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Biografia anelastica di Felice Chilanti (1914-1982)

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di Davide Orecchio

(Qualche anno fa ho scritto una breve biografia di Felice Chilanti. Adesso l’ho riscritta e la ripropongo qui. Per chi non la conoscesse, è una storia interessante. Un giovane fascista che provò a uccidere Ciano. Un comunista che raccontò i crimini di Stalin. Nello stesso uomo. Chilanti fu, soprattutto, un grande giornalista. Scoprì la mafia dei corleonesi, che risposero con una bomba al tritolo. Ma non fu la mafia a ucciderlo)

Autismi mitografici 1 – I vestiti

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di Giacomo Sartori

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I vestiti globalizzati che indossiamo sembrano fatti apposta per nuocere e risultarci insopportabili. Malmenano i testicoli, causando non di rado impotenze e disfunzioni (preludi di suicidi), segano in due l’addome, comprimono i seni, provocano sulle carni attriti, correnti elettrostatiche e allergie, costringendo financo i poveri piedi a una insana prigionia. Per un curioso rovesciamento sociologico sono i ricchi e i potenti che si puniscono con gli indumenti più temibili: cravatte assassine, giacche che lasciano scoperte proprio i bronchi e le aree più delicate, o simili a camicie di forza, masochistiche cinture, calzature lucide e funerarie come bare. Più i vestiti sono pretenziosi e più sono nocivi, più allontanano dall’agio della nudità primigenia, più fanno penare. Forse proprio per dare l’esempio i cosiddetti rappresentanti della legge si parano con rigide uniformi, erti copricapo, ridondanti finimenti. Le donne ricche e potenti per mostrare che sono ricche e potenti prediligono vertiginosi tacchi, lunghi e claustrofobici stivali, interminabili o risicatissime gonne, cruenti orecchini e altri pendagli, non di rado accompagnati da catenacci e borchie, anelli, espressionistici dipingimenti delle labbra e degli artigli, elastici che tendono fino all’inverosimile i capelli, altri strumenti di tortura.

Il parossismo si raggiunge come è noto nelle cosiddette sfilate di alta moda, i cui sadismi sono secondi solo a certi fantasiosi esperimenti nazisti. Ma a differenza delle malefatte naziste non sono vituperati, e anzi vengono seguite con curiosità e soggezione. Le modelle e i modelli vi officiano con anoressica ieraticità, senza accumulare rancore per i loro seviziatori, senza urlare, chiusi nella loro autistica connivenza, come rassegnati schiavi legati l’uno all’altro dagli invisibili ferri della persuasione mediatica, della religione della celebrità. Ci vorranno ancora molti decenni, forse secoli, prima che si ribellino, prima che rendano ai loro aguzzini analoghe punizioni.

Purtroppo anche le persone meno ricche e potenti, e perfino quelle povere e inermi, in una folle corsa per non essere da meno, per mostrarsi altrettanto desiderabili di quelle ricche e potenti, per acquisire briciole di notorietà, se non altro domestica, professionale, associazionistica, si costringono in gonne e pantaloni simili a confezioni sottovuoto, o tutto all’opposto troppo vaste e lasse, medusiformi, spropositate. Abbondano anche qui i tacchi e gli altri paradossi ergonomici, le ridondanze, i barocchismi, le colorazioni posticce, i contorni oculari da ammaliatrice di circo, i minuti dettagli volti solo alla tortura. È una follia che ha contagiato anche i paesi svantaggiati, e non è raro vedere dei poveri ugandesi incravattati, plasticati, innestati in letali stivali, ricoperti da stucchevoli ceroni. Perfino i bambini vengono impacchettati senza nessuna pietà.

