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Giardini

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di Antonio Sparzani

Non so se avete mai pigramente camminato per la via Mozart, a Milano, gettando occhiate curiose nella via Luigi Amedeo Melegari e nella via Clara Maffei, o nella via Gabrio Serbelloni, nomi che suonano casati milanesi illustri, vie che trasudano elegante riservatezza e austera discrezione, oltre alla lontananza livida di inaccessibili giardini. Oggi a Milano c’è il blocco delle auto, ma chi abita questi paraggi non si preoccupa certo di una insignificante contravvenzione. È sufficiene comunque allontanarsi di poco, direzione corso Venezia e via Palestro, e le strade diventano brulicanti di biciclette e di pedoni che per oggi hanno l’illusione di occupare la città. I giardini di via Palestro, con annessi museo di storia naturale e planetario, sono gremiti di persone di tutte le età, giovani distesi nei prati, stile Woodstock, vecchiette e vecchietti dispiegati sulle numerose panchine, bambine e bambini razzolanti ovunque. Verde, fiori, il parco è piantumato senza risparmio e direi che oggi offre una giornata di vera piacevole primavera. Mi metto anch’io seduto su una panchina a scrivere questi pensieri; si avvicina un giovane senegalese che mi parla con tono non lamentoso ma piano di sua moglie che è a letto, dei suoi figli piccoli e di lui che non vuole andare a rubare e quindi vende libri di fiabe africane. Io come al solito non so cosa fare e dire, finisce che gli compro un librettino di favole che tanto so già a chi regalare. Gli chiedo da dove viene, perché, penso, se mi dice che viene dal Ghana, potrei chiedergli se conosce per caso quel suo connazionale che ieri è andato in giro in zona Niguarda di mattina presto ad ammazzare chi gli capitava a tiro; e avrei voluto domandare anche a lui come sia possibile una cosa del genere, quale distorsione della mente può indurre ad avventarsi con un piccone su ignari passanti. Ignari sì, naturalmente, forse solo inconsapevolmente colpevoli di appartenere ad un paese che ti ha rifiutato da subito, caro ghanese Mada, che non ha voluto occuparsi dei tuoi problemi, che non ti ha dato un’occasione di riscatto, come non riesce a darla a tanti, anche dei suoi più legittimi cittadini. “Ho fame” sembra essere l’unica difesa che hai gridato, Mada, che tutti sappiamo non essere una difesa decente per aver ucciso e ferito, ma lo sappiamo con tale chiarezza appunto noi ben pasciuti, che, se diciamo “ho fame”, intendiamo una cosa completamente diversa, un allegro desiderio del cibo che siamo certi presto arriverà.
La fisiologia ― sarà bene impararlo accuratamente ― riverbera sull’etica, vedi i film sul dopobomba. E quando si sono ormai abbondantemente superati i sette miliardi di abitanti del pianeta, il riverbero può diventare accecante più di una bomba.

Trittico di Andreotti

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di Helena Janeczek, Davide Orecchio, Evelina Santangelo

Il bambino con la cravatta a righe
di Helena Janeczek

La testa china sulle cravatte fanno silenzio per commemorare lo statista, l’uomo alla guida delle istituzioni. Quello al centro della fila in basso, distinguibile dalla cravatta verde, è il Presidente della Regione. Resta frontale dinnanzi alle telecamere, congelato dietro gli occhiali rossi, il volto che nella fissità cronometrata in sessanta secondi assume sembianze da tricheco.

Forlanesque

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Yes, we can
di
Francesco Forlani

Muore Craxi, muore Andreotti, vuoi vedere che muoio anch’io
e si dirà muore il Forlani e questo non è bello, sai
non è bello anche se è vero che Forlani muore
e se è per questo muore pure l’amore talvolta
ma mica mo, no, no non muore, almeno
e poi muori anche tu che leggi
e gratta e vinci e gratta e gratta sotto anche se
muori ogni volta che muore qualcosa, qualcuno
e tutti vogliono essere qualcuno, almeno qualcosa.

Muore il CAF, muore perfino il FAC il CAC quarante
e muoro anch’io ma non a Nuoro e non mo, non mo io
quando sarà, perchè sarà, benchè tardi sarà, abbastanza
nonostante molto tardi, che si dirà: Forlani è morto
il Forlani comunista dandy però, si aggiungerà poco dopo
non quello demoscristiano precisando ecco.

Al funerale qualcuno chiederà se eravamo parenti
che in vita perfino alle elementari lo chiedevano tutti
e allora apparirò con il permesso e risponderò io stesso
siamo apparenti, solamente, pure tu che leggi, ridi
apparenti alla lontana però
visto che commenti e ti strappi le vesti e ti manipulisci
quasi ti consoli che il tempo ha fatto quello che lo spazio
di una vita non è riuscito a fare politicamente ecco
e Dio è morto , Marx è morto, la politica muore
ma l’amor mio non muore
c’est déjà ça.

Poesia13

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poesia13

 

dal 17 al 19 maggio a Rieti

 

> presso la ex chiesa di San Giorgio e la Sala San Giorgio della Biblioteca <

tre giorni di letture e discussioni aperte al pubblico, con poeti e critici.

 

Incontro

 

(https://www.facebook.com/events/191832644300119/)

a cura di ESCargot

(https://www.facebook.com/pages/ESCargot-Scrivere-con-lentezza/379992238774953)

Intervengono:

Gian Maria Annovi
Vincenzo Bagnoli
Cecilia Bello Minciacchi
Maria Grazia Calandrone
Alessandra Cava
Fiammetta Cirilli
Andrea Cortellessa
Elisa Davoglio
Paolo Febbraro
Giulio Ferroni
Michele Fianco
Francesca Fiorletta
Federico Francucci
Florinda Fusco
Roberto Galaverni
Paolo Giovannetti
Marco Giovenale
Mariangela Guatteri
Antonio Loreto
Massimiliano Manganelli
Giovanna Marmo
Giulio Marzaioli
Renata Morresi
Vincenzo Ostuni
Tommaso Ottonieri
Giorgio Patrizi
Maria Concetta Petrollo
Gilda Policastro
Laura Pugno
Marilena Renda
Lidia Riviello
Luigi Socci
Sara Ventroni
Michele Zaffarano
Fabio Zinelli
Paolo Zublena

 

Con il sostegno della Fondazione Varrone
In collaborazione con la Libreria Moderna di Rieti
Sarà presente il fotografo Dino Ignani

 

*

ESCargot è un gruppo di poeti e critici unito da un’esigenza di confronto sulle forme e i modi della scrittura contemporanea. A partire dal 2009, ESCargot ha dato vita a una lunga serie di incontri letterari soprattutto presso l’atelier occupato ESC di San Lorenzo a Roma.

Tra gli eventi più significativi organizzati negli anni si segnalano le serate dedicate a Edoardo Sanguineti, a cinema e poesia, al cinquantenario dei Novissimi, alla prosa contemporanea, a Elio Pagliarani, oltre a presentazioni collettive di libri di poesia. Critici e autori esterni al gruppo sono stati regolarmente coinvolti nelle attività di ESCargot.

Nel tempo, tra i suoi componenti, si è consolidata l’idea di sviluppare un vero e proprio laboratorio di confronto fra poetiche: “Poesia13” è la prima risposta a questa comune esigenza. L’appuntamento riunirà a Rieti diciannove poeti e quattordici critici, che saranno impegnati per tre giorni in letture e commenti ai testi ascoltati e, più in generale, in interventi relativi allo stato della poesia contemporanea.

 

Note Movie : Tutto parla di te

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Nota
di
Sophie Brunodet

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Dall’11 aprile nelle sale cinematografiche italiane le storie di molte donne si intrecciano attorno al Centro per la maternità della Casa del Quartiere della Torino d’oggi. In Tutto parla di te di Alina Marazzi troviamo gestanti alle prese con i preparativi del parto, con le fantasie e con le preoccupazioni connesse all’evento che stanno per vivere. Incontriamo Pauline (Charlotte Rampling) di ritorno nella città e nella casa abbandonate molto tempo prima, ormai pronta per affrontare faccia a faccia i drammi e i fantasmi del suo passato: pronta ad ascoltare tutto ciò che le parla di maternità e solitudine e dolore. Ci imbattiamo in vite e volti di donne reali che confessano ciò che oggi pare essere un delitto anche solo da immaginare: l’equilibrio precario, spesso conflittuale e doloroso del rapporto tra mamma e figlio, sopratutto nei primi mesi dopo il parto. Guardiamo negli occhi e ascoltiamo la voce di qualcuno che il delitto di Medea l’ha compiuto davvero. Conosciamo Emma (Elena Radonicich), giovane neomamma stordita e paralizzata dalla novità della sua condizione, dalla paura, dalla stanchezza, dalla perdita della propria identità di danzatrice, dai sensi di colpa, dal silenzio che si è scelta o che l’ha posseduta dall’esterno fino a che lo sguardo acuto e intenso di Pauline la trova, la riconosce e la accompagna verso una nuova se stessa.

