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Overbooking: Luigi Bernardi

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Nota di lettura
di Francesco Forlani
al romanzo Crepe di Luigi Bernardi – ed. Il Maestrale

E il pensiero va alla povera signora Armida. Dopo l’ultimo dissesto del terreno non riesce più a chiudere la finestra della camera da letto. È inverno e fa freddo, l’abbiamo vista con i nostri occhi la signora Armida tappare alla bell’e meglio le fessure con strisce di spugna e, prima di mettersi a letto, infilarsi un vecchio maglione di lana, lo stesso che il suo defunto marito indossava quando usciva all’alba per andare a funghi con gli amici del dopolavoro.
– Che schifezza, non so neanche più scrivere.

Così comincia quello che considero uno dei migliori romanzi letti in questi anni. Siamo in una camera da letto e dalla prima scena ci sono tutti i personaggi chiave di questa storia. Amanda giovane giornalista; Arturo che ne è l’amante, di qualche anno più grande, suo figlio Orfeo, angelo della morte insieme a Gregorio, che di mestiere è medico esperto in autopsie e che seppure incontreremo poco dopo, abita nello stesso palazzo, e per finire, Armida anziana signora, vedova che in qualche modo si salva grazie alla deriva esistenziale in cui si trova. Luigi Bernardi ha il dono della composizione, da intendersi qui come capacità di rendere verosimile e necessario ogni passaggio del suo intrigo ma anche di affabulare il lettore aprendogli pagina dopo pagina esiti differenti, nuovi orizzonti di senso. A partire dalle prime pagine accade il depistaggio e infatti la crepa nel muro, il lettore, la associa al terremoto, del resto lo scrittore è di Bologna e l’Emilia Romagna ha pagato da poco un alto prezzo al movimento sismico, E invece no, la faglia, la fissura, la crepa ha un’altra genealogia. E non mi riferisco alla ragione meccanica che scopriamo essere i lavori per l’Alta Velocità e dunque lo sventramento, lo squarcio nel tessuto urbano necessario per rendere tutto più veloce. Bernardi fa qualcosa di più. Nelle prime pagine mentre Amanda tenta di scrivere il pezzo per il suo giornale, sulle crepe vistose, sulle pareti della casa in cui si trova, offre al suo amante Arturo il di dietro, la fenditura attraverso la quale di lì a poco il suo uomo entrerà in lei. I due corpi, quello della città come casa e dell’umano, della vita risultano essere uno soltanto.

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Il romanzo di Luigi Bernardi è proprio un’azione di carotaggio dell’anima, un tentativo di misurare e raccontare gli strappi, a partire da quello generazionale in corso tra Arturo e suo figlio Orfeo, lacerazioni, presenti nel paesaggio schizofrenico del dottore completamente abitato dalle anime dei cadaveri da lui sezionati e “portatori” di verità, gli abissi che Amanda potrà sondare grazie ai dirigenti dell’Alta Velocità, che la convincono a raccontare al meglio la verità del sottosuolo. Una delle scene più belle è infatti qulla in cui l’ingegnere le mostra la Talpa d’acciaio in grado di reggere il vuoto che crea sotto i piedi della città, spruzzando cemento a presa rapida. Bella perchè ricorda i discorsi del Capitano Nemo sul Nautilus ad un esterefatto Professore Pierre Aronnax, capolavoro con cui Crepe ha almeno un punto forte di contatto ed è la domanda è possibile essere nichilisti e allo stesso tempo aspirare ancora alla verità? Che senso ha non credere più in nulla se questa forza distruttrice si illude poi di inventare un nuovo mondo?

Gli uomini possono ritrovare con la perdita il libero movimento
dell’universo, possono danzare e vorticare con un’ebbrezza altrettanto
liberatoria dei grandi sciami stellari, ma, nella dissipazione
violenta che provocano di se stessi, sono costretti
ad accorgersi che respirano dentro il potere della morte

Già dalle prime pagine il piano teorico in cui quasi istintivamente si inscrivono i destini dei personaggi è il tema della comunicazione negativa formulato da George Bataille nella sua opera teorica più noir ovvero Le coupable. (Il colpevole/L’Alleluia, trad.it. Dedalo, Bari 1989). Si tratta di determinare un’esperienza che sia in grado di oltrepassare la distanza tra soggetto e oggetto e di contenerle, di determinare un luogo in cui il corpo non sia soltanto ciò che vive, da un lato e ciò che muore, ma uno spazio in sè, un vuoto che però esiste. Come può esistere una faglia, una ferita, una crepa, un buco. Ecco perchè la figura di Gregorio, l’anatomopatologo ha non soltanto la sua ragion d’essere, in tanto che inquilino della palazzina del mostro, ma proprio come “doppio” dell’altro angelo della morte, Orfeo, “liberatore” in qualche modo oltre che della propria carica nichilista, distruttrice, delle proprie vittime in una poco scontata pratica di eutanasia sociale, in alcuni casi involontaria, accidentale, assolutamente arbitraria e aberrante.
Più che un condominio dei destini incrociati, “Crepe” si presenta come uno spazio di vite in croce, accomunate dalla sovrapposizione delle proprie ferite, abissi da cui sgorgano nonostante tutto insieme al dolore le note delicate di un canto del cigno assordante, necessario. Ha scritto Bataille:

La communication demande un défaut,
une « faille » ; elle entre, comme
la mort, par un défaut de la cuirasse.
Elle demande une coïncidence entre
deux déchirures, en moi-même, en autrui.
Georges Bataille, Le coupable

“La comunicazione richiede una mancanza, una ‘incrinatura’; entra, come la morte, da una fessura della corazza. Richiede una coincidenza di due lacerazioni, in me stesso, nell’altro”. E ancora: “La comunicazione in senso pieno è paragonabile alle fiamme, alla scarica elettrica di un fulmine. Ciò che in essa attrae è la rottura che la instaura, la quale ne aumenta tanto più l’intensità quanto più è profonda (Il colpevole/L’Alleluia, trad. it. Dedalo, Bari 1989, pp. 43-44 e p. 190).

Augurati perciò lettore, di leggere un libro come questo e che accada anche a te lo stesso.

Orgasmo-Lacrima

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di Jolanda Insana

Orgasmo

Tanti sono i misteri delle cose, l’orgasmo è un mistero gaudioso, o ce l’hai o non ce l’hai, nessuna donna può inventarlo, e forse discende per grazia non risultando, fino a questo momento, correlato con niente, né con sturbi né con disadattamento, né col peso né con l’altezza, né con la dimensione del piede né con la forma del seno, né con il modo di pensare convenzionale o anticonformista, né con la maggiore o minore femminilità e disponibilità, tanto è vero che non c’è nessuna differenza tra le donne impulsive che decidono di getto e a getto continuo e quelle che vanno coi piedi di piombo. Non esiste insomma correlazione tra personalità e capacità orgasmica, ma forse quanto più il coito è piangente tanto più orgiastico è l’orgasmo, qualcuno sostiene.

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Un guizzo di felicità

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bistecca di Mirfet Piccolo

La prima volta che Gianna la vide fu nel 1996, a una grigliata in giardino, e la sensazione che provò fu vagamente simile al fastidio, a un’irritazione sottile. Gianna era hostess di stand al supermercato, e Luca lo aveva conosciuto così, offrendogli un nuovo snack ai cereali e frutta: perché ogni giorno sarà tuo e sarà il migliore, diceva lo slogan. Si frequentavano ormai da quasi otto mesi, e Gianna aveva accettato con curiosità l’invito di Luca di andare alla grigliata: sarebbe stata la prima presentazione ufficiale agli amici, quelli con cui era cresciuto e condiviso ogni cosa. E poi magari si sarebbe fermata a dormire da lui, come quella volta che la macchina non voleva ripartire e diluviava, e non c’era nessuno a cui chiedere un passaggio; a Gianna era piaciuto svegliarsi al suono delle campane e dei pettegolezzi della piazza del paese, si era sentita in vacanza, finalmente lontana dal suo appartamento e dalla petulante coinquilina con la quale era costretta a dividerlo.

Durante il viaggio in macchina dall’appartamento di Gianna, dove Luca andava ogni venerdì sera, uscito dallo studio, Gianna aveva riflettuto sulla bellezza della fedeltà amicale; perché lei, al contrario, riusciva ad avere solo rapporti disordinati e inconsistenti, rapporti niente-di-ché.

 

Luca aprì la porta senza suonare il campanello; in fondo erano attesi, quella era casa di amici. Luca le aveva detto che Carlo era il titolare di una ditta che produceva tappi, e viaggiava molto, soprattutto in Asia; la moglie diceva di occuparsi della contabilità, ma sapevano tutti che quando andava in ditta era solo per controllare il marito, e che in sostanza poteva permettersi di non fare granché.

La loro casa, costruita su un terreno di proprietà dei genitori di lei, ex agricoltori,  era molto grande, ariosa, le tende della porta-finestra volteggiavano leggere lasciando intravedere gli invitati in giardino. Ridevano; un cane abbaiava stanco. Non ci furono strette di mano ma sorrisero  tutti, e tutti dissero ciao, semplicemente, per poi tornare a ridere, forse su una battuta o qualsiasi cosa d’altro iniziato prima del loro arrivo.