Gli sportivi sono tra i più fanatici adepti del culto vestimentario consumistico, prediligendo budelli sintetici dai colori violenti, aerodinamici, dechirichiani. Ogni sport ha il suo corredo di psicopatici paramenti, sarebbe un sacrilegio per esempio sciare addobbati da ciclisti, o tirare di scherma travestiti da montanari. Ma la stessa esistenza quotidiana è considerata ormai un insano sport. Ormai solo i barboni e qualche impresentabile vecchio si vestono in maniera davvero confortevole, solo i prigionieri indossano pratiche tute da ginnastica. Solo i pazzi, i dementi, i poeti non ancora corrotti, badano al sodo (finché qualcuno non li travia). Solo i militari, lodevole eccezione, dopo secoli di ridondanze autolesioniste tornano ora a una più salutare sobrietà, pur indulgendo ancora a un coloniale eccesso di tasche e taschini. Hanno finalmente capito che per morire convengono vestiti accoglienti. Che è poi quello che dovremmo capire tutti.

Adesso vengono considerati capi di abbigliamento anche orpelli inutili o dannosi, come per esempio gli occhiali da sole. Nella mia vita non ho mai incontrato essere umano che li inforcasse che non fosse un perfetto coglione, e francamente non credo che esista o possa esistere un individuo di tal fatta, ma si fa finta di nulla. Sono certo che i nazisti li avrebbero adorati, se solo fossero stati disponibili. Prezzolati oculisti affermano che tali enzimi del più bieco narcisismo neocapitalistico, tali nefaste maschere dell’emotività, sono benefici e anzi necessari per gli occhi, quando tutti sanno che l’uomo è vissuto alla grande cinque milioni di anni senza di essi. Anzi, probabilmente la specie umana si sarebbe estinta, se fossero stati inventati prima: i nostri antenati avrebbero tirato frecce silicee nel vuoto, avrebbero cannato fondamentali incastri sessuali, mandando in tilt l’evoluzione.

Il giorno in cui si denunceranno tutte le assurdità e le perversità dei singoli capi di abbigliamento, e si avrà il coraggio di addentrarsi nella complessa foresta dei loro concorsi e sinergie, è ancora molto lontano. Perché i danni fisici si potrebbero ancora sopportare, quello che è intollerabile dei vestiti sono il dispotismo e l’arroganza semiotica. Ogni minimo vestimento, ogni più infimo dettaglio, ogni tipo di stoffa, ogni cucitura, e non parliamo poi dei colori, delle fogge, delle citazioni implicite o esplicite, pretendono di significare qualcosa, di dirla lunga su noi che li portiamo a spasso, di qualificarci, rivelarci. Qualunque cosa ci si metta addosso, qualsiasi corredo si scelga, anche il più neutro, il più mimetico, grida dei significati che ci sono estranei e spesso odiosi, arbitrari, dittatoriali, liberticidi. Lo leggiamo giorno dopo giorno e ora dopo ora negli occhi di coloro che con una maggiore o minore sfrontatezza ci guardano: leggono i nostri cosiddetti indumenti come si decifra una pubblicità, come si naviga su un sito internet, e ne ricavano l’impressione di conoscere tutto di noi, di penetrarci fino al fondo dell’anima. Nell’era del consumismo elettronico la gente ormai sa a stento leggere e fare di conto, ma sa capire o crede di capire con disinvolto virtuosismo il linguaggio menzognero dei vestiti. È forse l’ultima reale competenza che è rimasta all’umanità: anche il più idiota passante in qualche decimo di secondo ti scannerizza e ti classifica, sintetizzando, comparando, memorizzando, archiviando. Ci sente violati, prigionieri di una legislazione estetica e comportamentale che ci è nemica. È una tortura.

