plaisir formidable
FA. Le “formos” de formidable évoque la peur. Même le militant Tristan Tzara de vers la fin de sa vie, celui que j’ai connu, cherchait un ordre … un ordre dans le chaos.
La Repubblica.- N’êtes-vous pas finalement la muse de toute votre œuvre ?
FA.- Une muse à pénis.
La Repubblica.- …à tout moment?
FA.- Je suis une installation de ma propre circonstance.
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La Repubblica.- On prétend que vous êtes une sorte de bouc émissaire…
FA.-… peut-être parce que mon père a fait partie du premier “peloton” des condamnés à mort …
La Repubblica.- …du premier jour de la la guerre civile.
FA.- Je n’y suis strictement pour rien : le mérite…
La Repubblica.- …vous avez été emprisonné par le régime franquiste…
FA.- Encore sans mérite aucun. Mille autres écrivains…
La Repubblica.- … étiez-vous le moins politique de vos collègues?
FA. Jamais eu de collègues.
La Repubblica.- Vous avez été le seul écrivain totalement interdit par l’ancien régime.
FA.- Littéralement ce fut incroyable. A la mort du général (dans son lit et avec des funérailles suivies par des millions de personnes en pleurs) la personne qui achetait mes livres était déçu : je n’étais pas un redoutable Marquis de Sade doublé d’un Robespierre.

La Repubblica.- …pourquoi la seule lettre publique écrite à Franco en vie du tyran sera la vôtre ?
FA.- Ma vie n’a cessé d’être ainsi: une série de surprises dictées par le dieu Pan …
La Repubblica.- Comment vivez-vous votre anarchisme  ?
FA.- Par hasard . A la va-vite. Sans préméditation.
La Repubblica.- Vous n’avez jamais été membre d’aucun parti politique….
FA.- J’aurais aimé pouvoir être convaincu par un groupe. Je n’ai jamais voté de ma vie, cependant j’ai fait des choses bien pires… Comme, par exemple, recevoir des prix officiels et des doctorats honoris causa
La Repubblica.- Vous avez rencontré d’innombrables artistes durant votre vie, certains sont devenus des icônes tandis que d’autres sont restés d’illustres inconnus. N’y-a-t-il pas une part de loterie dans l’accession à la reconnaissance et ceci qu’elle soit posthume ou non ?
FA.- La réussite est le fruit de la rigueur mathématique de la confusion, plus que de la loterie de Babylone
La Repubblica.- On dit que votre rêve serait de réunir chez vous dans une de vos fameuses “tertulias” , avec vos amis Houellebecq, Kundera, Thieri Foulc, Simon Leys etc. les plus grands hommes de sciences du monde
FA.- Je leurs demanderais justement de trouver les règles de la confusion.
La Repubblica.- Si vous aviez un pouvoir illimité dans l’art, quelle est la première chose que vous feriez?
FA.- L’éliminer. Le pouvoir comme échec est une réussite.

La Repubblica.- …l’incertitude quantique…
FA.- …nous enfièvre-t-elle d’ une telle fougue qu’elle crée des devoirs? Le cyclope aveugle se distingue mal du borgne.
La Repubblica.- Ci può raccontare perché lei, Jodorowski e Topor arrivaste a fondare il movimento Panico? Chi erano per lei, allora i punti di riferiemento culturali? Êtes-vous la mauvaise conscience de l’art de notre temps…?
FA;- Tout ce qui est explosif, obviously, met en danger le monde.
La Repubblica.- Votre âme…?
F A.- Elle vaque dans les nues avec les étoiles.
La Repubblica.- Que penserait l’enfant que vous avez été s’il voyait l’homme que vous êtes devenu?
FA.- Tous les matins sont sans retour.

La Repubblica.- Pourquoi … la célébrité… ?
FA.- …La célébrité est l’opium des triomphateurs. Parce qu’elle donjuanise les artistes?

