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Nuovo discorso sul metodo: su “Le qualità” di Biagio Cepollaro

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[Segnalo questo intervento importante su uno dei libri di poesia più belli apparsi in questi anni. a. i.]

di Luigi Bosco

Ho letto molte volte e in modo quasi ossessivo Le qualità (La Camera Verde, Roma, 2012), l’ultima raccolta poetica di Biagio Cepollaro. L’impressione che ne ho ricavato (o meglio: ricevuto) è stata quella di trovarmi di fronte ad un’opera come se ne incontrano poche: di quelle in cui sai – mentre leggi – di poterci trovare condensato tutto quello di cui avrai bisogno da ora in avanti; di quelle che hanno sempre qualcosa da insegnare e che, ad ogni nuova lettura, si offrono come deposito alla stratificazione dell’esperienza dell’umano da cui attingere per tentare un avanzamento. [Continua a leggere qui.]

Nota su Geologia di un padre

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di Livio Borriello

Tristan und Isolde. Fonte: Wikipedia.

Ci sono libri che non sono solo libri, ma cose della vita che attraversano lo stadio di libro , per diventare poi nel lettore di nuovo cose della vita. Sono libri spesso lungamente sedimentati, che si sono depositati da sé sulla pagina, che hanno imposto le proprie leggi e la propria fisionomia espressiva allo scrittore quasi riluttante, e che proprio perciò, trascendendo l’intenzione letteraria, diventano parola nel senso più pieno. Uno di questi libri è forse Geologia di una padre di Valerio Magrelli, scritto nell’arco di 10 anni, in una forma anti-narrativa in cui convergono la massima densità linguistica e la tenuta e capacità di coinvolgimento di un racconto.

Minima ruralia – Contadini, dunque villani

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di Massimo Angelini

Nel deposito delle parole che formano la nostra lingua, per dire di qualcuno che è rozzo, grossolano, o maleducato, o comunque per denigrarlo, si usa un termine che, se vai a vedere bene, vuole dire “contadino”: per esempio, “villano”, “burino”, “bifolco”, “terrone”, “cafone”, “buzzurro” e così andando.

Risalendo all’origine delle parole: villano è l’abitante della villa, dell’insediamento rurale; burino, chi usa gli attrezzi agricoli; bifolco, il guardiano dei buoi; terrone, il lavoratore della terra; cafone è il cavallo castrato da lavoro e, per estensione, chi fatica in campagna; buzzurro, il venditore ambulante di castagne e polenta.

Chi lavora la terra dà da mangiare a tutti e solo per questo il suo lavoro dovrebbe essere considerato tra i più importanti, se non il più importante, invece nel tempo è stato collocato sui gradini più bassi della scala sociale, oggetto di dileggio e disprezzo. Il lavoro che sporca le mani è considerato un lavoro sporco e allora sporco e, dunque, rozzo è chi lo fa.

Questo modo di costruire le gerarchie è lo specchio di un modo urbano di pensare il mondo che al centro dello spazio pone la città e chi ci vive e il contado ai suoi margini; e nella filigrana di questo modo si potrebbe leggere anche la contrapposizione tra le civiltà che nascono dalla scrittura e quelle generate nell’oralità o, forse, tra la propensione all’astrazione e l’ancoramento alla conoscenza materiale, tra un mondo asettico, immacolato e deodorato e un mondo che odora di terra, letame e sudore.

Comunque sia successo, il disprezzo per i contadini viene da lontano, vive in caricatura nella commedia classica e procede lungo tutta la storia della nostra letteratura.

L’istoria de soa natevità

voyo che vu indenda.

La zoxo, in un hostero, si era un somero;

de dré si fé un sono, sì grande come un tono:

de quel malvaxio vento

nascé el vilan puzolento.

     Così nel XIII secolo, arguto, ma sprezzante, Matazone da Caligano, racconta la generazione dei contadini attraverso il meteorismo degli asini!

E ancora sull’origine infima e ignobile dei “villani”, nell’Orlandino (1526), Teofilo Folengo sbeffeggiava:

Transibat Jesus per un gran villaggio

Con Piero, Andrea, Giovanni e con Taddeo;

Trovan ch’un asinello in sul rivaggio

Molte pallotte del suo sterco feo.

Disse allor Piero al suo maestro saggio:

“En Domine, fac homines ex eo”.

“Surge, Villane”, disse Cristo allora;

E’l Villan di que’ stronzi saltò fora.

     Di altri esempi, se ne potrebbe fare un libro.

Ancora qualche anno fa, sentirti contadino poteva recarti disagio o vergogna. Nel secondo dopoguerra da questa condizioni potevi solo fuggire o nasconderti. La modernità chiamava in città: se non ascoltavi, ti condannavi all’arretratezza. E se volevi sposarti facevi bene a non dirlo il tuo mestiere, ché dalle tue parti una moglie probabilmente non l’avresti trovata, salvo chiedere aiuto a un mezzano che ne avrebbe fatta salire una dal meridione. Lo racconta bene Nuto Revelli ne L’anello forte (1985).

Nell’Italia industriale e progressiva, i contadini non erano considerati solo arretrati, potevano anche odorare di Battaglia del grano o di sacrestia. Kulaki. Qui da denigrare, altrove da sterminare sotto la luce metallica del sole dell’avvenire.

Poi, nel corso degli anni 1990, c’è stata una svolta. Dietro la frana di tante ideologie, il mondo contadino poco a poco è stato riletto come fronte di resistenza al consumismo, all’accumulazione capitalista, alla globalizzazione, spazio di possibile libertà e autonomia. E c’è del vero, ma è vero anche che tanti, così, si sono rifatti la purezza ideologica perduta, lasciando le bandiere, alzando l’immagine della zappa, senza però comunque rinunciare al gusto degli slogan e ai toni da comizio.

Oggi, 2013, mi pare che siamo nel pieno di questo processo di ridefinizione. Prima ci si vergognava di dirsi contadini, oggi c’è addirittura chi lo ostenta, a volte con buon diritto, a volte anche se coltiva un orto o poco più e le sue mani e il suo viso sono chiari e senza segni. E, tra questi, c’è chi volentieri si fa rappresentante dei contadini, loro alfiere ideologico e portavoce, ma purché siano contadini “consapevoli”, ambientalisti, biologici, progressisti, alternativi, forse rivoluzionari, proprio come lui. Il moralismo è lo stesso di chi qualche decennio fa aveva “preso coscienza” e voleva farla “prendere” agli altri, stessa l’astrazione e il disprezzo per la gente che non è “consapevole”, che non “partecipa”, che non si adegua ai nuovi dettami della modernità, e per i contadini che non esercitano la nuova agricoltura e non vanno a ostentarla in piazza: villani, questi, condannati dalla storia. Come sempre.