Luca si affrettò alla griglia attorno alla quale tutti gli uomini sembravano attratti.

– E la tua signora dov’è? – domandò Luca.

– E’ andata un attimo in taverna, credo, sai com’è, si fa sempre desiderare.

Gianna avvertì un forte senso di disagio, ma cercò di scacciare l’inquietudine dicendosi che in fondo era normale, e sorridendo attraversò il giardino e andò a sedersi su una sedia tra la graticola e il tavolo. Il cane, un pastore maremmano di nome Jolly, le si avvicinò e le annusò i piedi; il pelo lungo e vecchio era a tratti bagnato e gocciolava. Gianna accarezzò il cane e anche la sua mano si bagnò e del pelo le morì tra le dita. Poi Jolly andò ad accucciarsi vicino alla casetta degli attrezzi, con il muso poggiato sopra le zampe e un occhio chiuso e uno aperto, quieta e attenta.

Gianna avrebbe voluto pulirsi la mano, ma i tovaglioli non erano ancora in tavola e lei non voleva disturbare. Mise la mano sotto la sedia e sfregò lentamente le dita nella speranza di rimediare senza dare troppo nell’occhio; per sicurezza, quando Luca le portò da bere Gianna afferrò il bicchiere con l’altra mano. Sorrise di più, bevve un lungo sorso di vino frizzante. Finalmente impegnata col bicchiere, pensò alla gran fortuna di vivere sempre così, con gli amici da ospitare in un giardino curato, un vecchio cane con cui giocare, la quieta sonnolenza di paese. Senza sbalzi repentini né strappi, con niente che accade e tu che puoi stare a guadare.

E poi c’era quella casetta di legno grande quanto il suo angolo cottura. Viverci dentro, magari con un fornellino da campeggio? e poi c’era il microclima, da alimentare e da sfruttare; un buon isolante, coperte di lana ed era fatta; e l’illuminazione come nell’antica Roma; e perché no, fare un esperimento: trecentosessantacinque giorni in una casetta da giardino, registrare tutto, e poi vendere i diritti e diventare famosi, stare tranquilla per un po’.

– Carlo, quello stupido del tuo cane deve essersi mangiato ancora una volta le carte, nel mio mazzo ne mancano quattordici.

Quella era Fanny, e in lei c’era qualcosa che non andava, una discordia di fondo, un fastidio sottile. Forse era per via di quella sua voce da comando, senza mezzi toni né ombre, era un falsetto stonato. Sotto la pelle rosea e opaca si intravedevano le ossa tese come aculei; sugli alti tacchi argentati sembrava in procinto di cascare da un momento all’altro, di sbriciolarsi come pane seccato al sole.

– E tu devi essere Gianna, giusto?

– Sì.

– Io sono Fanny, con la ipsilon finale- e le tese la mano, e Gianna la strinse e disse che era un piacere, anche se quella precisazione sul nome le era sembrata ridicola. Che differenza faceva, con la ipsilon o senza? a chi importava?

Gianna avvertì un rapido movimento d’aria alle sue spalle: un uomo brandiva una grossa pistola ad acqua e fece a Gianna il gesto di stare in silenzio e di non muoversi, poi la puntò sul cane e sparò. Il cane si sollevò di scatto, senza abbaiare andò a nascondersi dietro la casetta di legno. Tutti risero, compreso Luca, e Gianna capì che si trattava della ripresa di un gioco iniziato prima del loro arrivo. Avvertì un forte senso di dispersione, e di déjà vu, ma si sentì sollevata per non essere più al centro dell’attenzione, e, guardandosi in giro con il bicchiere stretto e vuoto nella mano, sorrise a tutti e a nessuno.

 

Fu una grigliata con molti aneddoti e battute, la maggior parte a sfondo sessuale e con mimiche e versi per accompagnare i racconti i cui protagonisti, persone assenti da quella giornata, finivano immancabilmente per essere culattoni di merda o troioni. E allora ecco altre risate, e pacche sulle spalle, e ancora risate. Qualcuno voleva un altro caffè? altro giro di limoncello? altra birra?

Parlarono anche di un viaggio a New York che Fanny e Carlo erano riusciti, per via di un errore dell’addetta dell’agenzia di viaggio, a non pagare. Perché erano fortunati, loro due, lo sapevano tutti, così sfacciatamente fortunati che avrebbero potuto intrattenere gli amici per giorni interni raccontando episodi in cui la buona sorte li aveva assistiti. Ma la cosa davvero buffa, era che Fanny e Carlo avevano già tutto, non avevano certo bisogno che la fortuna si ostinasse a baciarli. Erano gente che cadeva sempre in piedi, anzi, che non cadeva mai. E qualcuno aggiunse che la fortuna li premiava per quello, perché lo diceva anche la saggezza popolare: aiutati che il ciel t’aiuta.

Dopo il caffè preparano i tavoli: quello da pranzo diventò il tavolo da poker, per gli uomini; mentre dalla casetta di legno Carlo ne prese uno più piccolo per la scala quaranta, delle donne. L’ultima volta che Gianna aveva giocato a scala era stato almeno dieci anni prima, a vent’anni, quando condivideva l’appartamento di piazza Tripoli con le due gemelle tedesche e, tra un esame e l’altro di antropologia, si trovavano nella stanza di una o dell’altra per fare una partita. E dopo, cos’era successo dopo? Forse era stato per colpa degli esami, sempre più faticosi e lontani dalla sua vita; e poi il lavoro al pub che pagava poco ed era stato necessario trovare un secondo impiego; la morte dei suoi genitori; i debiti da saldare; e quella gravidanza senza padre, andata com’era andata.

Fanny scartò il mazzo dal suo involucro e lo allungò a Gianna:

– A te l’onore di aprire le danze.

Gianna afferrò il mazzo, duro e lucido; temé di non saper più mischiare un mazzo di carte, e ancor prima di cominciare a mischiare sentì l’imbarazzo raggelarle le mani e il pensiero, come uno schiaffo.

 

In macchina, sulla strada di ritorno verso casa di Gianna, Luca le disse che Fanny era una ladra.

– Cleptomane. E’ fissata con gli smalti.

Sembrava divertito.

– A parte questo. Come ti sembra sia andata?

– Bene – ripose Gianna, – bene – ripeté –, ma un senso d’inquietudine l’accompagnò per tutto il viaggio di ritorno.

Il venerdì di due settimane dopo, durante la pausa pranzo, Luca telefonò a Gianna. Le disse che forse sarebbe stato meglio non vedersi per un po’, ma che se lei ci teneva potevano rimanere amici, buoni amici. Non si sentirono più. Gianna pianse di rabbia ma solo per qualche notte, e andò avanti con il suo andirivieni di sempre.

 

***

 

Era la vigilia di Natale del 2001, in un discount. Dal soffitto pendeva un grosso schermo TV ben visibile da ogni reparto: le Torri Gemella si sbriciolavano senz’audio, un uomo precipitava a ripetizione. Dagli altoparlanti la voce di Eros Ramazzotti era a tratti interrotta da un’invisibile donna robotica, suadente: clienti fedeli da noi lo sconto è scontato, un’occasione da catturare.

Non la vide subito, ma riconobbe la sua voce, tra il reparto bevande e sanitari. Svoltò e la vide: parlava al telefono, concitata, lo sguardo stretto e teso su un punto indefinito dello scaffale; indossava uno splendido cappotto broccato, con ricami che erano un campo di fiori nascente, un trionfo. Gianna non sapeva se essere più stupita dal vederla fare la spesa in un discount o dal fatto che fosse, da sola, in quella parte della città così lontana dal suo paesotto di provincia. Solo guardandola, Gianna si accorse che la sua voce era in realtà cambiata: il tono sempre alto, acuto, ora cedeva sulle vocali di fine parola in un tremito come di perdita improvvisa, inevitabile. Qualcosa la incuriosì, ma per poco; era un periodo difficile (la separazione da Stefano; l’appartamento che avrebbe dovuto condividere con tre sconosciute; il lavoro nuovo, ma più precario del precedente, come commessa stagionale e a chiamata) e infondo Gianna non aveva voglia di convenevoli e di finti slanci d’interesse. Smise di guardarla, cercò di passare oltre a testa bassa.

– Gianna! Tu sei Gianna, vero? la Gianna di Luca. Io sono Fanny, ti ricordi di me, vero?

Gianna tentò uno sguardo pensieroso, estraneo, ma sentì che non le stava riuscendo e finì per ammettere che sì, ora la riconosceva, certo, alla grigliata, tanti anni fa. Fanny sembrava molto eccitata, come se Gianna fosse stata una sua grande amica ritrovata dopo anni d’incomprensibile distacco, e insisté perché andassero a bere qualcosa. Gianna disse che non aveva molto tempo, aveva gente a cena e doveva preparare. Ma forse non lo disse nel modo giusto, perché Fanny le strizzò l’occhiolino come a dire che l’aveva colta in flagrante e che sapeva bene quel che stava facendo. Gianna si vergognò di aver mentito, tra l’altro così male, e un forte senso di debito nei confronti di Fanny la portò ad accettare l’invito.