La Repubblica.- Et dans votre propre cas?
FA.- Je suis un tout petit peu célèbre et complètement inconnu, comme mes noeuds papillons.
La Repubblica.- Quel personnage historique évoqueriez-vous dans un prochain …:
FA.- Aucun. Pas même Attila amoureux sur ses vieux jours . Quand le don des larmes lui a fait le cadeau de pleurer toutes celles de son corps.
La Repubblica.- Une période où vous auriez aimé vivre?
FA.- Lors du big-bang . Ou à l’époque du Staline adolescent surdoué et fervent séminariste à Tiflis.
La Repubblica.- Seriez-vous inquiet de retourner en Espagne après presque soixante ans d’exil…?
FA.- …de destierro!!! Après une période d’obscurantisme, est-ce que nous traversons les sentiers des mystifications lumineuses ?

La Repubblica.- Quelle est votre patrie…. ?
FA.- Nous nous sommes habitués pendant des décennies à l’obstination des inquisiteurs. La colère est comme un cheval emballé.
La Repubblica.- Pourquoi les jeunes sont intéressés par vos pièces, par exemple “Fando et Lis”…?
FA.- Dans mon adolescence j’ai connu des surdoués (très semblables à ceux de notre époque); ils voulaient un ministère ou rien: ils ont eu les deux.
La Repubblica.- Changeriez vous quelque chose à votre esthétique de la négation?
FA.- La Samaritaine panique a dit à Job : Celui à qui Dieu n’a rien donné, Dieu ne peut rien lui ôter.
La Repubblica.- Votre film L’arbre de Guernica … votre ami Picasso …
FA.- Dans les ménageries et les musées, n’y-a-t-il rien d’aussi aphrodisiaque que l’innocence?
La Repubblica.- Ce que vous appelez “révolution” est-il possible dans un pays civilisé et riche?
FA.- Les banlieues les ghettos (los arrabales)… perdent-elles leurs fêtes et leurs arrabalesques?
La Repubblica.- Vos barbares sont-ils vraiment moins civilisés ?
FA.- Ils sont moins riches.
La Repubblica.- Ce qui disparaît de vos modes de vie… dans la peinture et la sculpture…
FA.- Devient à la mode, et ce qui se démode ressuscite-t-il avec nos modes de vie?
La Repubblica.- Le pouvoir de la culture?
FA.- …çà et là , a-t-elle de moins en moins de pouvoir? C’est pourquoi elle se sert des statistiques comme de songes du désir?
La Repubblica.- La Bourse a-t-elle une influence…?
FA.- Est-elle un sanctuaire ? Elle célèbre le miracle de faire de l’argent avec de l’argent.
La Repubblica.- A quel genre appartient l’actuel art mondial?
FA- L’art actuel est catastrophique, bestial , confus et génial. Lui et la science forment-ils les deux avatars du savoir actuel?
La Repubblica.- Lei è considerato giustamente un genio, l’incarnazione dell’arte contemporanea. Eppure i media danno spazio a personaggi molto più banali di lei. Perché? Avez-vous, “comme artiste frustré”, repensé aux Titans?
FA.- Les affreuses et terrifiantes bêtes nommées chimères sont le produit des manoeuvres prométhéennes de l’homme nouveau.
La Repubblica.- Avez vous une théorie sur l’artiste?
FA.- Nous pouvons tous théoriser quant à la part maudite des Terriens parce que nous faisons tous partie de la malédiction.

