di Alessandra Carnaroli
(da Cangura, raccolta inedita di racconti)
Secondo stime recenti nel mondo
ci sono ogni anno 26 milioni
di aborti legali.
Sebbene sia
quindi
un’esperienza frequente,
è ancora oggetto di diatriba.*
di Alessandra Carnaroli
(da Cangura, raccolta inedita di racconti)
Secondo stime recenti nel mondo
ci sono ogni anno 26 milioni
di aborti legali.
Sebbene sia
quindi
un’esperienza frequente,
è ancora oggetto di diatriba.*

Tu ne quaesieris, scire nefas, quem mihi, quem tibi
finem di dederint, Leuconoe, nec Babylonios
di Andrea Inglese
CHE NE SARÀ DEL PROBLEMA SE NON ME NE OCCUPO ABBASTANZA? Se con il vostro aiuto, la maldicenza, l’invidia, il collasso economico, la ripugnanza, la solida rete di dipendenze, se assieme, o gli uni contro gli altri, convergendo su di me, non facciamo grande, solenne, il problema?
[In sintonia con le riflessioni di Helena, una canzone del 1974.]
di Enzo Jannacci
A un, a du, a un du tri quatr…
M’han detto che un bonzo
(“un bonzo…chi è ?”)
A Monza, sabato 8 giugno 2013,
alle ore 16.00
presso la Biblioteca San Gerardo (via Lecco 12, Monza),
nell’ambito della Seconda Edizione di Bibliodiversità in Bibliotececa,
il critico Antonio Loreto incontra Michele Zaffarano,
poeta e traduttore, che presenterà Cinque testi tra cui gli alberi (più uno)
(Benway Series – Tielleci, Colorno 2013).
Verranno inoltre presentate le ultime
pubblicazioni della collana Chapbook, che l’autore dirige insieme a
Gherardo Bortolotti per l’editore milanese Arcipelago.
a seguire
a Milano alle ore 18:30
presso la Libreria Utopia via Vallazze 34 (MM Loreto)
presentazione del progetto (avviato e futuro) e dell’antologia (appena pubblicata)
EX . IT – Materiali fuori contesto
a cura di
Marco Giovenale, Mariangela Guatteri, Giulio Marzaioli, Michele Zaffarano
(La Colornese – Tielleci, 2013)
In libreria, in dialogo con curatori e autori, interverranno i critici
Paolo Giovannetti e Paolo Zublena
Saranno presenti – e leggeranno testi propri e/o altrui – gli autori
Alessandro Broggi, Gherardo Bortolotti, Fiammetta Cirilli, Marco Giovenale, Mariangela Guatteri, Andrea Inglese, Michele Zaffarano
L’incontro permetterà di riflettere sulla natura dell’iniziativa EX . IT 2013 – Materiali fuori contesto, sulle scritture e gli artisti ospitati, sui progetti attuali e futuri; e di presentare l’antologia che è nata per i tre giorni di reading nella biblioteca di Albinea (12-14 aprile), città apparentemente fuori dalle rotte usuali della letteratura, in realtà ben interna e omogenea a un’area, come quella reggiana, che proprio storicamente è stata (ed è) teatro-territorio di ricerca, sperimentazione, traduzioni.
link all’evento facebook:
https://www.facebook.com/events/270978863047110
descrizione del volume e preview dell’antologia:
http://eexxiitt.blogspot.it/2013/04/exit-2013-libro.html
gli incontri di Albinea (12-14 aprile 2013):
http://eexxiitt.blogspot.it/p/exit.html
speciale EX . IT su Portbou:
http://blogportbou.wordpress.com/category/speciale-ex-it/
§
EX . IT è
_ una serie di incontri e di reading che ha coinvolto e coinvolgerà diversi autori italiani e stranieri.
_ una sequenza di letture e di installazioni verbovisive, con l’intervento di videoartisti e musicisti.
_ un momento di confronto collettivo tra percorsi già in dialogo, e la proposta di un panorama di riferimento per lettori e ascoltatori che possono trovare, per la prima volta all’interno dello stesso tempo e luogo (e libro), materiali testuali e artistici non identificati (definibili: di ricerca)
_ un volume antologico – edito dalla Tipografia La Colornese – con testi e immagini inediti – che offre un percorso di lettura, visione e documentazione dei materiali ospitati dall’evento.
_ un fondo librario, appunto denominato EX . IT, che la Biblioteca di Albinea ha inaugurato e predisposto (a partire proprio da questa iniziativa), dedicato ad alcune linee della recente scrittura di ricerca, italiane e non.
§
see also
http://eexxiitt.blogspot.it/p/about.html
§
Libreria Utopia via Vallazze, 34
(angolo.v.le Lombardia)
20131 Milano
https://www.facebook.com/libreriautopiamilano+
–
Un estratto dal volume:
Charles Bernstein
La contraddizione diventa rivalità
Lo spirito di squadra si trasforma in rivalità quando 12 studenti di medicina vengono a sapere che solo sette di loro verranno ammessi in ospedale.
A un agente della CIA è ordinato di fingere un crollo nervoso per incastrare una spia in un ospedale psichiatrico.
A Zululand, una ricerca sul campo sulle zanzare e sulle scimmie Chlorocebus, rivela che sono portatrici di malattie virali che causano febbre alta e un dolore di ossa rotte.
Ecco la sconfitta abbattersi sul conquistatore nazista. La sequenza filmata illustra il bombardamento di febbraio su Dresda; l’attraversamento del Reno e l’avanzata nella Ruhr fin dentro il cuore della Germania; e, da est, i russi che accerchiano Berlino.
Il comportamento inaffidabile di un brillante dottore crea sconcerto in ospedale.
Soggetti presi dalla strada offrono versioni frammentarie; un vetro a specchio offre delle “riflessioni” inattese; un paio di cabine telefoniche all’esterno, e due conversazioni confuse, disorientano uno.
Un colpo d’occhio dietro le quinte è legato a un tragico intreccio.
Un detective è catturato da un gangster che ha in mente di farlo di eroina e poi rifiutargli la dose finché non rivela dove abita la primissima ragazza (di cui il criminale è geloso).
Un giovane ritardato è testimone di un omicidio ma non è in grado di articolare a dovere il racconto alla polizia.
Un marito viene tradito nel Giappone medievale dove l’adulterio è punibile con la morte.
Julie cominicia ad affezionarsi a un bimbo abbandonato.
Una losca operazione di contrabbando e un hippy morto portano a un intrigo, a Malta.
Una scatola di dolci include cioccolatini a forma di rana.
[Da: Charles Bernstein, Contradiction Turns to Rivalry (1983), in Islets/Irritations, Roof Books, New York 1992, pp. 25-27; traduzione italiana di Marco Giovenale per EX.IT – Materiali fuori contesto, a c. di M.Giovenale, M.Guatteri, G.Marzaioli, M.Zaffarano (La Colornese – Tielleci, Reggio Emilia 2013.]
Da qualche settimana l’intera collezione di Sud è scaricabile gratuitamente qui Moltissime sono state le collaborazioni eccellenti per i quindici numeri pubblicati ma anche gli esordi che la nostra rivista ha reso possibili. Il testo che vi propongo è stato scritto da Luis de Miranda per noi ed è stato pubblicato sul numero tre, edito da Raimondo di Maio (Dante & Descartes) .(effeffe)
Divenite plastico. Poi esplodete.
di
Luis de Miranda
traduzione di Laura Toppan
Un libro uscito di soppiatto lo scorso marzo, intitolato Che fare del nostro cervello?, esprime un concetto ‘politico-neuronale’ che potrebbe divenire la parola-chiave del prossimo decennio: plasticità. O quando il nostro cervello ridiventa dinamite.
Altolà: tutti quelli che si disperano, perché non credono più in una possibile rivoluzione all’interno del nostro nuovo mondo concentrazionario, aspettino prima di suicidarsi. Un barlume di speranza sembra ancora permesso, e non arriva né dalla Cina né da Cuba, ma esplode dall’interno del nostro cervello.