Nella sua ultima opera cinematografica Alina Marazzi propone spaccati di esperienze di maternità presenti e passate, reali e immaginate, ma comunque vere come lo sono le donne intervistate e fotografate e come lo è la complessità di una condizione concretamente vissuta, l’essere mamma, che non ha nulla di scontato né di semplice o di innato.
Tutto parla di te è fatto di frammenti e per questo ricco di suggestioni. Come già fatto nei lavori precedenti (Un’ora sola ti vorrei; Vogliamo anche le rose), la regista ha intrecciato fiction e documentario, ma questa volta affida alla prima la parte principale e il compito di raccontarci qualcosa, mentre attribuisce al secondo l’importante ruolo di arricchire di scorci di un passato e di un presente vissuti la storia narrata. Altri frammenti sono costituiti dallo sporadico e suggestivo utilizzo dell’animazione (realizzata da Beatrice Pucci) che plastifica la famiglia ideale tradizionale, enfatizzando il carattere fittizio di tale rappresentazione troppo dura a morire mentre, contemporaneamente, fa calare una cappa d’inquietudine sulla favoletta della famiglia felice.

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Turba, in effetti, vedere la figura sagomata in gonnella anni ’50 chiudere, una volta che il papà e la figlia maggiore escono per la loro giornata dopo una perfetta colazione e una carezza amorevole sulla fronte, le persiane davanti a noi, lasciandoci fuori mentre lei rimane da sola, in casa, a badare al neonato che strilla. L’animazione è allora portatrice di molteplici significati. In parte è flashback della tragedia nascosta nel passato di Pauline; in parte è denuncia della mancanza di rappresentazione di che cosa voglia dire essere mamma a tu per tu con un altro essere pieno di esigenze e che dipende totalmente e per tutta la vita da te; in parte è uno slancio positivo, sul finale del film, quando rappresenta tutti i componenti della famiglia assieme e include il papà nel rito di messa a nanna dei figli. Le presenze fantasmatiche delle fotografie d’autore (Simona Ghizzoni, Contrasto) disseminate in tutto il film sono ulteriori schegge di momenti ed emozioni. Commistione dei ricordi di Pauline e delle vicende di Emma, queste immagini sono pura comunicazione di stati di vita e stati d’animo dell’essere donna e dell’essere madre.

Ancora, la pellicola scorre su frammenti di tipo percettivo. Sguardi, respiri e gesti immersi in silenzi profondi dai quali emerge la fisicità e la singolarità dell’esperienza corporea in prima persona. C’è il suono dell’acqua della vasca da bagno, della piscina, del lago: momenti di sospensione e di solitudine, di angoscia e di quieto ascolto. A fare da contraltare a queste note sottili e intimiste troviamo il caos infestante e anonimo del traffico cittadino sovrapposto incisivamente all’inconsolabile e prorompente pianto sguaiato di un neonato. Senza tregua, senza possibilità di soluzione se non attraverso la fuga lontano dalle macchine così come lontano dalla carrozzina. E poi ancora la fisicità energica e vitale del teatrodanza che non solo è l’emblema, per Emma, di tutto ciò che lei era prima della maternità, la sostanza della sua identità ormai disintegrata, ma richiama anche l’energia di un corpo forte, deciso e sicuro nei movimenti perché perfettamente autonomo e autocentrato, per quanto parte di una compagnia. Non a caso è stato scelto un ballerino maschile per i brevi passi di danza ballati in uno dei magnifici cortili interni torinesi, unica scena affidata interamente a un uomo.

In Tutto parla di te manca una narrazione forte, alcuni passaggi sono un po’ fumosi, non tutto è pienamente analizzato, compiuto e definito, ma non son sicura che la completezza sia una valore di per sé, un obiettivo da raggiungere e un metro di giudizio adeguato. Anzi, l’incompleto porta sempre con sé l’altro da sé e l’oltre sé: domande, dubbi o spunti sollevati, porte lasciate aperte, alternative plausibili e sviluppi possibili. Il non detto dell’insieme di queste immagini, di questi suoni e di questi silenzi comunica immancabilmente proprio per l’essenzialità con cui vengono tratteggiati tanto le protagoniste quanto quei momenti della vita che ognuno conosce, ma di cui raramente si parla, in cui tutto è chiaro e tutto è gelido. Tutto è accogliente e soffocante, incredibilmente pacifico e letale. La forza del film sta proprio nella capacità della sua composizione frammentaria di aprire un varco verso la consapevolezza del fatto che questi vuoti e questi pieni, le paure e le debolezze accanto alle soddisfazioni e alle gioie che attraversano e accompagnano l’esperienza di ciascuno, riguardano anche il diventare madre. Allo stesso modo, è proficua la scelta di solamente tratteggiare la narrazione, invece di saturarla di dettagli, così come di lasciare porosi i profili e le storie delle protagoniste, anziché renderle personaggi solidi e finiti. Tutto ciò rende produttivamente difficile un’identificazione esatta con il vissuto di Emma e di Pauline, mentre contemporaneamente vengono comunicati sentimenti, pensieri, difficoltà che possono colpire personalmente il singolo spettatore e in cui ognuno può riconoscere qualcosa di sé.

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Non è certo stata la prima Alina Marazzi, a richiamare l’attenzione sulla complessità e la drammaticità della maternità reale, tutt’altra cosa da quella mediaticamente e politicamente prevalente nel paese del Mulino Bianco e della famiglia cattolica che ancora dipingono l’essere madre come l’esperienza più universale e naturale e istintiva che ci possa essere. Elif Shafak nel suo Latte nero (2010) scrive di carriera e maternità, di desideri contrastanti nell’immediato e per tutto il corso dell’esistenza, di ambizione, di ansia da prestazione, di senso di colpa e di depressione. Anche in questo caso si procede per frammenti, immagini, momenti. A volte la protagonista è Elif con le sue esuberanti pollicine interiori, a volte lo sono donne con le quali la scrittrice ha dei colloqui o che semplicemente ha osservato da qualche parte, altre volte lo sono scrittrici più o meno celebri della letteratura che sono state donne madri, donne che avrebbero voluto, ma non hanno potuto, donne che non avrebbero mai pensato, e invece…, donne e basta.

E poi c’è il recente Maternity Blues (2011) di Fabrizio Cattani in cui vengono avvicinati gli esiti più terribili ai quali lo shock e la stanchezza del diventare madri può condurre. Di nuovo non si ha a che fare con una narrazione completa: i personaggi non sono trasparenti né lo sono le loro storie, le loro relazioni con gli uomini, la loro psiche, i loro delitti. Le quattro donne protagoniste sono fortemente caratterizzate – c’è la giovane ancora bambina, la matura e saggia, la provocante e vissuta, l’emotiva acqua e sapone – , ma non prendono forma in una più densa singolarità: sono allo stesso tempo tutte le donne e nessuna in particolare. E questo è il pregio di un racconto incompleto.
La maternità non è un destino né è un istinto naturale. Non è né necessaria né automatica o semplice. Il momento giusto per avere un bambino può rivelarsi quello sbagliato così come l’imprevisto può essere la fonte di immense gioie.

Se è importante comunicare che avere un figlio non è tutto rose e fiori, che la sintonia emotiva tra i due può essere complicata, discontinua, tardiva, che insieme alla simpatia e all’amore viscerale per quell’esserino fragile e carne della propria carne si accompagnano spesso e volentieri sentimenti di ostilità, rabbia, angoscia, antipatia ancora incredibilmente difficili da confessare oggi, è allo stesso tempo importante non appiattire l’unicità di un esperienza corporea ed emotiva davvero personale in storie universalizzanti. Il messaggio del film non è infatti solamente quello di dire che esiste una vera, diffusa e più o meno profonda depressione post partum provata dalle donne che diventano madri e non si limita a palesare una certa conflittualità tra madre e figlio, ancora fortemente tabuizzata nella nostra società, che può sfociare in delitti reali. Marazzi denuncia sopratutto come sia l’assenza di una attenta e intima comunicazione tra le donne, tra queste e gli uomini, nonché tra le generazioni, il dramma principale del quale ognuno e ognuna può essere vittima al punto da esserne trasformato in carnefice. Pauline è insieme donna matura e figlia orfana. Il suo personaggio riflessivo ed empatico dà voce alle ferite di chi resta dopo il gesto disperato ed estremo di una donna madre lasciata sola e, contemporaneamente, rappresenta uno sguardo attento, discreto e solidale capace di cogliere dal primo istante la furia incomunicata di Emma, sopraffatta dalla maternità e dai cambiamenti.

A un certo punto la giovane riconosce che avrebbe potuto fare del male a suo figlio, il quale è stato per lei, per tutti i primi mesi dopo il parto, un fragilissimo estraneo, sempre presente, rumoroso e lamentoso, di cui era difficile capire i bisogni, dal quale era terrorizzata e rispetto al quale si sentiva incapace e inadeguata. “Si inizia presto a essere cattive madri” è la triste constatazione di una giovane madre intervistata. Un’altra ammette tra le lacrime e con fermezza che capisce come certe donne siano potute arrivare a fare quello che hanno fatto. Emma non vedeva suo figlio come una persona e non si sentiva lei per prima più una persona perché, come testimonia un’altra mamma “nel momento in cui non c’è soltanto l’amore è come se non ci fosse più tutto il resto”. Finché a un certo punto Emma capisce: “lui era lui e io ero io. Io sono io e posso continuare a esserlo anche con lui al fianco”. E Pauline la rincuora rispetto ai suoi dubbi atroci dicendole che non è vero che abbia corso davvero il rischio di essere violenta con suo figlio perché “tu non sei stata lasciata da sola”.