La Repubblica.- Pourquoi l’extrémisme?
FA.- Quand les extrémismes se combattent, la raison leur fournit des arguments.
La Repubblica.- Beaucoup vous considèrent déjà comme un classique . N’est-ce pas un danger ?
FA.- Le danger se dissipe-t-il avec la considération? Il demeure comme le sourire du chat du Cheshire. L’éléphant a dû se couper la trompe, sa petite queue en était jalouse .
La Repubblica.- Pourquoi, écrit The Village Voice, êtes-vous en avance sur votre époque?
FA.- Grâce à son omniscience le dieu Pan a placé les commencements avant les fins.
La Repubblica.- Avez-vous réinventé la provocation comme l’ a écrit bizarrement aussi The Village Voice?
FA.- La provocation est infantile , centripète et aléatoire. On ne poignarde pas avec la foudre d’un nuage.
La Repubblica.- Mais alors : pourquoi vous accuse-t-on d’être un provocateur?
FA.- On a entendu des choses plus étranges. Les cannibales diabétiques ne mangent pas les fabricants de sucre.
La Repubblica.- Qu’est-ce qui vous a poussé à écrire?
FA.- Dans mon enfance, lorsque j’ai gagné le concours des surdoués…. On aurait dû me congeler.
La Repubblica.- Qu’est-ce qui pourrait justifier la trahison dans l’art?
FA.- Rien. C’est un compromis inutile avec notre propre colère suicidaire.
La Repubblica.- Croyez-vous réellement que, enfin l’être humain va vers un terme inéluctable, la fin des idées et le triomphe de la violence?
FA.- Vivons-nous une époque de belle myopie? Tuer pour le plaisir semble pis que de le faire par idéal.
La Repubblica.- Comment aimeriez-vous mourir?
FA.- Evidemment en dormant, en pleine pollution nocturne.
La Repubblica.- Vous êtes un adepte de la confusion…
FA.- …bien au contraire: je suis presque un fanatique de l’exactitude, des échecs et de la science.
La Repubblica.- Quelle est votre voie?
FA.- Les hirondelles parisiennes et les pigeons de Melilla ignorent la manie démente de toujours emprunter la ligne droite.

La Repubblica.- Un commento adesso, tanti, tanti anni dopo, alla sua lettera a Franco. …à la mort de Franco vous avez formé avec Carrillo , la Pasionaria, Lister et le Campesino le quintette de ceux qui ne pouvaient pas revenir en Espagne …”parce que vous étiez les plus dan-ge-reux”?
FA.- Au bruit de bottes succède toujours le silence des pantoufles;.

La Repubblica.- Ci racconti “Sotto le stelle niente muore”. Pourquoi les universités les plus contées étudient -elles cette pièce?
FA.- De la plus surprenante manière , voire même risquée.

La Repubblica.- Votre message a été interdit longtemps chez vous.
FA.- La gale intelligente préfère les taureaux rouges.

La Repubblica.- Vous ne dites pas émigré mais “desterrado”
FA.- Je n’ai pas de racines: j’ai des jambes. Je suis de Desterrolandia (Exilande)

La Repubblica.- Que pensez-vous du temps?
FA.- Le monde est rotatoire. Mais nous voyagerons dans le Temps. Ce n’est qu’une question de budget (K.Gödel ou Lévy-Leblond dixit)
La Repubblica.- Comment voyez-vous l’avenir?
FA.- Sauf les devins, tout le monde peut prévoir l’avenir.
La Repubblica.- La complexité actuelle…
FA.- Fait que les problèmes changent de nature pour que les solutions paraissent rationnelles.
La Repubblica.- Ecrirez-vous un essai sur l’art d’aujourd’hui?
FA.- Est-il plus facile de passer par l’achat d’une anguille que de chasser ce sein que je ne saurais boire?
La Repubblica.- Quelle est votre meilleure contribution à l’art?
FA.- Aucune puisque mes “oeuvres “, nichées en moi, dictent mes pièces?

La Repubblica.- Et vice-versa?
FA.- Quand j’ai cessé de croire au Père Noël, lorsque j’avais trois ans , je me suis rendu compte que lui n’avait jamais cru en moi.

La Repubblica.- Qu’est-ce que le surréalisme aujourd’hui?
FA.- Si la course à la réussite n’était pas si compréhensible et ennuyeuse il n’y aurait ni poètes maudits ni soldats inconnus.
La Repubblica.- L’écrivain est-il …?
FA. – …comme j’écris à double sens, ce serait un triomphe si on me comprenait à demi.
La Repubblica.- Si vous aviez moins de neurones et plus de beauté?
FA.- Je suis si spécial que je ne réussis même pas à me ressembler, pauvre de moi!