Il mio sogno, visto che proprio non si può fare a meno di vestirsi, sarebbe indossare capi che passino inosservati e non dicano nulla di me, che non denotino affinità o idiosincrasie, che siano muti come pesci. Se ci fosse un negozio che li vende, correrei a rifornirmi. Ma naturalmente è una chimera: ogni indumento vuole parlare di me e raccontarmi, ogni dettaglio si interpone tra me e gli altri e mente sulla mia persona. Non sono libero, sono un coatto. Oggi per esempio non ho potuto mettermi dei pantaloncini corti, perché non essendo un bambino, e non essendo estate, sarei stato preso per pazzo. Come non avrei potuto indossare una gonna, o un casco da palombaro, un pennuto copricapo da indiano. Del resto io stesso, e questo la dice lunga sulla mia pusillanimità, cerco di adattarmi il più possibile ai contesti semiotici in cui mi trovo. Per le riunioni di lavoro scelgo un golfino che incuta una fiducia tecnologica consona al mio ruolo (la cravatta non potrei, non so fare il nodo), dei pantaloni senza i rammendi e le macchie di unto che contraddistinguono quelli che infilo a casa, delle scarpe comode ma anche assertive, convincenti. Quando vado in piscina o dalla psicologa (adesso dagli psicologi ti fanno togliere le scarpe), faccio attenzione a avere dei calzini senza buchi, per le cene tra amici scrittori mi travesto da agrimensore simpatico e alla mano, immerso nella quotidianità ma anche gravemente appartato, burbero però anche sentimentale. E via dicendo. Patendo di una sindrome di abbandono, sulla quale ora non mi dilungo, cerco di prevenire le competenze ermeneutiche dei miei interlocutori, in modo da massimizzare le probabilità di essere accettato.

Naturalmente faccio con i vestiti che ho, che spesso sono di seconda mano, e non nuovissimi. E beninteso i miei sono sforzi di dilettante, come tutto ciò che faccio: un certo margine di errore resta sempre. Anzi, a dire il vero tutto giusto non mi viene quasi mai. Rientrato a casa da un assembramento ufficiale in cui mi sono sentito a mio agio mi accorgo quasi sempre che avevo una grande macchia sul davanti, un buco sul gomito, la felpa storta, la canottiera che usciva sotto la maglia, o altre rilevatrici pecche. Più spesso ancora mi rendo conto che l’esegesi delle persone non è stata quella che mi aspettavo, è stata anzi opposta: i miei calcoli erano sbagliati. Ho fallito.

L’ideale sarebbe, se proprio non si può andare in giro nudi, cosa che a me stesso scoccerebbe (per un retaggio forse vittoriano, ma anche per un’insofferenza ai messaggi troppo crudi del mio stesso corpo), vestirsi tutti uguali. Stessi capi, identica stoffa e colore, identici dettagli. Finito il consumismo, svaporate le futilità. Forse per qualche settimana si vivrebbe bene. Ma certo salterebbe subito fuori qualcuno a dire che si sente come in un campo di concentrazione: scoppierebbero proteste e sedizioni, mirate a tornare il prima possibile all’assurdo stato presente. Abbiamo visto cosa ne è stato dei paesi comunisti. E comunque anche nella più rigorosa eguaglianza la gente troverebbe presto il modo per differenziarsi: giocherebbe sulla sfumatura di colori del filo dei bottoni, sull’usura delle maniche, sulla pulizia. Un po’ alla volta ci si abituerebbe a fare attenzione ai dettagli infinitesimali, che sembrerebbero enormità. Nascerebbero nuove mode, legate al numero di buchi dei bottoni o anche solo al modo di rivoltare un po’ in su il colletto, di lasciare il laccio della scarpa destra più lungo a sinistra, e quello della scarpa sinistra più lungo a destra. In poco tempo i vestiti tutti uguali sembrerebbero in realtà diversissimi, si sarebbe daccapo. Ancora a preoccuparci dei vestiti.

(l’immagine: Laura Craig Mc Nellis, 51×71 cm, circa 1982)

(PS: apprestandomi a scrivere questo pezzo mi sono accorto che i “Nuovi autismi” erano finiti, come tutte le cose – anche senza parafrasare l’adorato Parise – finiscono; forse se avessi prestato più attenzione avrei potuto accorgermene prima, forse sotto-sotto lo sapevo [non facevo forse fatica a trovare dei soggetti?; bruttissimo segno]; molto spesso ci si accorge però delle cose che ci succedono quando sono già successe, e è troppo tardi per intraprendere alcunché; tocca trovare un senso a quello che si è fatto, tocca voltar pagina)

Gli incontri-laboratorio di EX.IT e il primo titolo di una nuova collana di poesia

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ANTOLOGIA_EX.IT-2013-Copertina-aperta

EX . IT  _  materiali fuori contesto

Biblioteca Comunale “Pablo Neruda”
Albinea* (Reggio Emilia), 12–14 aprile 2013

Mi riconosci? Ultime notizie sui fantasmi avvistati nella letteratura italiana

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di Helena Janeczek

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I fantasmi, si sa, sono morti che continuano a abitare il mondo dei vivi. Li opprimono, li tormentano: non perché debba essere così per forza né per colpa loro. Siamo noi, i vivi, a percepire della nostra vita interiore soprattutto ciò che causa sofferenza. La psicoanalisi muove dall’esorcismo elementare di conferire un nome a ogni presenza incontrollabile che affolla l’anima di un paziente. Non c’è bisogno di essere morti per essere fantasmi; l’importante è non trovare requie, spazio ospitale, forma.