E allora, poco importa se non si capisce bene da dove arrivi Pauline e se di Emma si sappia solo che ballava e che ora non lo fa più, se manca una riflessione più profonda sul ruolo degli uomini e della paternità, se ci si perde in qualche cambio di scena o negli andirivieni tra passato e presente, fiction e documentario. Il film funziona perché smuove sentimenti e riflessioni sottili su di un tema che solo negli ultimi anni ha iniziato a essere trattato; ma funziona anche in virtù di quei frammenti compositivi, narrativi, percettivi, per niente totalizzanti e che anzi proprio in quanto tali sono in grado di comunicare a chiunque qualcosa di particolare, di intimo, di personale. È esattamente tale incompletezza a instillare nello spettatore alla fine del film un senso di fertile inquietudine che non permette di liquidare i temi trattati con i titoli di coda, e che magari li farà riemergere al rientro a casa o davanti a una sconosciuta che incespica in uno scalino con la carrozzina.

Andrea è dai pesci

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di Giacomo Sartori

Katia (fermandosi e guardando la corrente, e con voce cantilenante di bambina, quasi una filastrocca)

Andrea è dai pesci

parla con i pesci

apre la bocca come i pesci

per questo non si capisce tanto

cosa dice

i pesci fanno discorsi da pesce

se uno conosce poco la lingua dei pesci

vede solo la bocca che si apre e si chiude

pensa che giochino

a fare il pesce

quando invece le loro

sono frasi da pesci

domande da pesci

risposte da pesci

confidenze

e pettegolezzi da pesci

seriose disquisizioni

e perfino proverbi da pesci

poi quando si salutano

si dicono ciao-ciao

con la boccuccia rotonda e muta

come fanno i pesci

come adesso fa Andrea

e scivolano via

nell’acqua trasparente

 

(sullo sfondo si sente il coro di cui faceva parte Diego che canta una triste canzone della montagna, e lei per un lungo momento sta ad ascoltare; poi riprende a camminare)

 

Katia Andrea è andato dai pesci

i pescetti che nuotano dritti

muovendo solo la coda

e gli occhietti da pesce

gli piacevano troppo i pesci

andava sempre a trovarli

si alzava presto la mattina

e camminava sulle pietre viscide

con gli stivaloni fin qui

e il cappello floscio da americano

strisciava senza fare rumore

senza sparare le sue solite battute

zitto anzi come un pesce

avanzava nell’acqua gelida

l’acqua grigia e arrabbiata

vomitata dal ghiacciaio

conosceva a menadito

i vizietti e le manie dei pesci

sentiva quand’erano vicini

bisognava vederlo

quando si appostava a una pozza:

i tendini del collo tirati

le narici palpitanti

gli occhi fissi da pantera

poi ripartiva

con la canna eretta

un esile cazzetto (lo mima)

con la sua bavettina d’argento

 

(ancora il coro, ma si sente appena)

 

Katia (parlando più piano)

Quando una persona

è morta

si parla al passato

e si abbassa la voce

senza mai ridere

così tutti capiscono l’antifona

i defunti hanno le orecchie delicate

come filetti d’erba

non bisogna gridare

non bisogna svegliarli

(si mette l’indice davanti alle labbra)

 

(si sentono di nuovo le campane, e lei si stringe i palmi delle mani contro le guance, tenendo la bocca aperta, come potrebbe fare un bambino che gioca da solo; il cielo è ormai infuocato, e la luce si è abbassata)

 

Katia (sussurrando, e apparentemente più commossa)

Oggi i pesci sono tristi

tanto tristi

piangono

Andrea è andato a trovarli

canta le canzoni della montagna

e loro ascoltano

con il groppo alla gola

e gli occhioni sgranati

nessuno se ne accorge

quando i pesci piangono

le lacrime dei pesci

scivolano nell’acqua

solo i pescatori più esperti sanno

che sono salate

come quelle degli uomini

 

(questo testo è l’inizio di una trasposizione teatrale, ma forse farei meglio a dire di un tentativo di, del mio “Sacrificio“; con le solite eterne interrogazioni: “cos’è il teatro?”, “che senso ha oggi?” …; insomma, come sempre sperimentando e imparando sul campo; GS)

Note book: Sarajevo la cosmopolita

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sarajevo
Non è facile essere Sarajevo
di
Azra Nuhefendic

nota sul libro
Sarajevo la cosmopolita. Musulmani, ebrei e cristiani nell’Europa di Hitler, di Emily Greble

Non è facile essere Sarajevo: adorata, odiata, lodata, trascinata nel fango, innalzata a simbolo, definita la culla del male, bruciata venti volte, rinata, dannata e desiderata, invidiata, disertata. C’è chi le resta fedele rischiando la morte, chi scappa a ogni costo, chi ci torna per vivere, chi invece solo per morire. Tutto questo in 500 anni. Se è vero che “i Balcani soffrono di troppa storia” come ha detto W. Churchill, Sarajevo ne è la prova.
Molti si concedono il diritto di giudicarla, anche senza averci mai messo piede. Di Sarajevo ci parlano con familiarità persone che non l’hanno mai visitata o che ci sono state solo una volta, proprio come si fa con un personaggio pubblico, o un luogo famoso. Per descriverla spesso usano stereotipi, cadono nei soliti pregiudizi: “la Gerusalemme europea”, “il luogo d’incontro tra oriente e occidente”, “il simbolo della multietnicità e multiculturalità”, “la città martire”, “la culla del terrorismo”, “la Teheran europea”.

Tutte esagerazioni. L’unica cosa certa su Sarajevo è che non ci lascia indifferenti. Basta menzionare il suo nome per suscitare emozioni. Quando mi chiedono com’è, dico: Sarajevo non è bella come Roma, Parigi, San Pietroburgo o Praga. Il fascino di Sarajevo sta nella sua essenza, il che è qualcosa d’inafferrabile.
Ovviamente non sempre e non tutto quello che riguarda Sarajevo è etereo. I fatti storici, ad esempio, che talvolta confermano le emozioni, e talvolta documentano in modo inesatto la gloriosa visione della città. A occuparsi di questa città che “ha avuto il paradossale destino di essere insieme un simbolo della violenza politica e un modello europeo di cosmopolitismo e pacifica convivenza”, è il libro “Sarajevo la cosmopolita. Musulmani, ebrei e cristiani nell’Europa di Hitler” (Feltrinelli editore, collana Storie, 2012).

La storica americana Emily Greble ha frugato sette archivi di tre paesi, ha setacciato la corrispondenza delle massime autorità di Sarajevo, dai tribunali di Stato, la polizia segreta, gli eserciti e la resistenza, e ha esaminato i giornali d’epoca prima di produrre un libro prezioso per gli studiosi e molto interessante per i curiosi.
Con il suo lavoro la Greble conferma certe teorie che riguardano la città, abbatte alcuni stereotipi, chiarisce i fatti mal interpretati, svela episodi finora sconosciuti, smaschera alcune leggende metropolitane. In breve, nel libro ci sono pagine sia per chi ama Sarajevo, sia per chi l’ama un po’ meno. Ma non perché l’autrice faccia sconti (piaceri) ai suoi (come purtroppo gran parte degli storici e degli scrittori della BiH di oggi che parteggiano per uno dei loro gruppi nazionali o religiosi) ma proprio perché è super partes e, nello scrivere il saggio, la Greble segue il criterio supremo della verità.
La Greble parte dall’affermazione che durante la seconda guerra mondiale, nell’Europa di Hitler, dove il mondo multiculturale si era frantumato e ridotto in polvere, la capitale bosniaca rimase realmente cosmopolita. Negli anni novanta, mentre la Repubblica Federale Jugoslavia si disgregava, “Sarajevo guadagnava la reputazione di unico luogo di tolleranza, molteplicità e pace… Infatti Sarajevo diviene il simbolo di tutto ciò che in Jugoslavia funzionava, un emblema del multiculturalismo, nella sua accezione più positiva”.

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Secondo l’autrice l’idillico multiculturalismo di Sarajevo è sopravvissuto alle catastrofi che hanno sopraffatto l’Europa, aggrappandosi a due aspetti della cultura tradizionale della città: un sistema d’identità confessionale, che si preservava nella sfera privata, e una solidarietà locale radicata nel pluralismo politico e nella diversità culturale. Sarajevo aveva norme etiche, culturali e politiche distinte che inducevano le persone a un certo comportamento. Per essere sarajlija, cioè sarajevese, bisognava compiere atti concreti e osservare alcuni codici etici propri della città: la convivenza (zajednički život) e il buon vicinato (komšiluk).