La Repubblica.- Aimeriez vous forniquer avec un homme?
FA.- La femme panique a des ailes; qui l’embrasse plane.
La Repubblica.- Les mathématiques pour un “dramaturge frustré”….
FA.- …grâce au calcul infinitésimal l’éternité est-elle de plus en plus longue?
La Repubblica.- Est-elle pour vous un défi avec ses dilemmes?
FA.- Les hérissons de mer volent quand il pleut des apocalypses.
La Repubblica.- Pour certains vous êtes un écrivain « culte ».
FA.- Parce que l’on m’attaque par ouï -dire, est-ce qu’on me loue aveuglément et me plagie sans me voir?
La Repubblica.- Da quanto tempo non faceva uno spettacolo in Italia? Le millénarisme, l’âge d’or…?
FA.- …c’est étonnant : ni la panne de courant n’impressionne l’aveugle, ni la sottise le crétin , ni le duvet le canard, ni l’éternité l’instant.
La Repubblica.- Votre devise?
FA.- Elle change d’une minute à l’autre. J’écris en jouant à être Dieu et, parfois , je réussis.
La Repubblica.- Voudriez-vous nous parler du sexe dans l’art ?
FA.- Je ne sais qu’une chose , c’est que je ne sais rien.(comme de presque tout).
____________________
autre arrabalesque:
…avant d’inventer les élections les fourmis choisissaient-elles leur reine au Strip Poker ?
… las hormigas, antes de inventar las elecciones ¿elegían la reina al strip-poker?
JEUDI 4 JUILLET
“Sotto le stelle niente muore”(L’adieu aux dinosaures)
de Fernando Arrabal (”Au crayon qui tue”, éditeur)
avec Mila Moretti
regia Sergio Aguirre
Festival di teatro di   San Gimignano: “…il Comune di San Gimignano e la Compagnia Giardino Chiuso sono lieti di invitar Fernando Arrabal  alla prima edizione del Festival di teatro… “Orizzonti Verticali – Arti sceniche in cantiere. … sul tema “Generazioni a confronto: storia, presente e scenari futuri””,  dal 3 al 7 luglio 2013…  il  spettacolo de FERNANDO ARRABAL  “Sotto le Stelle Niente Muore”; per questo saremmo lieti di aver… FERNANDO ARRABAL  presente …”
L’auteur assistera à la représentation   de  “Sotto le stelle niente muore”, si le dieu Pan l p v.

Bonaria Manca

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di Daniela Rosi

tre cavalli_imagesBonaria Manca è nata a Orune il 10 luglio 1925, penultima di 13 figli. Negli anni ’50, seguendo i famigliari in precedenza emigrati per gravi motivi, si trasferisce nell’antica Tuscia, in Alto Lazio, luogo carico di storia, immerso nella natura,  un sito archeologico pregno di memorie etrusche che la colpiscono profondamente e le danno la sensazione di una continuità con la sua terra natale.

Nel 1965 va ad abitare in un grande casale acquistato dalla famiglia a Tuscania.

Nel podere attorno alla casa, lei pascola le sue pecore, mentre fra le mura domestiche cucina, cuce e ricama, in continuità con la cultura sarda.

Non era cosa consueta per il popolo sardo avere pastori donna, ma Bonaria sfiderà le convenzioni e non solo farà la pastora, ma si cucirà anche abiti diversi dai soliti, che ne sottolineeranno fin da subito la grande originalità creativa.

Oltretutto si sposta a cavallo, tenendosi lontana dal paese. Gli abitanti di Tuscania ricordano ancora le sue prime apparizioni. Conservano il ricordo di una giovane donna  misteriosa e carica di fascino. Rimarrà per loro, però, sempre una “forestiera”, una figura esotica. E così si sentirà anche Bonaria Manca: una donna sarda, una pastora, una emigrata in terra etrusca.

 

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Nel 1968 si sposa con un tuscanese, ha già 40 anni, ma il matrimonio è destinato a non durare.  Dopo la morte della madre nel 1975 e quella dell’amato fratello nel 1978, cade in una profonda crisi, accentuata anche dalla successiva separazione dal consorte avvenuta nel 1980.

Sarà proprio questa “dolorosa libertà”, una libertà fino ad allora sconosciuta, la chiave di volta della sua vita:

“mi sono sentita libera, che non c’era né mamma, né fratello”.