Jean-Pierre Changeux, nel suo libro L’uomo dei neuroni, ci aveva messo in guardia vent’anni fa: la «scoperta della sinapsi e delle sue funzioni sarà rivoluzionaria tanto quanto quella del DNA». Alla lettura di questo libercolo fondamentale della filosofa Catherine Malabou (Che fare del nostro cervello?, edito da Bayard) siamo costretti a constatare che il DNA fascista si sta opponendo ad una teoria moderna che fa della corteccia (e non solamente del pensiero) un alleato dell’ideale della liberazione. Di che cosa si tratta? Innanzitutto di una buona notizia, in questi tempi di mimetismo gregario, perché «sono gli uomini che costruiscono il loro cervello e non sanno nemmeno di farlo: quindi il nostro cervello è un’opera». Ed è questa la plasticità, perché il cervello non è mai fissato una volta per tutte: durante tutta la vita i neuroni si attivano o si disattivano a seconda della storia e della volontà dell’individuo; così il cervello non è una macchina, ma è capace di rimodellarsi. E in che cosa è una nuova potenza rivoluzionaria? Per capirlo bisogna passare attraverso Il nuovo spirito del capitalismo di Luc Boltanski ed Eve Chiapello, che notano come «il funzionamento dei neuroni e il funzionamento sociale si diano mutuamente forma, come se il funzionamento dei neuroni si confondesse con il funzionamento naturale del mondo». Ma questa situazione potrebbe anche essere rovesciata.
Sappiamo, almeno sin dai tempi di Deleuze, che viviamo in una società reticolare. «Abbiamo compreso da un pezzo – sottolinea Catherine Malabou – che oggi sopravvivere significa essere connessi in rete, essere capaci di modulare la propria efficacia. Sappiamo bene che ogni perdita di flessibilità corrisponde ad una pura e semplice messa in gioco». Insomma, bisogna essere flessibili, ma è proprio qui che prende forma una tesi illuminante: la flessibilità nel lavoro, divenuta il leitmotiv del neocapitalismo, non ha nulla a che vedere con la plasticità autocreatrice. O, detto in termini più filosofici, «la flessibilità è la metamorfosi ideologica della plasticità. Essere flessibili significa ricevere la forma o l’impronta, poter piegarsi, essere docili, non esplodere. Manca, alla flessibilità, il potere di creare, di stilare, di inventare o anche di cancellare un’impronta. La flessibilità è la plasticità meno il suo genio». E non si tratta di divagazioni filosofiche, perché il biologo Jean-Pierre Ameisen aveva già insistito (nel 1999 ne La scultura del vivente) sul fatto che il cervello, lontano dall’essere – come si è creduto a lungo – un organo ben costituito interamente sin dalla nascita, è un’istanza che riceve e si dà forma allo stesso tempo. Da cui riconciliare con la natura quelli che sarebbero tentati, ancora una volta, dal disprezzo del corpo. «L’idea – sottolinea Catherine Malabou – di un rinnovamento cellulare, di una rigenerazione, di una risorsa ausiliare della plasticità sinaptica, mette in luce la potenza della guarigione – cura, cicatrizzazione, compensazione, rigenerazione, capacità del cervello di elaborare delle protesi naturali» e di diffondere le sue trovate attraverso la contaminazione (per esempio attraverso un articolo in un’altra rete: il Net). Sembrerebbe quindi, visti i risultati recenti delle neuroscienze, che il famoso mind-body problem – come lo chiamano i cognitivisti – prenda un nuovo orientamento. Già due anni prima Marc Jeannerod concludeva così il suo libro La natura dello spirito: «il paragone tra cervello e computer non è pertinente». Deleuze, uno dei rari filosofi a interessarsi alle ricerche neuroscientifiche degli anni ’80, l’aveva presentito nel suo libro sul cinema L’image-temps, in cui parla del cervello come di un «sistema accentrato», di un «effetto di rottura» con l’immagine classica che ci si fa di lui. «La scoperta di uno spazio celebrale probabilistico o semi-fortuito, an uncertain system – afferma Deleuze – evoca l’idea di un’organizzazione multipla, frammentaria, un insieme di micro-poteri piuttosto che la forma di un comitato centrale». Si può allora paragonare il cervello a un regista cinematografico, poiché la sua plasticità diventa l’immagine reale del mondo. Un’immagine che ispirerà altri registi, non sempre ben intenzionati. «Così – nota Catherine Malabou – è in riferimento a questo tipo di funzionamento che la letteratura di management di oggi raccomanda il lavoro di squadra flessibile, di neuroni, ove il capo è un connettivo. Chi non è flessibile deve scomparire». E prima di scomparire, merita di soffrire.
In Fatica di essere se stessi, libro dedicato all’esaurimento nervoso e alla nuova psichiatria, il sociologo Alain Erhenberg dimostra che esiste una frontiera tra sofferenza psichica e sofferenza sociale. La depressione è ciò che un altro sociologo, Robert Castel, chiama la «dis-affiliazione». In entrambi i casi si tratta spesso di una sofferenza d’esclusione, che si declina in altrettante malattie della flessibilità. «In un mondo ‘connessionista’, ove la grandezza sociale presuppone lo spostamento – aggiungono Boltanski e Chiapello – i grandi approfittano dell’immobilità dei piccoli; l’immobilità è infatti la fonte principale della miseria di quest’ultimi. Ognuno vive così nell’angoscia permanente di essere sconnesso, lasciato, abbandonato da coloro che si spostano». Ma, ed è l’altra buona notizia veicolata dalla plasticità, la depressione, che è divenuta oggi un fenomeno troppo massiccio per non annunciare un cambiamento più generale, potrebbe essere la prima tappa dialettica di una riconfigurazione collettiva delle coscienze. Jean-François Allilaire, professore di psichiatria all’università Sorbonne Paris-VI, ha messo in evidenza i legami tra depressione e spostamenti di neuroni: «la depressione, cioè la sofferenza psichica in generale, è associata ad una diminuzione delle connessioni di neuroni»; una diminuzione che corrisponde, la maggior parte delle volte, ad una inibizione né involontaria né tangibile. Insomma, la depressione potrebbe essere una forma collettiva di resistenza passiva contro la flessibilità. Nonostante ciò, a livello individuale, «dobbiamo imparare nuovamente – afferma Christine Malabou – a metterci in collera, a esplodere contro una certa cultura della docilità, dell’amenità, della cancellazione del conflitto; proprio ora che viviamo in uno stato di guerra permanente».
Il cervello sta forse riscoprendo, all’alba del XXI secolo, che è un processo dialettico ed è quindi giunto il momento di rileggere Hegel e anche Bergson, per il quale ogni movimento vitale è plastico, nel senso che deriva da un’esplosione e allo stesso tempo da una creazione: è solo fabbricando degli esplosivi che la vita dà forma alla propria libertà e che volta le spalle al determinismo. E poiché oggi le parole sono più potenti degli esplosivi creati dalla natura con la complicità del cervello, leggiamo, per concludere, questo passaggio dall’Energia spirituale: «l’artificio costante della coscienza, dalle sue origine più umili e nelle forme viventi più elementari, è di cambiare la legge della conservazione dell’energia ottenendo dalla materia una fabbricazione sempre più intensa di esplosivi sempre più utilizzabili. È sufficiente allora un’azione estremamente debole, come quella di un dito che preme senza sforzo il grilletto di una pistola, per liberare, al momento voluto e nella direzione prescelta, una somma il più grande possibile di energia accumulata. Fabbricare ed utilizzare degli esplosivi di questo genere sembra essere la preoccupazione continua ed essenziale della vita, dalla sua prima apparizione nelle masse protoplasmatiche deformabili a volontà fino alla sua completa espansione in organismi capaci di azioni libere». A tutti gli attentatori al plastico, arrivederci.

