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Careerbuilder – Satura minima

1

di Daniele Ventre

in quest’età di squali e mare stanco
il candidato a mansioni di schiavo
soffre non poco la competizione

così va in sovraccarico e in tensione
lui strumento vocale postmoderno
e si gioca l’augusta selezione

Thalarctos maritimus (da “Bestiario”)

4

di Giacomo Sartori

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Hai un bell’esserci abituato, a un certo punto ti accorgi che hai freddo. Succede all’improvviso. Sei lì, faccio un esempio, che mangi un grosso pesce che hai agguantato con una zampata – di bagnarti dalla testa ai piedi non ti faceva proprio voglia – e la tua schiena è percorsa da un brivido. Capperi, fa freschino, ti dici. Non è nulla, poi a muoversi passa, pensi. E vai avanti col pesce, senza affrettarti. Ci mancherebbe solo che io, l’orso polare, abbia freddo, ridacchi dentro di te.

Sarà anche così, ma mentre inghiotti gli ultimi bocconi hai l’impressione che nel tuo stomaco il pesce si sia trasformato in un blocco di ghiaccio. Gambe in spalla, ti dici. Affondi la testa nelle scapole, e ti incammini con un buon passo. Per superare gli avvallamenti tra gli speroni di ghiaccio spicchi dei gran salti, invece di scendere e poi risalire come fai di solito. Ben presto ti senti in gran forma, un leone. Il problema è piuttosto che a quel ritmo ti viene fame di nuovo. Quando invece comincia a fare buio, e quindi fino all’alba di cibo nemmeno parlarne. Non so se domani avrò tanta voglia di pesce, ti dici, mentre ti prepari a passare la notte in un inospitale cunicolo. E ti pregusti un qualche delizioso bocconcino tiepido tipicamente autunnale: che ne so, un grassottello roditore, o un uccellaccio ritardatario, ormai troppo indebolito per spiccare il volo.

Le settimane seguenti tiri avanti, seppure a denti stretti. Però è innegabile, le giornate si accorciano ancora di più, e quel che è più scoraggiante il sole si solleva appena dall’orizzonte, quasi una zampona invisibile lo pigiasse contro la banchisa. Dai che oggi invece balza su in mezzo al cielo e mi scalda per benino, ti dici ogni mattina, e per ingannare l’attesa pensi a qualcos’altro. Per esempio la famiglia che hai lasciato da poco. Tua moglie era decisamente un gran pezzo di orsa, e i tuoi figli erano proprio carini, specialmente il maschietto nato per ultimo, ti dici. Era bello andarsene in giro tutti assieme, in fila indiana: diciamo la verità, ti riempiva di orgoglio. Il punto dolente era quell’interminabile confusione di voci, tutti quegli snervanti capricci, le continue lamentele, i battibecchi: l’impressione di soffocare. A un bel momento non ce l’hai più fatta, hai piantato lì baracca e burattini, e te ne sei partito senza nemmeno salutare. Non sei proprio fatto per la vita familiare, ormai è più che provato.

I giorni successivi, chiamiamoli giorni, sei obbligato a constatare che al sole non gli rimangono nemmeno le forze per staccarsi dalla linea dell’orizzonte. È fiacco-fiacco, come ammalato. Sembrerebbe quasi che rotoli, invece di volare. Il metodo migliore è ancora immaginarsi qualcosa di troppo caldo, ti dici, ricordando un vecchio proverbio. Rivai allora con la memoria al gran solleone dell’estate, quando con la scusa di catturare i pesci per tutta la famiglia ogni cinque minuti ti buttavi nell’acqua. O anche, ancora meglio, pensi a quel mai più ritrovato tepore di quando da piccolo dormivi con i tuoi fratelli, in un intrico di musi e zampe contro la pancia rovente e morbida della mamma. Funziona, per un po’ funziona. Mangi, rifletti, cammini, fai quello che devi fare.

Ci pensano le rabbiose scudisciate del vento, a rinchiodarti con durezza alla realtà. Sopra la testa ti sfilano nuvoloni grigi, lividi. Li diresti tetri soldati che marciano verso la carneficina finale. Ormai il sole nemmeno più fa capolino, è già tanto se si degna di rischiarare, da sotto la linea dell’orizzonte, metà del cielo. Il naso ti fa male manco una volpe argentata te la mordesse con tutte le forze, al posto delle zampe ti sembra di avere quattro stalattiti di ghiaccio. Delle orecchie non parliamone, ormai è un bel po’ che neanche le senti più. Diciamo le cose come stanno: io, l’orso bianco temprato a ogni rigore atmosferico, io, il re della banchisa, in questo particolare frangente ho freddo – ti dici – un freddo becco. Mi rendo benissimo conto che non è da me, so che dovrei essere superiore a queste bazzecole, eppure questa volta ho l’impressione di stare assiderando. È un dato di fatto, un’evidenza contro la quale non posso fare nulla.

Ti verrebbe da battere i denti, ti verrebbe. Sdraiarti in una cunetta riparata dal vento e tremare battendo i denti. E magari mugolare, fa bene mugolare, quando si è provati a quella maniera. Beninteso ti trattieni, ci mancherebbe solo che qualcuno ti sorprendesse a battere i denti e a mugolare come un cucciolo, saresti finito. La banchisa polare è strana: se hai voglia di veder qualcuno puoi anche vagare tre settimane con gli occhi fuori dalle orbite, non incontri anima viva. Solo come un cane. Quando invece sei ben bene arrivato alla conclusione che tutto sommato stai molto meglio senza tanta gente tra i piedi, zacchete, salta fuori una lepre artica, o un qualsiasi altro ficcanaso, che spia tutto quello che fai, o anche comincia a tempestarti di domande. Da quanto tempo stai camminando? Pure tu ti sei imbattuto in un esemplare di quegli esseri che se ne vanno in giro su due gambe e tutti infagottati? Sei stato sposato? Quante volte? Era meglio la quarta moglie o la terza? Preferisci i figli maschi o le femmine? Cos’hai sognato la notte prima? Come si può immaginare se solo ti lasci andare alla minima confidenza intima, l’anno dopo – com’è come non è – tutto il polo nord è al corrente. È un errore che fai una volta sola, poi impari la lezione.

Fin lì hai tenuto duro. Ormai però è inutile che te lo nascondi, le giornate si sono fatte vaghi accenni di albe, sempre più incerte, più brevi. Vieni fuori imbecille d’un sole! qui per colpa tua si gela! ti verrebbe da gridare. Ma no, hai altro a cui pensare: ti sembra che il vento si sia ripromesso di assordarti con i suoi ruggiti, che voglia a tutti i costi strappare ciocca per ciocca il tuo morbido pelo bianco, bucarti gli occhi con degli spilli, seppellirti sotto cumuli di nevischio. Non sai nemmeno più dove stai andando, per cosa. Sei solo frastornato, umiliato. Hai solo freddo, un freddo bestiale. Vorresti tanto una cosa, una cosa sola: due minuti di silenzio, due minuti della zampona tiepida del sole sul tuo pelo morbido, come in estate. Vorresti tanto, ebbene sì, la mamma.

Qui si mette male, ti dici. No, devo farcela, io sono l’orso polare che non teme le peggiori intemperie, ti riprendi, in un’ultima impennata di orgoglio. Devo resistere, devo tener duro a qualsiasi costo, ti ripeti, e allunghi ancora il passo. Solo che ormai hai l’impressione di avere la testa incastrata in un crepaccio che si sta richiudendo, e le tue palpebre sono rigide e pesantissime. Ti verrebbe, se solo il tuo istinto non facesse che urlare che per te sarebbe la fine, da lasciare che si abbassino, e buonanotte ai suonatori.

Nel pieno della crisi ti imbatti in un grosso animale che brancola nella semioscurità come un automa, più morto che vivo. Non so come sia, ma la natura organizza le cose sempre allo stesso modo: non ha molta fantasia. Una renna ormai rassegnata al proprio destino, di solito. Guardandola nel fondo degli occhi, ce l’hai lì vicinissima, hai l’impressione che per lei sia quasi una liberazione, averti incontrato. Almeno adesso è finita sul serio, ti sembra che si dica. Bando ai sentimentalismi, con le tue ultime energie le spezzi il collo di netto. Dopodiché affondi il muso nei suoi intestini quasi troppo caldi, tutta la testa, le zampe. Ti imbratti di rosso il tuo bel pelo color porcellana, ma per una volta non te ne importa nulla. Nel farlo provi anzi un brivido di piacere.

Ti accucci e cominci a riempirti la pancia con metodo. O meglio, continui a trangugiare brandelli di carne anche quando sei già sazio, ti ingozzi fino a sentirti scoppiare, fino a averne la nausea, a non capire più niente. Ecco, adesso sono proprio pieno come un uovo, ti dici, quando sul ghiaccio non restano che ossa e qualche ciuffo di pelo. Sei appagato. Certo, ma prova tu ad andare da qualche parte, in quelle condizioni: stai a stento sulle quattro zampe. Ti guardi intorno, per quel poco che si vede, e sbadigli. Dio che abbiocco! ti dici.

Riesci a malapena a trascinarti fino al primo anfratto ben riparato, e poi chi s’è visto s’è visto, ti lasci cadere a terra con un tonfo. Che vadano tutti a farsi benedire, ti dici, io adesso mi faccio una dormita di tre mesi. Non ti pulisci nemmeno il muso con la lingua, non ne hai la forza. Sarà per domattina, ti dici. Chiudi gli occhi, e subito dimentichi di essere l’orso polare che non teme alcun rigore atmosferico, il re della banchisa: pensi alla tua mamma, al caldo che faceva quando con i tuoi fratelli vi stringevate tutti assieme contro la sua pancia, in un groviglio di zampe e di teste. E allora finalmente il vento tace, e ritrovi il tepore dell’estate.

(questo racconto è tratto dalla raccolta “Bestiario”, Provincia Autonoma di Trento, 1996; in compagnia della nidiata di confratelli migrerà tra breve nella raccolta a quattro mani “Zoo a due” (Perdisa Pop), con Marino Magliani, sodale di scrittura e non solo)

Una prosa e due poesie

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di Antonio Scaturro

w. ryan

Letti dalle gambe

– Le madri non ci credono ai letti, o meglio: non credono alle loro gambe. –

Quando ero più piccolo, e la febbre faceva del mio corpo il centro di ogni fuoco, il letto diveniva l’unica dimora accessibile, “questo letto non è che un assaggio del buio, una preview della morte.”
I letti non si arrendono mai alle loro proporzioni, perciò se la danno a gambe elevate, proprio così: elevate, la vertigine febbrile portava a compimento l’impressione che le gambe percorressero una staffetta al soffitto, ma ogni gamba non sente ragione, punta al traguardo. Così, mentre una taglia la prima curva, un’altra, fuori forma com’è, inciampa in partenza.
Sono stato per anni spettatore inerme delle più terribili scorrettezze: non c’è fair play ai piedi del letto, solo l’avaria di questi arti tremendi, o il prodigio – in quantità massime -.
La luce dimessa su due gambe, ma poi ripresa, nella luce led blu del nintendo che fa “ciao ciao”, ma poi diventa rossa: rossa rossa fino a esplodere.

La notte ci misura la febbre con un bacio della fronte, mentre il buio raccatta le cose da terra, assesta il campo (tra le altre cose le zolle), assicura le condizioni minime necessarie.
Ne è passata di acqua sotto i ponti, ma i letti non si tirano indietro mai, per questo abbiamo sempre pensato ai letti come a zattere, zattere a lenzuolo nel porto delle camere, ma le madri non lo sanno, non se le pensano nemmeno queste infinite maratone notturne, nella grande notte del focolare.