(questo testo è tratto da “Minima ruralia”, sottotitolo: “Semi, agricoltura e ritorno alla terra”, del filosofo e ruralista Massimo Angelini, pubblicato da “Pentagora”, Savona, 2013)

Divagazioni del tram

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di Antonio Sparzani
tram in viale Corsica

Faccio lunghi percorsi in tram e leggo le storie di cronopios e di famas di Julio Cortázar, che si adattano al tram dato che sono racconti per lo più brevi che finiscono prima della fermata di largo Augusto dove spesso scendo un po’ mi spiace leggere lungo tutta la tratta perché questo mi impedisce di guardare il panorama che spesso è interessante la solita strada direte voi e invece non è mai la stessa lo sappiamo oggi per esempio c’è un sole proprio bello e capelli così rossi e luminosi come quelli della ragazzetta che è appena passata non li avevo mai visti così

Il flâneur della desolazione

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(La pagina che segue è la prima del nuovo libro di Franco Arminio. La pubblico nel primo giorno in libreria di questa sua Geografia commossa dell’Italia interna, un titolo che è già sintesi della cura della residenza, del diritto alla divergenza e della coscienza della globalità che ho imparato a conoscergli negli anni. In appena una pagina riesce a tenere assieme le parole ‘corpo’ e ‘politica’ e ‘poesia’. Sono molto curiosa di scoprire come farà.) 

 Franco Arminio

Sono partito dalla percezione del corpo, perché il corpo mi dava pensieri, il corpo faceva salire alla testa pensieri più che sensazioni. Questi pensieri si mettono in un’area della testa che si potrebbe chiamare area dell’apprensione: è quest’area che mi porta a disperare del mio corpo, a sentirlo incapace di avvenire. Ogni corpo ha una sua idea di avvenire. Nel mio caso un’idea bruciante, pochi mesi, pochi giorni, poche ore. Questa immaginaria salute precaria s’incrocia con la reale salute precaria dei luoghi in cui vivo. E allora la ricognizione dei luoghi è il frutto di uno spostamento d’attenzione, dal sintomo del corpo al sintomo del luogo, dall’ipocondria alla desolazione. La mia scrittura non ha il rigore della scienza, non vuole e non può essere attendibile. Il primato della percezione sul concetto, del particolare sull’astrazione.

Questo non deve trarre in inganno, la mira è comunque altissima e non ho bisogno di concordare con nessuno il bersaglio. La paesologia non vuole fare riassunti o postille al lavoro altrui. In un certo senso è una disciplina indisciplinata, raccoglie le voci del mondo, sente quel che vuol sentire, dice quello che vuole dire. Un lavoro provvisorio, umorale, ondivago e volatile.

 

La vicenda si complica quando si pronuncia la parola “politica”. In questo caso la fragilità non è più una forza, ma un qualcosa che dà i nervi. Perché la politica è o dovrebbe essere un’elaborazione collettiva. Il pericolo e l’opportunità è che al punto in cui siamo arrivati anche la politica appartiene alle discipline dell’immaginario. Non si sa che strada prendere e allora si fanno arabeschi, congetture. La modernità finisce ogni giorno e ogni giorno prolunga la sua esistenza con una magia collettiva che occulta ciò che è in piena evidenza: non crediamo più alla nostra avventura su questo pianeta. Non abbiamo nessuna religione che ci tiene assieme, nessun progetto da condividere. La paesologia denuncia l’imbroglio della modernità, il suo aver portato l’umano dalla civiltà del segno alla civiltà del pegno. Navighiamo in un mare di merci, e intorno a noi è tutto un panorama di navi incagliate: le nazioni, gli individui, le idee, tutto è come bloccato in un presente che non sa volgere la sua fronte né avanti né indietro.

 

In uno scenario del genere una politica possibile è la poesia. La poesia non è il fiore all’occhiello, è l’abito da indossare, ma prima di indossarlo dobbiamo cucirlo e prima di cucirlo dobbiamo procurarci la stoffa. La poesia ci può permettere di navigare nel mare delle merci lasciandoci un residuo di anima. La poesia è la realtà più reale, è il nesso più potente tra le parole e le cose. Quando riusciamo a radunare in noi questa forza, possiamo rivolgerci serenamente agli altri, possiamo scrivere, possiamo fare l’oste o il parlamentare, non cambia molto. Quello che conta è sentire che la modernità è una baracca da smontare. Una volta che la baracca è smontata, piano piano impareremo a guardare la terra che c’è sotto per costruire in ogni luogo non altre baracche, ma case senza muri e senza tetto, costruire non la crescita, non lo sviluppo, costruire il senso di stare da qualche parte nel tempo che passa, un senso intimamente politico e poetico, un senso che ci fa viaggiare più lietamente verso la morte. Adesso si muore a marcia indietro, si muore dopo mille peripezie per schivare la fine. E invece c’è solo il respiro, forse ce n’è uno solo per tutti e per tutto. Spartirsi serenamente questo respiro è l’arte della vita. Altro che moderno o postmoderno, altro che localismo o globalità. La faccenda è teologica. Abbiamo bisogno di politica e di economia, ma ci vuole una politica e un’economia del sacro. Ci vuole la poesia.

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da Franco Arminio, Geografia commossa dell’Italia interna, Bruno Mondadori, Torino, 2013, pp. 3-4.

Trevigliopoesia 2013 – VII edizione

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Si svolgerà dal 24 maggio al 2 giugno la settima edizione di Trevigliopoesia (www.trevigliopoesia.it), festival di poesia e videopoesia

Inni orfici a Zeus (XV, XIX, XX)

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traduzione isometra di Daniele Ventre

15. Profumo di Zeus – storace

Ricco d’onori, Zeus grande, incorrotto Zeus, a te questa
libera testimonianza offriremo e questa preghiera.
Per la tua testa, sovrano, apparvero vite divine:
Terra, dea madre, nonché le scoscese cime dei monti,
quindi anche il mare e ogni cosa che il cielo al suo interno racchiude:
Cronide Zeus, tu scettrato che fulmini, cuore violento,
padre di tutto, principio di tutto e confine di tutto,
dio scuoti-terra, che accresci, Zeus fertile, folgoratore:
odimi, vario di forme, da’ tu la salute perfetta
e la dea Pace, e una fama di prosperità senza pecca.

Polittico

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polittico

di Davide Orecchio

Battere un concetto, concimare un’idea
Che fine hanno fatto i filosofi? Perché neanche un post, uno status, un tweet sulla tesi e l’antitesi? E la sintesi, che fine ha fatto? La dialettica, il servo e il padrone, il superamento? Se ci siete ancora, filosofeggiate. Battete un concetto. Colmateci la mente. Ne abbiamo bisogno. Siamo stanchi del pensiero economico. Del pensiero sociologico. Della scienza politica. Battete un concetto. Versatelo nei nostri recipienti. Siamo aridi e incolpevoli. Concimate un’idea.

***

Longevità del tiranno
Il tiranno muore a novant’anni. S’è goduto ogni ruga, ogni centimetro di stempiatura, i dolorosi privilegi della senilità. I privilegi. Negati. Alle sue vittime. La longevità del dittatore non sembra appartenere alla bontà del mondo. Risulta da un bieco Graal, neppure cercato, offerto in dono dalla naturalezza bendata: è la persistenza – del tiranno. Tossica. Incommestibile. Non potabile.