La sua compagnia migliore diventa a questo punto l’arte, nelle sue diverse forme, che lei usa come un potente strumento autobiografico.

“Ho iniziato a cantare quando ho cominciato ad esser sola” dice, ma ha anche cominciato a dipingere quando si è trovata sola.

E’ passata alla pittura convinta che, se sapeva ricamare, usare i colori attraverso il filo, probabilmente sarebbe stata in grado pure di dipingere. E, infatti, la sua supposizione si è rivelata corretta.

Dapprima ha iniziato dipingendo sulla tela, o su qualche tavola e, quando le tele mancavano, le si sono naturalmente offerte le pareti della sua casa.

E’ nel 1981 che inizia la sua attività pittorica e lo fa raccontando la sua storia, una storia che nasce sarda, prima di tutto, poi diviene dialogo con il luogo in cui si trova, con la natura che la circonda, con la memoria sua e delle pietre che lì si trovano.

Bonaria inizia così il suo lungo racconto autobiografico, dapprima, come nella miglior tradizione auto-narrativa, elaborando i ricordi dolorosi, i lutti, le separazioni; denunciando i soprusi, i torti subiti, le ingiustizie vissute, per passare poi alla narrazione devozionale, una sorta di preghiera diffusa,  di dialogo con la natura e con gli antichi che lì, nella Tuscia, come in Sardegna, da sempre fanno sentire la loro presenza.

La sua casa, a poco a poco, si copre di colori e immagini. Tutte le pareti sono dipinte, oppure ospitano quadri che raccontano ricordi, tradizioni, presenze, natura e nuovi incontri mitici.

 

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I colori sono tenui e brillanti a un tempo.

In camera da letto campeggia una maternità con Madonna emancipata che lontana dall’uomo non ne è soggiogata e, come fa notare Bonaria, non tiene il capo chino, ma alza la testa altera e fiera.

Sulla parete della camera da letto anche un arazzo dove racconta la sua vita bambina, quando si recava alla fonte a prendere l’acqua.

Un’autobiografia scritta, quindi, anche con il ricamo, il lavoro della lana, il confezionamento degli abiti, pratiche imparate fin da bambina, ma reinterpretate in assoluta libertà.

 

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Raccontare la sua storia su tutte le pareti interne della casa, cucendo arazzi, realizzando tele e disegni, è stata la vera ancora di salvezza di Bonaria, perché queste pratiche le hanno consentito di non cadere nel baratro della solitudine, dell’anonimato e di stabilire una continuità culturale con i luoghi che si è trovata ad abitare, dopo aver dovuto lasciare quelli che le hanno dato i natali e dai quali ha attinto la sua cultura.

 

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Una narrazione per immagini che ha del sacro: la memoria dell’antico popolo sardo e la scoperta di un luogo altrettanto carico di memoria come la Tuscia degli etruschi, due realtà sulle quali scorre la vita di Bonaria Manca, un’ artista che si è trovata a esserlo, suo malgrado, per via di una ispirazione superiore a lei stessa ignota.

“Io che ne sapevo” ripete Bonaria quando diviene, come ognuno di noi, spettatrice del suo immenso poema visivo e, assieme a noi, si meraviglia di averlo potuto realizzare lei da sola.

Bonaria ha lasciato traccia della sua storia scrivendo pure su taccuini preziosi che conserva gelosamente. Ha anche pubblicato un libro negli anni Ottanta, dall’evocativo titolo Comente perdichese spardinadassa (Come pernici sparpagliate), nel quale racconta della sua vita sarda , dei cibi, delle usanze e della sua formazione. Sul libro, in bianco e nero, sono pubblicati molti suoi lavori pittorici che illustrano la vita da lei descritta a parole.

Come tanti artisti outsider o babelici, anche lei inizia tardi, ma è un tardi che le permette di riportare nel suo lavoro tutta la sua esperienza di diversità rispetto agli abitanti della terra che, non per scelta, ha dovuto adottare come terra in cui vivere.