Le casse aperte erano due, e la coda era lunga. Gianna non sapeva cosa dire, la conosceva appena e non le era neppure piaciuta particolarmente, anche se non ricordava esattamente perché. Fanny riempì quello spazio morto snocciolando gli ultimi anni della sua vita. Raccontò che avevano chiuso la ditta di tappi per lo scarso rendimento (era tutta colpa dei rumeni, disse, che qui comandano e voglio i diritti con tutti i crismi, ma a casa loro fanno gli schiavi e producono tappi senza sosta), e che ora Carlo era un Manager nel settore Tempo Libero, molto redditizio. Il broker di Carlo gli aveva anche suggerito di investire nei discount, e lei era lì per un sopralluogo anche se, aggiunse in fretta, era solo per abitudine che lei andava a fare la spesa da un’altra parte.

Gianna avvertì lo stesso malessere provato anni prima, lo stesso disagio e irrequietezza sottile, ma non disse niente e continuò a far finta di essere interessata. Iniziò a compilare un questionario, perché i tempi erano quelli che erano e lei non doveva vergognarsi davanti a chicchessia se andava a caccia di sconti. Non doveva. Calcò con forza la penna e scrisse il suo nome e cognome, l’indirizzo, la frequenza della spesa. Figli? Animali domestici? Cellulare? Lasagne pronte? Scrisse chiaro e forte. Perché la fortuna era disonesta e stracciava la gente come lei.

Fanny si offrì di mettere la spesa nei sacchetti. Poi qualcosa cambiò, all’improvviso, perché Fanny disse di avere un appuntamento importante e che doveva proprio andare; Gianna la guardò uscire in fretta dal negozio, dissolversi tra la folla stretta nel cappotto broccato, non esserci più. E ne fu sollevata.

 

***

 

Era il gennaio del 2012 quando rivide Fanny, e non la riconobbe subito. Quel giorno Gianna era in pausa pranzo e camminava di ritorno al negozio sportivo dove lavorava già da un anno. Era un inverno molto freddo e Gianna non vedeva l’ora di tornare nel tepore delle sue vetrine, il posto migliore in cui trovarsi. Perché Gianna aveva smesso di lamentarsi già da tempo, aveva cominciato ad apprezzare la sua piccola vita fatta di piccoli piaceri quotidiani. Andava bene così, di diceva, andava benissimo.

Passò vicino al centro di distribuzione della Caritas, come spesso accadeva. E udì quella voce, quelle parole senza sosta, solo il tono era più basso, scavato. Fanny stava litigando con un uomo, gli urlava addosso di rispettare la fila; il viso sollevato in gesto di fierezza e di sfida: e guai a lui se osava anche solo guardarla. Il suo cappotto broccato era consunto, i pochi fiori rimasti erano spenti e lacerati dallo sporco; le sue mani gonfie e violacee, ferite, gesticolavano di rabbia, urlavano più della sua voce.

Gianna le passò vicino, volontariamente la sfiorò senza guardarla negli occhi: fu una piccola spallata, un finto episodio accidentale come ne capitano tanti, per strada, tra la folla estranea di una qualsiasi gande città, e Gianna si sentì sconvolta, finalmente, da un guizzo di felicità inaspettata.

 

Un mondo pieno di debitori

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di Giorgio Mascitelli
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La fabbrica dell’uomo indebitato di Maurizio Lazzarato (trad.it. di Alessia Colutelli ed Emanuela Turano Campello, Roma 2012, Derive Approdi, euro 12) spicca tra i numerosi saggi dedicati all’attuale crisi economica innanzi tutto per una ragione metodologica. L’autore infatti sceglie di inquadrare la sua analisi degli aspetti economici di questa crisi entro un più ampio discorso filosofico-politico. Così facendo egli mette in primo piano il fatto che quanto sta accadendo è una riconfigurazione traumatica dei rapporti di potere e dei modi concreti di governo della società anziché una generica trasformazione dei modi di accumulazione del capitalismo contemporaneo. Mi sembra che questa scelta, a prescindere dal particolare tipo di linea filosofica, sia fondamentale perché rende possibile una politicizzazione del discorso sulla crisi, che è quanto risulta difficile se non impossibile per mezzo di un‘analisi tecnico-economica pura, per quanto critica, che non può riconoscere all’interno della crisi i rapporti effettivi di potere o meglio di dominio che vigono.

La nonnina dei cimeli (solo una favoletta)

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di Davide Orecchio (illustrazioni di Paolo D’Altan)

Oggi la storia è questa, ascolta. C’era una casa piena di cimeli e l’abitava la sua padrona, che chiameremo se ti va la nonnina dei cimeli. Dico «nonnina» perché avrebbe l’età di tua nonna o di mia nonna quando avevo la tua età. Lo sai cos’è un cimelio? È un oggetto che porta con sé un ricordo. Conta qualcosa perché ci rammenta qualcosa. Una valigia piena degli adesivi raccolti dove abbiamo viaggiato. Un pacco di lettere ingiallite, ma lettere d’amore, che i nostri genitori s’erano scambiate da giovani, prima di diventare i nostri genitori e prima che noi diventassimo noi. Oppure lo zaino imbrattato dalle firme dei tuoi amici: diventerà un cimelio, fattene una ragione; il giorno che non ti servirà più non avrai il cuore di buttarlo, perché ti ricorderà gli amici e gli anni trascorsi con loro.

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Ora, è certo che più passa il tempo più i cimeli aumentano. E alla nonnina, nella sua casa, le reliquie (che significa più o meno lo stesso) non mancavano. Le pareti non avevano più spazio, piene di fotografie com’erano. C’erano più foto su quelle mura che peli sul muso di un gatto. Foto dei figli, foto dei nipoti, foto di parenti lontani e vicini. Poi c’erano i mobili. Le poltrone e i divani polverosi custodivano le impronte dei nonni della nonnina, e dei nonni dei nonni dei nonni. Tra le pieghe dei letti, in mezzo a lenzuola di cotone pesante per l’inverno e di lino per l’estate, riposavano antichi capelli. Piatti, posate e bicchieri che avevano sfamato e dissetato tre generazioni, dormivano al riparo di teche offuscate. Era tutto memorabile e un po’ inutile e tutto faceva tossire. I cimeli e i ricordi appesi o poggiati alle pareti della casa accendevano memorie nella nonnina come una luce rischiara una stanza buia. La casa era la nonnina e la nonnina era la casa. Si potrebbe dire che vestissero allo stesso modo: la casa coi suoi colori grigi e stinti, e le sue carte da parati lise; la nonnina coi suoi abiti scoloriti dai troppi lavaggi e ormai privi di forma. Alla signora piaceva tanto ricordare che, quando figli e nipoti la venivano a trovare, riempiva loro la testa di ricordi e li annoiava terribilmente. E se poi non rammentava, li angustiava con domande scoccianti: «Quanto costa la bistecca? Cosa ne sarà di me? Mi ammalerò e morirò? Ho soldi a sufficienza?». Insomma uno strazio e tu hai una gran fortuna: tua nonna non si comporta così, non ti chiede quanto costa la bistecca.

Ma le cose cambiano; questo, nonostante i suoi sforzi, la nonnina non poteva evitarlo. Così un giorno, anzi una notte, successe un fatto imprevisto. Mentre la nonnina dormiva, il signore dei nomi decise di uscire da lei e l’abbandonò. Devi sapere che tutti noi ospitiamo un gran numero di signori che ci aiutano a ricordare, ad apprendere, a fare le somme e le divisioni. E che senza questi signori (che alcuni chiamano «gli altri») non ce la caveremmo. Ora però, tragedia!, il signore dei nomi aveva deciso che era stufo della nonnina. Uscì da lei col suo sacco azzurro pieno di nomi e cognomi, scese cauto dal letto, camminò in punta di piedi sul pavimento, aprì la porta e filò via. Al mattino la nonna s’alzò, aprì gli occhi sulle fotografie che già la circondavano e non ricordò più nulla. Come si chiama quella ragazza ritratta in bianco e nero? So che è mia figlia, ma non trovo il suo nome, si disse. E quei bambini che mi abbracciano laggiù, direi che sono i miei nipoti, ma non so più se si chiamino Tommi o Luca, Eva o Marilù! Vagò per la casa il giorno intero tra le immagini appese e non riuscì a cavare un solo nome dalla propria memoria, e si avvilì a tal punto che se ne andò a letto senza cena.

Ma era solo l’inizio. La seconda notte, mentre la nonnina dormiva, venne il turno del signore dei volti: anche lui quatto quatto uscì dalla vecchia col suo sacco rosso pieno di facce ed espressioni, e sparì oltre la porta. Il risveglio fu subito un disastro. La nonnina dei cimeli osservò stupita le foto che le stavano attorno e si chiese: chi è quella ragazza ritratta in bianco e nero? Non l’ho mai vista prima in vita mia. E i bambini che abbracciano quella donna anziana laggiù, che ci fanno con lei? E chi è la donna? Confusa, più che addolorata, passò il resto del giorno a porsi domande e dimenticò il pranzo e la cena.