Così, mentre il mercurio mi prende sotto braccio, un altro delirio, ansimante e bollente: capita di essere il proprio Charizard, capita che non si respiri, capita che: lanciafiamme.
La camera ora è un rogo, – ciò che racconto accade adesso, in questo preciso momento -.
Ma ai vicini non interessa, se ne infischiano se la casa volge al termine, se le fiamme la avvolgono senza secondi fini – come gli antifurti la notte si rincorrono fra timpani e tempie -.

Voglio tentare, non so ancora se l’azione volge all’eroismo o alla disfatta, ma voglio provare ad alzarla questa testa. Chiaro che tutto poi ruzzola giù per il corpo, le granate della sete in questa trincea di buoni propositi. “L’intenzione non è mai stata buona, un discorso altro riguarda il piumone”.
E le gambe, quelle del letto dico, in questo concerto di fiamme che fanno? Continuano la loro sfrenata corsa, mentre dalle mensole il pubblico è, neanche a dirlo, infiammato più che mai e gioisce per ogni sgambetto, per ogni insulto: ad ogni sputo un tributo.
Il fuoco si è sempre difeso dalla parola, ma in questa notte nel tempio, il rogo sfila in passerella e non inciampa mai, ed è questa l’unica fine logica del verso: la fine, appunto.

La notte allaccia i lenzuoli così ci tiene a mente tutti gli oggetti, tutti incastonati nella camera: sono oggetti segnaletici, ci permettono una camminata agevole, in tutte le direzioni. È della mattina invece che temo gli spigoli, dunque mi faccio largo con le mani, con queste pupille al palmo sono una forza, un eroe mai visto. Nel sonno che non giunge mai, converso con la medicina, nel sapore alterato di dio, nella mora schivo il disgusto.

La mattina seguente ripristina il sangue, tutte le cose obbediscono al loro buio, mentre il resto ci suggerisce la cenere, a bassa voce, – abbiamo tanto pensato al freddo che quasi non bastano i cappotti -.
– Questa notte è stata una notte a camino -, non è vera la mattina che svela la realtà dei letti, ma noi confidiamo nel buio, che ci consegna gli highlights della corsa, perfetto come un cecchino, il rapporto delle 3:45.
La mattina dimette le gambe dei letti e assume le nostre, pesanti e senza molle, ci trasciniamo attraverso il giorno confidando nell’orizzonte della piuma, del cuscino di nuovo fresco.
Si ripristinano anche tutte le vertigini, come di consueto, così dal nulla il pensiero che le gambe non si muovano, e forse non esistano gambe dei letti ma solo letti dalle gambe, la terra come braille.

Alla febbre notturna segue la disperazione degli occhi, di queste pupille che seguono gli schermi come falene verso l’ustione, che si schiantano sulle cose come se non ci fosse un domani, ma questo domani giunge sempre, a ristabilire il tutto, a esaudire il lutto.
Temo ancora la febbre ma confido nel fuoco, – il verso verso le fiamme -, siamo talmente capaci di costruire che sarebbe un peccato non consegnare tutto al rogo, come dal principio si dividono le acque, così il fuoco, compatto come il vuoto, danzando porta a compimento ogni destino.

Questa fenice casca male, come di sbieco. Ora tutto muore irreversibilmente, come tutte le pietre senza occhi a dare acqua, nessun capo d’accusa, neppure un palo o una traversa a rimetterci in gioco.
– La morte senza se e senza ma, la stessa morte di sempre: frontale come i semafori. –

“Questo letto è abbastanza grande per tutti e due
vieni avanti, veglia con me
ma fa’ che non ci siano gambe
ma soprattutto occupati del domani:
fa’ sì che non sia mai domani”

 

 

il nome consiste in
questo sparire delle cose, nell’andarsene
muti fra i fischi.

dalla radice sottrae ancora
il peso, di questo corpo che
concede il taglio, che trabocca 
e fa naufragio.

poi non rimane che acqua a
destinarci alla terra, e non ci sono mai,
- ma neanche per errore -, 
altre mani a farci scudo. 

– ora mischia i materiali
in modo che non siano più -

nel riparo ultimo conca d’aria
sfasa il fiato, annuncia un sorpasso. franiamo
fra tutte le ispirazioni, ma senza respiro 
a reggere il gioco. (le mani di cui prima
reggono l’acqua, fanno un’ampolla
come per miracolo).

esposti finalmente
al fuoco aperto di ogni cosa. 


Testi di guerra

- il testo al fronte che prediligo è il cecchino -
fuori dalle parentesi la morte si annuncia come
un’esondazione, trabocca dal testo.
“perché quel che racconto questa sera avviene questa sera, a questa stessa ora”
è così naturale la morte frontale, così tirata a lucido
senza sbavature.
la laterale giunge a
spiazzare le ore invece, fa fronte con le fionde, 
ci costringe al punto e virgola; morte laterale. 

la morte abita ogni girone dell’orologio
Oh gironi orrendi. In così verde etate!
tutti noi, da piccoli,
abbiamo preso quella botta
tra i piedi e la nuca
che ci consegna - un dono nel suo livello massimo di generosità -
la sventura del domani.

quando dormiamo in sospensione, la mattina
(appostata com’è dietro le cose) ci fredda al volo. 
spesso la notte ci misura la febbre con un bacio della fronte,
mentre le gambe del letto 
affette (come lo sono spesso)
da sproporzione, ci passano la torcia.
il prossimo fuoco dista un sonno.                                                                      Solo uno.

[Immagine: W. Ryan.]

I poeti appartati: Pablo Visconti

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Inediti
di
Pablo Visconti

Anime perse

Anime perse sono la pietra,
la cristallografia anomala del sesquiossido d’alluminio
Al2 O3, senza lacrime, senza gemme.
Non sono divenute pietra, sono la pietra,
senza più un sorriso, senza voce, senza fiato:
Bottiglie…Bottiglie…asperità, ossa, muscoli legnosi,
occhi di travertino giallo bruno, la luce lontanante dentro lo sguardo,
un puntino opaco, una capocchia di spillo.

Della pietra accantonati ai cantoni delle strade.
Ai “puntoni ”: Bottiglie…Bottiglie…barcollando
Ostacoli semoventi alle luminarie della festa,
Bottiglie…Bottiglie…e noi siamo allo specchio
E il cristallo molato e il moltiplicarsi dello specchio:
spesso vetro verde della nostra vita, culi infrangibili di bottiglie,
occhi fissi accucciati a Toledo, a Medina, a Fonseca, ‘o Conte ‘e Mola,
a San Giacomo degli Spagnoli, che Spagna hidalga di bottiglie…
Bottiglie…a via dei Giubbonari, a Garibaldi, che bottiglie…
lasciate sfiorire al chiaro di luna, che città di Spagna è questa,
di Africa, di Kiev, Leopoli, bielorussi:
che miscuglio etnico di sentimenti e alici, di cozze, melanzane
e di “sciurilli” e bottiglie…e bottiglie…
in fila come soldatini di piombo…nei vasi delle piante
a San Domenico Maggiore fioriscono bottiglie…
oh! piante delle bottiglie, vetro verde, vetro color dell’orzo
vetro verde verde, un prato spelacchiato di bottiglie
a via Nazario Sauro ‘ncopp ‘e scoglie tra gatti marini e fichi selvatici,
nei box trasparenti Telecom, bottiglie abbandonate e vetrobiglie
come occhi luccicanti nella notte,
Bottiglie…bottiglie…frammenti, pezzi
E sanguinando il cuore come le bottiglie in fiore.

E la neve, quella neve, chi l’ha più vista dal 1956,
quando ci si rompevano le gambe, palle di neve
dell’infanzia. Ora la neve…sbuffi di neve…
polvere di stelle nel letamaio delle scale a Montesanto,
nelle case abbandonate a Scampia, nelle scuole in costruzione,
a Ponticelli, polvere di neve, di talco, spruzzi di stricnina
e cadaveri innominati…la neve agli irti colli inspirando sale,
nei bagni maleodoranti di Napoli Centrale, il tapis roulant
a Napoli Centrale trasporta le ferite, a Napoli Centrale
la babilonia delle lingue e diffidenza e furtivi occhi
e gelide manine e vagoni abbandonati sui binari morti
a Gianturco, la notte come tane, “Stut cette sigarette,
dasvidania”,case carrelli di cartone e plastica e
il barone con il vestito nuovo portatogli dalla mamma,
il giaccone imbottito per l’inverno, all’angolo di
Santa Brigida con Toledo nella striscia di sole che viene dal mare
per asciugarsi i pantaloni pisciati durante la notte:
il barone non c’è più e il giaccone nuovo in una notte
divenne già vecchio.

Ciondola il cuore a riassumere: vedete che l’acqua sforza il tufo,
penetra le pareti e sinfonia d’acqua intanto affiora dalle visceri
dedicate alle viole di marzo, gambi all’aria.

(2004)

mamma è la mia medicina

una bambina per strada si rivolge al mondo
ha la chiave segreta della propria vita
negli occhi azzurri e spiritosi,
urla come un proclama la sua felicità
di stare stretta stretta al corpo di sua madre.
Ascolto questa sicura fermezza,
resto basito ma il cuore mi è balzato in petto.
Vorrei sentire anch’io queste magiche parole,
questo semplice eppure complesso afflato
questo respiro finale sotto il mare
come il tocco di Cirano che muore
senza toccare amore.
E vivere per sempre, fino alla fine,
come un sogno interrotto a metà notte
sudato come un selvaggio animale
braccato dentro le forre
nella montagna scura.

2009

Inedite brevi

4

di Daniele Ventre

1.

A volte la misura non ricorda
sé stessa nel ritorno dei rintocchi,
nell’eco della forma in coda agli occhi
o nel vibrare incerto d’una corda.

E questa voce roca che si accorda
al dissono tinnio dei miei balocchi
o al ruvido dissolversi dei fiocchi
non sente più ragione o se ne scorda.

In questo tempo futile di vetri
spezzati a una follia di sassaiole
non sento più che un’iride riflessa.

E tu che forse a questo gioco arretri
non mi risparmierai le tue gragnuole
in cambio d’una favola irriflessa.

Michele Zaffarano alla libreria Tadino (Milano)

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Venerdì 14 giugno 2013, ore 21.00
Libreria Popolare (via Tadino 18, Milano)

Presentazione di:
Cinque testi tra cui gli alberi (più uno)
di Michele Zaffarano

pubblicato da Tielleci nella collana
Benway Series

Interventi critici di Paolo Giovannetti e Antonio Loreto
Coordina Alessandro Broggi

Sarà presente l’Autore

CONTRO LA GUERRA

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di Antonio SparzaniArt_11_costituzione_italiana_guerra

Lor signori si commuovono, lor signori deplorano, poi lor signori vanno in aeroporto a ricevere le bare avvolte strette nelle bandiere, lor signori sfiorano le bare con gesto toccante e misurato, invocano le vie diplomatiche, tuonano, quando ne hanno la forza, sulla natura terribile della guerra, sulla sacra obbedienza e la dedizione al dovere, insomma si stracciano le vesti, naturalmente in modo metaforico, dioguardi, pensa che gesto inconsueto, indiscreto e sconveniente sarebbe se il ministro o l’onorevole o il presidente si strappassero letteralmente le vesti di dosso alla Cerimonia Commemorativa, con tutte le bandiere che garriscono al vento, facendo così garrire pure i propri onorevoli o non più tanto onorevoli indumenti.