Nota di lettura
di
Claretta Caroppo
A Otranto, tra i ragazzi che hanno fatto amicizia con me, riconobbi subito, per la sua aria faziosa di futuro avvocato, uno studente di Maglie. Tra il bacio della vecchia e la scuola media di Maglie, è contenuta tutta la disperazione meridionale, l’errore, l’impotenza, ma anche l’energia. Pasolini racconta di un viaggio che lo ha condotto da Aversa ai confini sud orientali italiani, in un Meridione profondissimo. Nel leggere quel foglio [il giornale ‘Il Gargano’ ndr] ci si deve così doppiamente commuovere sulla miseria di questo paese che è almeno pari alla sua bellezza. E’ il 1951. Nello stesso anno nacque a Maglie, cittadina situata in provincia di Lecce, Salvatore Toma, poeta decadente, di famiglia di fioristi di antica tradizione, morto suicida a 37 anni. La redazione della prima, raffinata, lungimirante antologia delle sue liriche, pubblicata per Einaudi nel 1999, è stata curata da Maria Corti. La Corti divide le produzioni di Toma, o Totò Franz, come amava farsi chiamare, in tre sezioni, riprendendo la suddivisione già proposta da Donato Valli: la vita e la morte, l’uomo e la bestia, il sogno e la realtà.
La sezione che la Corti intitola ‘Bestiario salentino del XX secolo‘ è la seconda della raccolta. Mi piace partire da qui, scompigliandone l’ordine, dalla bestie, dalla vita, prima del sogno e della morte. Si ritrovano soprattutto delfini, squali, capodogli, balene o animali del cielo, molti falchi, un nibbio, una farfalla. Si racconta che Toma trascorresse i suoi meriggi in cima o all’ombra di una grande quercia e l’aneddoto è certificato da una targhetta che si trova appesa ad un albero nella campagna magliese, in località ‘Ciàncole’. Immaginate i compaesani. Da quel luogo Franz guardava i voli degli uccelli, seguiva le direttive del vento, fantasticava:
Se si potesse imbottigliare/ l’odore dei nidi,/ se si potesse imbottigliare/ l’aria tenue e rapida/ di primavera/ se si potesse imbottigliare/ l’odore selvaggio delle piume/ di una cincia catturata/ e la sua contentezza,/ una volta liberata. Fedele compagna una civetta, che spesso fu cara ai poeti: Il mare ardesia della notte/ scoperto da un faro/ desolato sulla scogliera/ non spaventa/ la nostra civiltà lunare,/ la tua vecchia civetta/ dal volo impacciato.[…] Non la volevo/ senza i suoi occhi gialli/ la volevo integrale selvaggia/ regina della notte fino in fondo.
E poi bisonti, maiali, cani. Più che un sognante ritorno ad una civiltà edenica e bucolica, si legge un acuirsi di quel ‘naturalismo fiabesco’ che l’ispanista Oreste Macrì ritrova nella produzione di Toma. Non stupisca che un poeta a cui la morte fu tanto avvezza abbia prodotto versi vitalissimi sull’esistenza animale, non dimenticando quanto la brutalità umana sia insuperabile:
[…]Il cielo inabissò/ nel vuoto più completo/ solo una luce strana violenta/ riservata ai grandi eventi/ serpeggiò nell’aria/ per un attimo illuminò l’oceano/ e gli uomini si tinsero/ dei loro veri volti/ crudeli spaventosi/ ineguagliabili belve/ senza forma e senza speranza ; Arriverà la vita, /arriverà, / palazzi città auto ferrovie/ saranno dilaniati come antilopi./ Il leone che è in noi/ ruggirà in maniera mai sentita/ sbranando uomini e donne/ bambini invecchiati/ e vecchi arroganti/ malati di dominio anche a costo di morire.
La terza sezione del Canzoniere, dal titolo ‘I sogni della sera‘, rivela un’oscillazione perenne fra sogno e realtà, in una dimensione visionaria fatta di deliri, impressioni alcooliche, fantasie erotiche. Talvolta Franz mette persino in dubbio se stesso e il suo modo naturale di vivere la vita in quanto E’ il passato/ non è la morte/ che mi fa paura/ è il passato/ che è il più funebre e il più funesto/ del buio di una bara/ è il passato che mi dilania/ questo essere stati/ senza possibilità di ripetersi/ di dirgli una parola.
In questa rarefazione, come ci dice la Corti nell’Introduzione al volume, troneggia la donna favolosa del poeta, questa volta una figura concreta, altera, che appartiene al mondo reale, con la quale un Franz visionario prova a rapportarsi, per la quale, ci confessa, sarebbe disposto a rinunciare ai propri versi. Il ‘Canzoniere’ di Toma si apre con una dedica al maestro Leopardi, che ha liberato/ l’Italia/ più di Garibaldi. La familiarità del poeta con la morte è docile, inevitabile, connaturata alla sua condizione di maledetto e nasce dalla considerazione che solo chi si nega la vita/ sa cosa significa vivere. Al poeta risulta impossibile diffidare di chi lo accompagna perennemente, annunciandosi con sonagli d’oro, come un’ombra, un chiodo fisso, senza segreti.
Il vero dissidio si trova nella vita, meglio ancora, nei vivi: Io sono morto/ per la vostra presenza ; Presso mezzogiorno/ mi sono scavata la fossa/ nel mio bosco di querce,/ ci ho messo una croce/ e ci ho scritto sopra/ oltre al mio nome/ una buona dose di vita vissuta./ Poi sono uscito per strada/ a guardare la gente/ con occhi diversi.
Da una parte quindi la natura, irriverente, viva, animalesca, selvatica, ventosa, come la si vedrebbe dall’ombra di una quercia, come la si sognerebbe da ubriachi e dall’altra una morte inevitabile, compagna, amante. E il poeta, in quanto tale, sa di non poter essere immortale. Si congeda alla luce, alle stagioni, all’alba, senza melodrammi. Pare talvolta di sentire Baudelaire, che parla alle ‘Due buone sorelle’. Più che fisica, la dissolutezza di Toma è alcolica, onirica, è appunto un sogno della sera. E al risveglio restano queste impressioni: Io ho l’incubo/ della mia vita/ fatta di grandi/ sconcertanti conoscenze / e di sogni paurosi. / Per questo credo / di vivere ancora per poco/ e non rischiare/ di sfiorare l’eternità./ Se passa una nube/ fra incerte piogge/ quella è la nube/ in cerca di serenità.
Io, dal mio, ho la fortuna di riconoscere gli alberi e le cicale e rivedo le rocce e i rosmarini di Badisco. Mi conforta ricordare che un poeta, nato nel paese dove sono cresciuta, abbia scritto in varie stesure: A me Dio piace indovinarlo /in una pietra qualunque, /in un’infanzia serena, /in un frutto maturo,/ nell’onda del mare, / che come la morte cancella il mio nome.
Avanzava il capodoglio
nella notte nera
a gran velocità
enorme
aveva lasciato
l’immensità dell’oceano
per venire a morire sulla sabbia.
Sfrecciava tra i bagnanti
senza toccarli
senza nemmeno sfiorarli
non vedeva che la morte
davanti a sé il sonno eterno
il plagio irreversibile
lì fra le scogliere.
Ma una volta arenato
i pescatori gli tagliarono
il ventre con lame acuminate
lo rimorchiarono al largo
giocavano con l’idea
di veder l’acqua tingersi di rosso
divertendosi a corrompere usurpare
la purezza invincibile del mare.
Allora dalla vicina scogliera
un dio superbo un po’ demone
sottoforma di mantello
volò nell’aria
catturò i vigliacchi
li frustò allo svenimento
li rese mendicanti
spogli di tutto
venditori per le vie del mondo
di collane ciondoli souvenirs
quadretti raffiguranti
corpi marini balenotteri
squali scene segrete
del profondo mare.