La terza, fu la notte del signore dei numeri, anche lui in fuga dalla povera vecchia, col suo sacco verde zeppo di cifre, divisioni, sottrazioni, somme e moltiplicazioni. Al risveglio, la nonnina non sapeva più fare di conto. Aprì il portafogli e prese dieci euro, e per lei non significarono nulla. Così non poté uscire per la spesa e saltò i pasti. La quarta notte, invece, se ne andò il signore dei luoghi (quanta fatica, povera nonnina, davanti a cartoline che non le ricordavano alcunché) e la quinta notte le disse addio il signore dei fatti: dal mattino la nonna non ebbe più memoria di quanto era accaduto agli altri e soprattutto a lei; la sua testa si trasformò in una pentola nuova e vuota, dove nessuno ha mai bollito l’acqua per la pasta, una pentola che nessuno ha mai sporcato né ripulito.

A questo punto, come immaginerai, la nonnina dei cimeli era stordita e preoccupata. Aveva perso l’appetito, il desiderio e il buonumore. Le veniva da piangere e non sapeva nemmeno il perché. Non potendo fare altro, se ne andò a dormire. E, la sesta notte, l’abbandonò l’ultimo dei signori, il signore delle fantasie. Piccolino, brutto, anche un po’ zoppo, vestito male, col suo sacco di tela rammendato ricolmo d’immaginazione il signore uscì dalla nonnina, ma era tanto distratto e sgraziato che non s’accorse di aver lasciato tracce di panna sul pavimento (spesso il signore delle fantasie faceva il pediluvio nei dolciumi). Al risveglio, la nonnina s’accorse delle orme bianche, s’incuriosì e decise di seguirle. Vide che conducevano alle scale e, da lì, sotto fino alla cantina. E la nonnina scese appresso alle tracce. Ma, chissà perché, le scale erano diventate circolari come le spire di un serpente e non finivano più, scendevano senza fermarsi. E la nonnina le percorreva come un secchio calato in un pozzo profondo, senz’arrivare mai all’acqua.

Solo dopo molto e faticoso scendere, giunse finalmente alla porta della cantina, ed entrò. L’interrato era buio, polveroso e sudicio. Ragnatele e muffe riempivano ogni angolo. La stanza però era vuota, perché reliquie e cimeli la nonna li teneva ai piani alti. Non era una cantina come tutte, piene zeppe di oggetti dimenticati e inservibili. C’era giusto un baule, sotto lo spioncino opaco di una minuscola grata. E sul baule – notò la nonnina – sedevano assorti, silenziosi e indifferenti i signori che l’avevano abbandonata. Il signore dei nomi, il signore dei volti, dei numeri, dei luoghi, dei fatti e, naturalmente, il signore delle fantasie con le scarpe sporche di panna.

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Allora la nonnina s’avvicinò al gruppo e supplicò il signore dei nomi che tornasse da lei. Ma quello rifiutò: «impossibile! ». Quindi la nonnina pose la stessa domanda al signore dei volti, e ottenne la stessa risposta: «improponibile!». Il signore dei numeri non l’ascoltò e non le rispose. Mentre i signori dei luoghi e dei fatti le dissero in coro: «impraticabile!». Disperata, la nonnina s’accostò al signore delle fantasie e l’implorò: «almeno tu, torna da me». «Non se ne parla proprio! », esclamò il signore. «Ma cerca di ragionare», argomentò la nonnina, «le tue fantasie non hanno senso senza una persona che le ospiti. Non sono come i fatti, i nomi, i luoghi, i volti e i numeri, che vivono di vita propria. Tu hai bisogno di me come io di te». Il signore si fece pensieroso e quindi riconobbe: «forse hai ragione. Ma quando ero con te, non è che tu mi dessi molto spazio». «Prometto di cambiare. Del resto d’ora in poi ci sarai solo tu e potrai fare quello che vuoi. Allora torni?» «Sì, mi hai convinto. Torno. In fondo questa cantina è fredda, umida e scomoda. Non è adatta a fantasticare ».

Il signore delle fantasie, non senza fatica e un po’ zoppicando, scese dal baule e rientrò nella nonnina col suo sacco di tela zeppo d’immaginazione. E da quel momento cambiò tutto. Gli orologi smisero di camminare in senso orario, i fiumi cessarono di scendere verso il mare e la pioggia non cadde più dall’alto verso il basso. Voglio dire che tutto cambiò per la nonnina, che è quello che conta. All’improvviso le pareti della cantina si colorarono di cielo azzurro e di nuvole, e il soffitto si colmò di cielo stellato, di sole e di luna. Le muffe e le tele dei ragni? Quelle si trasformarono in seta. «Ooooh!», esclamò la nonnina, poi batté le palpebre e subito si ritrovò al pianterreno della casa, dove le finestre si aprirono sul volo di rondini e passeri e margherite altissime e profumate fecero capolino per lasciarsi annusare. Nel frattempo le mura di casa erano diventate gialle e il tetto azzurro, le porte avevano l’aspetto di ruote o di ali e la cucina si era riempita di dolci. Ogni cosa che la nonnina vedeva, era come se la vedesse per la prima volta e le accendeva stupori.

Adesso che questa storia finisce, non posso nasconderti la verità: e dunque certo, la nonnina non ricordò più un solo nome o volto, un fatto, un luogo e non seppe fare di conto. Ma tornò felice come una bambina, incurante del passato e annoiata dal futuro. Anche questo è vero e non te lo nascondo, che senso avrebbe nascondere una cosa bella? Se la nonnina avesse mantenuto memoria dei fatti, avrebbe ringraziato ogni giorno il signore delle fantasie per essere tornato da lei a colorarle la vita. Ma non poteva, perché aveva già dimenticato tutto. Il signore delle fantasie, però, non s’offendeva. Quanto a figli e nipoti, pensa un po’: tornarono a trovare volentieri la nonnina che non custodiva più i cimeli senza pensare ad altro, né aveva paura del domani, e non li angustiava con memorie e domande ma inventava ogni giorno qualcosa di nuovo. E questa è proprio la fine: che tutti, contagiati dalla nonnina, vissero se non proprio felici, almeno contenti. Anzi il contrario: se non proprio contenti, di sicuro felici.

(pubblicata su Style Piccoli, settembre/ottobre 2012)

Correspondances

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claire

di Chiara Todeschini

“Gli scrittori simbolisti credevano nella corrispondenza tra uomo e natura, ma di quella tra uomo e uomo non ne hanno parlato, da quel che ricordo… Tu ti sei mai chiesto perché?” ho gridato a Mario mentre il treno entrava nella stazione di Voghera tra i fischi del capotreno che uscivano da sotto il berretto e fiumi di persone si accalcavano a ridosso del binario, cercando di prevedere il punto esatto in cui il treno si sarebbe fermato per guadagnare quel millimetro di vantaggio sugli altri. Proprio un millimetro, una boccata di sigaretta o la posizione di un piede a volte fanno la differenza quando si tratta di arrancare un posto. Di ottenere un premio.
Il nostro rocambolare continuo ci rende una specie unica.

Giorgio Vasta: la militanza del linguaggio

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 di Giacomo Raccis

Or la vita degl’italiani è appunto tale, senza prospettiva di miglior sorte futura, senza occupazione, senza scopo, e ristretta al solo presente

(G. Leopardi, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani)

Tutto deve partire da una considerazione semplice quanto assiomatica: Giorgio Vasta è uno dei migliori scrittori della sua generazione. Si tratta di una dato unanimemente riconosciuto. E la cosa è tanto più sorprendente se si considera la produzione narrativa al suo attivo.

Draghi e funivie

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di Giacomo Sartori

Dove sono andati i draghi “mostruosi, giganteschi e bavosi” delle leggende trentine che ha riunito in questo volume Mauro Neri? E gli auseloni? E i basilischi, e gli aspi? Perché non stanno più rintanati sul fondo dei laghi di montagna, perché non si levano più in lento volo a terrorizzarci? Sono migrati altrove, sono estinti? E i cavezài, che entravano nelle case a buttare tutto all’aria, e al bisogno diventavano cattivi e uccidevano? E i gattacci neri con gli occhi rossi, assoldati dai signori per proteggere i loro tesori? Ma soprattutto, perché non ci sentiamo meglio, adesso che questi mostri si sono rintanati nelle biblioteche, e ne abbiamo perso il ricordo? Perché siamo lo stesso insoddisfatti, perché la nostra ansia è ancora più grande? Perché non ci riuniamo più la sera nelle stalle, o insomma in altro posto (nei garage?), a discutere e a raccontarci storie che ci rasserenino, perché quando ci incontriamo con il carrello della spesa non ci guardiamo più negli occhi?

I draghi e le draghesse hanno lasciato libero il campo, e noi ne abbiamo approfittato. Abbiamo addomesticato le montagne costruendo strade e gallerie e tralicci, imbrigliando i torrenti, disgaggiando i versanti pericolanti. Monitoriamo la biodiversità, mettiamo il radiocollare agli orsi e studiamo il genoma dei lupi. Tutto è sotto controllo. Per sollazzarci abbiamo costruito impianti di risalita per raggiungere cime che prima ci facevano freddo alla schiena solo a vederle. Per le nostre escursioni utilizziamo georeferenziatori e equipaggiamenti altamente tecnologici. Nei rifugi alpini pretendiamo il collegamento internet, vogliamo restare connessi con il resto del mondo, con quello che adesso, in una hybris materialista e merceologica, consideriamo essere il resto del mondo. I breviari della nostra immaginazione sono ora i patinati depliant turistici e le soleggiate immagini pubblicitarie. Niente Lovegàti e Basàdone e altri uomini selvatici, niente brutto tempo, niente stranezze e catastrofi notturne. Abbiamo evacuato il male. Insomma, ce ne illudiamo.