DesignAre

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di Gianni Biondillo

Prima

(Luglio 2011) Devo andare a vedere una fabbrica di arredi, in Brianza. Ci vado in macchina con Matteo Ragni, raffinato designer inventore di oggetti culto, vedi, fra gli altri, il celebre “moscardino”, forchetta-cucchiaio che infesta gli aperitivi di mezza Italia da circa un decennio.

moscardino

Lo prendo in giro. Per come la vedo io, gli dico, farei una moratoria, chiuderei tutte le facoltà di design, obbligherei chi ama la materia a fare uno stage di almeno un lustro in qualche fabbrica, o fattoria, così, giusto per restituire un minimo principio di realtà a chi ha “artistizzato” una disciplina che invece la realtà voleva semplificarla e renderla democratica.

Ma Matteo non ci casca, la mia provocazione è nulla per lui. Perché in fondo è d’accordo con me. I processi produttivi sono quelli che gli interessano, non l’oggetto feticcio. Parliamo di sovraproduzione formale, di scarti, di sostenibilità. “Odio il biodesign” mi dice, questa nuova tendenza che ci obbliga a usare oggetti punitivi, pseudoetnici fatti con la paglia o con materiali facilmente biodegradabili ma che diventano troppo in fretta spazzatura, rifiuto.

Mi parla di Claudio De Luca, suo collega alla facoltà di Design di Bolzano, che teorizza il “tempo minimo di permanenza” di un oggetto. Affinché esista ed abbia un senso, affinché sia davvero sostenibile, un nuovo oggetto dovrebbe avere una età minima di vita. Il contrario della scadenza di un alimentare: che sia un divano o un bicchiere, per l’impegno di materiali usato, perché abbia un senso produrlo, deve riuscire ad essere usato non al di sotto di una certa soglia temporale.

Quaranta anni fa almeno, non ricordo più né autore né titolo, uscì un saggio che sognava l’architettura del futuro come qualcosa di facilmente smontabile, deperibile, sostituibile. Non è andata così. Continuiamo a costruire senza senno edifici che, per la tecnologia impiegata, vivranno un tempo lunghissimo. Inutilmente. L’esatto contrario dei prodotti del design che dovrebbero permanere di più nelle nostre case. Le stesse che dovremmo riuscire a sostituire (demolizione-ricostruzione) senza che questo infici la sostenibilità ambientale. E il buon senso.

 

Durante

Sono nato nel 1966. Come la B&B. Che poi, in realtà si chiamava C&B, Cassina & Busnelli, due bei cognomi che più briantei non si può, nomi che fanno venire le vertigini ad ogni studioso del designer. Poi il sciur Busnelli decise di camminare con le sue gambe, e grazie ai prestiti bancari, oggi così rari, nel 1973 ha dato alla luce la B&B. No, non Busnelli & Busnelli, in una sorta di iper-ego-riferimento, ma più ironicamente Banche & Busnelli. 45 anni. Come me. Mi dicono, in giro, che sono un giovane scrittore, un giovane architetto. La B&B, quindi è una giovane azienda. Ovvio che no. Io non sono giovane da un bel po’ e qui, a Novedrate, già da decenni si fa la Storia del design.

sedeB&BItaliaNovedrate

Per come la vedo, poi, a farla, la Storia, è stata proprio Pier Ambrogio, più ancora dei suoi gallonati designer. È stato grazie all’idea, tutta sua, di impiegare il poliuretano per i divani. Primo al mondo. Nel giro di pochi anni l’hanno imitato dappertutto, ma Busnelli era già avanti. La catena produttiva doveva restare tutta sotto il controllo qualità. Niente esternalizzazioni. Quindi una bella sede, nuova nuova – fatta da un giovane (lui sì!) architetto che pochi anni dopo avrebbe vinto il concorso del Beaubourg-, dove produrre i telai da annegare nella colata del poliuretano.

Sono qui, in fabbrica, ad osservare come li fanno questi pezzi unici. Unici e perfettamente replicabili, all’infinito. Altro colpo di genio. La qualità dell’artigianato e la produttività dell’industria. Sono qui, gongolando come un bimbo ad una gita, e vedo lo sversamento nello stampo del prodotto chimico che nel volgere di pochi secondi lievita come un sufflè. Un operaio chiude lo stampo. Tempo venti minuti e quella massa informe diverrà una poltrona. Sembra magia.

La sede poi negli anni è cresciuta. Si sono aggiunte nuove ali, tutte progettate da architetti vicini all’azienda. Giro mani dietro la schiena e osservo i manifesti delle campagne pubblicitarie di Oliviero Toscani, i 4 compassi d’oro, le scocche di legno di pezzi mai messi in produzione… un involontario museo del design a portata di mano, basterebbe volerlo fare. Ma i Busnelli non stan lì a sfogliar le verze (per dirla alla lombarda), le generazioni che hanno portato avanti il lavoro del fondatore devono produrre per l’Europa, per l’Asia, per gli States. Da qui. Dalla Brianza velenosa di battistiana memoria.

Gironzolo per un reparto dove vedo un operaio ricoprire di uno strato di dracon il volume stampato di poliuretano, poi mi avvicino ad un tavolo dove è stata stesa una pelle: un laser disegna e poi taglia sul pellame i pezzi che comporranno la finitura del mobile.

Ci sto bene qui. A me gli showroom annoiano. Non ho passione per il pezzo finito, per l’egotismo del progettista. Odio le archistar, non sopporto i designer che si atteggiano ad artisti maledetti. Amo la fabbrica. Amo chi ha della produzione un’idea generale, non parcellizzata, amo lo scambio di opinioni fra competenze, un disegno che per diventare pezzo finito deve passare per il centro di ricerche interno, dove capire cosa cambiare, per renderlo più semplice da produrre, più stabile o sicuro. Amo l’idea del lavoro collettivo. Come è un film, che non esiste solo grazie al suo regista, ma ha una peculiarità, una qualità, solo se i suoi sceneggiatori, attori, macchinisti, sono bravi, professionali, talentuosi.

gaetano-pesceI designer che lavorano da anni qui alla B&B l’hanno capito. Bisogna assorbire una mentalità, direi quasi una tonalità B&B. A pensarci, tranne le icone pop (come la Up di Gaetano Pesce) o lo scontato obolo modaiolo à la Zaha Hadid, qui si fanno mobili che devono restare, per decenni. Non possono permettersi di “passare di moda”. Dalla prima generazione di progettisti, Afra e Tobia Scarpa, alla seconda (tutti giovanissimi, ai loro esordi), vedi Antonio Citterio, chi lavora qui sembra disegnare oggetti che, in un certo senso, “sono sempre esistiti”. È quel gusto understatement tutto lombardo, figlio inconsapevole del motto borromaico: humilitas. Essere, non apparire.

Quello che mi manca, penso, uscendo dalla sede di Renzo Piano, è il passaggio di consegne ai nuovi progettisti. Ho 45 anni, non sono un giovane artista, la mia generazione è saltata perché oppressa da quella che ci ha preceduti, che non ha voluto eredi, ossessionata dal potere e dall’essere “per sempre giovane”. Ma oggi chi può prendere in mano l’eredità di una storia così nobile? Quale imprenditore, oggi, ha voglia di investire come faceva “Il sciur Busnelli”, nei talenti under 30?

 

Dopo

(Aprile 2012) Biciclette dappertutto. Io e mia figlia Sara, 7 anni, cerchiamo un palo, una ringhiera, un semaforo, dove parcheggiare la nostra ma, in questo crocicchio di strade, sono tutti occupati. “Da lunedì a venerdì –  mi dice Mariano, il nostro accompagnatore – il Salone è dei tecnici, dei designer, degli stranieri, il fine settimana è dei milanesi.” In effetti c’è gente ovunque che passeggia tranquilla, anche in mezzo alla carreggiata; l’aria profuma di salamelle alla brace. Sembra di stare ad una sagra paesana, non al Fuorisalone di via Ventura, quello che pare essere diventato uno dei poli imprescindibili della creatività internazionale.

Park Luna (Milano Lambrate)Mariano Pichler è l’eminenza grigia di tutto ciò. Architetto, collezionista, imprenditore, nove anni fa trasformò questo quartiere di fabbriche dismesse, in un incubatore d’arte, di design, di architettura.  Ora ci passeggiano i milanesi, come fossero ad una gita fuori porta. “C’è desiderio di cultura, voglia di capire il contemporaneo” mi spiega. Proprio di fronte ad una installazione ne ho una conferma: incontro per caso un’amica, Cristina: “è già il terzo anno che vengo – mi dice – è diventato un appuntamento fisso.” Ma perché qui, perché non nella più celebrata  via Tortona? “Lì si sente di più la presenza delle aziende commerciali, qui è la creatività a farla da padrona”. Interviene suo marito, illuminante: “Mi sembra d’essere Alice nel paese delle meraviglie!”

Ha ragione: Sara zampetta dappertutto come fosse al Luna Park (sulle nostre teste campeggia, tra l’altro, la scritta “Luna Park” delle ex Varesine qui riportata anni fa da un artista, memoria di una Milano effimera che va scomparendo), curiosissima, non si perde nessuna invenzione, nessun oggetto insolito:  bicchieri fatti di capelli, lampade che riciclano metri di legno da muratori, poltrone modellate col pongo. Cose che solo i bambini riescono ad immaginare. O gli artisti.

Tutta questa roba non serve a niente, dico con una punta di sarcasmo, non entrerà mai in produzione. Margriet Vollenberg, da Utrecht, sorride. Organizza da tre anni con la sua socia, Margo Konings, la design week di via Ventura, se lo sarà sentito dire chissà quante volte. I numeri le danno ragione, gli espositori, i progettisti e i visitatori sono aumentati del 50% rispetto allo scorso anno. “Qui mettiamo in mostra il pensiero, la creatività pura, senza compromessi. Qualcosa che sta prima della produzione”. O forse anche oltre: specchi inchiodati al muro, lampade di piume di gallo, tele di ragno. È come se fossimo in una zona grigia, fra installazione d’arte, oggetto ludico, concetto filosofico, progetto futuribile. Andiamo tutti assieme a vedere una performance in un padiglione dove accademie di design di mezzo mondo espongono le loro ricerche. Un giovane designer olandese sta impastando del materiale plastico a polvere metallica. Dietro di sé un curioso marchingegno, sembra una pressa da tipografi con alla base un catino. Tutto attorno piccoli sgabelli a tre piedi. Quando l’impasto è pronto lo versa, poi muove i contrappesi e la pressa comprime l’impasto nel catino. Margriet mi spiega: “Ci sono tre calamite potentissime sul perno superiore e una sotto il catino.” L’artista manovra la carrucola solleva la pressa e come per magia l’impasto prende forma: tre colonne si staccano dall’impasto e seguono l’attrazione delle calamite. Sembra d’essere in un laboratorio di un alchimista, stiamo assistendo in diretta al miracolo della materia che si fa forma compiuta.

Analogia_003_installationSenza ricerca non c’è innovazione, sembra vogliano dirmi. E la ricerca deve essere libera, senza compromessi. Deve saper recuperare la dimensione artigianale, delle cose fatte a mano, e, su tutto, deve poter sperimentare, esagerare, sbagliare. “Ti voglio far vedere due cose estreme – mi dice Mariano – i due poli dentro i quali si muove tutta la ricerca e il senso di questo Fuori Salone.”