Nel lavoro artistico di Bonaria, troviamo tutta la generatività di una donna eccezionale, libera, anticonformista, ribelle e custode dei valori della Natura. Una donna che salva la memoria mitica del popolo dal quale proviene e che, allo stesso tempo, fonda un nuovo universo personale, il quale nasce da e in una terra che in passato ha conosciuto i grandi fasti della civiltà etrusca.

Consapevole del proprio talento, ma umile, Bonaria non cessa di stupirsi di questa sua capacità.

 

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Donna fiera, di antica civiltà, che attraversa la fatica a testa alta.

Questa è Bonaria Manca, l’abitatrice di un mondo a parte, fatto di memorie e nuova creazione, un mondo, alla fine, da lei stessa ri-fondato e nel quale possiamo cogliere il mistero panico dell’esistenza in tutta la sua infinita poesia.

 

(Daniela Rosi ha scritto questo testo in occasione della mostra da lei curata “Bonaria Manca, Io che non sapevo”, dal 5 al 13 luglio, a “Pergine Spettacolo Aperto” (Pergine Valsugana, Trentino), si veda l’invito qui sotto per i dettagli)

 

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Do you remember Vaclav Havel ?

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Quella nostra Primavera d’Europa
di Růžena Hálová

Nella metà degli anni ‘90 avevo poco più di vent’anni, l’età in cui si hanno speranze e aspettative dalla vita forse più grandi, più aperte e ampie, e che in me erano potenziate dal momento storico che attraversava il mio paese, la Repubblica Ceca. Da poco avevamo potuto oltrepassare la cortina, abbattendola nel modo che più corrispondeva a noi cechi, senza rompere neanche una vetrina, e che fu così prontamente ribattezzato la rivoluzione di velluto. Ci sentivamo ammirati dal mondo e ne andavamo molto orgogliosi, facendoci forti del nostro passato, di un popolo che non ha mai cercato la guerra o di sottomettere nessuno. Eravamo orgogliosi di appartenere a un popolo che è riuscito a sopravvivere alla dominazione asburgica, durata secoli con la predominante lingua tedesca, costruendo due volte il monumento al nostro sentirci cechi dal profondo, il Teatro Nazionale, raccogliendo solo il contributo volontario della gente, contribuendo ad arricchire il sottosuolo culturale di entrambe le lingue per creare personaggi di lingua tedesca ma di residenza praghese come Franz Kafka, Max Brod, Rainer Maria Rilke e tanti altri. E tutto questo conservando la profonda vena del “pensiero ceco”, così chiaramente percepibile nelle opere di Jan Neruda, Jaroslav Hašek, Karel Čapek, e più tardi di Bohumil Hrabal, per ricordare solo alcuni del mondo letterario.

Vorrei citare, a proposito, le parole di Roman Jakobson da un discorso tenuto nel 1969 a Praga, che sentiva come la sua vera patria: “…questo paese era unico nell’accoglienza di popoli perseguitati (…) dove la cultura era di casa più che da qualsiasi parte del mondo (…), questo focolare dell’Europa dove l’occidente incontra l’oriente, su una superficie così piccola e conservando la propria particolarità, ha dato al mondo idee così grandi come l’idea di Costantino dell’uguaglianza e sovranità di tutti i paesi, l’idea riformatrice di Jan Hus e quella grandiosa concezione del sapere democratizzato di Jan Komenský! Non conosco una nazione al mondo che abbia tanto radicata in sé la democrazia.”

I primi anni’90 sono però anche gli anni in cui la mia generazione, affacciandosi al mondo, ha dovuto confrontarsi con una percezione del nostro paese che non si aspettava, cioè abbastanza riduttiva e certo non gratificante da parte del mondo occidentale, di una nazione definita come una delle tante del blocco sovietico, di un popolo sottomesso e umiliato, senza identità propria nella mente di molti che avevano vissuto oltre quella cortina. Era come sbattere la testa contro un altro muro. Abbiamo dovuto fare i conti con uno spostamento dei confini europei, abbiamo scoperto che, pur essendo definiti più volte il cuore dell’Europa, di fatto non le appartenevamo, che i confini creati dalla cortina di ferro continuavano ad esistere incarnandosi nei confini della Comunità Europea. E noi, insieme agli altri paesi dal destino simile al nostro, continuavamo a starne fuori. Al crollo di una barriera politica resistevano altre barriere, quelle dell’economia e della burocrazia, quelle dei pregiudizi e della paura dell’altro, del diverso.