1983 – 2013: trent’anni di poesia di Biagio Cepollaro

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a cura di Giusi Drago, Francesco Forlani, Pino Tripodi e del Laboratorio 1 aprile:
Festa Cepollaro

Ascolto sovversivo

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Die Schachtel, O’ e Sincronie
presentano:
L’ASCOLTO SOVVERSIVO
mercoledì 22 maggio
ore 19.15 – 21
presso O’, via Pastrengo, 12 Milano

“Intonare i rumori”
Un ascolto sovversivo non si rivolge soltanto al rinnovamento  delle pratiche tradizionalmente associate alla fruizione della musica,  ma anche e soprattutto a riconsiderare come musicale quello che normalmente viene considerato semplice rumore. In alcuni casi ciò ha portato alla nascita di nuovi strumenti, che esistono solo per lo spazio di una performance o che, come per l’americana “asse da bucato” finiscono con il prendere il proprio posto nella storia della musica, accanto agli strumenti della tradizione più classica. In questo laboratorio d’ascolto, che riprende e sviluppa i temi affrontati nel 2012, esploreremo alcuni esiti della ricerca di suoni inauditi o inascoltati ottenuti con la costruzione di nuovi strumenti o andando a raccoglierli là dove nessuno aveva cercato prima.
Ascolteremo musiche di:
Giorgio Battistelli, Staalplaat Soundsystem, Jean-François Laporte, Eistürzende Neubauten e altri.
L’incontro è curato da Eleonora Ravasi e Massimiliano Viel.
ingresso libero
per maggiori informazioni: info@sincronie.org | on@on-o.org
È possibile richiedere la tessera di Sincronie a partire da www.sincronie.org
Staalplaat

Note all’edizione italiana di Expanded Cinema di Gene Youngblood: un glossario minimale

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di Francesco Monico

gene youngblood

[Ospitiamo con piacere su Nazione Indiana questa anticipazione del volume, pubblicato negli Stati Uniti nel 1970 e ora finalmente tradotto in italiano da Simonetta Fadda, in uscita a settembre per CLUEB nella collana Mediaversi diretta da Pier Luigi Capucci. AB]

Cinema Espanso è la traduzione italiana del termine composto inglese Expanded Cinema. Il significato sta nella relazione tra due parole in cui la seconda è oggi la più chiara: espanso deriva da espandere, un verbo transitivo che deriva dal  latino ‘ex’, che sta per “fuori”, e  ‘pândere‘ che vuol significare “allargare”, “diffondere”, “ingrandire”, la magnitudo del fenomeno. Infatti oggi l’esplosione informatica sta espandendo le relazioni tra le cose e le conoscenze, sta appunto cambiando la magnitudo del senso.

Un calcio alle menzogne

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Denis-Bergamini

di Gianluca Veltri

Non sarà necessario riaprire il rosario pasoliniano dell’«io so». Quel misto di acume intellettuale e buonsenso popolare che spinse lo scrittore di Casarsa alla sua preveggente scomunica: «io so […] ma non ho le prove». Noi sapevamo, abbiamo sempre saputo che Denis Bergamini non si era gettato sotto a un tir.

Lo abbiamo sempre sentito in una parte di noi più intima, che non mente mai, che non può mentire. Sappiamo decifrare gli scricchiolii troppo stridenti. Quando ci raccontano una bugia, ci accorgiamo che i conti non tornano. E i conti, nella fine di Bergamini, non tornavano già da quella sera di novembre, tragica e nera, quando ci riempirono gli occhi e la testa di frottole. Dentro di noi qualcosa protestava. Il nostro cuore urlava «NO», e non era solo un fatto di cuore. Non c’era bisogno d’essere un ultrà per rifiutare quella verità confezionata, vile, accomodata. Non c’era bisogno di essere un acuto pensatore per affermare con la massima certezza: «non ci sto, le cose non sono andate così».

Ci dissero che Bergamini era passato a prendere la fidanzata un sabato pomeriggio di novembre del 1989, abbandonando di soppiatto il ritiro della sua squadra, il Cosenza. Che in un preda a uno stato febbrile di parossismo e panico, si avviò insieme a lei in macchina verso Taranto, per poi fermarsi sulla SS 106 all’altezza di Roseto Capo Spulico, scendere dall’auto e gettarsi sotto a un TIR in corsa.

Sapevamo, abbiamo sempre saputo, che tutto questo non è mai avvenuto, non così; però non abbiamo mai avuto prove.

Oggi sappiamo che anche gli esami obiettivi, all’epoca rilevati e relazionati, sono stati, diciamo, imprecisi. Un’opera di depistaggio è stata messa in atto. Oggi, che al dispiacere e alla rabbia fanno seguito il disgusto e l’incredulità, ci chiediamo: quale può mai essere stato un interesse così rilevante, così prevalente, da mettere in secondo piano la vita di un ragazzo di 27 anni morto ammazzato? Quale tutela era più importante? Cosa poteva esserci di tanto inconfessabile da giustificare l’impunità dell’assassino, o degli assassini, di Bergamini?

Mettiamo su due piatti di una bilancia i due pesi: da una parte c’è l’esistenza giovane di Denis Bergamini straziata e interrotta, inopinatamente. Aveva davanti a sé tanta vita. Gli è stato impedito di viverla con violenza barbara. Sull’altro piatto c’è il piano cinico di qualcuno disposto a un delitto tanto efferato. E anche vigliacco, perché, alla morte della vittima, ha voluto abbinare l’infamia, come se quella vita perduta valesse così poco da non meritare punizione per alcuno. Tanto si è ammazzato da solo, chissà cos’aveva combinato.

È importante come verrà ricordato chi non c’è più: il tempo per cui non ci saremo è molto più lungo di quello in cui siamo stati sul mondo. Il modo in cui moriamo, in cui si racconta che siamo morti, soprattutto se non assomiglia a come abbiamo vissuto, condiziona e marchia tutta la nostra vita precedente. Ebbene, il racconto della morte di Donato Bergamini è stato falsato, artefatto, stravolto a piacimento dai suoi aguzzini. Un po’ come era accaduto, una decina di anni prima, per Peppino Impastato.

La sua memoria, la loro memoria, inchiodata a una menzogna.

Possibile che sia stato considerato più socialmente considerevole, più “pesante”, l’istanza di chi ha voluto architettare e insabbiare, fuorviare e mentire, anziché il diritto di Denis a vivere, o comunque a lasciare di sé un ricordo veritiero sulla propria fine, per i suoi famigliari, per le tante persone che lo hanno conosciuto? È possibile, quando a imporre la versione dei fatti sono la prepotenza, la prevaricazione, la falsità.

Adesso, dopo quasi venticinque anni, anni di vita sottratti a Denis Bergamini e anni di disprezzo per la sua famiglia, adesso basta. Adesso per favore diteci chi lo ha ammazzato. Adesso esigiamo che si vada fino in fondo, che le indagini siano fatte come si deve, con meticolosa serietà, senza guardare in faccia a nessuno. Che non vi siano zone grigie. E che paghino finalmente la giusta pena coloro che si sono macchiati di questo delitto. Che in questi anni senza Denis hanno continuato a dormire la notte, a vivere la propria vita: ma come avete fatto? Come avete potuto?