In una stanza perfettamente bianca, Andrea Mancuso e Emilia Serra hanno modellato del filo di lana nero su una trama di fili trasparenti, da loro precedentemente tesi fra soffitto e pareti. Sembra di vedere uno schizzo a matita in tre dimensioni, una specie di pensiero fisico che riproduce un interno. Uno spazio mentale estroflesso. Mi lascia senza parole. Ci pensa Sara a commentare: “Guarda, papà, una sedia fluttuante!” Poesia, insomma. Perfettamente inutile, perfettamente necessaria.

Poi Mariano ci porta sul solaio di copertura d’un edificio dove una onlus, la “Orti d’azienda”, ha realizzato un orto pensile. Sostenibilità, filiera corta, chilometro zero, lì, fatti evidenza, a portata di mano, senza troppi fronzoli formali. “Non è solo una questione di pomodori – mi dice Antonio Vento, uno dei soci – è anche un modo per creare senso di condivisione sui luoghi di lavoro”. Semplice e geniale. Che ne dici?, chiedo a mia figlia. “Bello – mi risponde – io l’avevo già disegnato quando ero all’asilo.” I bambini sono più avanti di noi. Sempre.

 

(i tre pezzi sono già stati pubblicati, in versioni differenti, su Costruire, Domus, Corriere della Sera)

Bologna in lettere – numero 0

2

SABATO 8 GIUGNO 2013 – 
Dalle 10.00 alle 23.00

“Amico, se passi per Bologna

la donna con le mani protese…”

(R. Roversi) 

Il programma

*

Ore 10.00 Scuola Media Dozza – Via De Carolis 23
Poesia a scuola
con Salvatore della Capa, Gassid Babilonia, Traci Currie, Giuseppe Nibali
Matteo Zattoni, Anna Franceschini, Giusi Montali, Idriss Amid, Nicolò Gugliuzza

Evento curato e condotto da Loredana Magazzeni, Pina Piccolo

*

Ore 11.30 Libreria Trame – Via Goito 3
Aperitivo letterario con Sergio Rotino, Daniele Barbieri, Elio Talon,
Lucia Guidorizzi, Antonella Barina, Leila Falà

Evento curato e condotto da Sergio Rotino
 
*
 

Ore 12.00 SPAZIO 100300 Cafè – Via Centotrecento 1/a
Full Contact
Aperitivo performativo con Alberto Mori, Martina Campi & Mario Sboarina,
Lella De Marchi, Graziano Graziani, Simone Nebbia, Valerio Grutt

Evento curato da Memorie dal SottoSuono,
condotto da Martina Campi e Mario Sboarina

*

Ore 13.00 LORTICA – Via Mascarella 26
Incandescenze (Poeti alla carta)
con Ed Warner, Enrico De Lea, La minima parte (Massimiliano Bardotti),
Alessandro Assiri, Petite Paulette, Agnese Leo, Jacopo Ninni

Evento curato da Collettivo Self Poetry,
condotto da Agnese Leo, Jacopo Ninni

*

Ore 13.00 TrattoriaBaraldi  – Via del Pratello 40
Il Baratto (Poeti alla carta)
con Enea Roversi, Silvia Secco, Claudia Piaz, Rita Galbucci,
Diego Conticello, Gianluca D’Andrea, Gabriele Gabbia

Evento curato da Gruppo 77, condotto da Rita Galbucci
 
*
 
Ore 15.00 Giardini di S. Leonardo – Via S. Leonardo
Voci di strada
Primo step con
Traci Currie, Sara Brayon, Reda Zine, Luigia Bencivenga,
Enrico Simoniello, Giambattista Crea, Riccardo Paradoz

Evento curato e condotto da Vasily Biserov
 
*

Ore 16.00 Libreria Ubik – Via Irnerio 27
Il ricatto del pane (Antologia sul mondo del lavoro), CFR edizioni, 2013
con Patrizia Dughero, Francesca Del Moro, Enzo Campi, Claudia Zironi,
Antonella Barina, Claudio Bedocchi, Luca Ariano,
Gerardo De Stefano, Lucia Guidorizzi, Massimiliano Bardotti

Evento curato da Letteratura Necessaria, condotto da Patrizia Dughero

*

Ore 17.00 Libreria Delle Moline –  Via delle Moline 3
Hyle – Selve di Poesia, La Vita Felice edizioni, 2013
con Francesca Serragnoli, Gianluca Chierici, Marilena Renda,
Sarah Tardino, Mariarita Stefanini, Carla Saracino, Vincenzo Frungillo,
Franca Mancinelli, Isabella Leardini, Luciano Mazziotta

Evento curato da Letteratura Necessaria, condotto da Luciano Mazziotta
 
*

Ore 17.30 SPAZIO 100300 Cafè – Via Centotrecento 1/a
Letteratura in fasce
con Veronica Tinnirello, Giusi Montali, Luca Mozzachiodi,
Francesca Mazzotta, Chiara Bernini, Gianfilippo Capotosti

Evento curato e condotto da Chiara Bernini
 
*

Ore 17.30 BAR DEI LICEI  – Via Broccaindosso 69
 A un passo dal secondo movimento
con Ugo Rapezzi, Gianfranco Corona, Simone Molinaroli, Francisca Rojas,
Roberto Righi, Domenico Segna, Claudio Comandini, Claudio Bedocchi,
Bartolomeo Bellanova, Andrea Trombini, Elio Talon, Marina Mazzolani,
Gassid Babilonia, Paolo Aldrovandi, Sonia Lambertini

Evento curato da100 Thousand Poets for Change-Bologna,
condotto da Gassid Babilonia
 
*

Ore 17.45 Libreria Ubik – Via Irnerio 27
100 mila poeti per il cambiamento – Bologna – I° Movimento, qudulibri, 2013
Primo step con
Rina Xhihani, Pierluigi Tedeschi, Lance Henson, Patrizia Dughero, Luca Egidio,
Serenella Gatti Linares, Giancarlo Sissa, Idriss Amid,  Matteo Zattoni

Evento curato da100 Thousand Poets for Change-Bologna, qudulibri,
condotto da Patrizia Dughero, Pina Piccolo
 
*

Ore 18.00 Circolo Arci  La Vereda – Via De’ Poeti 2/f
Specchio dei tempi
Canto e demolizione – Antologia di poeti spagnoli contemporanei
Thauma edizioni, 2013
con Lorenzo Mari, Serse Cardellini
In tempi ormai viciniCFR edizioni, 2013, di e con Alessandro Assiri
A seguire reading di Luca Ariano, Giorgio Bonacini, Vincenzo Bagnoli

Evento curato da Letteratura Necessaria, condotto da Vincenzo Bagnoli
 
*

Ore 18.00 IBS Bookshop –  Via Rizzoli 18
Voci Salve
Presentazione del N°54 della rivista Le Voci della Luna
con Antonella Taravella, Francesco Sassetto, Sergio Rotino, Marinella Polidori

Presentazione dell’antologia Poeti di corrente, Le Voci della Luna edizioni, 2013
con Matteo Bianchi, Chiara De Luca, Raffaele Ferrario, Roberto Dall’Olio
Alessio Casalicchio, Maddalena Lotter, Anna Bonamici, Iris Karafillidis

Evento curato da Le Voci della Luna,
condotto da Marinella Polidori, Sergio Rotino
 

*

Ore 18.00 Libreria Igor – Via S. Petronio Vecchio 3
Parole scorrette
Serena Rossi e Valentina Gaglione interpretano
testi di Eleonora Tarabella e Massimiliano Chiamenti.
A seguire Recital letterario a tematica omosessuale con
Massimiliano Martines, Valentina Pinza, Giuseppe Nibali, Claudia Piaz,
Salvatore Della Capa, Rita Galbucci, Alessandro Brusa, Francesca Del Moro.
Accompagnamento musicale: Ensemble Altre Voci

Evento curato da Gruppo 77,
condotto da Alessandro Brusa, Francesca Del Moro
 

*
 
Ore 18.15 Giardini Margherita
Voci di strada
Secondo step con
Reda Zine, Samuele Scagliarini, Consiglia Strazzari, Nicolò Gugliuzza
Riccardo Paradoz, Vasily Biserov, Luigia Bencivenga, Sara Brayon, Enrico Simoniello

Evento curato e condotto da Vasily Biserov
 
*

Ore 18.30 Giardini del Guasto – Via del Guasto
Free Zone
con Silvia Rosa, Maurizio Landini, Chiara Daino, Gerardo De Stefano,
Antonella Barina, Diego Conticello, Gianluca D’Andrea, Gabriele Gabbia,
Silvia Molesini, Lucia Guidorizzi, Sergio Rotino, Jacopo Ninni, Sonia Lambertini

Evento curato da Letteratura Necessaria, Collettivo Self Poetry,
condotto da Jacopo Ninni
 
*
 
Ore 18.30 Libreria Delle Moline –  Via delle Moline 3
Oggetti & Soggetti
con Chiara Catapano, Massimiliano Bossini, Roberta Durante,
Renata Morresi, Chiara Baldini, Salvatore Ritrovato, Michele Ortore,
Enea Roversi, Silvia Secco

Evento curato da Letteratura Necessaria, condotto da Enea Roversi
 
*

Ore 19.00 L’Altra Babele – Via Gandusio 10
Presentazione della Rivista Atti Impuri N° 5-6
con Pietro Alagia, Collettivo sparajurij, Collettivo Lo spazio esposto

Evento curato da L’Altra Babele, condotto da Pietro Alagia
 

*

Ore 19.00 Arena Orfeonica – Via Broccaindosso 50
Cuore di preda
Poesie contro la violenza sulle donneCFR Edizioni, 2013
a cura di Loredana Magazzeni
con Maria Luisa Vezzali, Paola Elia Cimatti, Silvia Molesini, Anna Zoli,
Serenella Gatti Linares, Loredana Magazzeni, Giovanna Iorio, Nadia Chiaverini,
Michela Turra, Leila Falà, Roberta Parenti Castelli, Mara Cini

Evento curato da Loredana Magazzeni, Gruppo 98 Poesia
con il patrocinio della
Casa delle Donne per non subire violenza di Bologna
 

*

Ore 19.15 Tedofra Artgallery – Via delle Belle Arti 50
Contaminazioni
con Luciano Mazziotta, Carmen Gallo, Matteo Marchesini,
Matteo Bianchi, Renata Morresi, Luca Minola,
Roberta Durante, Roberta Sireno, Anna Franceschini
Accompagnamento musicale: fab (e i fiori), Mostra Pittorica di Matteo Accarrino

Evento curato da Associazione ComPari, condotto da Anna Franceschini
 
*

Ore 19.30 Circolo Arci  La Vereda – Via De’ Poeti 2/f
100 mila poeti per il cambiamento – Bologna – I° Movimento, qudulibri, 2013
Secondo step con
Roberto Righi, Domenico Segna, Antar  Mohamed Marincola, Silvia Parma,
Gassid Babilonia, Pina Piccolo, Simone Cuva, Patrizia Dughero, Nicolò Gugliuzza

Evento curato da100 Thousand Poets for Change- Bologna, qudulibri,
condotto da Patrizia Dughero, Pina Piccolo
 
*

Ore 20.00 Vino al Vino – Via S. Stefano 77
Portico Poetico
con Klaus Miser, Rita Galbucci, Stefano Severi, Roberta Lipparini,
Gabriele Xella, Valentina Zerbini, Francesco Alberani, Alessandro Dall’Olio,
Daniele Barbieri, Alessandro Brusa, Nicola Bonacini