Sarajevo sì, era cosmopolita ma questo non vuol dire che fosse vaccinata contro il nazionalismo. Era possibile essere al contempo un fervente nazionalista e un fervente sostenitore dell’identità di Sarajevo.
Durante la seconda guerra mondiale Sarajevo, come tutta la BiH, fu incorporata nello Stato Indipendente di Croazia (Nezavisna Država Hrvatska, NDH), notoriamente uno degli stati satelliti nazisti più brutali. Questo Stato Indipendente era retto dal regime ultranazionalista degli ustascia di Zagabria. Nel mirino del regime ustascia c’erano gli “stranieri” cioè gli ebrei, i serbi, i montenegrini, i russi e gli zingari.

A Sarajevo prima della guerra c’era una comunità ebraica di circa diecimila persone. Quasi tutte sono finite nei campi di concentramento. Talvolta il comportamento dei sarajevesi fu contradditorio e poco comprensibile per qualcuno da fuori. Ad esempio nel 1941 un’organizzazione musulmana diceva che “gli ebrei andavano fermati una volta per tutte” ma, allo stesso tempo, la comunità musulmana si rifiutava di boicottare i negozi ebraici. I capi musulmani e cattolici di Sarajevo sabotavano le azioni delle autorità ustascia che internavano gli ebrei, e cercavano attivamente di proteggerli attraverso la conversione. La pratica di nascondere ebrei in casa era diventata così comune che, all’inizio del novembre 1941, le autorità ustascia accusarono l’intera cittadinanza di ostacolarne le deportazioni.
Quando il regime cercò di eliminare la popolazione serba di Sarajevo, la capitale bosniaca lo mise sotto pressione, a volte disobbedendo apertamente alle direttive statali. Nel maggio 1941 i capi della comunità cattolica e musulmana chiesero al regime che i serbi “domaći” cioè di Sarajevo, fossero risparmiati dalle persecuzioni. La città si oppose anche al decreto del regime ustascia che dichiarava che i rom “non erano ariani” e che per questo dovevano essere spazzati via dalla società. Le autorità di Sarajevo consideravano i rom una parte della società ben radicata nel tessuto cittadino e protestarono contro le loro deportazioni.

Tuttavia, per ogni cittadino che aiutava i serbi, gli ebrei, o i rom, ce n’era un altro che approfittava della situazione. Alcuni leader religiosi rimproveravano i sarajlije per quel comportamento.
Sarajevo fu meno accogliente per decine di migliaia di profughi (secondo alcune stime circa ottantamila) scappati dai pogrom che i cetnici, i nazionalisti serbi, avevano intrapreso contro i musulmani (dunque, quello che è accaduto negli anni novanta, nelle stesse zone orientali della Bosnia, lungo il fiume Drina, è soltanto un déjà-vu degli anni quaranta, cioè il genocidio di Srebrenica sarebbe il lavoro non compiuto negli anni quaranta?). Le autorità cittadine vedevano i profughi come intrusi (e la stessa cosa capita oggi, ne è esempio una donna musulmana, violentata e cacciata via dalla sua casa durante l’ultima guerra, che, malgrado il suo destino, a Sarajevo è vista come una “venuta da fuori”!).
I sarajlije non amavano i profughi, giunti in città 70 anni fa, li rimproveravano di sporcare la città, temevano che potessero cambiare l’anima di Sarajevo (anche adesso, dopo l’ultima guerra si fanno gli stessi dibatti, emergono gli identici timori).

Il saggio della Greble cerca di spiegare i motivi che portarono i musulmani della BiH e di Sarajevo ad accogliere e a collaborare con il regime nazionalista ustascia e i nazisti tedeschi, e alla loro adesione alla divisione Handzar. L’autrice suggerisce un nuovo contesto per capire meglio questi fatti. A partire dal 1918 nel Regno di Jugoslavia, i musulmani bosniaci si vedevano usurpati in continuazione dell’autonomia religiosa, i proprietari terrieri venivano privati dei loro possedimenti, e la terra distribuita più spesso ai serbi venuti dalla Serbia (i veterani dal fronte di Salonicco), alcune moschee furono abbattute o trasformate in magazzini. Il peggior oltraggio fu quando il regime trasferì la sede del capo della comunità musulmana da Sarajevo a Belgrado. Per questi e simili motivi i musulmani bosniaci speravano che, con il regime ustascia e il “nuovo ordine”, la loro posizione migliorasse. Ma fu una vana speranza, e durò poco. Nel 1943 i cetnici accelerarono la loro campagna di eliminazione dei musulmani, mentre le milizie ustascia cominciarono a uccidere i musulmani con la stessa frequenza con cui uccidevano i serbi. L’unico gruppo che non uccideva i musulmani, o almeno non in modo indiscriminato, erano le forze dell’occupazione nazista.
http://youtu.be/oPHJSs1nm50
Il libro “smonta” una popolare leggenda urbana su Sarajevo come centro eroico della resistenza contro i nazisti cui contribuì uno dei film più famosi della Jugoslavia “Valter difende Sarajevo”.
In realtà pochi cittadini di Sarajevo si unirono alla resistenza. I sarajlije non vedevano grandi differenze tra i partigiani e gli ustascia. Ritenevano che entrambi fossero dei movimenti violenti, rozzi, cui aderivano soprattutto contadini.
Valter, l’inafferrabile capo della resistenza, era esistito realmente ed era il nome in codice di Vladimir Perić. Nell’ultima scena del film una spia nazista indica la città da un belvedere e, rivolgendosi a un ufficiale tedesco, pronuncia la celebre frase: “Vede questa città? Das ist Valter”. Sia Sarajevo sia Valter si erano rivelati imprendibili.
I sarajlie non si erano meritati questa fama durante la seconda guerra mondiale, ma se la sono guadagnata con il sangue, durante i quasi quattro anni di assedio, dal 1992 a 1995.

L’ultimo ballo di Charlot

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stassi di Gianni Biondillo

Fabio Stassi, L’ultimo ballo di Charlot , 2012, Sellerio, 279 pagine

 

Credo di poter dire senza tema di smentita che L’ultimo ballo di Charlot  sia il libro più sorprendente che mi sia capitato di leggere quest’anno. Da un lato per l’argomento trattato, così lontano dai classici deprimenti temi nazionali, provinciali e senza sangue, dall’altro per ambizione di voler parlare di un vera e propria icona globale senza paura di apparire inadeguato.

È una sera di Natale e la Morte va a trovare Charlie Chaplin, per portarlo con sé (già la premessa farebbe tremare le vene ai polsi a molti scrittori, non solo nazionali). Ma Chaplin stipula un patto con lei: se, con un suo lazzo, riuscirà a far ridere la Vecchia Signora si guadagnerà un anno di vita, il tempo, insomma, di scrivere una lunga lettera al figlio ancora troppo piccolo. Come è prevedibile grazie a questo stratagemma riuscirà a farla franca e a vivere ancora per molto tempo.

Quello che resta a noi lettori di questo patto reiterato di Natale in Natale con la Morte è il libro di Fabio Stassi: la più infedele delle autobiografie e il più credibile e realistico romanzo su Charlot. La scrittura di Stassi è alta, continuamente venata di note malinconiche, proprio come nelle comiche del piccolo vagabondo, e gioca di continuo con l’immaginario collettivo che ricompone per noi le parti del puzzle mancanti, o che ricollega le citazioni occulte continuamente disseminate nel testo.

Non ha nessuna importanza sapere se quello che leggiamo sia vero, né se sia falso. Ne accettiamo la magia, come di fronte ad un prestigiatore. L’ultimo ballo di Charlot è un romanzo sulla creazione del mito: quello della frontiera americana, del circo, della nascita del cinema, dei suoi paladini. È un lungo e accorato lavorio sul tema della memoria condivisa e su quali mitologie sia sorto il secolo che abbiamo lasciato alle spalle, il Novecento. Secolo di miserie e di speranze, illusorio come i fasci di luce proiettati su un telo bianco. Secolo del cinema, più vero della vera vita.

 

(pubblicato su Cooperazione, n° 52, del 24 dicembre 2012)

Acquabuia

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porticina testo e foto di Francesca Matteoni

 

QUESTO È IL MIO CUORE

Questo è il mio cuore cucito.

Nella cucina di notte
sul ripiano che porta alla stufa
mi rannicchio e cucio
piccole tigri dormienti
nella sua valvola rotta.

Filo di foresta dalla finestra sporca.
Ci sono molti strati di sonno
qua sopra –

ciglia che cadono sugli occhi
dal pelo delle tigri.
Luce che sfrigola, ringhia –

il cuore è interrato
nel congelatore.
Non lo puoi aprire.

Ha un gomitolo di ghiaccio
nella coda.

Quando lo guardi
lo vedo.

Sette testi

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di Mariangela Guàtteri

1996 Senza titolo

Da Il secondo nome, Arcipelago, 2012.

:1 2
esplorazione. lui era dappertutto? nome. una più generazioni. estremo. sfiorano poi lampi. bisnonno tubetto passato se sala mercati poteva marcare inciampando, poteva vento, qualche spesso male. arrampicava le sfuriate dei modelli – allora del grottesco inventato volgare aveva nome fino. dio ci vuole. cura dopo: di spalla eterno.

:3 1
sciamano infine della scelta anche grigia. la ascolta, vede gesto bello levare col mantice e nome attaccato. prima in girare impazzisce, più doppia, disperata. essere piega non basta. fronte: ritorna testo tanto sepoltura.