Il cielo inabissò
nel vuoto più completo
solo una luce strana violenta
riservata ai grandi eventi
serpeggiò nell’aria
per un attimo illuminò l’oceano
e gli uomini si tinsero
dei loro veri volti
crudeli spaventosi
ineguagliabili belve
senza forma e senza speranza.
Io spero che un giorno
tu faccia la fine dei falchi,
belli alteri dominanti
l’azzurrità più vasta,
ma soli come mendicanti.
Quad. XIX, 11
Un amore
Non si può soffocare a lungo
un amore.
Lo si può ritardare questo sì
per vari comodi
o per estreme deludenti sensazioni
ma alla fine trionfa.
Lo si può nascondere
con violenza per anni
o con indifferenza
lo si può pietosamente subire
e soffrire in silenzio
ma alla fine trionfa.
E’ un plagio istintuale
rapace che ci assale
serenamente ci opprime.
Così accadde a noi
tanti anni fa.
Dopo il fulmine
cercammo storditi
umanamente il sereno
il refrigerio del distacco
sperammo a lungo con passione
nella morte dell’altro
adducendo l’imprevedibile
trincerandoci ostili a combatterlo
armati di nuove prove
e insormontabili difficoltà.
Ma l’ultimo appuntamento
sarà inesorabile
più delle nostre vili paure.
Come tanti anni fa
riaccadrà.
Quando sarò morto
e dopo un mese appena
come denso muco
color calce e cemento
mi colerà il cervello dagli occhi
se mi si prende per la testa
(l’ho visto fare a un mio cane
disseppellito per amore
o per strapparlo ai vermi)
per favore non dite niente
ma che solo si immagini
la mia vita
come io l’ho goduta
in compagnia dell’odio e del vino.
Per un verme una lumaca
avrei dato la vita:
tante ne ho salvate
quando ero presente
sciorinando senza vergogna
l’etichetta della pazzia
con l’ansia favolosa di donare.
Per favore non dite niente.
Non ti credo
ma c’è chi giura che esisti,
forse non ti so cercare
o rassegnarmi a cadere
e tu giochi a nasconderti
non ti fai trovare,
sembriamo
due strani innamorati
ma io ti sento
qui alle mie spalle,
a volte mi sento toccare.
Quad. XIX, 12
di Helena Janeczek
Non mi ero pentita di averla accesa. Nel parterre mancavano gli ospiti che persino mio figlio riconosce come presenze di un patto sado-maso tra pubblico e programma, non stavano sbraitando, nemmeno interrompendosi di continuo. I servizi si concentravano su questioni più interessanti del consueto, rendendo tollerabili le inevitabili dosi di retorica. Poi il giovane conduttore si è avvicinato a un uomo in platea, uno di quelli invitati nel ruolo della gente-che-porta-la-sua-testimonianza. La storia doveva essere giunta al cosiddetto onore della cronaca ma non ne sapevo nulla. Mi arriva solo la faccia del piccolo imprenditore senza lavoro, gli occhi con le lacrime malassorbite.
di Gianni Biondillo
(Tre anni fa, per il Padiglione italiano della Biennale di architettura di Venezia curato da Luca Molinari, scrissi questo appello che ho la sensazione sia – mai come in questi giorni, purtroppo – ancora attuale.)
Non esiste un solo ettaro in Italia di natura “naturale”. È bene non dimenticarcelo. Il paesaggio italiano, dalle Alpi fino a Lampedusa, è stato tutto modificato, manipolato, disegnato dall’uomo. Che sia nei suoi centri storici, o nelle metropoli, che sia nelle valli impervie o lungo le spiagge, l’Italia intera è come una sorta di tela, di progetto a dimensioni iperterritoriali. Super Land Art. La differenza quindi non sta nel sogno bucolico di tornare a una natura che non abbiamo mai conosciuto per davvero, ma nella consapevolezza che questo paesaggio antropizzato – che per millenni ha saputo trovare un equilibrio fra le esigenze di chi lo abitava e il rispetto per il ciclo delle stagioni – ha subito nell’ultimo secolo troppi shock, troppi strappi nella tela. Il bosco di castagni è economia tanto quanto la centrale idroelettrica, ma è anche paesaggio, scrittura materiale del territorio. Occorre cambiare la prospettiva economica, comprendere che lo sviluppo, di per sé, non può essere infinito perché il territorio a disposizione è finibile. Anzi: è ormai finito.
La sostenibilità è uno dei mantra dell’architettura del nostro inizio millennio. Ma che significa, in pratica? “Chilometro zero”, “emissione zero” (spero non “tolleranza zero”!), e poi? Una visione dell’Italia del futuro che non comprenda che il tema vero dovrà essere la “cubatura zero” è una visione ancora legata al narcisismo puerile dell’idea di moderno. Sappiamo che la popolazione nazionale comunque crescerà, anche grazie alle forze nuove che vengono dalle epocali immigrazioni globali. Ma dobbiamo abbandonare il mito devastante, e in fondo piccolo borghese, della frontiera (mito importato, imposto, deleterio). La sfida autentica sarà costruire senza neppure rubare un solo metro quadrato di territorio agricolo, di costa, di argine, di declivio. La cubatura zero è un imperativo morale.
Oggi 100 metri quadrati al minuto di Pianura Padana vengono cementificati nel nome delle magnifiche sorti e progressive. E gli ettari di abusivismo edilizio spalmati per l’intero stivale neppure si contano. Tutto ciò non si può più sostenere, è un suicidio simbolico, artistico e materiale. La tela dell’opera d’arte globale che è l’Italia ha bisogno di ricuciture degli strappi, di attenzione, di cura. Ecco la sfida per la nuova generazione di architetti: censire, discernere, conservare. Ma anche approntare cancellature nel palinsesto, non avere paura a demolire e riprogettare intere parti del territorio, riedificare meglio e con maggiore consapevolezza le nostre città. Contraendo, piuttosto che invadendo, modificando abitudini di mobilità privata, ridisegnando gli spazi metropolitani, estendendo le superfici dedicate all’ambiente.
Il lavoro è enorme. Riqualificare le coste, dalla Liguria alla Calabria, demolendo chilometri di inutile edilizia di scarsa qualità, seconde, terze case sfitte e decrepite; ridefinire e consolidare gli argini e i letti dei nostri fiumi, riforestare i crinali contenendo i dissesti idrogeologici, liberare la Brianza dallo sprawl indifferenziato, bonificare la Terra di Lavoro dalle discariche abusive tossiche , etc. etc.
Tecnologia e green economy. Non per un romantico approccio arcadico, ma per vieto interesse. La natura può fare a meno di noi. Noi, se vogliamo sopravvivere, non possiamo fare a meno della natura.
In Italia esistono 6 Opg (Ospedali psichiatrici giudiziari), comunemente chiamati manicomi criminali. All’interno sono rinchiuse circa 1500 persone.
Zimoun, 5 woodworms, wood, microphone, sound system, 2009.
di Massimo Angelini
“Le varietà tradizionali stanno scomparendo”: così si dice e, per dare un esempio e un’immagine, si aggiunge che dove a fine Ottocento si contavano trenta tipi di mele oggi se ne trovano sì e no quattro. Certe affermazioni le sento di frequente, ripetute quasi per inerzia, non tanto perché si conosca con certezza di cosa si parla, ma perché va bene pensare che sia così. Ma non è così dappertutto. Sui monti e nelle terre che l’economia considera marginali non è così.
Sul finire degli anni 1990, durante un corso per agricoltori che si teneva nell’entroterra di Chiavari, avevo chiesto ai partecipanti (tredici persone di età diverse) i nomi delle qualità di frutta, ortaggi e cereali che una volta coltivavano e magari conservavano ancora.