La recensione messicana

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Di Franz Krauspenhaar

Una brava, talentuosa domenicana o messicana di quasi ottant’anni, nata a Santora, una delle città più importanti del Melenghe domenicano o messicano, giornalista professionista: Ester Gutierrez Velva ha il curriculum tipico dello scrittore ispanico. E’ nel giornalismo, infatti, che molti scrittori sudamericani compiono i primi passi nella scrittura. Come mettere fatti e commenti rilevanti in un piccolo spazio tipografico? Il giornalismo risponde a questa capitale domanda, e dona i mezzi a chi lo vuole per riempire gli spazi di scrittura con la necessaria sapienza. A Città del Messico o a Santo Domingo, ora non ricordiamo, Ester apre la sua fortunata carriera giornalistica, che l’ha vista spaziare per anni su numerosi quotidiani e riviste molto patinate. E’ dell’65 il suo debutto nella narrativa, con il bestseller La vita ci strappa alla vita, tradotto in trentadue lingue. In seguito, altri successi di critica e di pubblico: Donne sulla strada in attesa di un uomo galante che le sostituisca il pneumatico (Premio Roditor Salsado 1977), e alcune raccolte di racconti e riflessioni: Puerto corazon, Il mondo pilota, Il cielo dei catenacci. E ora questo Uomini arrivati al caffè (Micragnos Edizioni, pagg.283, euro 14,50) con in copertina una bella illustrazione di Ruben Adriano Sosa.

Dilemma in lemma

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Palabras

Glossario del cronista onesto

L’uso sciatto e militante delle parole da parte dei giornalisti snatura il linguaggio e distorce la realtà, spacciando luoghi comuni e opinioni personali per verità universali. Ecco alcuni esempi. E relativi antidoti etimologici

di
Francesca Bellino

Tic verbali, parole usate a sproposito, superficialità diffusa, applicazioni improprie del senso, semplificazioni, stereotipi abusati e neologismi impregnati di pregiudizio dilagano sui media italiani soprattutto quando si parla di stranieri, minoranze e migrazione. Sfogliando i giornali e ascoltando radio e televisione si scopre che nel racconto dell’Altro si annidano numerosi vizi linguistici dai quali scaturiscono rappresentazioni falsate e fuorvianti che formano, di conseguenza, un’opinione pubblica distorta e giudicante. In primo luogo, come sottolinea la filosofa Daniella Iannotta, “il peggior vizio linguistico del giornalista è l’uso del giudizio che può esprimersi semplicemente usando il presente indicativo al posto del più corretto condizionale. Se il giornalista non esplicita il punto di vista e non si colloca all’interno della struttura narrativa è portato a generalizzare e universalizzare i fatti, facendo passare una verità, la sua, per la verità assoluta. In questo modo, dunque, abusa del linguaggio”.

Che la parola abbia il potere di creare realtà e che l’informazione contribuisca alla costruzione di nuove rappresentazioni sociali è indubbio, ma che succede quando termini neutri vengono intrisi di sensi aggiuntivi, spesso denigranti e devianti rispetto al significato originario, e giungono nel lessico comune attraverso i mezzi di comunicazione? “Quando uno stereotipo si diffonde non è mai isolato, ma avvia una catena che spinge a ragionare per deduzione” spiega la linguista Francesca Dragotto. Così, per esempio, dopo l’attentato dell’11 settembre 2001 a New York gli stereotipi sull’Islam si sono arricchiti e rinvigoriti e un termine neutro come musulmano (seguace dell’Islam) è stato associato ad arabo, a omicida, a terrorista, a kamikaze e a jihadista (anche se un grande numero di musulmani non è arabo, ma indonesiano, senegalese o pakistano, e nella maggior parte dei casi non ha mai commesso atti terroristici), fino a coniare il termine islamopoli per definire le città che necessitano di moschee per i fedeli. Un’altra catena che sfocia nell’errore e nel pregiudizio scatta quando si parla della minoranza di cultura rom. Questa può comprendere: romeno (anche quando si parla di persone non provenienti dalla Romania, ma dai Balcani, dalla Bulgaria o dall’Italia stessa), extracomunitario (anche quando si parla di romeni, quindi europei), campo nomadi o zingaropoli (anche quando ci si riferisce a gruppi stanziali), fino a ladro e scippatore.

Un’altra catena molto diffusa è quella legata alla migrazione che come termine di partenza ha immigrato (da non confondere con rifugiato, richiedente asilo, esule) al quale si legano a cascata: irregolare, illegale, clandestino, lavoratore stagionale, fino a delinquente e stupratore, che sostituisce quella che un tempo scattava con emigrante, meridionale, napoletano, calabrese, etc. “Siamo di fronte a tipologie lessicali dell’esclusione accuratamente da evitare – sostiene il linguista Massimo Arcangeli – Il termine più rispettoso sarebbe migrante perché neutralizza l’alteritudine, limitandosi a marcare l’idea dello spostamento da un luogo all’altro, dunque l’idea del viaggio e della sua naturale provvisorietà, e non quella dell’estraneità dal punto di arrivo e quindi dell’essere intruso, alieno, solo perché straniero”.

“Le catene di termini si fondano sull’apparente sinonimia da un lato e su un processo consequenziale dall’altro. E’ come sgranare un rosario! – sottolinea Dragotto – Il problema è, però, che si arriva a usare i termini più per quello che evocano che per quello che significano. Ci troviamo, infatti, nell’era della plasticosità dove la parola diventa di plastica, perde significatività e vitalità perché troppo abusata, e viene poi caricata di nuovi significati frutto di ideologie e stereotipi. Insomma si narrano fatti veri ma con una semantica fasulla, meccanismo che rende verosimile il racconto pur portando con se significati deformati”. Per cercare di arginare questo tipo di distorsioni dell’informazione, nel 2008 è nata la Carta di Roma, un protocollo deontologico concernente richiedenti asilo, rifugiati, vittime della tratta e migranti redatto dal Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti e dalla Federazione Nazionale della Stampa Italiana, in collaborazione con l’Unione Nazionale Cronisti Italiani, presente nei nuovi volumi “Studiare da giornalista”. “L’esigenza a intervenire è diventata urgente dopo la strage di Erba quando dall’informazione italiana emerse un riflesso incondizionato di tipo razzista nei confronti del tunisino Azouz Marzouk, considerato colpevole nelle 24 ore successive al dramma, mentre a uccidere erano stati gli italianissimi Olindo e Rosa, che destò serie preoccupazioni anche all’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) – racconta Roberto Natale, presidente FNSI -. In questi anni i giornalisti si sono trovati impreparati di fronte a certi temi e si sono lasciati strumentalizzare dalla politica, diventando spesso trasmettitori di germi razzisti e xenofobi. Per questo abbiamo avviato corsi di formazione in tutta Italia con la speranza che si ribalti anche l’antica regola del giornalismo per cui solo le cattive notizie sono buone notizie”.
L’ambito in cui ci muoviamo è ampio e delicato, ma di seguito proveremo a chiarire i termini maggiormente utilizzati dai media italiani per narrare l’alterità: sia parole italiane usate in modo discriminatorio, sia forestierismi entrati nella lingua ma con significato errato.