Evento curato da Gruppo 77, condotto da Alessandro Dall’Olio
 
*

Ore 21.00 Circolo Arci Guernelli – Via Gandusio 6
Poesia in musica
Leit Motiv 13
con Valentina Gaglione, Il Rapsodico, Memorie dal SottoSuono,
Francesca Del Moro, Fabio Fanuzzi
Bologna 67-77
con Nicola e Vincenzo Bagnoli
Slam Session
con Chiara Daino, Enzo Campi, Lella De Marchi, Silvia Rosa,
Pierluigi Tedeschi, Raffaele Ferrario, Silvia Molesini, Antar Mohamed Marincola

Evento curato da FuZZ Studio, Letteratura Necessaria,
Memorie dal SottoSuono, condotto da Fabio Fanuzzi, Valentina Gaglione
 

*

Ore 21.30 Tarcaban Cafè – Via del Pratello 96/f
In noi o in Siria muore l’umanità
con Faraj Bayrakdar, Tarek Aljabr,
Ghayath Almadhoun, Khaled Soliman Al Nassiry

Evento curato daAssociazione Almutawassit,100 Thousand Poets for Change-Bologna, condotto da Pina Piccolo, Gassid Babilonia

 

***

 

> Progetto e concertazione di Enzo Campi
 
> In collaborazione con

Le Voci della Luna, Letteratura Necessaria
100 Thousand Poets for Change-Bologna, qudulibri
Associazione ComPari, Collettivo Self Poetry, Gruppo 98 Poesia
Gruppo 77, Memorie dal SottoSuono, FuZZ Studio

> Con il patrocinio di:

Provincia di Bologna, Comune di Bologna

> Comitato organizzatore:

Pina Piccolo, Marinella Polidori, Patrizia Dughero,
Loredana Magazzeni, Sergio Rotino, Vincenzo Bagnoli,
Alessandro Dall’Olio, Francesca Del Moro, Alessandro Brusa,
Martina Campi, Mario Sboarina, Agnese Leo, Jacopo Ninni,
Rita Galbucci, Enea Roversi, Roberta Sireno, Gassid Babilonia,
Anna Franceschini, Fabio Fanuzzi, Valentina Gaglione, Chiara Bernini,
Vasily Biserov, Silvia Secco, Enzo Campi

I poeti appartati: Claudia Ruggeri

17


Correspondances
di
Francesco Forlani
Mi chiedo a volte se è davvero necessario parlare di poesia, spiegare il nesso, il fatto, svelare l’arcano che ci dice della fortuna o della miseria di una poetica, l’affiliazione, la bastardaggine di un verso. Per questo trovo ancora più straordinari i lavori critici in poesia, quelli di cui sono testimone, orale o scritto, portati avanti con cura certosina, attenzione sovrumana all’opera. Penso ai lavori di Biagio Cepollaro, Marco Giovenale, Giuliano Mesa, Andrea Inglese, Francesco Marotta, solo per citare pochi esempi, che già mi dico e dicono che sono sempre gli stessi, nel mio immaginario. Se così poco, ci dicono, serve la poesia al tavolo della letteratura cosa e come servirà una critica poetica, se non a raccogliere le poche briciole cadute dal tavolo, i pochi lettori che restano dopo la scrematura. Nessuno legge più poesia, figuriamoci allora testi critici sulla poesia! Ecco io vorrei essere uno di quei lettori, uno di quei critici. Vorrei avvicinarmi al tavolo, chinarmi e raccogliere poche briciole, riporle in un qualcosa, un sacchetto di carta, un foglio, e scrivere: “queste poesie di Claudia Ruggeri sono belle.” Ovvero dire in lungo e in largo, con dovizia di particolari e maîtrise assoluta di strumenti e aggeggi critici, come e perché sono belle. Tanta è la strada che però mi separa dal tavolo, e poco, troppo poco il tempo per riuscire a dire altro da quanto è stato già detto su Claudia Ruggeri. Critica sincera, che non faccia astrazione del cuore, come hanno scritto di lei Mario Desiati o forse Michelangelo Zizzi oppure semplicemente riuscire a leggere i suoi versi come li ho sentiti detti a Matera, in una chiesa sconsacrata per voce di Alfonso Guida. E metterci la stessa passione di Francesca Canobbio, la cura di sua madre Maria Teresa del Zingaro, con cui ci siamo scritti poche cose. Le poesie che seguono me le ha mandate Elio Scarciglia autore di un documentario, allegato al libro Canto senza voce di Claudia Ruggeri, libro curato da Esther Basile e Angela Schiavone e che verrà presentato a Genova il 12 luglio. Eccole.
Il calice di fiele che mi hai dato

Questa croce pesante
che ho portato senza proteste
sopra il mio Calvario.

Questi chiodi crudeli
ho lasciato trafiggere
il mio corpo e il mio sudario.

Queste piaghe profonde
che ho guardato aprirsi nella carne:
oh, mio Signore, tutto questo,
lo sai,
te l’ho donato.
E pure, adesso che il festino è finito
Oh, mio Signore, ti faccio omaggio,
e, sorridendo,
brindo
col calice di fiele
che mi hai dato.

 

§
Prego i tristissimi occhi
d’eroe di guardare
che i suoi logori sguardi
vertano sul mio dolore.
E poi volino
fantastici e stanchi
partendo da lì.
Dal dolore.
Prego che Vittoria
sappia che nel suo volo di pietra
è la perdita umana
Prego che Eroe e sua Vittoria
passeggino insieme
per poco, nel mondo.
Che le estati li investano, torride,
e così lunghe notti
nel freddo.
Che la terra riempia di sassi
le palpebre giovani
e le guidi fin dentro
dai suoi dannati.
Prego le ragioni della luce
di illanguidire i loro respiri,
e le sabbie di soffocarne la voce.
Prego il mare
affinché disperda i loro cuori
nelle sue acque.
Poi li trovarono
nella nicchia di un tempio
contorti e iniziati.
Li esposero in lunghissimi
treni di legno.
L’organo vomitava rigido
algide melodie.
Carcerata la loro giovinezza
da tetti di mogano,
zolle di terra
e poi rovi di vermi.

Li trovarono
e trovarono la mia preghiera
nei loro occhi
pallidi ed attoniti.

Lontano, in un giardino fiorito
qualcuno prepara una croce e dei chiodi.
Un giorno dei saggi
potando gli sterpi
in un vecchio giardino
troveranno anche me
con un passero
duro tra i denti.

 

 

&
Canto di Madre

Un albero
incantato e festoso
alcova di primavera
leggiadra
Quell’albero non l’ha mai visto
il mio bambino
era già adulto quando nacque:
aggrottava le ciglia
Scrutando il bianco affaccendarsi
di chi controllava il suo pianto:
il mio bimbo
è nato serio
Ha sentito
il composto formarsi
dei ghiacci
ed ha guardato, dal vetro
gli svizzeri giochi
innevati.
Ha amato quell’ordine,
ed ha preferito morire
per non vedere
l’inutilità
di frivola
e scomposta
primavera.
A me ha lasciato
un albero stupendo.
Sotto le sue fronde poserò
boccheggiante
nei violenti ardori
di un’estate
mentre la chioma
scapigliata
mi schiaffeggerà
a sangue.
Già lo fa
che ancora
è inverno nell’addio,
e mi rimane
nella faretra
stremato,
sulla spalla,
una saetta d’azzurro, simile a quello
che colpiva il cuore
con l’aggrottarsi vecchio
che chiedeva venia
d’essere mai esistito.

Quest’albero
che “tu” hai cresciuto
nel mio seno
duro come un cadavere
in un affanno cosmico
ispessisce
ed è la crudeltà
che tu piantasti
per essere ingannato
mentre io
relativa
t’abbracciavo.
Sento nel mio corpo
quel seme
che piantasti,
farsi albero
crescere …ispessirsi
dentro un affanno
cosmico.
La crudeltà
mi ha preso
di stringerti
e ingannarti

Nota post
Sul sito dedicato a Claudia Ruggeri è possibile leggere tantissimi materiali critici e letterari in grado di far capire davvero “la bellezza” della poesia e dell’universo poetico che l’ha generata. E lo fa anche attraverso contrappunti, controcanti, come nello scambio epistolare che qui segue tra la poetessa e Franco Fortini. Solo a prima e distratta lettura parrebbe un dialogo tra sordi, anzi diciamo tra qualcuno che urla, grida e un altro che non sente. In realtà, credo, qui si avverte, nelle parole accorte di Fortini, oltre al leggendario pudore fortiniano rispetto all’amore, qualsiasi forma d’amore, una partecipata paura, sentimento del pericolo, l’Alerte aux poètes. Claudia Ruggeri scrive : “Oggi ho 22 anni ed ho concluso le prime 22 pagine del mio personale dizionario. Le sono destinate. “Bello ventiduenne / come aveva predetto il suo tetrattico”, Majakovskij si mise a dormire “a piene gambe a pieni malleoli” (Blok). Ma questa è superstizione.”

In realtà, credo faccia allusione a Carmelo Bene, altro salentino maudit, eccedente, il Carmelo Bene dei Quattro modi di morire in versi. I poeti detti da Bene erano Majakovskij, Blok, Esenin e Pasternak. Ecco perché Claudia Ruggeri dice Blok ma in realtà si trattava di Pasternak. Fortini raccomanda alla giovane poetessa di liberarsi di Bene? Non so, ma sicuramente del verso “Oh, s’io avessi allora presagito, 
quando mi avventuravo nel debutto, che le righe con il sangue uccidono, 
mi affluiranno alla gola e mi uccideranno. 
Mi sarei nettamente rifiutato 
di scherzare con siffatto intrigo. 
Il principio fu così lontano, 
così timido il primo interesse.”