La prima risposta, corale, aveva questi toni: Nu ghe ne ciü! (Non ce n’è più!), Figüemuse se ghe n’è! (Figuriamoci se ce n’è!), Na votta, ghe n’ea, ma oua … (Una volta ce n’era, ma ora …); insomma, delle vecchie varietà non restava neppure l’ombra.
È sempre così: sulle prime i contadini dicono di non avere conservato nulla. Qualche volta non capiscono la domanda; qualche volta la capiscono e se ne stupiscono; spesso diffidano e fanno bene.
Poi, dopo un quarto d’ora di silenzio e di teste che negavano, una donna abbozzò, quasi soprappensiero, che, sì, nella sua frazione era rimasta una Limunin-a, una mela Limonina. Le chiesi il luogo preciso e in corrispondenza di quel luogo attaccai una bandierina a spillo su una grande carta della zona appesa sul muro alle mie spalle. Appena parlò della Limonina, subito qualcuno aggiunse che, vabbè, quella l’aveva anche lui. Ma, a quel punto, anche gli altri avevano qualcosa da dire!
Poco a poco il rivolo dei ricordi diventava un torrente, e tutti facevano a gara per disseppellire dalla memoria le vecchie varietà dei loro posti. Dopo meno di due ore avevo attaccato 128 bandierine: 10 qualità di castagne, 8 di ciliegie, 6 di fichi, 1 di frumento, 13 di legumi, 12 di mele, 1 di noce, 9 di olive, 9 di patate, 8 di pere, 11 di pesche, 7 di prugne, 21 di uva bianca, 12 di uva nera.
Il giorno dopo ho ordinato le informazioni raccolte quella sera e le ho confrontate con due elenchi di varietà di quella stessa zona ricavati dal manoscritto di un proprietario terriero steso nel 1802 e da un’indagine etnografica curata a metà degli anni 1970 da Hugo Plomteux, quindi ho preparato una tabella comparativa da restituire ai tredici agricoltori nel successivo incontro.
Solo di frutta, nel manoscritto figuravano 64 nomi di varietà, nell’indagine 62, e quella sera ne erano stati citati ben 105: il 50% delle varietà conosciute nel 1802 era ancora coltivato quasi due secoli più tardi con lo stesso nome o con un nome molto simile.
Sui monti e nelle terre che non hanno conosciuto l’agricoltura industriale, le varietà tradizionali esistono ancora; solo sono uscite dall’orizzonte percettivo e dalla memoria delle persone ed è come se non esistessero più, ed è questo il primo passo perché sia proprio così, perché ciò che non si vede più, più facilmente può scomparire nel silenzio, anche se ancora esiste, come ancora esistono – anch’essi ormai pressoché invisibili – gli ambiti collettivi, gli usi civici, i patrimoni e le titolarità comunitarie.
Allo stesso modo rischiano di scomparire i saperi condivisi quando sono sacrificati alla dittatura degli esperti, quando la sola validazione del sapere che conti è quella dei professionisti, degli scienziati, dei professori, di coloro che sono iscritti a un ordine professionale, di chi alla sua firma può sovrapporre un timbro.
(anche questo testo, come il precedente, è tratto da “Minima ruralia”, sottotitolo: “Semi, agricoltura e ritorno alla terra”, del filosofo e ruralista Massimo Angelini, pubblicato da “Pentagora”, Savona, 2013)
Anfibologia
Il vecchio Anfisbena – come solevano chiamarlo amici, nemici e parenti – si era ritrovato a passare davanti a uno specchio che da sempre era appoggiato al muro del corridoio, lungo lungo la cui lunghezza era interrotta proprio e solamente da quello specchio, che mai Anfisbena aveva notato. Ma quella volta, più che accorgersi dello specchio, aveva scorto la figura che ivi era contenuta, ingabbiata. Ma non vi aveva fatto troppo caso, e aveva proseguito diretto in cucina per un bicchiere gelato di acqua ghiacciata e limone fresco. Faceva tanto caldo in quei giorni. L’estate aveva sgozzato la primavera, non aveva dubbi, e di tale orrendo crimine non un giornale aveva scritta una riga! Ingollato che ebbe l’acqua ghiacciata, se n’era stato a suggere il limone, sbrodolandosi a partire dagli angoli della bocca, ed era quasi tornato nello studio. Quasi perché si era fermato poco dopo il grande specchio, e poi aveva fatto un passo indietro, incerto, ma indubbiamente di grande effetto coreografico. Orrore! Un uomo sfatto, sporco e trasandato profluiva occhiatacce e sudore. La barba incolta, le sopracciglia incolte, un prognatismo evidente, i capelli radi avvolti da una retìna, e una tuta con una toppa rossa sul ginocchio sinistro. Si era avvicinato al suo riflesso e aveva fissato interito un peletto che sulla punta del naso, leggermente ricurvo, si ergeva imponente nella radura deserta delle cartilagini superiori. Con le unghie lunghe e ingiallite dal tabagismo aveva pinzato il pelo e, zac, lo aveva divelto. Quindi si era accorto di se stesso e si era fissato negli occhi. Gli era sembrato di notare livore e disapprovazione nel suo sguardo. Aveva fatto finta di niente e si era rintanato nel suo studio, isolato dal mondo, per terminare di scrivere la sua cosmogonia, mentre di là, in corridoio, nascosto nello spazio invisibile nello specchio, il suo riflesso si era seduto per terra, e fissava il peletto, in attesa della prossima esibizione.
Transustanziazione
Come ogni domenica, Giordano si recò a messa per sussurrare tra i denti, rivolto al prete, «Canaglia pezzente!». La piccola chiesetta sorgeva alla fine del grande corso, anonima come tutte le chiesette di quartiere, con una piccola croce sopra il portone in legno a indicare che quella era la casa del Signore, e ospitava un numero esiguo di fedeli cui bastava ristorare lo spirito invece che gli occhi. Il parroco era un omino dal busto corto agganciato a due lunghe gambe che gli conferivano un aspetto sghembo e vagamente comico. Fortunatamente per lui, la rigida estetica cattolica impone tonache lunghe fino ai piedi, e solo in pochi avevano notato quella sua strana forma. Tra questi Giordano, che più di una volta si era soffermato dopo la messa, seduto su una panca verso le ultime file, a fissare in cagnesco il pretino che sistemava la sala dopo la cerimonia delle dieci, in attesa di quella delle undici. Anche Don Tommaso – questo il suo nome – gettava ogni tanto uno sguardo di sottecchi verso quell’uomo torvo che non si perdeva una messa. Bruno di carnagione, e statuario d’aspetto, aveva uno strano sguardo inquisitorio che metteva a disagio il povero parroco, turbato da tanta attenzione da parte di un uomo che, era risaputo, non credeva né in Dio né nella curia romana. Tuttavia, scacciati i cattivi pensieri, alle undici spaccate Don Tommaso salutò i fedeli, recitò il Kύριε ἐλέησον, e dopo la liturgia della parola, cadenzata dagli sbuffi sarcastici di Giordano, si inginocchiò per la celebrazione eucaristica. Qualcosa però andò storto, perché l’ostia, rivolta verso il cielo con aria di sognate contrizione da parte del pretino, cominciò davvero a grondare sangue, che gocciolava sul vino e sull’altare. Colto da terrore, Don Tommaso lasciò cadere l’ostia e fuggì via correndo, mentre Giordano – riferiscono alcuni attoniti testimoni – si gettava con cannibale riverenza sul corpo di Cristo.