Dove sono andati i mostri che spadroneggiavano sulle montagne e che facevano le loro terrificanti incursioni nei fondovalle, venendo a stanarci nelle nostre case, dove sono andate le nostre paure? Sono anche quelle globalizzate. Abbiamo paura della crisi finanziaria, della disoccupazione, dell’invasione di orde di immigrati con le ciabatte di plastica, del futuro. Abbiamo paura dei cambiamenti climatici, dell’esaurimento delle vene di petrolio, degli attacchi terroristi. Certo abbiamo ancora paura di noi stessi, ma non ne siamo più coscienti. Pensiamo anzi che sia una questione di dominare ancora meglio e ancora di più, di razionalizzare, di controllare ogni minimo brindillo d’erba. I rozzi draghi di queste leggende ci fanno sorridere di commiserazione, ci sembrano altrettanto ingenui delle grezze persone che riuscivano a spaventare.

Eppure i tuoni che squarciano il cielo ci sono ancora, quelli non siamo riusciti a civilizzarli. E nemmeno la grandine. Per scongiurarla per anni durante i temporali abbiamo sparato donchisciottescamente contro le nuvole (ce lo ricordiamo?). Adesso lasciamo che il cielo esprima la sua furia, firmiamo contratti di assicurazione contro i danni. Lì abbiamo perso. E anche gli incubi la notte non siamo riusciti a sradicarli. E neppure la morte. Anzi, proprio perché l’abbiamo evacuata dai nostri pensieri e bandita dalla nostra quotidianità, quando ci acchiappa ci terrorizza con quel suo viso scheletrico che non ci è più familiare. Anche per lei non ci sono assicurazioni che tengano: quando arriva arriva.

Queste leggende così minuziosamente locali e così eterogenee nelle forma, ma per altri versi così simili, sono nate e sono vissute nei dialetti delle varie valli trentine. Tradotte in italiano sono amputate e depotenziate, agonizzano. Ce lo confermano i passi e le citazioni in dialetto, tutti efficacissimi, e molto belli, che Neri ha introdotto qua e là. Ma adesso noi parliamo l’italiano, la lingua della televisione e dei grandi parcheggi asfaltati e dei centri commerciali. Questa lingua che ha rotto definitivamente i legami con il Medioevo, a sua volta in contatto con eredità più remote ancora, con sentori pagani e celtici.

Questa nostra lingua asettica, separata dal corpo e dalle sensazioni e dagli abissi dentro e fuori di noi, ha trionfato dove secoli di dominio cattolico, le cui pudibonde e indottrinanti verniciature sono talvolta molto evidenti sui testi del presente volume, avevano sostanzialmente fallito. Non abbiamo più le parole per parlare dei draghi feroci e maleodoranti, ci mancano le espressioni per parlare delle paure del nostro corpo, dell’intelligenza delle nostre budella, degli afflati delle pietre e degli alberi, dei legami sotterranei che ci imbrigliano, delle forze che non conosciamo. Possiamo solo cercare blandi equivalenti nel nostro gergo psicologizzante e raziocinante di adesso, nel nostro bagaglio iconografico modellato dalle pubblicità e dai fumetti. Non abbiamo perso solo la capacità di capire con le trippe e con la pelle, ma anche quella altamente catartica di fantasticare: la scienza, questa scienza nemica della spiritualità che ci sta portando alla rovina, ha sbaragliato. Forse allora queste belle leggende animalesche vanno lette con quella lentezza impacciata e quelle goffaggini di pronuncia di quegli anziani trentini che parlano e leggono molto male l’italiano. Ascoltandone gli echi dentro noi stessi, cercando di stanare il male, che è sempre esistito e sempre esisterà, accettandolo. Sempre meglio che niente.

(questa è l’introduzione che ho scritto per la raccolta illustrata di leggende “Il volo della draghessa” di Mauro Neri, AlcionEdizioni, 2013, Trento, 71 pgg)

L’etichetta di Spinoza

11

di Francesco Forlani

La memoria è anche una statua di argilla.
Il vento passa e, a poco a poco, le porta
via particelle, granelli, cristalli.”

“Il vento mi soffiava sul viso, mi asciugava
il sudore sul corpo, mi rendeva felice.”

José Saramago, i quaderni di Lanzarote

 

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Dove nascono i venti? E poi nascono davvero oppure ci sono da sempre? E per sempre si muovono, talvolta in modo insolente a due, tre, quattro nodi sospingendo da una parte o dall’altra chiunque e qualsiasi cosa ne intralci la corsa. Il vento è in tutte le cose, dipinge le nuvole in cielo e libera le terre dalla siccità portando la pioggia che irrora la campagna, benedice il raccolto, o li annega, i campi facendo impazzire i torrenti e piegando ogni speranza di chi ha coltivato la terra. Muove ogni cosa e semina, il vento; raccoglie e scompiglia i capelli, li sconcica proprio, specie se ricci e neri come la pece che sembrano lapilli con i riflessi rossi, quelli di Julie.
Per dire vent dico vin perché come tutti gli italiani sbaglio l’accento. Però ci soffio sopra alla parola, per farmi capire e Julie mi dice che da loro dicono: siffler une bouteille, fischiare la bottiglia, come il vento e mi fa vedere come le labbra intente a deglutire vino prendano la stessa forma di un arbitro o di un vigile che soffi con tutto il fiato nei polmoni in un fischietto. Fischi per fiaschi, insomma.

Julie ci ha convocati di buon ora per traslocare un migliaio circa di bottiglie dallo scantinato della casa editrice in cui lavorava, l’Harmattan, prima di passare aux Editions du Seuil. Due macchine sette persone, divisi tra correttori di bozze, editor, artisti di strada, un pittore, un fisarmonicista e uno che non si sa bene e quello sarei io. L’appuntamento è all’Atmosphère, e la prima ad arrivare è la macchina di Patrick Chevaleyre, Peugeot 404 azzurrina Grand Tourisme.
– C’est ma bagnole! Il mio scatorcio, dice Patrick, e poi aggiunge quasi sempre: la macchina del film Tontons flingueurs, mica Fiàt. Anche loro sbagliano i nostri accenti. La destinazione, la libreria al 21 bis rue des Ecoles, nel quinto arrondissement, quartiere latino.

Il vino è di quello buono, pregiato, bottiglie dei nonni di Julie, persone importanti, collezionisti di Châteaux. E quando ci caliamo nella cantina, uno alla volta la visione d’insieme è impressionante. Non se ne stavano gli uni, i vini, da una parte e dall’altra i libri ma tutti insieme, «maritati». Tra questi ultimi, ben riconoscibili, quelli di José Comblin, Maryse Condé, Yasmina Khadra, Alain Mabanckou; Denis Pryen, l’aveva fondata negli anni settanta, l’ Harmattan, e pretendeva il giusto rispetto per un’impresa che aveva al proprio attivo migliaia di titoli, per lo più saggi e autori del terzo mondo, di quella francofonia che quando non si veste d’esotico non entusiasma affatto il mercato. Dalle bottiglie rilucevano non sempre le etichette però si capiva lontano un miglio che fossero preziose. Certo rimaneva il dubbio: e se fossero diventate aceto? Lo stesso valeva per i libri, in effetti, un tarlo per i collezionisti. Ma la sensazione che permaneva era quella di un fitto dialogo tra le etichette delle une e le quarte di copertina degli altri. Così quelle parole dicevano al solo pronunciarle, sillaba dopo sillaba, premier cru, tête de cuvée, domaine, appellation, récoltants, vignerons, e raccontavano mappe che disegnavano mondi e cartografie sottili, venature nel cuore della Francia profonda, che quasi quei villaggi li sentivi respirare.

Julie si accorge della mia sorpresa e mi dice che se voglio, il libro di Khadra, De l’autre côté de la ville, lo posso tenere. E aggiunge subito dopo: a proposito di prima lo sai che l’Harmattan è un vento famoso, nel bene e nel male.
– E perché?
– Perché tira su tanta di quella sabbia e polvere da rendere invisibile ogni cosa, bloccare gli aerei per giorni e costringere soprattutto i vecchi a rimanersene rintanati in casa.
Mentre lo dice agita le mani davanti a sé a mulinello e si vede che ha visto davvero ‘sta cosa. Mi accingo a rimettere mano alle scatole di cartone e Julie si inginocchia accanto a me sussurrandomi è un vento cattivo che rende nervosi, aggressivi, violenti, ma a volte rinfresca, e reca sollievo alla gente, e infatti lo chiamano proprio per questo «dottore».