Lecce, 1 Marzo 1990
Caro professore, ma caro veramente
se pur fantasiosamente. Io sono assolutamente incapace di scrivere una lettera, e lo sono soprattutto se con una lettera devo “comunicare” concretamente. E qui, come fare entrare, e subito, il mio nome; oppure, per esempio, il colore del pullover che indossavo quel giorno, e, insomma il senso di un epistolario caduto e la mania di gerarchia e di aristocrazia che mi prende quando si tratta di “parlarne”, “spiegarne”, di un gesto che è profondo e leggero troppo per non sfuggire ad una qual si sia esibizione.
Insomma ho covato una “dedica” lungo cinque anni; già, perché fu nell’85 che la conobbi e che quella che era stata la predilezione per un poeta s’inverò in un pensiero amoroso e riverente per un uomo. Sentii come un richiamo strano una parentela iniziale una “con esistenza” di destini ed una “elezione” radicale. Anche lei mi guardò spostando appena il Corriere della Sera ed io fui troppo certa che in quello esercitò una comprensione e forse una condivisione di tale “affatata” circostanza. E infatti dopo poco lei mi chiamò in corridoio e lì parlammo, attimi, in piedi, come ladri, soli.
Esco da due anni infernali in cui sono stata affetta da una malattia alla tiroide che mi ha portato crisi di nervi e che mi ha bloccata su tutti i fronti. Ora riprendo a studiare, a scrivere non ancora, a vivere ed a fuggire da questa maledetta città per ritornarvi tuttavia; riprendo riprendo ma non riprendo
tutto, forse. Oggi ho 22 anni ed ho concluso le prime 22 pagine del mio personale dizionario. Le sono destinate. “Bello ventiduenne / come aveva predetto il suo tetrattico”, Majakovskij si mise a dormire “a piene gambe a pieni malleoli” (Blok). Ma questa è superstizione.
Le invio il mio “Inferno minore”, le chiedo di leggerlo; non le piacerà, lo indovino, per il tipo di
scrittura (specialmente non le piacerà la I sezione “il Matto”), epperò non mi biasimi per averglielo dedicato, non se ne offenda. Un’intitolazione collega congiunge individua un maestro, e questo potrebbe infastidirla; ma d’altra parte -il mio inferno essendo perlappunto “minore”- io non sarò famosa: quella dedica rimarrà familiare, un segno di affetto, un debito
Sua Claudia
Milano, 10 marzo 1990
Cara Ruggeri, la rammento benissimo e la ringrazio molto del ricordo e della fiducia e dell’invio.
Ho letto Inferno minore con l’imbarazzo di una ammirazione per l’intelligenza, la sottigliezza e la passione, che deve fare i conti con un giudizio molto cauto per quanto è dell’angolo da cui lei guarda le parole e ascolta il linguaggio. Il ‘pastiche’ culturale, prima ancora che linguistico, occupa tutto lo spazio del lavoro: c’è un accumulo, dalle citazioni alle note, che attraversa i testi, una ripresa di modi e vezzi di troppe avanguardie e neoavanguardie, che fa pensare al sovraccarico di collane e gioielli e anelli che il suo buon gusto certo le impedirebbe di portare.
Badi bene, nessuno meglio di me sa che la poesia è anche letteratura e artificio. E che può essere necessario, per parlare, uno spesso trucco. Però in lei, mi pare, domina un ‘sistema’ letterario così fortemente organizzato e tirannico che la comunicazione metaforica e allegorica stenta a stabilirsi.
Cose che lei ha ben chiare: “amo la tua continua consegna mondana…”, “amo le tue cadute benché siano finte…” Questo ‘romanzo’ psicologico non manca davvero di ritmo, di percussioni interne, di passaggi ‘forti’; mi pare che, piuttosto, ci sia una tendenza a saturare ogni singola composizione con tutti gli strumenti disponibili, con èsiti di soffocazione e di autoannullamento. Mi pare di poter dire che il ‘punto’ non è di scrittura ma di esistenza. Credo intendere che cosa voglia dire essere stata così ammalata e quali tensioni quella specifica alterazione possa avere, non dirò prodotto, ma coltivato; ma ho buona memoria di quel che Giacomo ha scritto per non procedere oltre su questa via banale. E tuttavia vorrei che lei sapesse uscire dal corridoio di specchi delizioso, terrificante e anche infame (“Inferno minore”, appunto) non verso una “salute” e una “salvezza” ma verso una maggiore attenzione (nel senso di ‘risparmio’, di klassische Dämpfung, di limitazione volontaria dei mezzi) alle escursioni dei livelli di linguaggio, di discorso e di esperienza, una minore fiducia nella ‘impunità’ della parola letteraria qua talis. Non ho consigli fuor di questo: di uscire pro tempore verso la prosa più banale e convenzionale prima di tornare al verso.
Mi accorgo di non averle parlato dei versi suoi ma di quel che li precede o li segue. Una lettera non può far altro.
Lei è una ‘testa forte’ e saprà valutare questa lettera quanto merita, cioè pochissimo; la mia vanità, lusingata dal suo ricordo, ne potrà soffrire. Ma proprio di questo lei ha bisogno: di rovesciare quanti modelli porta in sé e fare piazza pulita. Io, per fortuna sua, modello non posso né voglio essere ma invece, e con molta stima e simpatia, il suo

Franco Fortini

Uno nove quattro

14

di Alessandra Carnaroli

(da Cangura, raccolta inedita di racconti)

Secondo stime recenti nel mondo
ci sono ogni anno 26 milioni
di aborti legali.
Sebbene sia
quindi
un’esperienza frequente,
è ancora oggetto di diatriba.*

Orazio, Carme XI, traduzione di Pietro Tripodo

3

tripodo

Tu ne quaesieris, scire nefas, quem mihi, quem tibi
finem di dederint, Leuconoe, nec Babylonios

da “Le circostanze della frase”

7

Atelier Van Lieshoiut 2003 Uri-Tory-

di Andrea Inglese

CHE NE SARÀ DEL PROBLEMA SE NON ME NE OCCUPO ABBASTANZA? Se con il vostro aiuto, la maldicenza, l’invidia, il collasso economico, la ripugnanza, la solida rete di dipendenze, se assieme, o gli uni contro gli altri, convergendo su di me, non facciamo grande, solenne, il problema?

Enzo Jannacci: “Il bonzo”

2

[In sintonia con le riflessioni di Helena, una canzone del 1974.]

di Enzo Jannacci

A un, a du, a un du tri quatr…
M’han detto che un bonzo
(“un bonzo…chi è ?”)

Doppia presentazione poetica a Monza e a Milano. (Con un testo di Charles Bernstein.)

2

Monza, sabato 8 giugno 2013,

alle ore 16.00

presso la Biblioteca San Gerardo (via Lecco 12, Monza),
nell’ambito della Seconda Edizione di Bibliodiversità in Bibliotececa,

il critico Antonio Loreto incontra Michele Zaffarano,
poeta e traduttore, che presenterà Cinque testi tra cui gli alberi (più uno)
(Benway Series – Tielleci, Colorno 2013).

Verranno inoltre presentate le ultime
pubblicazioni della collana Chapbook, che l’autore dirige insieme a
Gherardo Bortolotti per l’editore milanese Arcipelago.


a seguire

a Milano alle ore 18:30

 

presso la Libreria Utopia via Vallazze 34 (MM Loreto)

 

presentazione del progetto (avviato e futuro) e dell’antologia (appena pubblicata)

 EX . IT  –  Materiali fuori contesto

a cura di

 Marco Giovenale, Mariangela Guatteri, Giulio Marzaioli, Michele Zaffarano

 (La Colornese – Tielleci, 2013)

 

In libreria, in dialogo con curatori e autori, interverranno i critici

 Paolo Giovannetti e Paolo Zublena

 Saranno presenti – e leggeranno testi propri e/o altrui – gli autori

 Alessandro Broggi, Gherardo Bortolotti, Fiammetta Cirilli, Marco Giovenale, Mariangela Guatteri, Andrea Inglese, Michele Zaffarano

 

L’incontro permetterà di riflettere sulla natura dell’iniziativa EX . IT 2013 – Materiali fuori contesto, sulle scritture e gli artisti ospitati, sui progetti attuali e futuri; e di presentare l’antologia che è nata per i tre giorni di reading nella biblioteca di Albinea (12-14 aprile), città apparentemente fuori dalle rotte usuali della letteratura, in realtà ben interna e omogenea a un’area, come quella reggiana, che proprio storicamente è stata (ed è) teatro-territorio di ricerca, sperimentazione, traduzioni.

 

link all’evento facebook:

 

https://www.facebook.com/events/270978863047110

 

descrizione del volume e preview dell’antologia:

 

http://eexxiitt.blogspot.it/2013/04/exit-2013-libro.html

 

gli incontri di Albinea (12-14 aprile 2013):

 

http://eexxiitt.blogspot.it/p/exit.html

 

speciale EX . IT su Portbou:

 

http://blogportbou.wordpress.com/category/speciale-ex-it/


§

EX . IT  è

_ una serie di incontri e di reading che ha coinvolto e coinvolgerà diversi autori italiani e stranieri.
_ una sequenza di letture e di installazioni verbovisive, con l’intervento di videoartisti e musicisti.
_ un momento di confronto collettivo tra percorsi già in dialogo, e la proposta di un panorama di riferimento per lettori e ascoltatori che possono trovare, per la prima volta all’interno dello stesso tempo e luogo (e libro), materiali testuali e artistici non identificati (definibili: di ricerca)
_ un volume antologico – edito dalla Tipografia La Colornese – con testi e immagini inediti – che offre un percorso di lettura, visione e documentazione dei materiali ospitati dall’evento.
_ un fondo librario, appunto denominato EX . IT, che la Biblioteca di Albinea ha inaugurato e predisposto (a partire proprio da questa iniziativa), dedicato ad alcune linee della recente scrittura di ricerca, italiane e non.

 §

see also

 http://eexxiitt.blogspot.it/

http://eexxiitt.blogspot.it/p/about.html

§


 

Libreria Utopia via Vallazze, 34

 

(angolo.v.le Lombardia)

 

20131 Milano

 

https://www.facebook.com/libreriautopiamilano+

 


Un estratto dal volume:


 


Charles Bernstein

La contraddizione diventa rivalità

Lo spirito di squadra si trasforma in rivalità quando 12 studenti di medicina vengono a sapere che solo sette di loro verranno ammessi in ospedale.

A un agente della CIA è ordinato di fingere un crollo nervoso per incastrare una spia in un ospedale psichiatrico.

A Zululand, una ricerca sul campo sulle zanzare e sulle scimmie Chlorocebus, rivela che sono portatrici di malattie virali che causano febbre alta e un dolore di ossa rotte.

Ecco la sconfitta abbattersi sul conquistatore nazista. La sequenza filmata illustra il bombardamento di febbraio su Dresda; l’attraversamento del Reno e l’avanzata nella Ruhr fin dentro il cuore della Germania; e, da est, i russi che accerchiano Berlino.

Il comportamento inaffidabile di un brillante dottore crea sconcerto in ospedale.

Soggetti presi dalla strada offrono versioni frammentarie; un vetro a specchio offre delle “riflessioni” inattese; un paio di cabine telefoniche all’esterno, e due conversazioni confuse, disorientano uno.

Un colpo d’occhio dietro le quinte è legato a un tragico intreccio.

Un detective è catturato da un gangster che ha in mente di farlo di eroina e poi rifiutargli la dose finché non rivela dove abita la primissima ragazza (di cui il criminale è geloso).

Un giovane ritardato è testimone di un omicidio ma non è in grado di articolare a dovere il racconto alla polizia.

Un marito viene tradito nel Giappone medievale dove l’adulterio è punibile con la morte.

Julie cominicia ad affezionarsi a un bimbo abbandonato.

Una losca operazione di contrabbando e un hippy morto portano a un intrigo, a Malta.

Una scatola di dolci include cioccolatini a forma di rana.

[Da: Charles Bernstein, Contradiction Turns to Rivalry (1983), in Islets/Irritations, Roof Books, New York 1992, pp. 25-27; traduzione italiana di Marco Giovenale per EX.IT – Materiali fuori contesto, a c. di M.Giovenale, M.Guatteri, G.Marzaioli, M.Zaffarano (La Colornese – Tielleci, Reggio Emilia 2013.]

Rivista Sud on line

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Da qualche settimana l’intera collezione di Sud è scaricabile gratuitamente qui Moltissime sono state le collaborazioni eccellenti per i quindici numeri pubblicati ma anche gli esordi che la nostra rivista ha reso possibili. Il testo che vi propongo è stato scritto da Luis de Miranda per noi ed è stato pubblicato sul numero tre, edito da Raimondo di Maio (Dante & Descartes) .(effeffe)

Pages from SUD 03

Divenite plastico. Poi esplodete.
di
Luis de Miranda
traduzione di Laura Toppan

Un libro uscito di soppiatto lo scorso marzo, intitolato Che fare del nostro cervello?, esprime un concetto ‘politico-neuronale’ che potrebbe divenire la parola-chiave del prossimo decennio: plasticità. O quando il nostro cervello ridiventa dinamite.