Il neo
La sveglia suonò alle otto come ogni mattino e, come ogni giorno, lei pigiò il tasto snooze e si rigirò su un fianco stringendo tra le gambe un cuscino, cercando la parte più fresca del letto. La trovò in fondo a destra, quasi a cavalcioni sul materasso e a contatto col muro. Sollievo. Nei dieci minuti concessi dal cellulare – odiava i ticchettii delle vecchie sveglie – fece un sogno strano, della densità di un buco nero, nel quale incontrava se stessa, con educazione si salutava, e poi si oltrepassava attraversandosi letteralmente, come fosse un ectoplasma. Dopo si sentiva l’altra se stessa, e tornava da dove era venuta come fosse la prima volta che percorreva quella strada. Il sogno fu interrotto dal suono del cellulare, e stavolta si alzò. Indossò le pantofole e con gli occhi gonfi di sonno andò in cucina, dove, con grande sorpresa, trovò la moka già pronta e un bigliettino di Luis. Sorrise e accese il fornello, prese una tazzina che riempì eccessivamente di zucchero e, mentre aspettava che il caffè salisse, si accinse a rispondere al messaggio. Tuttavia a metà le cadde la biro di mano perché si accorse che stava scrivendo con la destra, nonostante lei fosse sempre stata mancina. Con timore raccolse la penna e provò a scrivere con quella che alle elementari, dalle suore, tutti definivano la mano del diavolo, e si spaventò nel vedere sgorbi d’inchiostro comparire a fatica sul foglio, mentre l’altra mano scorreva fluida come quella di un amanuense. Tremolante corse in bagno per sciacquarsi il viso, convinta di essere ancora sotto le coperte immersa nel suo sogno, ma l’acqua non la svegliò, giacché ne dedusse che era già sveglia. Gocciolante si fissò allo specchio, e notò che il neo di cui andava tanto fiera, sotto l’occhio sinistro, si era come spostato sotto il destro. Dall’altra parte la sua immagine sembrava dirle «Adesso tocca a me».
*
Immagine: Alighiero e Boetti.
di Domenico Arturo Ingenito
Aggio visto in Angleterra comme se ne care o império
e falaremos da superioridade espiritual
do popolo lusitano quanno a Lisbona
a luce se spanne pe ddint’e cuorpe
que passam pelos prédios incendidos

di Fiammetta Galbiati
Il mutuo gliene dissipa la metà e la figlia lontana un altro terzo. Il resto se lo fa bastare, tanto nipoti non ne ha e magra, era già magra prima. A tavola mette solo pasta e patate, e le verdure marce che raccatta all’imbrunire al mercato. Il sapore del pane è un ricordo antico, come tante altre cose, la speranza per esempio, ma finché ha un tetto ha tutto.
Ai Weiwei – Disposition
Evento collaterale della 55. Esposizione Internazionale d’Arte – Biennale di Venezia
29 Maggio – 15 Settembre 2013
Giudecca e Sant’Antonin, Venezia
Anteprima Stampa: 28 maggio ore 10.00
Come Evento Collaterale della 55. Esposizione Internazionale d’Arte – la Biennale di Venezia, Zuecca Project Space presenterà, dal 29 maggio al 15 settembre 2013, una mostra di nuove opere di Ai Weiwei. Si tratta dell’unica grande personale dell’artista nel 2013 e avrà luogo in due diverse sedi veneziane: il complesso delle Zitelle, sede di Zuecca Project Space, e la Chiesa di Sant’Antonin. Opere di Ai Weiwei saranno inoltre esposte in altri punti della Biennale di Venezia nell’ambito della mostra collettiva del Padiglione Tedesco.
Da qualche settimana l’intera collezione di Sud è scaricabile gratuitamente qui Moltissime sono state le collaborazioni eccellenti per i quindici numeri pubblicati ma anche gli esordi che la nostra rivista ha reso possibili. Il testo che vi propongo è stato scritto da Yasmina Khadra per noi ed è stato pubblicato sul numero uno, edito da Raimondo di Maio (Dante & Descartes) .(effeffe)
Viva il talento
di
Yasmina Khadra
traduzione di Martina Mazzacurati
Sono rimasto pensieroso, quel sabato 30 novembre 2002. Pensieroso e scosso. Letteralmente preso in contropiede. La Francia sempiterna rendeva omaggio ad uno dei suoi più sbalorditivi romanzieri, Alexandre Dumas, innalzandolo all’empireo del Pantheon. Il presidente Chirac ostentava la sua più solenne gratitudine nel rivolgersi alla spoglia di Alexandre Dumas, quel mulatto dai capelli crespi la cui pelle non abbastanza chiara offriva in passato il fianco a tanta indelicatezza. Quella sera, in una Parigi completamente sedotta, abbiamo capito una cosa essenziale: il genio si sottrarrà sempre alla meschinità.
Eppure, in altri tempi, questa stessa Francia non era stata così tenera con i suoi scrittori. Hugo, Zola, Jules Vallès, per citarne solo alcuni, erano stati messi al bando, con schiere di creditori alle calcagna, di sbirri zelanti, quando non si trattava di oscuri critici allergici alla luce radiosa del talento.
Quanti poeti eccelsi, vero, Baudelaire? Quanti romanzieri illuminati, giganti straordinari hanno dovuto subire l’esclusione e la crudeltà dei loro detrattori, restando a vegetare in condizioni penose, aspettandosi il peggio solo perché offrivano ai loro simili il meglio di sé?
Ma la Francia, che non perdona mai, sa come farsi perdonare. Dopo le grettezze e le piccole ingratitudini, ecco arrivata l’ora degli omaggi tardivi, belli, sinceri, magici, grandiosi, per ridare evidenza alla grandezza incontestabile della nazione. Parigi ricorda e si raccoglie; le sue strade si prestano straordinariamente alla messinscena della mitizzazione; la guardia repubblicana cadenza il passo sulla marcia funebre; la Francia degli dei riscopre il suo olimpo, raramente ha superato sé stessa come in quel sabato.
E tuttavia, proprio nel momento in cui Alexandre Dumas viene innalzato al rango che compete alla sua generosità, le consorterie segregazioniste di ieri si preparano a infierire. La cerimonia è appena terminata e già la falsa bohème rimette in campo le sue frustrazioni, le lingue biforcute, abilissime nel dire tutto e il contrario di tutto, riprendono il volo e i guru delle Lettere rinnovano la loro stupefacente vocazione: proscrivere il colpo di genio, destituire i meriti, dequalificare il talento autentico e consacrare volgari scempiaggini a scapito di opere sublimi.
In quella medesima settimana, mentre i Francesi esumavano il loro Grande estinto per portarlo alle stelle, in Algeria si continuava a profanare le tombe e a “resuscitare” i nostri cari dispersi solo per buttarli nel fango. Un superbo poeta, Tahar Djaout, assassinato dagli integralisti nel 1993, viene bruscamente strappato al sonno eterno per essere esposto agli anatemi. Ed è così che un tale scrittore fallito, Tahar Ouettar, autore di lingua araba nonché guru nei suoi momenti bui, trova che il fatto di scrivere in francese sia gravemente oltraggioso.
Oltraggioso per chi?
Per la letteratura algerina o per quei pennivendoli da serraglio, a lungo adulati in mancanza di concorrenza nell’epoca in cui le vere vocazioni erano imbavagliate dalla canaglia messianica che ci governava e che oggi si ritrovano faccia a faccia con la loro mediocrità?
A quei nostalgici del tempio virtuale vorrei dire che la letteratura non è una questione di lingua, ma una questione di “verbo”. E il “verbo” è innato, viscerale – lo si possiede o non lo si possiede. E certo non s’improvvisa, né se ne fa merce di scambio, e se – per le esigenze della Causa – lo si dovesse costruire di tutto punto, non durerebbe che il tempo di uno slogan, perché l’autenticità del talento si valuta a conti fatti, in funzione della sua longevità. Gogol non è un genio perchè è russo, lo è grazie alle eccezionali doti di domatore di parole, come Camus, Naguib Mahfouz, Mutis, o Musil. Questi esseri divini addomesticano la lingua a beneficio delle parole; quando scrivono, si innalzano al di sopra dei vocaboli per raggiungere gli spiriti; diventano maghi, incantatori, visionari illuminati, e mettono il loro talento al servizio degli uomini, di tutti gli uomini senza distinzione di razza o di costumi perché la letteratura è la patria di tutti.