:4 3
arresto bocca confine. senza. è tutto genetico. tanto pudore. Prima da là ostinati, gli show a testa. Padre: riposo: cagarti troppo dentro: giuda. avevano – sussurra – dello scrivere. secondo vivo, sì occhi, lì mantice, sparpaglia corpo: ritrovare anche gambe tue. e o è del resto. (sfilò mezza camera e contro in questa) è questo farti festa una tristezza un vivo, un tantino dispersi alzando più mondo: doppia tutti che un primo – mutilandoti – un irriducibile far caso: (prepotenza e panico) famiglia. comincia gesto non specchio (antenati).

:7 4
più medio e confine, quasi attaccato quello serpeggiare contro; avrebbe imbarazzo. Bella ascolti? Secondo giudizio: testa – era vivo – tutta di crimine: questa era avanti, di contrario. nessuna madre, era due e il più su brandelli di sangue arte rimane, e ancòra finché debolezza d’attesa del padre. Volere nome non non colpe. Dopo sì:

:11 7
bucato nome macchina tanto colui da zigomi cose con mazzi, era fianchi al più. magari! (è sì è silenziosa) quella voce ne aggrappa e il secondo omonimo di quello lungo convalida vuoti di parola. modificato. grandi schieramenti, vite, un ingrassare polmoni. il suo plastica del tutto definitivo: una fa e poi una striscia.

:18 11
la marcatura del nome – veduta la carta –tutto sul decente, una faccia mezzo cosa: vede secondo una. non più. lo leva secondo presunzione: celati ai numeri: informazionee tradizione: è non: sentiva agguato: può addosso, collo dentro, sfiancarti: nome modo fisica. (informazioni di scrittoio)

:29 18
quadernetto: uno stato di lacrima protettivo. segna la serie, annota. rintracciare a e a congedo: parlanti dentro la cosa d’incanto – si resta meglio – (vedi: corrosivo) (ostentata) (un trascorso ritorna): padre? prima alzate; rilassare spalle; diverso non duri. continuare.

(Immagine: Mariangela Guàtteri, Senza titolo, 1996, Courtesy Michele Zaffarano.)

Para no morir de hambre en el arte: Raul Zurita

3

2.raul-zurita
Purgatorio di Raul Zurita
di
Antonio Arévalo

La dittatura di Augusto Pinochet operò nel paese una cesura drammatica nell’evoluzione dell’arte e della cultura. La repressione, il controllo sulle istituzioni culturali e sull’istruzione, la scomparsa o l’esilio di intellettuali, furono alcuni dei fattori che interruppero violentemente i percorsi della cultura e furono il detonatore per nuovi processi artistici. Questo periodo storico riguarda l’affermarsi in Cile di poetiche postmoderne e neoavanguardiste, che segnano l’arte che ha inizio durante il regime militare.
Si differenzia per le sue trasgressioni concettuali, le fratture nel linguaggio e l’esplorazione di nuove forme e generi (la performance, gli interventi urbani, la fotografia, il cinema, il video, etc.), puntando al contempo a rinnovare il lessico artistico e culturale; estese i supporti tecnici dell’arte al corpo vivo e alla città: che respingeva la censura imposta al linguaggio parlato e scritto, e la città come un paesaggio le cui abitudini percettive e comunicative si ritrovavano fugacemente alterate da un vibrante gesto di disobbedienza all’inquadramento militarista che cercava di omologare il quotidiano.
4.CADA
In questo contesto nel ’79 emerge il lavoro del Colectivo de Acciones de Arte (C.A.D.A.), che ideava strategie per prendersi gioco della censura degli apparati repressivi e fare arte. Realizza il primo lavoro, “Para no morir de hambre en el arte”, seguendo un orientamento artistico che resignifica, nel contesto della dittatura, il duplice anelito avanguardista della fusione arte/vita e arte/politica. Per il gruppo C.A.D.A, così come l’arte esce dai binari dello specifico istituzionale per dissolversi nel suo ambito, l’immagine dell’autore perde i tratti individuali fino a perdersi, moltiplicata nell’anonimato: “ogni uomo che lavora per l’ampliamento, anche se mentale, è un artista”, annuncia il pamphlet che sei piccoli velivoli fecero cadere sulla città di Santiago durante l’azione “ay Sudamérica!!” (1981), riprendendo il concetto del tedesco Wolf Vostell, che definisce l’artista “operaio dell’esperienza” e l’arte “vita modificata”.
Zurita è considerato uno dei più radicali di questo gruppo. Esegue varie azioni usando il corpo come un mezzo di espressione,: ammoniaca gettato negli occhi, o il bruciare la propria guancia con un ferro caldo. Ha anche condotto una performance masturbatoria nei confronti di un dipinto di Juan Davila.

In questo contesto viene pubblicato il suo libro “Purgatorio”, producendo un vero terremoto nel panorama non soltanto letterario. Da li in poi la poesia cilena pressi un altro cammino. L’epicentro Zurita si presenta davanti a noi con tutte le sue fratture, le sue ferite, per ricucire e ridare alla storia la possibilità che ci fossi un’altra storia: una mutilazione volontaria, una rassegnazione, e a una donazione, una dolorosa identificazione collettiva.
Da questo momento, effettuato varie attività volte a integrare l’arte e la estendere in modo critico e creativo le diverse concezioni di arte e di vita.
Nel 1982, il suo lavoro creativo assume un nuovo passo avanti con “la vita nuova”, poema, scritto nei cieli di “New York, con un aereo che scrive col fumo. Questa creazione è composta di otto frasi di quindici miglia di lunghezza, in spagnolo. Un’altra azione è stato quello di tradurre nel deserto del Cile il versetto “Né pietà, né paura”, nel 1993, in modo che possa essere letto dal cielo. Queste azioni sono il tentativo di superare il tradizionale concetto di letteratura, di avvicinarlo all’arte totale.
5.Ni_pena_ni_Miedo-600x435

Titolo: “Per non morire di fame nell’arte”. [N.d.T]

IL DESERTO DI ATACAMA
di
Raúl Zurita

CHI POTREBBE L’ENORME DIGNITÀ DEL
DESERTO DI ATACAMA COME UN UCCELLO
SI INNALZA SOPRA I CIELI APPENA
SOSPINTO DAL VENTO

I

ALLE PIANURE IMMACOLATE

i. Lasciamo passare l’infinito del Deserto di Atacama

ii. Lasciamo passare la sterilità di questi deserti

Perché dalle gambe aperte di mia madre si
innalzi una Preghiera che incroci l’infinito del
Deserto di Atacama e mia madre non sia allora se non
un punto d’incontro sul cammino

iii. Io stesso sarò allora una Preghiera trovata
sul cammino

iv. Io stesso sarò le gambe aperte di mia madre

Per quando vedrete alzarsi davanti ai vostri occhi i desolati
paesaggi del deserto di Atacama mia madre si concentrerà
in gocce d’acqua e sarà la prima pioggia sul deserto

v. Allora vedremo apparire l’Infinito del Deserto

vi. Rigirato da se stesso fino a sbattere sulle gambe
di mia madre

vii. Allora sopra il vuoto del mondo si aprirà
completamente il verdore infinto del Deserto di
Atacama

IL DESERTO DI ATACAMA II

Eccolo Eccolo
sospeso in aria
Il Deserto di Atacama

i. Sospeso sul cielo del Cile diluendosi
tra aure

ii. Trasformando questa vita e l’altra nello stesso
Deserto di Atacama auratico perdendosi nel-
l’aria

iii. Finché finalmente non ci sarà cielo ma Deserto
di Atacama e tutti vedremo allora le nostre stesse
pampas fosforescenti velami innalzarsi al-
l’orizzonte

IL DESERTO DI ATACAMA III

i. I deserti di atacama sono azzurri

ii. I deserti di atacama non sono azzurri sì sì dimmi
quello che vuoi

iii. I deserti di atacama non sono azzurri perché per di
là non volò lo spirito di G. Cristo che era un perduto

iv. E se i deserti di atacama fossero azzurri ancora
potrebbero essere l’Oasi Cilena perché da tutti
gli angoli del Cile contenti vedeste fiammeggiare per
l’aria le azzurre pampas del Deserto di Atacama

IL DESERTO DI ATCAMA IV

i. Il Deserto di Atacama sono puri pascoli

ii. Guardate quelle pecore correre sui pascoli del
deserto

iii. Guardate i loro stessi sogni ballare laggiù su quelle
pampas infinite

iv. E se non si sentono le pecore ballare nel Deserto
di Atacama noi siamo allora i pascoli
del Cile perché in tutto lo spazio in tutto il mondo
in tutta la patria si senta ora il ballo delle nostre
stesse anime su quei desolati deserti miserabili


IL DESERTO DI ATACAMA V

Dillo tu il fischiare di Atacama
il vento cancella come neve
il colore di questa pianura

i. Il Deserto di Atacama ha sorvolato infintà di
deserti per essere lì

ii. Come il vento sentitelo passare fischiando tra il
fogliamo degli alberi

iii. Guardatelo trasparire laggiù e accompagnato solo
dal vento

iv. Attenzione però: perché se alla fine il Deserto di
Atacama non fosse dove dovrebbe essere il
mondo intero comincerebbe a fischiare tra il fogliame
degli alberi e noi ci vedremmo allora
nello stessissimo mai trasparenti fischianti
nel vento inghiottendo il colore di questa pampa