Badante: il termine nasce dal verbo badare. Si usa il participio presente per definire colui/colei che bada, così come si fa con insegnante (da insegnare). “L’origine dell’uso risale alla fine degli Anni ‘80 quando nel lessico della burocrazia fu necessario definire questo nuovo tipo di lavoratori, in sostituzione di infermiere/a, e con gli anni è entrato nel linguaggio comune e, nel 2002, è stato introdotto nel dizionario GRADIT” spiega Francesca Dragotto. Nell’uso quotidiano il termine, però, oggi si lega prevalentemente a lavoratrici straniere. Dire badante fa subito pensare alla nazionalità – alle donne dell’Est, soprattutto ucraine e bielorusse, che si occupano di anziani e malati – a differenza di altre etichette che si legano al mestiere. Dire filippino porta con se la professione: fare le pulizie. Lo stesso accede con polacco che diventa muratore, con bengalese che diventa venditore di rose, brasiliano che diventa trans o con nigeriana che diventa prostituta. Diverso è il caso di marocchino spesso usato indistintamente per chiunque venga dall’Africa sostituitosi al neologismo vu’ cumprà usato tra metà degli Anni ’80 e inizio dei ’90 per definire i venditori ambulanti (e abusivi).

Burqa: per parlare delle problematiche relative all’uso del velo delle donne islamiche nelle società occidentali si tende a usare indistintamente il termine burqa’ senza porsi il problema che esistono diversi tipi di veli. “Il Burqa’ è un capo d’abbigliamento indossato quasi esclusivamente dalle donne afgane e reso obbligatorio sotto il regime dei talebani – spiega l’arabista Lidia Verdoliva -. E’ di colore azzurro o nero e ricopre il corpo, con una griglia all’altezza degli occhi per permettere alla donna di vedere. Dunque non è un copricapo ma un abito”. Il termine con cui si dovrebbe indicare il velo è, invece, hijàb. “Questo è un copricapo adoperato già in epoca preislamica nelle società mediorientali per marcare lo stato sociale della donna – aggiunge Verdoliva -. La donna dei ceti superiori lo indossava per proteggersi dagli sguardi del popolo, mentre alla serva non era permesso tale privilegio. Con l’avvento dell’Islam, in base a quanto stabilito dalla shari’ah, è stato prescritto alle donne di mostrarsi in pubblico coperte da abiti che non mettano in evidenza le forme e che lascino scoperti solamente il volto e le mani. A tale scopo le musulmane indossano lo hijàb che si presenta in varie forme e colori a seconda delle diverse tradizioni dei paesi islamici, il quale è atto a coprire i capelli e il collo della donna incorniciandone il viso. Secondo alcune interpretazioni, tuttavia, è considerato buona norma per la donna particolarmente attraente coprire per intero la persona per salvaguardare l’integrità della comunità stessa. Per indicare il velo integrale, utilizzato in pochi paesi islamici, che nasconde anche il viso e talvolta gli occhi, si usa la parola niqàb e in alcuni casi khimàr, termine che compare nel Corano nella Sura 24 al versetto 31”. In passato sui media occidentali compariva anche il termine chador per designare il velo, per via del peso mediatico che ha avuto la rivoluzione islamica in Iran a partire dal 1979. Il termine, infatti, è di origine persiana e indica un foulard o una mantella dalla forma semicircolare che ricopre il capo e le spalle ma che lascia scoperto il volto.

Clandestino: è colui/colei che ha fatto ingresso in un Paese eludendo i controlli di frontiera. Per Fabrizio Gatti, giornalista dell’Espresso più volte fintosi migrante per narrare dall’interno l’esperienza della migrazione, il clandestino è “l’eroe contemporaneo perché rischia la vita attraversando deserti e mare su mezzi precari praticando un diritto soggettivo fondamentale: la ricerca del miglioramento delle sue condizioni di vita e dei familiari”. “Un paragone a noi vicino – spiega Gatti – sono gli esploratori, i campioni del trekking estremo, i velisti solitari. Se fosse nato in Europa, Nord America e Australia, il clandestino indosserebbe abiti e cappellino con marchi di sponsor e riceverebbe riconoscimenti internazionali. Poiché è nato in Paesi a basso prodotto interno lordo, una volta arrivato in Europa, Nord America e Australia rischia la detenzione senza processo in centri di isolamento, l’incarcerazione, l’espulsione o una vita di stenti. Il mancato riconoscimento dei diritti individuali pone il clandestino all’ultimo livello della scala sociale. In Italia la legge non gli riconosce nemmeno il diritto a presenziare al processo di cui è parte civile: se è vittima, anche di gravi reati, deve comunque essere immediatamente arrestato o espulso. Il clandestino, non l’autore del reato. Questo ne fa il modello di lavoratore preferito per lo sfruttamento nell’agricoltura, nell’edilizia, nell’industria e nei servizi. Anche se non viene pagato, il clandestino non può rivolgersi al giudice senza a sua volta rischiare l’arresto o l’espulsione. L’impiego strutturale di clandestini nell’economia ha consentito dal 1995 la riduzione verticale del costo del lavoro e il conseguente aumento dei profitti delle imprese. Profitti redistribuiti in dividendi per gli azionasti e in stock option per i manager. Il numero di clandestini sfruttati è inversamente proporzionale alla capacità dei cittadini di un Paese di provare vergogna”.

Etnia: è un termine che deriva dal greco ethnos, popoli e genti diverse da quelle che abitavano la polis, la città-Stato; popolazioni alle quali si attribuiscono comuni origini e una forma di organizzazione sociale anteriore, e implicitamente inferiore, a quella della polis. Sono, dunque, genti che si autogovernano alle quali manca la compiutezza delle istituzioni e i caratteri della civiltà. Quando la parola passa in latino ed entra nel linguaggio dei cristiani, le etnie diventano pagani, senza fede. Nell’era del colonialismo, poi, il termine viene usato per definire i popoli arretrati, non civilizzati, dunque da colonizzare. “Etnia ormai viene usata come sostituta di razza, diventata tabù, e denota il processo di etnicizzazione dell’Altro – spiega l’antropologia Annamaria Rivera, autrice de “L’imbroglio etnico” (Dedalo) – L’idea di razza, termine e concetto ormai in disuso, dunque, si continua a coltivare sotto il nome di etnia. Le etnie, nel linguaggio comune confuse anche con nazioni, in realtà non esistono, sono state inventate dai colonizzatori che hanno avviato il processo per cui oggi tutto diventa etnico. Il ristorante e la cucina etnica, o l’abbigliamento etnico, sono forme di esotizzazione di ciò che non è nazionale ed europeo. Ma è chiaro che si riferisce a popoli considerati inferiori. Per un ristorante americano, pur non essendo italiano, né europeo, non si direbbe mai etnico”.