Sistemiamo con cura le bottiglie quasi avessero al proprio interno messaggi d’importanza capitale. Alla stregua di messaggeri inviati alle corti degli imperatori e dei papi, sistemiamo con cura certosina ogni cosa, sotto la guida attenta e affettuosa di Julie. La mattinata va via in un sorso, punteggiata dai nostri oh oh, ah ah, a segnalare un’ennesima scoperta sensazionale, ora un vino degli anni trenta, ora un libro che tra le carte ingiallite rivelavano destini alla maniera degli arcani misteriosi infilati in qualche pagina strappata.
Così Franck Lassalle, suonatore di fisarmonica a un certo punto legge, ad alta voce ma prima dice nome dell’autore e a seguire il titolo e l’annata.

Alexandre DUMAS, « Le Corricolo», 1843.
Mi direte che malauguratamente l’onore non basta a sfamare una bocca e che per vivere bisogna pur sempre mangiare. Ora, è ovvio che quando sui mille scudi di rendita si carichino la manutenzione di una carrozza, il nutrimento dei due cavalli, le spese di un vetturino l’affitto di un alloggio al Fondo o a San Carlo non rimante certo granché per far fronte alle spese della tavola. Al che risponderò che Dio è grande, il mare profondo i macaroni a due soldi la libbra e l’asprino d’Aversa a pochi centesimi il fiasco. Per ben istruire i nostri lettori che probabilmente ignorano cosa sia l’asprino d’Aversa, noi gli faremo sapere che si tratta di un piccolo buon vino che si situa a metà tra la tisana di champagne e il sidro di Normandia. Ecco allora che con del pesce, macaroni e dell’asprino, si può mettere su in casa una deliziosa cenetta che costerà quattro soldi a persona. Immaginate che la famiglia si componga di cinque persone, tutto verrà venti soldi. Rimangono così nove franchi per tenere alto l’onore del nome.

Curioso, penso. il libro di Khadra, De l’autre côté de la ville. Era se ben ricordavo proprio l’origine del nome della città di Aversa, dall’altra parte di Napoli, della capitale. E l’Asprino? L’allegro, il brioso, che come la manna dal cielo, a detta di Dumas faceva passare il mal di testa che ogni forzata contabilità da quattro soldi, destinava ai poveri in canna? Mantenendo salvo l’onore? Una lunga conversazione a tavola pochi anni prima, i conversari, dove le parole venivano servite insieme al vino nei bicchieri degli incontri alla libreria Quarto Stato d’Aversa. Il ricordo si sovrapponeva così ai gesti ripetuti del riporre la bottiglia all’orizzontale, spostare il libro rimettendolo in verticale, e comporre così il nuovo ordine delle parole. A quel tavolo c’erano Ernesto e Antonella, librai comunisti, Alessandro Manna gallerista, Salvatore  di Vilio fotografo, Raimondo Di Maio, libraio editore, Massimiliano Sacchi e Marco di Palo, rispettivamente clarinetto e violoncello dei Ringe Ringe Raya, con cui avevamo appena concluso un tour dall’avvincente titolo «Reading Reading che mamma ha fatto gli gnocchi», e Enzo Falco che dell’Asprinio ne ha fatto una battaglia personale. E nei calici di cristallo che si toccavano ad ogni passaggio di testimone, di parola, Asprinio di terre un tempo aversane e ora disseminate in mille nomi, Carinaro, Casal di Principe, Casapesenna, Cesa, Frignano, Gricignano di Aversa, Orta di Atella, Parete, San Cipriano d’Aversa, San Marcellino, Sant’Arpino, Succivo, Teverola, Trentola-Ducenta, Villa di Briano e Villa Literno.

Ernesto racconta come da piccolo uno dei cesti con l’uva appena raccolta gli avesse dato alla testa. Non avvedendosi del lancio di uno dei vendemmiatori non aveva fatto in tempo a scostarsi. – Come la manna dal cielo – fa Alessandro, poi aggiunge: «uomini ragno», che non soffrono di vertigini per salire sugli scalilli appoggiati all’alberata, ci ho trascorso un’intera giornata e vi giuro che a vederli da sotto maneggiare i tralci e i grappoli sembravano insetti.
– Sono stati i francesi a inventarsi ‘sta cosa delle alberate – dice Salvatore dopo uno schiocco di lingua che segue un lunghissimo sorso. – Louis Pierrefeu, il cantiniere di corte di Roberto d’Angiò, tralci di vite, “maritate” ai pioppi, alti dieci quindici metri.
Quindici metri a salire e quindici a scendere, se si considerano le grotte, a’coppe e a’sotte, e fa il segno con la mano, scavate a 13 mt di profondità. Così si vinifica l’Asprinio – è Raimondo a parlare stavolta. Ernesto scende in libreria a prendere un prezioso volume. Si tratta delle Passeggiate Campane di Amadeo Maiuri e legge stavolta restando in piedi. «Sono i campi delle viti eccelsi di Plinio, materialmente abbracciate agli alti pioppi, i campi delle uve più feconde di mosto e del vino arbustivo (come era un tempo chiamato dagli intenditori), come se da quella stretta tenace a quei tronchi gravi e sostenuti, un poco di ligneo umore potesse calare nel succo del vino».
Tutto questo m’era venuto in mente, manco avessi bevuto un paio di quelle bottiglie

Julie ci fa segno che è ora di andare. Ci sono più di venti scatoloni riempiti di bottiglie e ci dice che quelle che rimangono, un centinaio le lascia al libraio. In macchina ci dirigiamo verso Montmartre che è l’unico luogo in cui in tutta Parigi ci sono le vigne. E ripenso ai pioppi, a questi alberi così imponenti. Rousseau nel 1778 era morto nell’isola dei Pioppi, a Ermenonville nell’Oise e su una tavola dello stesso legno Leonardo aveva dipinto la Monna Lisa. Pioppi bianchi e neri, capaci di trattenere le voci degli inferi o della salvezza. Il brusio delle foglie mosse dal vento ricorda le voci della gente, come non immaginare agli oracoli smarriti nel brusìo delle foglie? Ecco perché populus, peuplier, pioppo, significano corsa al cielo, alle anime che non ci sono più. Voci che tessono tele capaci di imprigionare ogni più recondito ricordo, esperienza, da lasciare libero al primo sbattere di rami, di foglie. Legno che costruisce navi, mobili ma anche la carta che imprigiona le parole, i pensieri, le storie. Alberi libri che cercano mani potenti, arrampicatori senza vertigini che possano raccogliere ogni cosa. Alberi e vite, libri e bottiglie, maritate, ovvero simbolo stesso di quello che Spinoza chiamava un vincolo d’amore, qualcosa che dura oltre ogni ragione del cuore, qualcosa di simile all’amicizia, la sola più duratura dell’amore stesso. Capace di dire fino a quando tremeranno le foglie, fino a quando ci sarà vento. E in quella corrispondenza dei sensi, che significa unione nella buona e nella cattiva sorte, reca d’un tratto sollievo rileggere il passo che il filosofo dedica all’amata, ma forse bisognerebbe dire, l’amica. E strappo la pagina dalla vecchia edizione che ho a casa di Julie ou la Nouvelle Héloïse.
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Lettre XXIII à Julie
L’unica cosa per la quale non godevo di nessuna libertà era la durata eccessiva dei pasti. Potevo disporre di me nel non mettermi a tavola; ma una volta seduto, bisognava rimanerci una buona parte del giorno, e passarla a bere.
Non c’era modo di immaginare che a un uomo e per di più svizzero non piacesse bere? Effettivamente, confesso che il buon vino mi pareva una cosa eccellente e che non ho in odio la cosa al punto di distaccarmene a patto che non mi si obblighi. Ho del resto notato che le persone false sono sobrie e la grande riservatezza della tavola annuncia assai spesso dei modi finti e delle anime doppie. Un’anima franca teme meno il cicaleccio affettuoso e le tenere effusioni che precedono la sbronza. Però bisogna sapersi fermare e prevenire gli eccessi. Ed era proprio quanto mi era impossibile fare con cotanto risoluti bevitori come i vallesani con vini violenti quanto quelli del paese e su delle tavole dove non si vide mai acqua. Come risolversi a giocare furbamente il ruolo del saggio e a far dispetto a così brave persone? Mi ubriacavo allora per riconoscenza; e non potendo pagare lo scotto con la mia borsa, lo pagavo al prezzo della mia ragione.

La ripongo in una bottiglia, quella che mi è stata regalata perché imbottigliata nell’anno della mia nascita. Quella appena scolata nel nome del bere buono, del vivere felici e gliela spedirò. Anzi le scriverò sulla bottiglia, queste parole, incollandole all’etichetta. Ecco che almeno per un attimo saremmo stati legati anche noi, indissolubilmente come Rousseau a Julie, come la vite all’albero maestro, e l’albero al vento.

Elezion sarà: nodo più forte,
Fabbricato da noi, non dalla sorte.

Lanzarote, 13 luglio 2013

Testo pubblicato su Corriere.it per il progetto Racconti in Bottiglia

per Carlo Giuliani – 20 luglio 2001

6

di Gianni Montieri

targa per carlo giuliani
s t a n d o    a    c a s a   (20  luglio  2011)
 
Dieci anni fa era luglio e c’era caldo
non mi sono mosso da Milano
potevo andarci a Genova, potevo esserci
alcuni amici andarono e, poi, tornarono.