IL DESERTO DI ATACAMA VI

Non sognate le aride pianure
Nessuno ha mai potuto vedere
Quelle pampas chimeriche

i. I paesaggi sono convergenti e divergenti nel
Deserto di Atacama

ii. Sui paesaggi convergenti e divergenti il Cile
è convergente e divergente nel Deserto di Atacama

iii. Per questo ciò che è là non è mai stato là e se quello
fosse ancora dov’è vedrebbe rigirare la sua stessa vita
fino a essere le chimeriche pianure desertiche
illuminate svanendo come loro

iv. E quando verranno a dispiegarsi i paesaggi
convergenti e divergenti del Deserto di Atacama
tutto il Cile sarà stato l’aldilà della vita perché
in cambio di Atacama si stanno distendendo come
un sogno i deserti della nostra stessa chimera
là su queste piane del demonio

IL DESERTO DI ATACAMA VII

i. Guardiamo allora il Deserto di Atacama

ii. Guardiamo la nostra solitudine nel deserto

Perché desolato di fronte a queste facce il paesaggio divenga
una croce distesa sul Cile e la solitudine della mia faccia
veda allora il redimersi di altre facce: La mia stessa
Redenzione nel deserto

iii. Chi direbbe allora del redimersi della mia faccia

iv. Chi parlerebbe della solitudine del deserto

Perché la mia faccia cominci a toccare la tua faccia e la tua faccia
quest’altra faccia e così finché tutto il Cile non sia che
una sola faccia con le braccia aperte una lunga faccia
coronata di spine

v. Allora la Croce non sarà che l’aprirsi delle braccia
della mia faccia

vi. Noi saremo allora la Corona di Spine
del Deserto

vii. Allora inchiodati faccia con faccia come una Croce
distesa sul Cile avremo visto per sempre
il Solitario Spirare del Deserto di Atacama

EPILOGO

COME UN SOGNO IL FISCHIO DEL VENTO
ANCORA PERCORRE L’ARIDO SPAZIO DI
QUELLE PIANURE

Purgatorio di Raúl Zurita è uscito in Italia presso l’editore Raffaelli di Rimini (traduzione di Claudio Cinti). Il volume inaugura la collana POESÍA diretta da Carmen Leonor Ferro, dedicata a noti autori ispanoamericani.

RAÚL ZURITA5.Ni_pena_ni_Miedo-600x435 
è nato a Santiago in Cile nel 1950, da madre italiana. Dopo gli studi liceali iniziò a studiare matematica all’università laureandosi in ingegneria civile, ma ben presto si dedicò completamente agli studi letterari. La sua opera è fortemente segnata dalla dittatura militare instaurata dopo il golpe dell’11 settembre 1973. Militante comunista fu arrestato, torturato e detenuto a lungo. In seguito farà parte del gruppo CADA (Collettivo d’azioni artistiche) e parteciperà a diverse iniziative e performance provocatorie. 
Tra il 1979 e il 1994 scrive la trilogia Purgatorio (1979), Anteparaíso (1982) e La Vida Nueva (1994), dove attraversa i paesaggi più diversi: montagne, spiagge, fiumi, deserti… L’opera è considerata tra le più importanti della sua produzione poetica. Nel 1989 riceve il premio Pablo Neruda. Si allontana dal Partito comunista e nel 1990 viene nominato addetto culturale presso l’ambasciata di Roma e più tardi, durante il governo di Eduardo Frei, entra al Ministero delle Opere Pubbliche e si dedica all’insegnamento universitario. 
Nel 2000 pubblica Poemas militantes e Sobre el amor y el sufrimiento; lo stesso anno riceve il Premio Nazionale di Letteratura del Cile e nel 2006 il Premio di Poesia “Josè Lezama Lima” per il libro INRI (Visor, Madrid, 2004). Nel 2006 pubblica Los Países Muertos e nel 2007 dà alle stampe in Messico Las ciudades de agua e Cinco Fragmentos. Durante il 2008 continua a pubblicare parti della sua voluminosa opera inedita Zurita, con la quale vuole chiudere il ciclo del Purgatorio.

Lastra

18

fratelli e sorelle

di Andrea Inglese

Parliamo di quello che avviene esattamente nelle cose, nella vita delle cose, parliamo della vita, come scivola, così, come s’indurisce, come scatta tra le cose, come i gatti, come quando saltano attraverso le sbarre di un cancello o da un muretto all’altro, che sembrano prima fermi, di creta o altro materiale inerte, e poi scattano, saltano fuori dalla forma, rompono la forma, la posa, la moltiplicano, si moltiplicano, così bisogna fare, vedere bene, anzi parlare bene di come le cose escono dalla forma, o come le cose accolgono lo scatto delle persone, le persone che come gatti scattano, e sembravano in posa, sembravano persone fatte e finite, persone chiuse in posa, e invece si moltiplicano, se ne vanno, si disperdono, come stare dietro a tanto?, vero è il problema, irrisolvibile a chiederlo, ma fallo, unico modo farlo, dire di adesso, di quando si rompe la posa, ma è costantemente rotta, spezzata, si viaggia in questa grande crepa che si allarga, ma poi si dice basta, prima parte finita, la discesa è finita, e uno si siede, si siede dietro una scrivania, ha una sedia per sedersi, e uno stipendio per stare seduto in posa, o alzato, dentro una serie di pose, anche con lo scatto, ma con lo scatto a molla, come il lavoro operaio, o manuale, o muscolare, si va e si torna, ci si moltiplica ma dentro, dentro quella posa, finalmente qualcosa che tiene, che tiene fermo, fisso, una parte è fissa, ma che lenta conquista, che lenta devastazione, ogni volta il ritorno, la ritrovata posa, l’essere dove si doveva essere, e quindi stare dentro una parola, un compito, come una bandiera addosso, una segnalazione, un colore, che tutti vedono da lontano, e starsene lì dentro, calmi, anche se muscolarmente attivi, anche se in continuo scatto, quella distruzione buona dello stare dentro, della forma che ritorna, che ricade, come una lastra, ma poi si dice ho fatto questo, io sono questo, ho costruito questo, questa posa, di padre in figlio, di madre in figlio, la posa del tranviere, la posa del dottore, la posa del riempire buche, la posa del dire bugie al telefono, la posa di registrare e filmare, tutti sotto lastra, a farsi imprimere, un po’ tombale, anche impressionati, impressi, conquistata impronta, sembriamo noi, ma forse è solo la lastra, un po’ mortale, così pesante, così precisa, spessa.

°
[Foto dell’autore in guisa di figurine]

Goodbye Tom

1

Tom Beardmore

di Carlo Ruggiero (foto di Matteo Di Giovanni)

Questa strada non esiste. Sulle cartine non c’è, non ha guardrail e neppure un nome. Però, all’inizio, c’è un cartello che la indica come l’unico percorso possibile per raggiungere il «Monumento per la pace». Anche se non è stata mai asfaltata, oggi a ricoprirla c’è un cemento polveroso e biancastro che la rende accessibile a qualunque mezzo di trasporto. In alcuni tratti, poi, la carreggiata è abbastanza larga da consentire addirittura il passaggio di due macchine in senso opposto, mentre in altri bisogna alternarsi.

I giorni con la doccia e i giorni senza la doccia

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di Pino Tripodi

Le ultime parole di Babele
Le ultime parole di Babele

Ci sono i giorni con la doccia e i giorni senza la doccia.
I giorni con la doccia mi alzo tentoni ignudo occhi semichiusi, barcollo ricurvo incespicando finché con fatica e molto soffrire mi faccio largo verso il bagno. Mi sento affiorare tutti i dolori della depressione fisica che incombe non potendomi colpire la depressione mentale, quella no che non mi può colpire altrimenti come farei ad andare a lavorare ecco spiegato scientificamente perché i poveri che lavorano hanno le depressioni fisiche anziché quelle mentali ma quando non trovano più un lavoro o quando smettono di lavorare o diciamo pure quando pur lavorando dalla mattina alla sera di notte giorni feriali e festivi non hanno mai neanche due monetine con cui farsi rumore nella tasca dei pantaloni vicino alle zone intime naturale che la depressione fisica si trasformi in depressione mentale e allora diventano pazzi di testa.