Ed è proprio in questo momento che riusciamo ad alzare la testa, ad essere noi a gettar via quello stigma di un popolo violentato, cioè quando si fa sempre più forte la voce del nostro presidente, che viene applaudito in piedi dal Congresso americano. Penso che quella diretta l’abbiamo seguita forse tutti. Václav Havel, che poi, in tutta Europa, quella geografica, pronuncia parole che invitano tutti a riflettere sulla vera Europa, sul suo spirito e sulle sue origini. Parole critiche, costruttive.
Insomma, alzando la testa riusciamo a vedere quell’apertura dove passa quel raggio di sole di cui parla Václav Havel in uno dei suoi discorsi che ora vengono pubblicati per la prima volta in Italia, da me raccolti e tradotti, dalla casa editrice di Enna Euno edizioni con il titolo Václav Havel. Cinque discorsi sull’Europa.
E’ stato forse quell’impulso di allora l’origine della mia decisione di tradurre quelle parole, in una lingua che già sapevo sarebbe diventata la mia seconda lingua, nel paese dove avevo incontrato molte affinità. Questa mia intenzione fu accolta con molta disponibilità dall’Ufficio di Presidenza di Havel, che rese disponibili alcuni discorsi per essere tradotti, alcuni ancor prima di essere pronunciati. La stessa disponibilità mi fu espressa da parte di alcuni giornali e riviste italiani per la pubblicazione.

Negli anni ‘90 quelle riflessioni erano più dirette al pensiero dell’integrazione europea, alla piena unificazione, al difficile percorso che oggi diamo per scontato, ma che allora scontato assolutamente non era. E questo, oggi, invita a riflettere sulle vie che ci si aprono davanti, di cui possiamo sceglierne una sola prima che ci si presenti un altro incrocio. Solo la nostra conoscenza dei fatti, la riflessione sullo stato delle cose ci permetterà di incamminarci su quella giusta. Credo che oggi le riflessioni di Václav Havel che ho raccolto nei abbiano ancora molto da dire, forse ancora più di allora, cioè in questo momento in cui l’attenzione viene rivolta solo verso i parametri economici, verso un calcolo puro di convenienza degli aiuti da parte dei paesi più forti, nel momento in cui si cominciano a sentire di nuovo voci dubbiose sul senso dell’Unione Europea, che forse unita non lo è mai stata veramente proprio per la ristrettezza di vedute da parte di chi invece dovrebbe guidarla attraversando il periodo critico che viviamo proprio adesso.
Le riflessioni di Havel, nella forma che assumono in Cinque discorsi sull’Europa, sono presentate per la prima volta ai lettori italiani.

Dei cinque discorsi, solo quelli pronunciati a Dublino e a Varsavia sono stati pubblicati, in versione ridotta e sempre da me tradotti, nel 1996 sulla rivista “Crocevia” (Esi, Napoli) diretta da Corrado Ocone e, nel 1998, sulle pagine de “La Repubblica”.
I discorsi presidenziali di Havel toccano aspetti legati alla città o all’istituzione in cui sono pronunciati, eppure sono attraversati e legati insieme da un medesimo tema: l’Europa.
Sono riflessioni intorno all’idea di Europa, alle sue radici, alla ricchezza di culture che la abitano, al suo significato e al suo destino per la storia della cultura occidentale.
La centralità di questo aspetto mi ha reso possibile attribuire un titolo a ciascuno dei cinque discorsi che, nel testo preparato per essere letto, non presentavano titolo. Nell’attribuire questi titoli ho tenuto in considerazione il fatto che Havel riportava interamente la sua esperienza di drammaturgo e il suo passato di dissidente nella sua attività di Presidente; ai suoi discorsi presidenziali, anzi, Havel affidò un compito fondamentale per la comunicazione con i cittadini cechi ed europei, che, in questo modo, continua ad avere luogo anche in forma scritta.