Quella volta dieci anni fa ho avuto paura
il giorno prima dissi: “non verrò ragazzi,
laggiù tira una brutta aria, resto a casa”.

Anniversari affettivi – 20 luglio 1965, Like a Rolling Stone esce negli Stati Uniti

8

LaRS

di Filippo Tuena

Credo che sia stato Roddy Doyle a chiedersi che impatto poteva avere su un teen-ager il primo ascolto di Like a Rolling Stone. Poiché sono stato teen-ager, o meglio adolescente allora posso rispondere. Nato il 24 luglio del 1953, avevo dodici anni quando il disco uscì: l’età in cui si passa dalla fanciullezza all’adolescenza.
Perché il disco uscì proprio il 20 luglio del 1965 negli States. In Italia, al solito, diverse settimane dopo, certamente nell’autunno di quell’anno. E io credo di averlo comprato – al prezzo di cinquecento lire, più o meno – durante quell’inverno.

ite, kermesse est

1

Silent Words
performance Nikolina Silla

SILENT WORDS 2
I giardini delle Parole – Collisioni 2013
(…)Quale processo interno ha luogo nel momento in cui le parole lette avvolgono la nostra esistenza? Perché ciò che accade al lettore, si potrebbe dire, va oltre la semplice funzione del cervello. Le parole risuonano nel corpo. Ci prendono per la mano e ci portano attraverso il confronto, i pensieri, i sentimenti, i ricordi, il respiro del corpo (…)

Al festival Collisioni, Barolo, ho assistito nel mezzo di una kermesse cultural letteraria paragonabile solo a Woodstock, per numero di persone al metro quadro, a una straordinaria performance. Nikolina Silia, artista croata ha creato, in disparte, in controcanto rispetto al rumore di fondo, baccanale cultural gastronomico – e astronomici prezzi per mangiare e bere – quel che succede davvero in uno scambio letterario. Tutto accadeva in mezzo a parole mute, al mutevole gioco di sguardi, specchi opachi di incerte calligrafie, mappe calcate su drappi bianchi, stralci letterari, nell’assoluto silenzio. Mentre fuori tutti si accaparravano il proprio posto al sole della belle plage littéraire, e tocca l’autore con mano, e gratta e vinci, nell’ombra, vestita di bianco lei esplorava lo spazio bianco della lettura, ora un impercettibile movimento delle labbra, ora il tic nervoso, la mano a sfogliare l’aria, il gesto del piego libri. Perfino gli scrosci del cesso situato al piano di sopra avevano un senso. Anzi a questo frammento di Heinrich Böll in Foto di gruppo con signora, mi hanno fatto pensare .

SILENT WORDS 3
“…uno schifo, le dico. (…)Siccome Wilhelm, mio marito che pure aveva fatto l’idraulico, poi il tecnico e infine il disegnatore, si dimostrò di una schifiltosità incredibile, e siccome io e Margret morivamo dal ribrezzo, sa chi ha risolto il problema? Leni. Non fece altro che cacciar dentro la mano, e mi sembra ancora di vedere il suo bel braccio sporcarsi di giallo fin sopra il gomito. Afferrò la mela la butto nella pattumiera, tutta quell’orribile broda scese giù di colpo gorgogliando, e Leni andò a lavarsi: si lavò a fondo, certamente, più e più volte e si strofinò braccia e mani con l’acqua di Colonia, e fece un’osservazione- ora mi torna in mente- che per me fu come un fulmine. “i nostri poeti sono stati i più coraggiosi disotturatori di cessi”

SILENT WORDS 1

Nikolina Silla è nata il 5 giugno 1981 a Zagabria, Croazia. Ha studiato fotografia presso la Scuola di Belle Arti e Design, e giornalismo presso Università delle scienze umanistiche a Zagabria. Lavora come free-lance fotografa e si esibisce principalmente nelle gallerie e nei musei di Zagabria. Molto presto realizza il bisogno di spostarsi dalla primaria espressione fotografica verso il concettualismo e multimedia. Così nascono le collaborazioni con i colleghi artisti e partecipazioni alle mostre come “Much too Much”, Padiglione d’Arte di Zagabria, Kleine Spioninen la mostra realizzata sotto la direzione artistica dell’ artista tedesco Stefan Bohnenberger nel HDLU, Zagreb. Guidata da un progetto di collaborazione si sposta in Cina, e qui per qualche tempo fa perdere le sue tracce, per poter di nuovo disegnare i sentieri dei concetti artistici cominciando da quest’ anno 2013.

2 frammenti da “Il bambino mammitico”

1

Bambino mammitico Copertina
di Giacinto Conte

La mia impressione dopo aver conosciuto Enzo è di una persona magnifica, carismatica, indubbiamente di grande talento e sensibilità umana. Enzo è anche enormemente simpatico, scrutatore dell’anima e profondamente religioso. Sono stato a colloquio con lui tutta una notte nella sua cameretta del monastero. Mi ha offerto l’Ouzo, un liquore orientale, e poi durante tutto il nostro colloquio abbiamo fumato delle sigarette sudamericane.

Drive

2

di Alessandra Greco

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Sotto, alla base, c’è la madre, un orologio atomico al cesio. Aggiustamenti d’ora necessari solo molto raramente e sempre si tratta di frazioni infinitesime di secondo. Lo strato più evanescente spesso manca di buio, la lacrima all’occhio, la zona corrispondente alle ombre meno intense, l’impercettibile distanza, lo strato meno spesso di un corpo, quello che si vede: una bruma di campagne ibride avvelenate per chilometri.

Del perché ho deciso di non rispondere alle domande della prova orale del concorso docenti

24

di Gualtiero Bertoldi

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Sono appena tornato dalla prova orale del famigerato concorso docenti voluto dall’ex ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca Francesco Profumo. La prova consisteva in questo: preparare e presentare oralmente per 25-30 minuti una lezione su di un argomento estratto a caso dal candidato stesso il giorno precedente (nel mio caso appunto ieri), e rispondere quindi ad alcune domande di carattere generale (che potevano riguardare la lezione stessa o l’intera disciplina) della commissione. Si è trattata di una prova di breve durata, dal momento che mi sono presentato, ho consegnato alla commissione un elaborato contenente la lezione da me preparata e ho dichiarato, affinché venissero verbalizzate, le testuali parole: “Iniziamo, ma penso finiremo subito, dal momento che, per protesta nei confronti del concorso, ho deciso di non presentare questa lezione e di non rispondere alle domande. Tutto qua.”

Vaterland

6

di Helena Janeczek

Fred Stein Hannah Arendt 1944

Siegfried Oppenheimer a 18 anni caduto
fürs Vaterland in Francia, 1919.
Sulle Alpi scomparso Werner suo fratello.

Corsivo slanciato su targa in bronzo,
targa su pietra in forma di roccia,
lapide monumentale, monumento
all’ignoto masso roccioso
che cadendo
forse travolse dei fratelli il secondo.
Estremo omaggio (virile, artistico)
di padre (e madre) scomparsi
senza traccia.

Su 3 chapbook poetici

19

Lyn Hejinian, Un pensiero è la sposa di cosa pensare, traduzione di Gherardo Bortolotti, Marilena Renda, Michele Zaffarano, Arcipelago, 2012, pp. 41, € 3,00.

Rachel Blau DuPlessis, Bozza 111: Arte Povera,   traduzione di Renata Morresi, Arcipelago, 2012, pp. 27, € 3,00.

Nathalie Quintane, La foresta dei vantaggi, traduzione di Michele Zaffarano, Arcipelago, 2012, pp. 37.

Di Andrea Inglese

Il termine poesia suscita oggi un caratteristico fraintendimento.

Fuori dal mio paese!

40

una confessione di Gianni Biondillo

Kyenge

Questa confessione è una dichiarazione di sconfitta. La mia. Ho creduto ingenuamente che si potessero governare i grandi flussi migratori degli ultimi vent’anni. Sapevo che questa Nazione era matura. Ma la verità, oggi, è che qualcosa non è andata. E non è andata per colpa loro, non nostra. Gli intolleranti sono loro, non noi.

Sono una minoranza nel paese ma hanno messo in scacco tutti noi. Forse le minoranze, certe minoranze, non possono essere integrate, la differenza antropologica è sotto gli occhi di tutti. Va bene portare pazienza, finché lavorano, finché producono, ma quando li vedi che vengono eletti nel Parlamento della nostra Repubblica (gente che neppure parla l’italiano corretto), o quando addirittura diventano ministri, c’è evidentemente qualcosa che non va. Questa è gente che non ci rispetta, che fa quello che gli pare, che non ha alcuna idea dei dettami dei nostri padri costituzionali.

La verità è che Lombroso aveva ragione, basta guardarli in faccia. Volti animaleschi, disumani. Stanno sovvertendo le basi etiche di uno Stato nel quale non si riconoscono. Fanno strame delle nostre leggi. Forse dovremo avere il coraggio di dirlo, anche andando contro a quello che abbiamo sempre pensato. Se ne fottono delle nostre regole di vita civile? Odiano l’Italia, la nazione dove mandano a scuola i loro figli, se ne approfittano furbamente dei diritti legislativi ma berciano quando c’è da seguire e rispettare le regole che vanno contro i loro interessi etnici? Bene, e allora che se ne vadano al diavolo. Fuori dalle palle.