Lo scrittore che non ha ancora centrato il problema, commette un grossolano errore di processo; il suo posto non è nei libri, ma nel disprezzo degli assennati.
“Scrivere” non ha bisogno di complementi, è un verbo autosufficiente. In arabo, in cinese, poco importa; tutti gli incantesimi si assomigliano, a patto che non ci siano guastafeste. La felicità di uno scrittore sta nell’essere letto. I lettori non sono più Australiani, Indiani, Fiamminghi, Croati, Italiani o Libanesi; sono i SUOI lettori. Le frontiere non hanno senso quando gli uomini si capiscono. E quando degli energumeni riescono a perdere il treno, quando sanno che non hanno niente da dare, quando la loro insignificanza li riacciuffa, diventano malvagi come iene.
Non c’è peggiore orrore della gelosia.
Invece di mobilitarsi intorno ad uno splendido progetto, di consolidare i bastioni delle nostre ambizioni e di operare perché l’intelligenza dia scacco matto al gioco d’astuzia e alle connivenze, nel mio paese ci si accanisce a sgozzare le teste che predominano.
Brahim Llob scrive al riguardo: “ In Algeria, le cose vanno così, senza scampo. C’è in noi una sorta di piacere perverso nel non dissociare il successo altrui dall’eresia, o dalla fellonia. Questo pregiudizio esercita su di noi un prurito doloroso e piacevole al tempo stesso; potremmo grattarci a sangue senza pertanto volerci fermare. Cosa volete? Ci sono persone strutturate così: contorte perché incapaci di restare dritte, cattive perché hanno perso la fede, infelici perché amano profondamente esserlo. A memoria di Algerino, non abbiamo mai nemmeno tentato di riconciliarci con la nostra verità. Quale salvezza possiamo mai prescrivere ad una nazione quando il fior fiore dei suoi figli, che dovrebbe risvegliare le coscienze, comincia con il travestire la sua?”
Quello che dovremmo ritenere della nostra rovina odierna è, senza ombra di dubbio, questa cecità morbosa che ci impedisce di vedere la bellezza di ognuno di noi, questa ostilità cretina che ci aizza come un’orda di cani rabbiosi contro le nostre prodezze, questa grettezza che ci rende fragili ogni volta che la notorietà apre le braccia ad uno di noi. Dal momento che una rondine non fa primavera, nessuno scrittore può, da solo, incarnare la letteratura.
Così come, quando il talento eccelle, diventa ridicolo contestarlo. Anzi, bisogna saperlo salutare. E’ là che risiede il buonsenso. La grandezza non consiste nello sminuire gli altri nello scopo di sovrastarli; essa è il coraggio e la probità intellettuali di inchinarsi davanti alla magnificenza che li distingue.
di Angelo Ferracuti
George Orwell nel suo saggio sui minatori inglesi La strada di Wigan Pier, una cittadina mineraria dell’Inghilterra del sud, a un certo punto scrive sgomento: ≪La media degli infortuni fra i minatori è cosi elevata, a confronto con altre attività, che le morti sono accettate come cosa normale, quasi come si farebbe in una guerra minore≫. Come succede in Italia, dove attualmente ci sono 8oo.ooo invalidi e 130.000 tra vedove e orfani che percepiscono una pensione. E’ una cosa che viene da lontano se si pensa che nel ventennio 1946-66 si sono verificati 2.2860.964 casi di infortunio e di malattia professionale, con 82.557 morti e 966.880 invalidi: quasi un milione di menomati, il doppio di quelli causati dalle due guerre mondiali, che furono mezzo milione. Mentre la media degli infortuni e delle malattie professionali negli anni della ricostruzione e del boom economico è stata lievemente superiore a un milione di casi annui, dal 1967 al 1969 la cifra è salita a oltre 1,5 milioni e nel 1970 a 1.650.000. Con un primato successivo: il nostro paese nel decennio 1996-2005 è risultato quello con il più alto numero di morti sul lavoro in Europa. Infatti continuano a creparne più di quattro al giorno. Rachid Chaiboub, un operaio marocchino di trentadue anni, è morto a Desio mentre stava pulendo una tramoggia spargisale. Ha sollevato la grata di protezione dei rulli ed è precipitato all’interno del macchinario. Fabrizio Pagliano, trent’anni, e morto alla cartiera di Torre di Mondovì: era rimasto impigliato con la tuta in una apparecchiatura che poi ne ha provocato la morte per soffocamento. Francesco Calderaro, operaio di quarant’anni, è scomparso tragicamente a Palagiano cadendo dall’impalcatura di un capannone mentre stava rimuovendo alcune lastre in eternit dal tetto. A San Nicandro Rachid Douioi, trentun anni, bracciante agricolo, è stato travolto brutalmente e senza scampo dalla macchina rotante del trattore mentre recuperava dei tubi per l’irrigazione. Sono alcune vittime di una strage infinita, e sembrano i personaggi della piccola America di fine Ottocento cantati da Edgar Lee Masters nell’Antologia di Spoon River. Dopo un secolo ecco i nuovi Butch Weldy, che saltò in aria mentre la cisterna esplodeva nella fabbrica di scatolame e ricadde ≪con le gambe spezzate e gli occhi bruciati come uova fritte≫, o Herman Altman, ≪arso nella miniera≫; per non parlare di quel Mickey M’Grew che per pagarsi la scuola finì operaio giornaliero e morì mentre puliva la torre dell’acqua:
Sempre la solita storia la mia vita:
qualcosa al di fuori di me mi trascinava in basso,
non fu la mia forza ad abbandonarmi.
Ci fu una volta che mi guadagnai i soldi
per andarmene via a studiare,
e all’improvviso mio padre si trovò in difficolta
e dovetti dargli tutto.
E così un giorno mi ritrovai
uomo tuttofare a Spoon River.
E quando si trattò di pulire la torre dell’acquedotto
e mi tirarono su a settanta piedi di altezza,
mi sciolsi la fune dalla cintola,
e slanciai allegramente le braccia gigantesche
verso il liscio orlo d’acquaio della cima della torre –
ma scivolarono sul perfido limo,
e giù, giù, giù, affondai
nella tenebra ruggente!
Massimo Occhiuzzi, quarantun anni, è stato schiacciato da una pressa in una fabbrica di Avezzano dove si lavorano ferro e profilati. Al povero Gaetano Saraceni, trentuno anni, è stata fatale una sbarra metallica mentre lavorava vicino a un macchinario in un’azienda specializzata in stampaggio di metalli, a Solbiate Arno. Michela Vagaggelli, portalettere di quarantun anni, è morta a Siena: mentre percorreva una via in ciclomotore è stata urtata da un’auto che viaggiava a forte velocita nel senso opposto di marcia. Per lei non c’è stato scampo. Cambiano i nomi, i cognomi, ed eccone di nuovi. Nella società dello spettacolo parlarne significa cancellarli. Sono esistiti per trenta secondi, per un minuto, qualche loro familiare diventa protagonista di un programma di intrattenimento del primo pomeriggio. La faccia di un conduttore mostra un’espressione commossa, l’invitato piange, lo share si alza, si impenna, va su. Per altri di questi operai il lavoro è fisiologicamente letale, perché è rischioso ed espone a malattie a volte incurabili.