Altolà: tutti quelli che si disperano, perché non credono più in una possibile rivoluzione all’interno del nostro nuovo mondo concentrazionario, aspettino prima di suicidarsi. Un barlume di speranza sembra ancora permesso, e non arriva né dalla Cina né da Cuba, ma esplode dall’interno del nostro cervello.

Jean-Pierre Changeux, nel suo libro L’uomo dei neuroni, ci aveva messo in guardia vent’anni fa: la «scoperta della sinapsi e delle sue funzioni sarà rivoluzionaria tanto quanto quella del DNA». Alla lettura di questo libercolo fondamentale della filosofa Catherine Malabou (Che fare del nostro cervello?, edito da Bayard) siamo costretti a constatare che il DNA fascista si sta opponendo ad una teoria moderna che fa della corteccia (e non solamente del pensiero) un alleato dell’ideale della liberazione. Di che cosa si tratta? Innanzitutto di una buona notizia, in questi tempi di mimetismo gregario, perché «sono gli uomini che costruiscono il loro cervello e non sanno nemmeno di farlo: quindi il nostro cervello è un’opera». Ed è questa la plasticità, perché il cervello non è mai fissato una volta per tutte: durante tutta la vita i neuroni si attivano o si disattivano a seconda della storia e della volontà dell’individuo; così il cervello non è una macchina, ma è capace di rimodellarsi. E in che cosa è una nuova potenza rivoluzionaria? Per capirlo bisogna passare attraverso Il nuovo spirito del capitalismo di Luc Boltanski ed Eve Chiapello, che notano come «il funzionamento dei neuroni e il funzionamento sociale si diano mutuamente forma, come se il funzionamento dei neuroni si confondesse con il funzionamento naturale del mondo». Ma questa situazione potrebbe anche essere rovesciata.

Sappiamo, almeno sin dai tempi di Deleuze, che viviamo in una società reticolare. «Abbiamo compreso da un pezzo – sottolinea Catherine Malabou – che oggi sopravvivere significa essere connessi in rete, essere capaci di modulare la propria efficacia. Sappiamo bene che ogni perdita di flessibilità corrisponde ad una pura e semplice messa in gioco». Insomma, bisogna essere flessibili, ma è proprio qui che prende forma una tesi illuminante: la flessibilità nel lavoro, divenuta il leitmotiv del neocapitalismo, non ha nulla a che vedere con la plasticità autocreatrice. O, detto in termini più filosofici, «la flessibilità è la metamorfosi ideologica della plasticità. Essere flessibili significa ricevere la forma o l’impronta, poter piegarsi, essere docili, non esplodere. Manca, alla flessibilità, il potere di creare, di stilare, di inventare o anche di cancellare un’impronta. La flessibilità è la plasticità meno il suo genio». E non si tratta di divagazioni filosofiche, perché il biologo Jean-Pierre Ameisen aveva già insistito (nel 1999 ne La scultura del vivente) sul fatto che il cervello, lontano dall’essere – come si è creduto a lungo – un organo ben costituito interamente sin dalla nascita, è un’istanza che riceve e si dà forma allo stesso tempo. Da cui riconciliare con la natura quelli che sarebbero tentati, ancora una volta, dal disprezzo del corpo. «L’idea – sottolinea Catherine Malabou – di un rinnovamento cellulare, di una rigenerazione, di una risorsa ausiliare della plasticità sinaptica, mette in luce la potenza della guarigione – cura, cicatrizzazione, compensazione, rigenerazione, capacità del cervello di elaborare delle protesi naturali» e di diffondere le sue trovate attraverso la contaminazione (per esempio attraverso un articolo in un’altra rete: il Net). Sembrerebbe quindi, visti i risultati recenti delle neuroscienze, che il famoso mind-body problem – come lo chiamano i cognitivisti – prenda un nuovo orientamento. Già due anni prima Marc Jeannerod concludeva così il suo libro La natura dello spirito: «il paragone tra cervello e computer non è pertinente». Deleuze, uno dei rari filosofi a interessarsi alle ricerche neuroscientifiche degli anni ’80, l’aveva presentito nel suo libro sul cinema L’image-temps, in cui parla del cervello come di un «sistema accentrato», di un «effetto di rottura» con l’immagine classica che ci si fa di lui. «La scoperta di uno spazio celebrale probabilistico o semi-fortuito, an uncertain system – afferma Deleuze – evoca l’idea di un’organizzazione multipla, frammentaria, un insieme di micro-poteri piuttosto che la forma di un comitato centrale». Si può allora paragonare il cervello a un regista cinematografico, poiché la sua plasticità diventa l’immagine reale del mondo. Un’immagine che ispirerà altri registi, non sempre ben intenzionati. «Così – nota Catherine Malabou – è in riferimento a questo tipo di funzionamento che la letteratura di management di oggi raccomanda il lavoro di squadra flessibile, di neuroni, ove il capo è un connettivo. Chi non è flessibile deve scomparire». E prima di scomparire, merita di soffrire.

In Fatica di essere se stessi, libro dedicato all’esaurimento nervoso e alla nuova psichiatria, il sociologo Alain Erhenberg dimostra che esiste una frontiera tra sofferenza psichica e sofferenza sociale. La depressione è ciò che un altro sociologo, Robert Castel, chiama la «dis-affiliazione». In entrambi i casi si tratta spesso di una sofferenza d’esclusione, che si declina in altrettante malattie della flessibilità. «In un mondo ‘connessionista’, ove la grandezza sociale presuppone lo spostamento – aggiungono Boltanski e Chiapello – i grandi approfittano dell’immobilità dei piccoli; l’immobilità è infatti la fonte principale della miseria di quest’ultimi. Ognuno vive così nell’angoscia permanente di essere sconnesso, lasciato, abbandonato da coloro che si spostano». Ma, ed è l’altra buona notizia veicolata dalla plasticità, la depressione, che è divenuta oggi un fenomeno troppo massiccio per non annunciare un cambiamento più generale, potrebbe essere la prima tappa dialettica di una riconfigurazione collettiva delle coscienze. Jean-François Allilaire, professore di psichiatria all’università Sorbonne Paris-VI, ha messo in evidenza i legami tra depressione e spostamenti di neuroni: «la depressione, cioè la sofferenza psichica in generale, è associata ad una diminuzione delle connessioni di neuroni»; una diminuzione che corrisponde, la maggior parte delle volte, ad una inibizione né involontaria né tangibile. Insomma, la depressione potrebbe essere una forma collettiva di resistenza passiva contro la flessibilità. Nonostante ciò, a livello individuale, «dobbiamo imparare nuovamente – afferma Christine Malabou – a metterci in collera, a esplodere contro una certa cultura della docilità, dell’amenità, della cancellazione del conflitto; proprio ora che viviamo in uno stato di guerra permanente».

Il cervello sta forse riscoprendo, all’alba del XXI secolo, che è un processo dialettico ed è quindi giunto il momento di rileggere Hegel e anche Bergson, per il quale ogni movimento vitale è plastico, nel senso che deriva da un’esplosione e allo stesso tempo da una creazione: è solo fabbricando degli esplosivi che la vita dà forma alla propria libertà e che volta le spalle al determinismo. E poiché oggi le parole sono più potenti degli esplosivi creati dalla natura con la complicità del cervello, leggiamo, per concludere, questo passaggio dall’Energia spirituale: «l’artificio costante della coscienza, dalle sue origine più umili e nelle forme viventi più elementari, è di cambiare la legge della conservazione dell’energia ottenendo dalla materia una fabbricazione sempre più intensa di esplosivi sempre più utilizzabili. È sufficiente allora un’azione estremamente debole, come quella di un dito che preme senza sforzo il grilletto di una pistola, per liberare, al momento voluto e nella direzione prescelta, una somma il più grande possibile di energia accumulata. Fabbricare ed utilizzare degli esplosivi di questo genere sembra essere la preoccupazione continua ed essenziale della vita, dalla sua prima apparizione nelle masse protoplasmatiche deformabili a volontà fino alla sua completa espansione in organismi capaci di azioni libere». A tutti gli attentatori al plastico, arrivederci.

I poeti appartati: Salvatore Toma

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canzonieredellamorte
Nota di lettura
di
Claretta Caroppo

A Otranto, tra i ragazzi che hanno fatto amicizia con me, riconobbi subito, per la sua aria faziosa di futuro avvocato, uno studente di Maglie. Tra il bacio della vecchia e la scuola media di Maglie, è contenuta tutta la disperazione meridionale, l’errore, l’impotenza, ma anche l’energia. Pasolini racconta di un viaggio che lo ha condotto da Aversa ai confini sud orientali italiani, in un Meridione profondissimo. Nel leggere quel foglio [il giornale ‘Il Gargano’ ndr] ci si deve così doppiamente commuovere sulla miseria di questo paese che è almeno pari alla sua bellezza. E’ il 1951. Nello stesso anno nacque a Maglie, cittadina situata in provincia di Lecce, Salvatore Toma, poeta decadente, di famiglia di fioristi di antica tradizione, morto suicida a 37 anni. La redazione della prima, raffinata, lungimirante antologia delle sue liriche, pubblicata per Einaudi nel 1999, è stata curata da Maria Corti. La Corti divide le produzioni di Toma, o Totò Franz, come amava farsi chiamare, in tre sezioni, riprendendo la suddivisione già proposta da Donato Valli: la vita e la morte, l’uomo e la bestia, il sogno e la realtà.

La sezione che la Corti intitola ‘Bestiario salentino del XX secolo‘ è la seconda della raccolta. Mi piace partire da qui, scompigliandone l’ordine, dalla bestie, dalla vita, prima del sogno e della morte. Si ritrovano soprattutto delfini, squali, capodogli, balene o animali del cielo, molti falchi, un nibbio, una farfalla. Si racconta che Toma trascorresse i suoi meriggi in cima o all’ombra di una grande quercia e l’aneddoto è certificato da una targhetta che si trova appesa ad un albero nella campagna magliese, in località ‘Ciàncole’. Immaginate i compaesani. Da quel luogo Franz guardava i voli degli uccelli, seguiva le direttive del vento, fantasticava:

Se si potesse imbottigliare/ l’odore dei nidi,/ se si potesse imbottigliare/ l’aria tenue e rapida/ di primavera/ se si potesse imbottigliare/ l’odore selvaggio delle piume/ di una cincia catturata/ e la sua contentezza,/ una volta liberata. Fedele compagna una civetta, che spesso fu cara ai poeti: Il mare ardesia della notte/ scoperto da un faro/ desolato sulla scogliera/ non spaventa/ la nostra civiltà lunare,/ la tua vecchia civetta/ dal volo impacciato.[…] Non la volevo/ senza i suoi occhi gialli/ la volevo integrale selvaggia/ regina della notte fino in fondo.

E poi bisonti, maiali, cani. Più che un sognante ritorno ad una civiltà edenica e bucolica, si legge un acuirsi di quel ‘naturalismo fiabesco’ che l’ispanista Oreste Macrì ritrova nella produzione di Toma. Non stupisca che un poeta a cui la morte fu tanto avvezza abbia prodotto versi vitalissimi sull’esistenza animale, non dimenticando quanto la brutalità umana sia insuperabile:

[…]Il cielo inabissò/ nel vuoto più completo/ solo una luce strana violenta/ riservata ai grandi eventi/ serpeggiò nell’aria/ per un attimo illuminò l’oceano/ e gli uomini si tinsero/ dei loro veri volti/ crudeli spaventosi/ ineguagliabili belve/ senza forma e senza speranza ;  Arriverà la vita, /arriverà, / palazzi città auto ferrovie/ saranno dilaniati come antilopi./ Il leone che è in noi/ ruggirà in maniera mai sentita/ sbranando uomini e donne/ bambini invecchiati/ e vecchi arroganti/ malati di dominio anche a costo di morire. 