Un grandangolo deforma leggermente ai lati l’espressione attonita di Mario e Cristina

2

(Un altro piccolo estratto da una cosa lunga che vado scrivendo da tempo)

di Giuseppe Zucco

Uno stencil, Parigi
Uno stencil, Parigi

Un grandangolo deforma leggermente ai lati l’espressione attonita di Mario e Cristina. Il fucile puntato di un microfono allinea il loro silenzio. Una giornalista molto pettinata e truccata più del dovuto, intimando all’operatore di riprenderla esclusivamente dal lato sinistro, con un sorriso di circostanza e un’aura che circonda tutta la sua figura – una materia instabile che potrebbe da un momento all’altro sciogliersi in una cascata di microscopici brillantissimi pixel – chiede ai due ragazzi cosa ne sanno loro della parola amore e in che modo i giovani oggi parlano d’amore racchiusi dentro la piccola fortezza di una coppia.
“Nomignoli?”, dice la giornalista.
“Vi date dei nomignoli?”, dice.
La giornalista ha i jeans aderenti strappati sul ginocchio. Il naso, di una simmetria soprannaturale, arte concettuale più che cartilagine, è il centro dell’attenzione.
“E il sesso orale?”.
“Quante volte a settimana?”.
L’operatore avvisa che c’è stato un problema audio, uno scroscio, sulla domanda. La giornalista lo guarda come si guardano le formiche, in fila indiana, sulle mattonelle di casa, prima di soccombere all’istinto di schiacciarle.
“E nel caso aspettaste un bambino, lo vorreste?”.
“Lo terreste con voi?”.
Mario e Cristina la guardano. La telecamera, non le domande, li mineralizza. Fossili, mica esseri umani. Echinodermi rivestiti di calcare come quelli che si studiano a scuola. Una scena muta tecnicamente perfetta. Almeno fino a quando Mario, non sopportando più lo sguardo tassonomico della giornalista – come se loro due fossero gli esemplari di una nuova inquietante specie di difficile catalogazione se non per le abitudini sessuali e la connessione wireless – butta lì con supremo distacco che hanno già un bambino, che presto ne sforneranno un secondo, che niente e nessuno impedirà loro di registrarlo all’anagrafe con il nome di Marty McFly, il protagonista del migliore film di tutti i tempi.
Poi Mario dice Ehi, guarda, indicando un punto indefinito sopra le loro teste. La giornalista si volta, l’operatore vira meccanicamente l’occhio della telecamera, Mario prende Cristina per mano e inizia a correre, infilando in volata la strada, un vicolo anonimo saturo di vetrine minimaliste, bianche perlopiù, con un solo capo in vista, sebbene non avesse la minima idea di dove andare a parare.
La giornalista e l’operatore, sciolto l’inganno, tengono il passo, veleggiando nella loro scia, la velocità di crociera smorzata dai tacchi (lei) e dal peso della telecamera (lui), urlando ai ragazzi di fermarsi, una domanda, un’altra ancora – ma se la giornalista è una cacciatrice di animali esotici, e quella corsa il completamento imprevisto di un safari, Mario e Cristina sono due felini ormai lontani, le cui macchie del manto continuano a galleggiare nell’aria solo per un effetto ottico.
Sbucano su una strada, ne infilano un’altra. Con il respiro rotto, voltandosi indietro, non trovano alcun retino televisivo a caccia del loro isterico e inutile battere di ali – si fermano. Piegati in due, Mario tiene l’equilibrio appoggiandosi a Cristina, e viceversa. Potrebbero essere appena scampati a una retata di polizia, o essere arrivati senza fiato al punto in cui si concludono gli scippi, o ancora essere inseguiti da uomini bene in carne e con la fedina penale adeguatamente annerita che starebbero per materializzarsi da dietro l’angolo, o con più disperazione i due  potrebbero avventarsi e accanirsi sul primo passante disponibile per ripianare simbolicamente un torto appena subito – la gente non gli passa accanto, fa tutto un giro complicato e ridondante, attraversando dall’altra parte della carreggiata, pur di non sfiorare quelle due masse umane scosse dall’accelerazione cardiaca.
“Non ti bastava un figlio?”, dice Cristina.
“Mi piaccio le famiglie numerose”, dice Mario.
“E i nomi li decidi tu?”.
“Marty McFly non va bene?”.
“Perché non Jack lo Squartatore, allora?”.
“Potrebbe essere un’idea”.
“Oppure Marilyn Manson, no?”.
“Hai la mia approvazione”.
“Mario”.
“Sì”.
“Io chiedo il divorzio”.
“Finalmente”.
Le nubi di una crisi matrimoniale si addensano e svaniscono sopra le loro teste. Mario verifica la tenuta dei suoi undici decimi, impigliando lo sguardo dove possibile, mettendo a fuoco punti anche molto distanti, la vetrina dietro cui leccatissimi trentenni con il bicchiere in mano esauriscono la vena aurifera dei recipienti di nachos, il tronco obliquo di un albero con alcune chiazze grigie a forma di madonnina, due stencil – uno bianco e nero di Gary Coleman, il protagonista de Il mio amico Arnold, eternamente bambino, uno verde fosforescente con le guance incavate dell’ultimo identikit di un pericoloso latitante, entrambi evaporati dal mondo e comunque presenti sui muri di Milano – tutto pure di non voltarsi e avere la conferma che Cristina, al pari degli avvocati, e dei due colpi sordi martellati dal giudice in pectore, sia sparita insieme ai titoli di coda della serie televisiva appena andata in onda in un punto imprecisato dei suoi emisferi cerebrali, una serie così piatta e sentimentalmente trita da chiudersi sul primo e unico colpo di scena della stagione, quel divorzio.
Cristina dice che non divorzierà mai, perché non si sposerà mai, questo sia chiaro. Mario, con fare scocciato, dice che non è nei patti. Se ricorda, l’illuminazione era balenata la più lunga delle notti passate a scambiarsi emoticon e file musicali. Tre giorni dopo il primo incontro, senza l’ingombro di centinaia di parenti e amici di famiglia, si sarebbero sposati, nella prima chiesa, anche metodista, dove capitava. Poi avrebbero speso il resto della vita a conoscersi e avvelenarsi, mandarsi a fanculo e porgersi il termometro con il mercurio già abbassato, viaggiare tipo in Giappone e fare carriera in una qualche multinazionale, guardare i film pirata in streaming abbracciati sul divano e tradirsi ripetutamente lasciando le prove del tradimento allo scoperto, scoparsi in piedi in cucina e mettere al mondo una genia a questo punto decisamente mora ma né troppo alta né troppo corpulenta che un giorno avrebbe sospinto la loro carrozzina di vecchi catorci sconclusionati lungo un corridoio di linoleum lucido e senza quadri alle pareti.
Nightmare finisce con più speranza”, dice Cristina.
“Anche con il catetere sarai bellissima”, dice Mario.
Cristina unisce le labbra, Mario segue lo stato-nazione del pudore estendere autorità e influenza oltre i propri confini, dalle guancie agli zigomi ai lobi delle orecchie, come se qualcosa le avvampasse dentro, di certo non l’innocenza, o ciò che ne resta, la colomba ha già spiccato il volo da quel ramo.
Del resto, né bellissima, né la più bella in assoluto: Mario, approfittando della momentanea superiorità, gira intorno a Cristina, le dita a rettangolo, facendo finta di scattare foto, impressionando la superficie del nulla della rosa allargata dell’imbarazzo, e quindi del viso di Cristina, della leggerissima asimmetria che sposta a sinistra l’equilibrio dei suoi lineamenti. Per quanto impercettibile, è l’unico difetto che Mario riconosca a Cristina, difetto in virtù del quale la realtà è reale e i palazzi si allungano al cielo e le macchine si accodano sui sanpietrini e un gruppo di universitari si dà appuntamento sui navigli e Cristina si schermisce con la mano come per evitare che fosse immortalata sul serio e il tempo rallenta in modo da riuscire a piegarlo e riporlo con estrema cura nei cassetti della memoria e i sentimenti, perfino quelli tragici, i più patetici, il sentimento del disastro della propria epoca, sono accolti e interiorizzati con una letizia scevra di rassegnazione che rintoccherà due o tre volte in tutto nella vita.

[La foto dello stencil è tratta da qui]

Quello che fa rima con “dignità”

0

Guardare e ascoltare Stefano Rodotà è ricostituente (vedi alla voce “Costituzione”). Qui potete seguire tutta la manifestazione al Teatro Eliseo il 2 maggio 2013.


Le storie de Lo Sconosciuto

1

sconosciutoraccontacover-crop-200x299Di Mauro Baldrati

Lo Sconosciuto racconta, prefazione di Luigi Bernardi – Rizzoli Lizard pp 158 a colori – euro 20

Lo Sconosciuto, Unknow “senza la n finale” come deve precisare spesso, è forse il personaggio più forte, e più longevo, di uno dei maestri del fumetto, non solo italiano: Roberto Raviola, in arte Magnus. Il quale peraltro ha creato altri eroi-antieroi come Kriminal, Satanik, Alan Ford, Necron, I Briganti. Ma nessuno di questi ha ricevuto un’attenzione così meticolosa, così appassionata, come “il viandante” ex legionario, avventuriero, contractor, guardia del corpo, che negli anni ’70 e ’80 percorre le zone calde del pianeta passando da un’avventura all’altra, da un pericolo all’altro, da una sconfitta all’altra. E dire che si tratta di una miniserie: nato nel 1975 per la Edifumetto di Renzo Barbieri, Lo Sconosciuto si conclude nel 1976, con sei avventure. Poi Magnus lo riporta in vita nel 1982, sulle pagine di Orient Express, fino al 1984. In seguito è stato più volte revisionato, rimontato, ripubblicato, da Granata Press, Einaudi, Edizioni Grifo, e Rizzoli Lizard, con un albo risolutivo del 2012.