Fare il (info) punto dell’Expo

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di Gianni Biondillo

Ricordo ancora con vergogna, da studente d’architettura, quando portai quella che all’epoca era la mia fidanzata – e che oggi insiste a volermi ancora bene al punto d’avermi addirittura spostato -, a vedere l’esposizione dei progetti del concorso per il riordino di Piazza Fontana. Parlo, per capirci, di circa un quarto di secolo fa. Di tavola in tavola, di prospettiva in prospettiva (i rendering computerizzati erano ancora lungi dall’irrompere nell’immaginario disciplinare), mi sentivo sempre più imbarazzato. Ero lì in teoria per spiegare alla ragazza che amavo perché volevo fare l’architetto nella vita, ma più guardavo assieme a lei quelle ipotesi strampalate, effimere, spesso di pessimo gusto – se non addirittura irrimediabilmente trash – e più mi mancava l’aria, per l’incapacità che avevo di giustificarle tanto inutile spreco di tempo prezioso.

Fortunatamente apparve d’incanto la soluzione capitanata da Gino Pollini. La più logica, la più semplice e, oggettivamente, la più bella, ad evitare l’onta dello sberleffo imperituro da parte della mia futura moglie. Fortunatamente, insomma, la disciplina era salva. (i casi della vita vollero che poi, pochi anni dopo, mi ritrovai a lavorare proprio presso quello studio, dove convertì molte di quelle tavole disegnate a mano in modelli tridimensionali al computer.)

Non è un paese di concorsi d’architettura il nostro. Non ne abbiamo la tradizione, quella che ha cambiato le sorti della disciplina in molti paesi europei. Anche per questo il fatto stesso che Expo abbia deciso di affidare l’incarico del progetto dell’InfoPoint ad un professionista dopo un concorso è già di suo una notizia. Positiva, se si guarda il bicchiere mezzo pieno: è una attitudine, questa, che dimostra una sensibilità desueta nelle nostre città, che ci si augura non resti isolata. Un modo, forse, di attuare un’etica di impresa che non miri solo all’inciucio (o al massimo profitto).

È un peccato, ovvio, questa disabitudine al protocollo concorsuale: le competizioni architettoniche sono da sempre un laboratorio di ricerca tipologica, formale, tecnologica. Luoghi della ricerca, dell’innovazione, dove le logiche economiche lasciano spazio anche al pensiero critico. Molta della storia della nostra disciplina passa da concorsi che hanno fatto epoca. Spesso, in Italia, perduti o mai realizzati.

Ma il concorso porta con se anche un rischio. Quello, appunto, di ritrovarci fra le mani progetti di pessimo o nullo valore da giudicare. Robaccia, rumore, ronzio di fondo, scarti. Sembra quasi che la formula concorsuale piuttosto che stimolare il pensiero critico di un progettista vellichi la sua creatività puerile, egoriferita, ridicola. Se poi ci aggiungiamo il fatto che, nel caso dell’Infopoint,  si tratta di ideare una architettura “a tempo”, nato per essere smontato finita l’esposizione, a guardare le prime immagini sul web del concorso appena concluso ho la netta sensazione che grazie a Dio l’abbiamo scampata anche stavolta. Proprio come un quarto di secolo fa, l’ideale coppietta di giovani innamorati, un architetto imberbe e una ragazzina disinteressata alla disciplina, che dovesse scorrere le immagini reperibili in rete (eccoli i rendering del nostro immaginario!) rivivrebbe quella stessa sensazione di imbarazzo mista a frustrazione. Quanta robaccia, quanto inutile spreco di pensiero! Quale occasione perduta dove poter fare un collettivo ragionamento critico sul tema. No, solo padiglioni precari, effimeri, indifferenti al contesto, formalmente vecchi, stanchi, installazioni da fiera di provincia, spesso a firma di nomi “eccellenti”, quasi non ci credessero neppure loro, presi da altri e più fruttuosi impegni professionali.