Nella città, nella regione dove vivo li incontro dappertutto. Gli extracomunitari sono ormai il 10% della popolazione nazionale. Alle ultime elezioni politiche la Lega ha ottenuto il 4% circa. Siete una minoranza irredimibile, cari leghisti. Cercatevi un’altra patria. Magari in Tanzania, dove avete ottimi interessi finanziari. Sapranno di certo accogliervi nel modo più adeguato.

 

(in apertura la foto della dottoressa Cécile Kyenge, cittadina italiana e Ministra per l’Integrazione con delega alle politiche giovanili della Repubblica Italiana. Qui sotto gli innominabili)

 

leghisti

 

La nostra misteriosa follia

2

di Antonio Moresco
freccia-strasburgo 2013

(Molto volentieri ripubblico qui il pezzo conclusivo di Antonio Moresco sulla freccia Freccia d’Europa, as)

La freccia è arrivata. Non so bene come sia stato possibile. Un mese e otto giorni di cammino, un centinaio di camminatori, quattro Paesi attraversati, più di 1150 chilometri per strade, sentieri, boschi, persino ghiacciai, al caldo, al freddo, nel forte vento, sotto il sole, la pioggia. Credo che sia stato il più lungo cammino compiuto in questi anni in Europa da camminatori non professionisti, di ogni età e condizione fisica, più lungo ancora del più lungo tratto del cammino di Santiago di Compostela.
Non so bene come sia stato possibile per un così gran numero di persone vivere insieme in condizioni spesso difficili e disagevoli per tanti giorni e per tante notti.
Aleggiava su questa impresa una sorta di misteriosa follia.

Cogito Argo Sum- la morte ai tempi della rete

4

argo
di
Francesco Forlani

“La memoria è anche una statua di argilla.

Il vento passa e, a poco a poco, le porta

via particelle, granelli, cristalli.”

José Saramago, i quaderni di Lanzarote

Chiunque abbia avuto dentro il fuoco della scrittura o della lettura sa che non c’è acqua che possa estinguere le fiamme, fare recedere dal proposito di fare delle proprie scritture e letture qualcosa di simile a un’eredità necessaria, per chiunque, da destinare a un numero infinito di persone di cui non si conosce né si saprà mai nulla, nemmeno il nome. Solo chi conosce o ha conosciuto bibliofili infaticabili, cercatori di rare e preziose edizioni, combattendo ogni tipo di guerra, a volte negoziando la resa del venditore aggiustando il prezzo dell’acquisto altre sperimentando ogni forma di veleno in grado di sterminare i maledetti vers de bois, i tarli, che trasformano i versi, le frasi e i  verdetti in polvere finissima intorno ai buchi, può saperlo.  Conosce la delusione delle risposte negative delle biblioteche storiche o universitarie ad accogliere il lascito, il fondo, per non disperderne il disegno. Così come chi scrive si affretta quando la notorietà abbia superato la soglia della celebrità acclamata, a creare una fondazione in grado di tenere unito oltre la morte dello scrittore la vita dello stesso, perpetuandone il racconto attraverso le cose che gli sopravvivono. L’isola di Lanzarote vale il viaggio per quello che costa il soggiorno e il resto. L’equivalente di pochi giorni in un lido della costa ligure o siciliana. Un mare così lo trovi solo in Sardegna e la terra sa di vulcano, che un vento che fa da brezza al caldo africano tiene sospeso per chilometri di deserto. Qui Saramago è morto e qui ha voluto creare insieme alla sede di Lisbona, la biblioteca, la casa, la fondazione.

La cura della moglie Pilar nel rendere leggibili i momenti di felicità, ora l’ascesa al monte bianco, monte ventoso delle Canarie ora la consegna del Nobel, tra i reali di Svezia, è amore e si trasmette in ognuno dei passaggi che io e Giulia facciamo da una camera all’altra, dal giardino alla Calle de la Libertad dove la dimora è. C’è qualcosa che riguarda la vanità dell’umano, l’infinitesima sua insorgenza temporale rispetto alle ere planetarie, ai movimenti tellurici, al pianeta. Una memoria che si erode davvero ad ogni colpo di vento e rende raccapricciante, patetico il volere fermare tutto, immobilizzare la vita, e la morte, in un monumento luccicante. E non ci saremmo accorti di quello che stava accadendo se non ci fosse stato il cane, ad accoglierci, il vecchio cane di Saramago. Saremmo rimasti altrimenti come accecati di fronte alla interminabile collezione di vasi, di Cristi, di penne stilografiche, e ci avrebbe divorato il paesaggio che dalla finestra a croce cade a picco sullo scrittoio del navigatore portoghese. Avremmo chiuso in un pugno una delle pietre riposte sopra un ripiano per sentire come lui la vicinanza agli amici lontani, distanti, in altre terre, quelle dei sassi raccolti. Saremmo rimasti come incantati dalla seggiola da pittore en plein air, immobile nel giardino solcato dai melograni e dalle piante grasse, da cui l’oceano traccia linee di blu e di verde disseminandole tra cumuli di pietra vulcanica e case bianche. Josè si chiama come il padrone, ma vederlo zoppicante, di una vecchiaia insolita per un cane di piccola taglia, ci fa pensare ad Argo. Così riprendo il capitolo dell’Odissea superbamente tradotto da Daniele Ventre, che recita:

Queste parole così scambiavano l’uno con l’altro,
ma ecco un cane disteso levare la testa e le orecchie,
Argo, di Odìsseo dal cuore costante, che il sire in persona
crebbe –ma non ne godette e prima per Ilio la sacra
se ne partì. Nel passato, in caccia di capre selvagge,
di caprioli e di lepri l’avevano i giovani spinto;
ma abbandonato giaceva, allora (era assente il padrone),
dentro quel molto letame di mule e di bovi che a mucchi
s’accumulava alle porte, perché per il grande podere
lo raccogliessero i servi di Odìsseo per farne concime;
là il cane Argo giaceva disteso, coperto di zecche.

 

talismano-copertina-jpgQualche giorno fa è morto Valter Binaghi. Io gli ho voluto bene. Ci siamo frequentati per circa un anno quando partecipammo a un progetto editoriale, ambizioso, nemmeno più di tanto, e fallimentare oltre ogni più nera previsione. Di lui mi aveva sempre colpito l’estrema determinazione teoretica, il sapere certo, la tenacia e il rigore delle asserzioni, ancor più ammirevoli, per quanto mi riguarda se calate in una vita da poeta maledetto, musicista blues, di chi porta molto in avanti la soglia dell’estremo. Così il suo cattolicesimo, la sua conversione radicale quanto il precedente ateismo, cosa di cui non ne sono certo ma che ho sempre sentito  così. da qualche giorno in rete in tanti hanno descritto il proprio dolore ma soprattutto il peso di un’assenza che qualcosa di così insondabile come la morte aveva deciso di inscrivere nel suo registro. Di tutte le parole spese con estrema attenzione e cura, come quelle che su Micro Mega ha scritto Marco Rovelli, o di slancio e autentica insofferenza di Franz Krauspenhaar, due testimonianze, da giorni, accompagnano i pensieri che rivolgo a Valter , al fatto che dopo i quarantanni spesso orfani di genitori, ci troviamo faccia faccia con  la matrice più autentica del nostro essere umani, ed avviene attraverso la disparizione dei fratelli, degli amici a noi contemporanei. Come se il grande compilatore delle enigmatiche nostre vite avesse deciso di lasciare le sequenze verticali delle parole per procedere con le orizzontali. Due, dicevo, le testimonianze che mi hanno colpito di più, quella di Giulio Mozzi che di Valter è  l’ Amico- uso il verbo al presente deliberatamente,  e di Loredana Lipperini che meglio di chiunque altro ha tirato giù il velo dell’inimicizia in rete, sancendone l’inautenticità, innanzitutto e a seguire l’inutilità  rispetto al grande progetto della rete, delle vite “virtuali” in comune. Spesso, il più delle volte, il principio di realtà è nemico dei sogni e dei sognatori, ma a volte ci soccorre, ci sussurra prima e poi lo grida, quando siamo prigionieri di idiosincrasie, di incazzature ad personam o verso gruppi di persone, ora un blog, ora una rivista, un editore, un paese intero, che è ora di svegliarsi dai cattivi sogni perché la vita, soprattutto quando c’è la morte, è altrove.
Ecco perché leggere in rete, assistere al passaggio di testimone per l’ultimo omaggio, la firma sul libro virtuale della camera ardente mi è sembrato qualcosa di molto lontano da quello che nelle stesse ore accadeva in una chiesa stracolma nel cuore di una Padania più autentica e dunque più reale del resto.

da “Dire II”

8

Danielle Collobert di Danielle Collobert

traduzione di Andrea Raos

[…]
sempre la stessa difficoltà – ora – parole – parole-immagine – frasi-immagine, anche – trappole tese da una parola all’altra – cadere – inciampare ogni volta – non appena ci si lascia andare – benché cosciente sia della trappola che della caduta – ma loro sono più forti – le dighe troppo fragili – limiti fragili intorno a loro – sfondano all’interno – dovunque – inventano una voce – ancora metafora – una voce