Harem: è un termine preso in prestito dalla lingua araba usato con un significato inverso. “Harem, più correttamente harìm – spiega l’arabista Lidia Verdoliva – corrisponde a tutto ciò che è dotato di hurmah, ossia di un valore di inviolabilità, di sacralità, che rende quel luogo o persona inaccessibile a estranei e a chiunque non sia in possesso di determinati requisiti. Può essere considerato harìm il luogo di lavoro, in quanto prevede il rispetto di una serie di codici comportamentali, o la moschea in quanto chi vi accede deve rispettare alcune prescrizioni e trovarsi in una condizione di purità rituale, o la casa perché chi vuole entrare deve rispettare i suoi abitanti e attenersi alle sue abitudini. Anche le donne sono harìm in quanto possiedono delle connotazioni tali che impongono agli uomini di portar loro rispetto e il dovere di proteggerle da chi intenda approcciarle in maniera inappropriata”. Se si considera l’ harìm nella sua comune accezione di gineceo, dunque, ossia il luogo della casa in cui le donne si ritirano per non mostrarsi a uomini estranei alla famiglia, bisogna tener presente che esso nel mondo arabo è dotato di limiti morali e confini spaziali di natura quasi sacrale, in netto contrasto con l’idea che si è creata nell’immaginario occidentale, quale luogo in cui un uomo può trarre piacere da un certo numero di sue concubine sessualmente disponibili. “Tale concezione si è imposta nell’immaginario collettivo occidentale, secondo quanto sostiene la sociologa marocchina Fatema Mernissi in “L’harem e l’Occidente” – aggiunge Verdoliva -, a causa di un’errata rappresentazione di stampo esotista degli antichi ginecei arabi a opera dei pittori orientalisti dell’800 e dalla libera traduzione dei racconti delle “Mille e Una Notte” realizzata dal francese Antoine Galland che ha voluto mettere in evidenza soprattutto gli aspetti erotici di tali narrazioni. In opposizione a tale concezione dell’harìm, Mernissi sottolinea invece la condizione di semidetenzione cui erano costrette le donne che vivevano nelle abitazioni tradizionali dotate di gineceo (sistema ormai in disuso) in cui le donne avevano scarsa possibilità di movimento e di libera iniziativa.

Italieni: il termine nasce come dal nome di una rubrica pubblicata nel 2001 sul sito del settimanale “Internazionale”, e poi sul cartaceo, e contiene due parole: italiani e alieni. All’origine si riferiva ai giornalisti stranieri residenti in Italia che raccontavano la loro Italia e poi è stata estesa ad autori di seconda generazione, i cosiddetti G2, figli di immigrati nati in Italia, allargando il senso del termine. “L’idea del nome è della graphic-design Martina Recchiuti – spiega il giornalista Piero Zardo – . A distanza di anni la rubrica esiste ancora ed è affidata, come all’origine, ai giornalisti stranieri, un po’ italiani, un pò alieni, che si cimentano nelle recensioni di film e libri italiani”.

Irregolare: è colui/colei che ha perduto i requisiti necessari per la permanenza sul territorio nazionale dei quali era in possesso nel momento d’ingresso. “Per il Ministero dell’Interno è il caso di chi è entrato per motivi turistici ed è rimasto oltre la scadenza del visto, di chi ha inoltrano la richiesta di rinnovo del permesso di soggiorno con tempi o modalità sbagliate che hanno portato al respingimento della domanda oppure di chi aveva un’autorizzazione per motivi di lavoro, ha perso il posto e non ha trovato altro impiego nei termini concessi – spiega l’invito Mediaset, Alfredo Macchi -. Ma per la legge italiana irregolari e clandestini vanno trattati allo stesso modo: se fermati devono essere immediatamente espulsi oppure, se questo non è possibile per mancata identificazione, devono essere trasferiti nei CIE (centri identificazione ed espulsione) dove possono restare fino a 18 mesi. Infine l’allontanamento, volontario o coatto. Ma si può dire che un’automobile in sosta oltre la scadenza del parchimetro o fuori dagli spazi regolamentari è clandestina?”.

Jihad: è un termine maschile che vuol dire sforzo, impegno. Sui media italiani, invece, viene reso al femminile e sottintende l’intenzione di tradurlo con “guerra santa” risvegliando nell’immaginario collettivo lo spettro delle crociate. “Esistono due tipi di impegno per il credente nell’Islam: il grande jihad (al-jihad al-kabir) e il piccolo jihad (al-jihad al-saghir) – spiega l’arabista Lidia Verdoliva -. Quello che maggiormente influisce sulla vita quotidiana dei credenti è il grande jihad che prevede un impegno da parte del fedele affinché le forze del bene prevalgano su quelle del male innanzitutto all’interno del suo animo, una lotta interiore spirituale contro il peccato e le tentazioni. Il piccolo jihad ha invece una connotazione di tipo collettivo e indica una battaglia che la comunità dei fedeli (ummah) può ingaggiare contro chi ne minaccia la stabilità. Si può fare ricorso al piccolo jihad solo per legittima difesa in caso di aggressioni e invasioni esterne”.

Sbarchi: è uno dei termini abusati dai media italiani soprattutto tra febbraio e l’estate del 2011 in riferimento agli arrivi di migranti da Tunisia e Libia. “Sembra un termine neutro e usato bene, ma in realtà esprime in maniera errata quello che è successo – sottolinea Giorgia Serghetti, ricercatrice Parsec –: le barche non sono arrivate quasi mai a riva, ma venivano intercettate in mare e i migranti venivano portati, nel caso specifico, a Lampedusa. Dunque non sono sbarcate”. Il termine sbarchi, inoltre, ha avvisato una catena denigrante perché associato a pericolo, allarme, invasione fino a “tzunami umano”. “Nei primi mesi del 2011 è emerso uno dei vizi dell’informazione: utilizzare il numero per argomentare un fenomeno – spiega Marco Bruno, ricercatore dell’Università La Sapienza di Roma –. Se prendiamo come esempio il talk-show “Porta a porta” si vede chiaramente che per sostenere un’argomentazione, in questo caso l’idea dell’invasione, si sono usati in maniera disinvolta e non accurata dati di ordini di grandezza differenti. Questo atteggiamento provoca lo svuotamento del significato aritmetico e ne fornisce uno retorico e, in questo caso anche sbagliato, se si pensa che ci sono stati più arrivi di migranti tra il 2007 e il 2008 e che la maggior parte degli ingressi normalmente non avviene via mare, ma con i camion e gli aerei”.