Forse pochi lo sanno, ma nel nostro paese ci sono ancora i minatori. Non vanno quasi più nelle miniere, non scavano cunicoli per estrarre il carbone come accadeva nel distretto di Marcinelle, ma uno di loro, Pietro Mirabelli, crepato a cinquantadue anni nella galleria Alptransit del Canton Obvaldo, in Svizzera, anche lui aveva lavorato insieme ad altri suoi compagni nei cantieri dell’alta velocita del Mugello: otto ore e più a massacrarsi di fatica nel sottosuolo e una paga da fame. I rischi per la salute sono ancora altissimi: il più comune si chiama silicosi. Per capire quanto la silicosi sia legata a questo genere di mansioni, basti pensare che qualcuno l’ha soprannominata la tisi dei minatori: una malattia che attacca i polmoni causata dall’esposizione prolungata a un minerale molto pericoloso, il biossido di silicio. I sintomi più frequenti possono comparire anche dopo tanti anni dall’esposizione: difficolta respiratorie, tosse, insufficienza cardiaca, tubercolosi. Sempre George Orwell, in quel libro ormai diventato di culto, definì con esattezza estetica la condizione degli uomini del sottosuolo: ≪Più di ogni altro, forse, il minatore può rappresentare il prototipo del lavoratore manuale, non solo perché il suo lavoro e cosi esageratamente orribile, ma anche perché è cosi virtualmente necessario e insieme così lontano dalla nostra esperienza, così invisibile, per modo di dire, che siamo capaci di dimenticarlo come dimentichiamo il sangue che ci scorre nelle vene≫. Molti di questi lavoratori non li vediamo, nessuno ce li racconta, come gli addetti ai fumi, che rischiano l’avvelenamento da mercurio, o quelli che lavorano nelle cave, soggetti a gravissime malattie dell’apparato uditivo che causano ipoacusia da rumore. Per non parlare della costante esposizione ai gas che aumentano il rischio di cancro ai polmoni. Qualcuno sa dei palombari che resistono alla mitologia di Jules Verne e dei suoi romanzi avveniristici, per caso? Ebbene, molti sono vittime di un’infermità che colpisce chi opera in cassoni subacquei o dentro scafandri elastici. E ancora ci sono gli operai delle fonderie costretti a maneggiare materiali che contengono amianto e quelli che lavorano in spazi ristretti, all’interno di condotti, cunicoli di servizio, oppure pozzi, fognature, serbatoi e caldaie, un lavoro invisibile come i tanti lavoratori che si calano nelle segrete di una nave, nei bassifondi lerci, oscuri, puzzolenti, e che si chiamano in gergo picchettini.
Al porto di Ravenna, nei cantieri navali Mecnavi di proprietà dei fratelli Arienti, il 13 marzo 1987 tredici di loro morirono asfissiati per via delle esalazioni di acido cianidrico provocate da un incendio nelle stive della Elisabetta Montanari, una nave cisterna in secca adibita al trasporto di Gpl. Davanti all’ingresso del palazzo comunale, a metà della scalinata, c’è una lapide che li ricorda, vicino a quella dei partigiani, perché questa è la citta di Arrigo Boldrini, il comandante Bulow. Ma la lapide e un po’ troppo generica: ≪La citta di Ravenna alla memoria dei morti sul lavoro≫. Morti dove, perché? Parafrasando la frase scritta davanti ai cantieri navali di Monfalcone che ricorda i morti per amianto (≪Costruirono le stelle del mare, li uccise la polvere, li tradì il profitto≫), avrebbero potuto scrivere: Pulivano le navi dei petrolieri miliardari, li uccisero i tempi di consegna, li tradì il profitto. Si chiamavano Filippo Argnani, e aveva quarant’anni, Marcello Cacciatori, ventitré, Alessandro Centioni, ventuno, Gianni Cortini, diciannove, Massimo Foschi, ventisei, Marco Gaudenzi, diciotto, Domenico Lapolla, venticinque, Mosad Mohamed ne aveva solo trentasei, il povero Vincenzo Padua, sessantenne, stava per andare in pensione e si trovò li per puro caso, chiamato all’ultimo momento per uno scherzo del destino, ed era l’unico assunto e veramente in regola dalla Mecnavi; e ancora Onofrio Piegari, ventinove anni, Massimo Romeo, ventiquattro, Antonio Sansovini, ventinove, e infine Paolo Seconi, anche lui di ventiquattro. Tredici lavoratori morti come topi, asfissiati nel ventre della balena metallica. ≪Non credevo che esistessero ancora simili condizioni di lavoro, a Ravenna, alle soglie del Duemila≫, disse il procuratore capo della Repubblica Aldo Ricciuti che svolse le indagini. Fu una giornata tragica e indimenticabile per la città, e ai funerali, tre giorni dopo, arrivarono la presidente della Camera Nilde Iotti, tutti i massimi dirigenti del partito, e le foto in bianco e nero dell’epoca mostrano il primo cordone di uomini e donne delle istituzioni, i cappotti scuri e le cravatte nere, e dietro una folla immensa e impietrita con gli striscioni dei Consigli dei delegati del porto e delle fabbriche della zona, i vecchi comunisti dagli sguardi increduli, gli occhi lucidi, con ancora le bandiere rosse e in cima un cerchio di metallo dorato con la falce e il martello, un clima da messa da requiem. Mancò il presidente della Repubblica Francesco Cossiga, che non ritenne opportuno recarsi nella terra dei ≪bolscevichi≫. Tre giorni dopo Miriam Mafai dalle pagine di ≪Repubblica≫ fece una riflessione citando un autorevole commentatore della televisione giapponese, il quale diceva, rivolto a noi italiani: ≪Voi ci avete dimostrato che si possono raggiungere buoni risultati economici senza trascurare la qualità della vita≫. ≪Purtroppo poi, – scriveva la giornalista, – arriva una tragedia come quella di Ravenna a dirci che le cose sono un po’ più complicate: il secondo miracolo economico, l’aumento del Pil, della produttività e del profitto non sono frutto soltanto di robotica informatica elettronica, ma anche di lavoro più o meno nero, lavoro all’antica “al limite delle possibilità umane”, come ha commentato un magistrato, “in un buco senza uscita, sdraiati per dieci ore al giorno, con l’aria che mancava e la testa che girava per le esalazioni di anidride carbonica”, come ha raccontato un ragazzo che si è salvato perché ha preferito licenziarsi. Dunque, nel felice paese che ha superato l’Inghilterra, nella Pirlandia che è il quarto paese industriale del mondo, in una regione che è fra le più progredite d’Italia, si può morire anche così: un giovane disoccupato, diplomato in ragioneria, a fianco dell’ex tossicomane che intendeva liberarsi della droga e dell’immigrato del Nordafrica che aveva trovato alloggio in una baracca dei bagni di Marina di Ravenna. Visto che celebriamo quotidianamente la scomparsa della classe operaia, come classificheremmo dal punto di vista sociologico questi morti?≫
(questo testo è tratto da “Il costo della vita”, Einaudi, 2013; l’immagine è una delle fotografie di Mario Dondero incluse nel volume)
di Rita Filomeni
Da il quarto chiodo*
scena II
. spurgatorio
ricordano ‘n un secchio le lumache
ammucchiate e a spurgare, i detenuti,
ciascuno come può suo fa ‘l padrone
all’altro, che rilancia, e affila ‘l fiato
prender o lasciare tertium non datur,
un contro a gl’altri o con i secondini
si gioca, a torto o a diritto, allo stato
ci vive ‘n tal fascio di loglio e grano
‘n cappellano senz’armi né mestiere,
prega dio sciolga nodo all’impiccato
cui piove ‘n testa, dall’ultimo piano
scena VII
. supermercato
la noia è tanta, men la necessità,
ci va al supermercato col levriero,
come per riflesso a pavlov, saliva,
va a mille il cuore suo del carrello
e imbarca coll’agnello ‘l pecorino,
non sa che questi è falso, in natura
il cacio sol si fa se muore ‘l primo
soddisfatta, a passo lesto, in cassa
cerca, cerca, ‘n un mare di tessere,
e coi punti vince pur ‘na bicicletta,
è ‘l chilometro zero del benessere
*La serie completa – otto scene comprese tra un prologo e un epilogo-sipario – sarà pubblicata sul prossimo numero della rivista “Incroci. Semestrale di letteratura e altre scritture” (numero 27, gennaio-giugno 2013), introdotta da una nota di Paolo Giovannetti.