Unknow ha superato indenne il trascorrere del tempo, a differenza degli altri personaggi, i quali, benché amatissimi dai lettori di Magnus, restano prigionieri del loro periodo, coi suoi eccessi, le sue ingenuità, i suoi specialismi. Invece Lo Sconosciuto sembra sempre attuale, anche se non ci sono i computer (a parte l’apparizione di un “micro-Spectrum a 48 byte” in L’uomo che uccise Che Guevara), o i telefonini, e le auto sono tutte d’epoca. Perché? E’ un antieroe per eccellenza: poco o per nulla romantico, non è un seduttore, non incarna i desideri di vittoria dei lettori, ma è spesso un perdente: se riesce ad arraffare un buon malloppo, quasi sicuramente lo perde, oppure lo dona a chi ne ha bisogno: gli sfruttati, gli sconfitti, gli umiliati. Per parafrasare Benjamin, è “il combattente sentimentale nell’era del capitalismo avanzato”. Infatti se non è romantico, dietro la sua faccia dura, dietro la maschera cinica e spietata, covano sentimenti veri: la generosità, la compassione, la difesa dei deboli. Lo Sconosciuto, con la sua forza, col suo cinismo sentimentale, con le sue crisi, incarna l’archetipo dell’uomo moderno, sempre minacciato, sempre in gioco. Forse è questo il vero motivo della sua longevità.

Sconosciuto dendera-250x326Questo nuovo albo è un compendio di storie e di grafica. Contiene due episodi dove Unknow non è protagonista, ma narratore: Una partita impegnativa, apparso nel 1981 come inserto al Resto del Carlino, narra della “filiera” completa dell’eroina. Si va dalla coltivazione dell’oppio in Turchia al viaggio a dorso di cammello attraverso la Siria, fino allo smistamento a Marsiglia della morfina raffinata, e alla distribuzione sul grande mercato americano, con la longa mano della mafia. Il volo del Lac Leman è una “normale” vicenda di terrorismo, con un aereo dirottato e l’intervento delle forze speciali. La banalità del terrorismo, della follia e della violenza. Scritte e disegnate trent’anni fa, sono storie molto attuali. Magnus offre una delle sue migliori carrellate di personaggi grotteschi, feroci, realistici, con le predilette ambientazioni esotiche, i deserti, le città arabe che grondano cultura antica, benché sventrate dalla speculazione e dall’ingordigia degli uomini.

Poi ci sono vent’anni di copertine de Lo Sconosciuto, una intervista dove Magnus si spende con aneddoti e riflessioni su se stesso e sui personaggi, molti bozzetti inediti e la sceneggiatura originale, manoscritta, di un’avventura rimasta sulla carta, Socco Chico. E’ una vicenda ispirata a una storia realmente vissuta dall’autore bolognese nel mercato di Tangeri, “un luogo complesso e complicato, pieno di gente che viene e che va.” Proprio a due passi dalla casa di William Burroughs, un altro autore di culto contro il quale l’ossido del tempo e delle mode sembra del tutto inoffensivo.

[su Lo Sconosciuto vedi anche questo articolo di Mauro Baldrati pubblicato su Carmilla – jr]

Note- Book : Will Self e Mischa Berlinski

2

lavoro-culturale-maggio
L’antropologia degli scrittori
di
Carlo Capello

Nonostante notevoli eccezioni, l’antropologia culturale ha intrattenuto un rapporto ambiguo nei confronti della letteratura, disconoscendo non di rado la propria parentela con la narrazione e la poesia allo scopo di legittimarsi in quanto scienza, con tutti i rischi del caso.

Economia domestica

2

di Andrea Amerio
(per proseguire la collaborazione con Il Primo Amore.)
Dove sono stato tutto questo tempo? In esilio, ovvio. Dove? A Malta, uno sputazzo bollente nel Mediterraneo. Che cosa ho fatto? Ma quello che di solito fanno tutti gli umanisti esiliati nel cuore del Mediterraneo: studiare gli strumenti finanziari.
Sì lo so, lo spettacolo è nauseante, ma bisogna farsi forza.

Leggevo tra le notizie di giovedì 22 novembre 2012 che, dopo le pressioni dei grandi istituti di credito italiani, il governo tecnico ha deliberato: niente imposta sui derivati.

Telemachia

10

di Daniele Ventre

Sull’orizzonte non c’è che un bagliore rosso di sangue
a ricordare la guerra che è stata e gli incendi lontani
e le città rovesciate e le grida: il sogno di pochi
sulle macerie di troppi. I corvi hanno ricco banchetto:
certo perfino gli dèi sono sazi fino a morire,
delle volute di fumo dai roghi. Ogni tanto c’è un rogo:
fuochi per lutto o magari per vittime, che i sacerdoti
sgozzano lungo la riva del mare o su un picco di monte.

Zero maggio

6

PrimoMaggio

di Gianni Biondillo

Alfonso abitava al sesto piano della torre a stella dove vivevo anch’io da ragazzo, a Quarto Oggiaro. Era un operaio dell’Alfa Romeo; si divertiva a raccontarmi di quando era partito da Napoli neppure ventenne e appena sceso alla stazione Centrale di Milano guardandosi attorno si disse, convinto: “questa è la mia città”. Trovò quasi subito lavoro in fabbrica. Il suo caporeparto gli parlava in dialetto milanese e si incazzava se Alfonso (Rossi, un cognome che pare già un luogo comune) faticava a comprenderlo. Per par condicio lui replicava in napoletano, finché, nel tempo, trovarono nell’italiano la lingua franca per comunicare e lavorare al meglio, tutti assieme. All’inizio non conosceva nessuno, ma fra colleghi di reparto, sezioni di partito, riunioni sindacali, nel volgere di poco tempo si sentì già completamente integrato. Qualche mese dopo la sua partenza, la madre dal paese, piangendo di nostalgia al telefono, gli implorò di ritornare a casa. “No – fu la sua risposta – non torno. Qui mi chiamano ‘signor Rossi’, mi danno del lei e rispettano il mio lavoro”. Era uscito dal suo mondo pre-moderno, familista, aveva preso coscienza, sapeva d’appartenere ad una classe in sé e per sé. Erano gli anni Sessanta, gli anni in cui nacqui io, figlio di due immigrati meridionali, sottoproletari e semianalfabeti, che il massimo che potevano augurare al loro figlio era un lavoro come quello di Alfonso, aspirazione autentica di emancipazione sociale a portata di mano. Essere operai, quando ero bambino, era una nota di vanto, era sentirsi parte di una élite, nel cuore di una avanguardia che guardava verso il sol dell’avvenire con fiducia e impegno.

Ad Alfonso piaceva suonare la chitarra. Lo conobbi così, studiando assieme a lui i primi rudimenti dello strumento, io ragazzino, lui uomo fatto. Tornava dal lavoro, smetteva la tuta, una doccia e poi si suonava assieme. E si parlava. Mi spiegò che un proletario deve leggere sia Il Manifesto che il Corriere della Sera, ché quello che pensano i padroni dobbiamo sempre conoscerlo. Mi insegnò la moralità del lavoro, Alfonso. Compresi davvero il significato del primo articolo della nostra Costituzione: una Repubblica fondata sul lavoro. Sulla dignità del lavoro, a voler precisare. I lavoratori erano investiti di doveri onerosi – nei confronti dell’impresa, della famiglia, della nazione – ma erano anche portatori di diritti, inalienabili, conquistati negli anni dai padri, dai fratelli. C’era un giorno per ricordarcelo: il giorno della festa dei lavoratori.

Ricordo le feste del Primo Maggio della mia infanzia. Ricordo il silenzio delle strade vuote, le vetrine abbassate come a Natale, i mezzi pubblici che restavano nel chiuso dei depositi. Ricordo le manifestazioni in centro città, affollate processioni sacre del laicismo proletario. Roba del secolo, del millennio scorso. Le fabbriche hanno chiuso, buona parte dei capannoni dismessi sono stati abbattuti, le aree liberate si sono trasformate in preziose occasioni per eccitare la famelica speculazione immobiliare, il mercato privato ha ridisegnato le città indifferente ai temi sociali, senza una politica pubblica che abbia saputo governare la trasformazione. La classe operaia, dagli anni Ottanta in poi, non è andata in paradiso. È andata in pensione.

Il Primo Maggio sembra ormai solo il giorno di un evento musicale da seguire alla televisione, senza capire esattamente cosa si celebri, in una società polverizzata, indebolita, antisolidale. Oggi – ironia della sorte – si festeggia il giorno dei lavoratori lavorando; in un circolo antropofago autolesionista s’è secolarizzata la sacralità del lavoro per oggettiva perdita della classe clericale, che teneva vivo il culto. Il proletariato, e la sua vitalità di soggetto sociale, è desaparecido. Ciò che resta, e accresce le fila sempre più, è un sottoproletariato straccione e sperduto, troppo simile a quello della mia infanzia, che si barcamena in un mondo del lavoro precarizzato e ferino, che non ha più voglia di festeggiare, perché non possiede nulla, perché è fatto di schiavi senza diritti, nuda vita alla mercé di negrieri finanziari, loro sì davvero internazionalizzati. Il rosseggiare che si vede all’orizzonte non è il sol dell’avvenire, è il tramonto del sogno collettivo.

Temo il buio a venire, temo il gelo.