Zingarata: è un termine di tradizione ottocentesca che inizialmente, come voce di ambientazione letteraria, voleva dire maleficio, incantesimo, che poi ha preso il significato di goliardiche e dissacranti bravate collettive, usato nella lingua parlata soprattutto negli Anni ’70 dopo l’uscita del film “Amici miei” di Mario Monicelli. “E’ facile collegare il significato di bravata alla presunta “irregolarità” del comportamento degli zingari e alle loro azioni (spesso compiute in piccoli gruppi) per ingannare il prossimo – spiega il linguista Massimo Arcangeli -. In un dizionario ottocentesco (N. Tommaseo, B. Bellini, Dizionario della lingua italiana […] con oltre centomila giunte ai precedenti dizionari […], Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino-Napoli) leggiamo alla voce zingaro: “Una razza di gente vagabonda, senza patria, che vive di furti e d’inganni, predicendo la buona ventura. Vanno a frotte di dieci o dodici, uomini, donne e fanciulli, e albergano sotto le tende”. E non andiamo meglio con altri repertori del XIX secolo: “Colui che appartiene a una razza di gente vagabonda, senza patria, senza religione, che vive di furti e di inganni, predicendo la buona ventura. Vanno a frotte di dieci o dodici uomini, donne e fanciulli; e ora dove si posano, danno voce di rassettare caldaie e vasi di rame, e albergano sotto le tende” (G. Rigutini, P. Fanfani, Vocabolario italiano della lingua parlata, nuovamente compilato da G. Rigutini e accresciuto di molte voci, maniere e significati, Firenze, Barbèra, 1891 e 1875)”. Il termine zingaro oggi è stato quasi del tutto sostituito da rom anche se, con il tempo, ha assunto la stessa connotazione negativa. “Rom – spiega Federica Dolente, che ha partecipato alla ricerca condotta dalla Fondazione Basso e da Parsec che in autunno pubblicherà una Guida sulle Alterità realizzata con Redattore Sociale – si riferiva originariamente ad alcuni gruppi che vivevano nei Balcani e nell’Europa dell’Est, ma attualmente è utilizzato come termine generico per indicare tutte quelle popolazioni che a livello locale si chiamano sinti, roma, kalè. L’origine di zingaro non è certa, ma di fatto si tratta di una denominazione che le principali lingue europee hanno utilizzato per secoli. Lo ritroviamo in francese (tsiganes), in tedesco (zigueneur) e in svedese (zigenare) e, secondo una teoria generalmente riconosciuta, il termine deriverebbe dal nome di un’antica setta eretica dell’Asia Minore”.

Articolo vincitore del Premio Talea 2013

Contro la sterile laconicità dei geometri

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di Antonio Sparzani
Galileo_Galilei
Più leggo le opere di Galileo Galilei e più mi convinco che la sua statura intellettuale non consista soltanto nell’eccellenza delle sue opere scientifiche, nelle quali peraltro si trovano intuizioni straordinarie accanto anche a valutazioni ai nostri occhi ormai sorpassate o addirittura sbagliate, ma anche nella grande finezza di percezione dei moti dell’umano animo e nella sua capacità di trovare l’argomentazione giusta, il percorso giusto per arrivare alle conclusioni di cui si era irrevocabilmente convinto.

Desidero farvi leggere un passo che trovo molto indicativo dello stile dell’uomo e dello scienziato. Si tratta di una parte della lettera che Galileo, già settantaseienne, scrisse al principe Leopoldo de’ Medici nel marzo 1640. Leopoldo, figlio del granduca Cosimo II, che era morto nel 1621, era fratello minore del granduca regnante Ferdinando II, e molto si interessava di arti e scienze; egli, oltre a servirsi di precettori che erano stati discepoli di Galileo, si compiaceva durante l’estate, di andare a chiacchierare con l’illustre scienziato dov’egli trascorreva gli ultimi anni della vita, ad Arcetri. Tra le lettere scritte a Galileo, ve ne è una, di Ascanio Piccolomini, nella quale si afferma: “spesso S.A. [s’intende Leopoldo] fa mentione di lei, e gli par mill’anni che venga la state per essere a goder costà i suoi discorsi, havendo S.A. perspicacia e gusto tale delle cose celesti che m’assicuro che V. S. ne rimarrà maravigliato“. Appunto nel 1640, Leopoldo scrisse a Galileo per averne un parere a proposito di un certo libro, scritto dallo scienziato, di ispirazione aristotelica, Fortunio Liceti e pubblicato all’inizio dell’anno a Udine, a proposito della luce emanata dalla Luna, intitolato Litheosphorus, sive de lapide Bononiensi. Galileo risponde dunque nel marzo, scusandosi per un lieve ritardo nella risposta, e scrive, tra l’altro, quanto segue:

« Arcetri, 31 marzo 1640
Serenissimo Principe e mio Signor Colendissimo,

[ . . .] voglio che l’Altezza Vostra Serenissima sappia come l’eccellentissimo signor Liceti, subito uscito in luce il suo trattato De lapide Bononiensi, me ne inviò una copia, pregandomi che io liberamente dovessi significarli quello che a me pareva di questa sua fatica; e mentre che l’Altezza Vostra Serenissima mi ricerca dell’istesso, con ogni schiettezza le aprirò il mio senso.

Dicole dunque, che se io volessi conforme al merito diffondermi nelle lodi dell’ampla e sottilissima dottrina che mi è parso scorgervi, oltre al convenirmi assai in lungo distendere, dubiterei che le mie parole, benché purissime e sincere, potessero apparire ad alcuno iperboliche o adulatorie: ad alcuno, dico, di quelli, che troppo laconicamente vorrebbero vedere, nei più angusti spazii che possibil fusse, ristretti i filosofici insegnamenti, sì che sempre si usasse quella rigida e concisa maniera, spogliata di qualsivoglia vaghezza ed ornamento, che è propria dei puri geometri, li quali né pure una parola proferiscono che dalla assoluta necessità non sia loro suggerita. Ma io, all’incontro, non solamente non ascrivo a difetto in un trattato, ancorché indirizzato ad un solo scopo, interserire altre varie notizie, purché non siano totalmente separate e senza veruna coerenza annesse al principale instituto; che anzi stimo, la nobiltà, la grandezza e la magnificenza, che fa le azzioni ed imprese nostre meravigliose ed eccellenti, non consistere nelle cose necessarie (ancorché il mancarvi queste sia il maggior difetto che commetter si possa), ma nelle non necessarie, purché non sieno poste fuori di proposito, ma abbino qualche relazione, ancorché piccola, al principale intento. E così, per esempio, vile e plebeo meritamente si chiamerebbe quel convito nel quale mancassero i cibi e le bevande, principal requisito e necessario; ma non però il non mancar di queste lo fa così magnifico e nobile, che sommamente più non gli arrechino grandezza e nobiltà la vaghezza dell’egregio e sontuoso apparato, lo splendore dei vasi d’argento e d’oro, che, adornando la mensa e le credenze, dilettano la vista, i concenti di varie armonie, le sceniche rappresentazioni, e i piacevoli scherzi, all’udito così graziosi. La maestà di un poema eroico vien sommamente ampliata dalla vaghezza e varietà de gli episodii; e Pindaro, principe de’ lirici, si sublima tanto col digredire in maniera dal principale suo intento, che è di lodar l’eroe da esso cantato, che nel tesser le laudi di quello non consuma la decima, né anco tal ora la vigesima, parte de i versi, i quali spende in varie descrizzioni di cose che in ultimo, con fila assai sottili, sono annesse al principal concetto. Io per tanto interamente applaudo alla maniera che il signor Liceti, abbondantissimo di mille e mille notizie, tiene nei suoi componimenti, ed in particolare in questo, nel quale, prima che condurre il famelico lettore a saziare sua brama con l’ultimo insegnamento del problema principalmente desiderato, ci porge un util diletto di tante belle cognizioni, che bene ci obliga a rendergliene mille grazie, mentre che con grato risparmio di tempo e di fatica ci libera dal rivoltare i libri di cento e cento autori.»

Dite voi se non è un vero programma di scrittura e di vita.