La terza sezione del Canzoniere, dal titolo ‘I sogni della sera‘, rivela un’oscillazione perenne fra sogno e realtà, in una dimensione visionaria fatta di deliri, impressioni alcooliche, fantasie erotiche. Talvolta Franz mette persino in dubbio se stesso e il suo modo naturale di vivere la vita in quanto E’ il passato/ non è la morte/ che mi fa paura/ è il passato/ che è il più funebre e il più funesto/ del buio di una bara/ è il passato che mi dilania/ questo essere stati/ senza possibilità di ripetersi/ di dirgli una parola.

In questa rarefazione, come ci dice la Corti nell’Introduzione al volume, troneggia la donna favolosa del poeta, questa volta una figura concreta, altera, che appartiene al mondo reale, con la quale un Franz visionario prova a rapportarsi, per la quale, ci confessa, sarebbe disposto a rinunciare ai propri versi. Il ‘Canzoniere’ di Toma si apre con una dedica al maestro Leopardi, che ha liberato/ l’Italia/ più di Garibaldi. La familiarità del poeta con la morte è docile, inevitabile, connaturata alla sua condizione di maledetto e nasce dalla considerazione che solo chi si nega la vita/ sa cosa significa vivere. Al poeta risulta impossibile diffidare di chi lo accompagna perennemente, annunciandosi con sonagli d’oro, come un’ombra, un chiodo fisso, senza segreti.

Il vero dissidio si trova nella vita, meglio ancora, nei vivi: Io sono morto/ per la vostra presenza ; Presso mezzogiorno/ mi sono scavata la fossa/ nel mio bosco di querce,/ ci ho messo una croce/ e ci ho scritto sopra/ oltre al mio nome/ una buona dose di vita vissuta./ Poi sono uscito per strada/ a guardare la gente/ con occhi diversi.

Da una parte quindi la natura, irriverente, viva, animalesca, selvatica, ventosa, come la si vedrebbe dall’ombra di una quercia, come la si sognerebbe da ubriachi e dall’altra una morte inevitabile, compagna, amante. E il poeta, in quanto tale, sa di non poter essere immortale. Si congeda alla luce, alle stagioni, all’alba, senza melodrammi. Pare talvolta di sentire Baudelaire, che parla alle ‘Due buone sorelle’. Più che fisica, la dissolutezza di Toma è alcolica, onirica, è appunto un sogno della sera. E al risveglio restano queste impressioni: Io ho l’incubo/ della mia vita/ fatta di grandi/ sconcertanti conoscenze / e di sogni paurosi. / Per questo credo / di vivere ancora per poco/ e non rischiare/ di sfiorare l’eternità./ Se passa una nube/ fra incerte piogge/ quella è la nube/ in cerca di serenità.

Io, dal mio, ho la fortuna di riconoscere gli alberi e le cicale e rivedo le rocce e i rosmarini di Badisco. Mi conforta ricordare che un poeta, nato nel paese dove sono cresciuta, abbia scritto in varie stesure: A me Dio piace indovinarlo /in una pietra qualunque, /in un’infanzia serena, /in un frutto maturo,/ nell’onda del mare, / che come la morte cancella il mio nome.

Avanzava il capodoglio
nella notte nera
a gran velocità
enorme
aveva lasciato
l’immensità dell’oceano
per venire a morire sulla sabbia.
Sfrecciava tra i bagnanti
senza toccarli
senza nemmeno sfiorarli
non vedeva che la morte
davanti a sé il sonno eterno
il plagio irreversibile
lì fra le scogliere.
Ma una volta arenato
i pescatori gli tagliarono
il ventre con lame acuminate
lo rimorchiarono al largo
giocavano con l’idea
di veder l’acqua tingersi di rosso
divertendosi a corrompere usurpare
la purezza invincibile del mare.
Allora dalla vicina scogliera
un dio superbo un po’ demone
sottoforma di mantello
volò nell’aria
catturò i vigliacchi
li frustò allo svenimento
li rese mendicanti
spogli di tutto
venditori per le vie del mondo
di collane ciondoli souvenirs
quadretti raffiguranti
corpi marini balenotteri
squali scene segrete
del profondo mare.
Il cielo inabissò
nel vuoto più completo
solo una luce strana violenta
riservata ai grandi eventi
serpeggiò nell’aria
per un attimo illuminò l’oceano
e gli uomini si tinsero
dei loro veri volti
crudeli spaventosi
ineguagliabili belve
senza forma e senza speranza.

Io spero che un giorno
tu faccia la fine dei falchi,
belli alteri dominanti
l’azzurrità più vasta,
ma soli come mendicanti.
Quad. XIX, 11

Un amore

Non si può soffocare a lungo
un amore.
Lo si può ritardare questo sì
per vari comodi
o per estreme deludenti sensazioni
ma alla fine trionfa.
Lo si può nascondere
con violenza per anni
o con indifferenza
lo si può pietosamente subire
e soffrire in silenzio
ma alla fine trionfa.
E’ un plagio istintuale
rapace che ci assale
serenamente ci opprime.
Così accadde a noi
tanti anni fa.
Dopo il fulmine
cercammo storditi
umanamente il sereno
il refrigerio del distacco
sperammo a lungo con passione
nella morte dell’altro
adducendo l’imprevedibile
trincerandoci ostili a combatterlo
armati di nuove prove
e insormontabili difficoltà.
Ma l’ultimo appuntamento
sarà inesorabile
più delle nostre vili paure.
Come tanti anni fa
riaccadrà.

Quando sarò morto
e dopo un mese appena
come denso muco
color calce e cemento
mi colerà il cervello dagli occhi
se mi si prende per la testa
(l’ho visto fare a un mio cane
disseppellito per amore
o per strapparlo ai vermi)
per favore non dite niente
ma che solo si immagini
la mia vita
come io l’ho goduta
in compagnia dell’odio e del vino.
Per un verme una lumaca
avrei dato la vita:
tante ne ho salvate
quando ero presente
sciorinando senza vergogna
l’etichetta della pazzia
con l’ansia favolosa di donare.
Per favore non dite niente.

Non ti credo
ma c’è chi giura che esisti,
forse non ti so cercare
o rassegnarmi a cadere
e tu giochi a nasconderti
non ti fai trovare,
sembriamo
due strani innamorati
ma io ti sento
qui alle mie spalle,
a volte mi sento toccare.
Quad. XIX, 12

Quelli che bruciano

3

di Helena Janeczek

Non mi ero pentita di averla accesa. Nel parterre mancavano gli ospiti che persino mio figlio riconosce come presenze di un patto sado-maso tra pubblico e programma, non stavano sbraitando, nemmeno interrompendosi di continuo. I servizi si concentravano su questioni più interessanti del consueto, rendendo tollerabili le inevitabili dosi di retorica. Poi il giovane conduttore si è avvicinato a un uomo in platea, uno di quelli invitati nel ruolo della gente-che-porta-la-sua-testimonianza. La storia doveva essere giunta al cosiddetto onore della cronaca ma non ne sapevo nulla. Mi arriva solo la faccia del piccolo imprenditore senza lavoro, gli occhi con le lacrime malassorbite.

Cubatura zero

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di Gianni Biondillo

(Tre anni fa, per il Padiglione italiano della Biennale di architettura di Venezia curato da Luca Molinari, scrissi questo appello che ho la sensazione sia – mai come in questi giorni, purtroppo – ancora attuale.)

Non esiste un solo ettaro in Italia di natura “naturale”. È bene non dimenticarcelo. Il paesaggio italiano, dalle Alpi fino a Lampedusa, è stato tutto modificato, manipolato, disegnato dall’uomo. Che sia nei suoi centri storici, o nelle metropoli, che sia nelle valli impervie o lungo le spiagge, l’Italia intera è come una sorta di tela, di progetto a dimensioni iperterritoriali. Super Land Art. La differenza quindi non sta nel sogno bucolico di tornare a una natura che non abbiamo mai conosciuto per davvero, ma nella consapevolezza che questo paesaggio antropizzato – che per millenni ha saputo trovare un equilibrio fra le esigenze di chi lo abitava e il rispetto per il ciclo delle stagioni – ha subito nell’ultimo secolo troppi shock, troppi strappi nella tela. Il bosco di castagni è economia tanto quanto la centrale idroelettrica, ma è anche paesaggio, scrittura materiale del territorio. Occorre cambiare la prospettiva economica, comprendere che lo sviluppo, di per sé, non può essere infinito perché il territorio a disposizione è finibile. Anzi: è ormai finito.

La sostenibilità è uno dei mantra dell’architettura del  nostro inizio millennio. Ma che significa, in pratica? “Chilometro zero”, “emissione zero” (spero non “tolleranza zero”!), e poi? Una visione dell’Italia del futuro che non comprenda che il tema vero dovrà essere la “cubatura zero” è una visione ancora legata al narcisismo puerile dell’idea di moderno. Sappiamo che la popolazione nazionale comunque crescerà, anche grazie alle forze nuove che vengono dalle epocali immigrazioni globali. Ma dobbiamo abbandonare il mito devastante, e in fondo piccolo borghese, della frontiera (mito importato, imposto, deleterio). La sfida autentica sarà costruire senza neppure rubare un solo metro quadrato di territorio agricolo, di costa, di argine, di declivio. La cubatura zero è un imperativo morale.

Oggi 100 metri quadrati al minuto di Pianura Padana vengono cementificati nel nome delle magnifiche sorti e progressive. E gli ettari di abusivismo edilizio spalmati per l’intero stivale neppure si contano. Tutto ciò non si può più sostenere, è un suicidio simbolico, artistico e materiale. La tela dell’opera d’arte globale che è l’Italia ha bisogno di ricuciture degli strappi, di attenzione, di cura. Ecco la sfida per la nuova generazione di architetti: censire, discernere, conservare. Ma anche approntare cancellature nel palinsesto, non avere paura a demolire e riprogettare intere parti del territorio, riedificare meglio e con maggiore consapevolezza le nostre città. Contraendo, piuttosto che invadendo, modificando abitudini di mobilità privata, ridisegnando gli spazi metropolitani, estendendo le superfici dedicate all’ambiente.

Il lavoro è enorme. Riqualificare le coste, dalla Liguria alla Calabria, demolendo chilometri di inutile edilizia di scarsa qualità, seconde, terze case sfitte e decrepite; ridefinire e consolidare gli argini e i letti dei nostri fiumi, riforestare i crinali contenendo i dissesti idrogeologici, liberare la Brianza dallo sprawl indifferenziato, bonificare la Terra di Lavoro dalle discariche abusive tossiche , etc. etc.

Tecnologia e green economy. Non per un romantico approccio arcadico, ma per vieto interesse. La natura può fare a meno di noi. Noi, se vogliamo sopravvivere, non possiamo fare a meno della natura.

Opg, lo Stato della follia

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In Italia esistono 6 Opg (Ospedali psichiatrici giudiziari), comunemente chiamati manicomi criminali. All’interno sono rinchiuse circa 1500 persone.

video arte #21 (video & sound art) – zimoun

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Zimoun, 5 woodworms, wood, microphone, sound system, 2009.