Nuovi scenari urbani

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XXIII Seminario internazionale e Premio di Architettura e Cultura Urbana

Nuovi scenari urbani
Opere, progetti, utopie

Camerino 28 luglio – 1 agosto 2013
Palazzo Ducale – piazza Cavour

Il Seminario di Camerino ha finalità formative, di aggiornamento e approfondimento nel campo della ricerca e della pratica, nel confronto fra Università, Professione e Società civile, con spirito libero e aperto al reciproco apprendimento. I temi proposti riguardano la trasformazione dei paesaggi costruiti alla ricerca della qualità architettonica e della sostenibilità ambientale.

TEMI DI PROGETTO E DI CONVERSAZIONE

A map of the world that does not include Utopia is not worth even glancing at
Una mappa del mondo che non comprende Utopia non merita neanche uno sguardo
(O. Wilde, The Soul of Man Under Socialism, 1891)

Trasformazione e riuso dell’edilizia esistente
Le dinamiche economiche e sociali in atto richiedono una riflessione della disciplina architettonica sia in campo professionale che universitario, incentrata sulla ricerca di progetti comuni e condivisi con i cittadini.
Il tema proposto riguarda programmi di rigenerazione delle città che comprendano un utilizzo intelligente delle risorse esistenti senza ulteriore spreco di suolo da urbanizzare, la valorizzazione del patrimonio storico, il rinnovamento del tessuto e dei contenitori urbani in disuso come fattore di riqualificazione e ricucitura del tessuto sociale.
Agli amministratori spetta il compito di scelte decisive per far si che l’attuale periodo di congiuntura economica si trasformi in opportunità di cambiamento; ai progettisti di intervenire secondo criteri di economicità, salubrità e sicurezza, senza mimetismi, con mezzi e linguaggio propri della contemporaneità, entro i limiti prestazionali dell’edilizia esistente di qualità e nel rispetto del carattere distintivo degli insediamenti e dei manufatti storici.

Trasformazione e riuso delle aree dismesse
L’espansione urbana dispersa nel territorio, ha lasciato vaste aree industriali in abbandono, spazi interstiziali, ferrovie dismesse … e una disseminazione insediativa sia residenziale che produttiva in gran parte di pessima qualità che ha comportato degrado sociale, emarginazione e insostenibili costi per servizi e infrastrutture. La trasformazione e riuso delle aree periurbane dismesse rappresenta una occasione di riequilibrio territoriale senza occupazione di nuovi suoli agricoli, densificando o dirandando il costruito in base a programmi di efficienza e sostenibilità ambientale, privilegiando la formazione di spazi per la collettività che comprendano oltre alla residenza sport, cultura, lavoro, intrattenimento, tempo libero secondo una mescolanza di attività tali da proporre un habitat attraente e favorevole all’integrazione sociale.
Il progetto di rigenerazione urbana permette di attribuire specificità architettonica alle aree periferiche altrimenti prive di connotati distinguibili, che le rende simili a tutte le periferie del mondo.

Spazi pubblici e corridoi verdi
Può considerarsi concluso il tempo della crescita indefinita delle città, in cui gli spazi pubblici, quando non sono occupati da arterie a scorrimento veloce, sono aree residuali intercluse fra i comparti edilizi, il più delle volte inutilizzate, spazi residuali in cui si manifestano congiuntamente il deterioramento sociale e il fallimento dell’architettura/urbanistica funzionalista.
Il punto di partenza per una progettazione urbana consapevole dei valori in gioco, dopo un lungo periodo di dispersione e di riduzione del territorio in frammenti, è di ritrovare il ruolo di centralità dei luoghi della vita collettiva che hanno caratterizzato da sempre le comunità europee.
Il sistema delle piazze, delle strade a mobilità lenta, della rete dei giardini e dei corridoi verdi dovranno costituire una costante permanente nei processi di trasformazione qualitativa delle città e motivo di aggregazione dei cittadini intorno a progetti comuni da sviluppare e gestire insieme alle amministrazioni pubbliche.

Per informazioni sul programma, la partecipazione e l’iscrizione al seminario vedi qui.

Oppure scrivi a: giovanni.marucci@unicam.it

Il Turista Incantato Salvatore di Vilio

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di vilio man

Dal 18 maggio al 10 giugno 2013
Indypendentemente e l’associazione Terrainvague
sono estremamente lieti di presentare
alla Galleria Libreria Voyelles & Visions
Torino, via San Massimo 9/A

Il turista incantato e Attraversamenti ciclabili negli ingranaggi della memoria
accompagnati dalle note di Giuseppe Montesano, Eugenio Tinto e Grazia Coppola

Atti impuri: n° 4 & 5

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Si parla del numero 5 in uscita e si presenta un’intervista ad Aldo Nove dal numero 4 già uscito…

Dopo le prime 4 uscite cartacee che hanno preso vita grazie alla collaborazione dei migliori scrittori attivi oggi in Italia (come Nanni Balestrini, Tiziano Scarpa, Giorgio Vasta, Aldo Nove, Raul Montanari, Maurizio De Giovanni, Laura Pugno, Giorgio Falco, Antonio Rezza, Ernesto Aloia, Luca Ricci, Tommaso Ottonieri e molti altri), Atti Impuri approda finalmente al numero 5 con la collaborazione di Miraggi editore.

Lavoro e altri disastri

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di Giuseppe Granieri

Giornate passate ad aspettare il nulla. Sempre lì ad attendere che succeda qualcosa, qualsiasi cosa, e invece nulla. Tutto fermo. Immobile. Se anche piovesse ogni tanto, ci sarebbe di che parlare. E invece nulla. Ti alzi, fai quello che c’è da fare, poi pranzo, giro in paese, cena e notte. Così negli ultimi sei mesi. Che merda. “Vediamo se ci sono offerte di lavoro per un esodato di 56 anni”, pensò Marcello – davanti al suo nuovo passatempo: un computer…

Paradossi di Sicilia

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da Ferdinando Milone «Sicilia, la natura e l’uomo»  Paolo Boringhieri 1960
da Ferdinando Milone «Sicilia, la natura e l’uomo» Paolo Boringhieri 1960di Evelina Santangelo

di Evelina Santangelo

Un furgone carico di persone e cose si ferma nel cuore della città, in un parcheggio alberato a ridosso del salotto buono.

Sulla piazza si riversa un numero indefinito di rom, uomini, donne, bambini armati di bombola a gas, griglia per arrostire la carne, bidoni d’acqua per lavarsi, sedie, mentre uno di loro estrae una lama di rasoio e si mette a rasare i capelli di un ragazzino a mo’ di barbiere, di quei barbieri che a volte si vedono in certe foto antiche che sembrano ancora più antiche dei loro 50 anni, con quei clienti seduti su sedie di paglia o di legno in qualche slargo a ridosso di un muro di pietra.

Dieci per Elio Pagliarani

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pagliarani

[In occasione del primo anniversario della morte di Elio Pagliarni è appena uscito per la collana I domani di Nino Aragno un volume celebrativo a cura di Andrea Cortellessa, con contributi poetici, saggistici e testimoniali portati da autori e critici che ne hanno conosciuto, studiato e amato la poesia