Non so bene quali siano stati i requisiti della selezione dei progettisti. D’istinto, avessi avuto in mano io il boccino, avrei preteso un limite d’età. Non per giovanilismo di maniera, ma per dare una occasione autentica ai nuovi talenti che in questa Italia non possono esprimersi. Però, sia ben chiaro, questa scelta non avrebbe reso il risultato migliore: l’autoreferenzialità è il difetto nel manico del progettista nazionale, qualunque sia la sua età anagrafica.

Anche per questo ammiro il lavoro di scrematura fatto dai componenti della giuria. Giuria, per inciso, sulla quale forse due cose dovremmo pur dirle: va bene coinvolgere la società civile, le autorità, le istituzioni, etc. ma se su sette esponenti solo due appartengono in senso stretto al campo disciplinare è come indire un concorso letterario dove i giurati fanno nella vita di tutto, dal chirurgo al notaio, tranne che praticare la critica letteraria o la scrittura poetica. Assai curioso, no?

Eppure, anche stavolta, a discapito di ciò che ho appena scritto, c’è andata bene. La giuria s’è comportata con ragionevolezza, ha scelto non semplicemente “il meno peggio” (opzione fra le più deprimenti) ma davvero un progetto bello, interessante, sul quale poterci spendere parole, pensiero, teoria. Quelli che Alessandro Scandurra – il vincitore – sembra abbia speso quando s’è impegnato a risolvere un tema difficile in uno spazio irrisolto quale quello di largo Beltrami, che è contornato da quinte edilizie di alta qualità ma che è sempre stato nei decenni illogicamente utilizzato come un parcheggio di autobus o di taxi. Un vuoto nel cuore della città annichilito dall’incapacità pubblica di trasformarlo in uno spazio collettivo.

Chissà se l’architettura “effimera” di Scandurra (eppure così rigorosa in questo progetto, così rispettosa dei tracciati storici), almeno nel periodo che sarà corpo edilizio e non solo rendering, saprà stimolare un nuovo utilizzo di quell’area…

Ora però chiediamoci di quali contenuti quei traslucidi contenitori verranno riempiti. È ora di dare peso a questa manifestazione che ad oggi è stata raccontata solo per polemiche giornalistiche e mai per i temi messi in gioco. Lo ammetto non invidio la posizione di Giuseppe Sala, l’amministrazione delegato di Expo. È quello che, più di tutti, ci sta mettendo la faccia. E le facce in Italia si tende a prenderle a schiaffi e sputi. Ogni occasione è buona per la critica distruttiva. “Muoia Sansone con tutti i filistei”, è il motto dell’intellettuale italiano. “Tanto peggio, tanto meglio”. Speriamo invece non sia così. Se Sala saprà dimostrarsi coriaceo come sembra, in questo momento di crisi globale forse qualcosa di buono per la città riusciamo comunque a portarlo a casa. La scelta del progetto di Scandurra mi sembra già un buon viatico.

Marzo ’43. La spallata operaia al fascismo

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Breda
Milano. Gli operai abbandonano le officine Breda

di Claudio Dellavalle*

Nel mese di marzo di settant’anni fa nell’Italia sconvolta dalla guerra si produsse un fatto inaspettato, che rappresentò la prima vera crepa della dittatura fascista e l’inizio del lungo e drammatico percorso di riconquista della democrazia e della libertà. Decine di fabbriche del nord, tra cui quelle più importanti per la produzione bellica, si fermarono.

Normali, normali, normali, normali, normali, normali, normali, normali

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cattelan 2008

(Alessandra Carnaroli mi manda una poesia su questa vicenda. 6 anni fa a Montalto di Castro 8 minorenni violentano 1 ragazza di 15 anni. Quando il fatto viene denunciato il paese, sindaco compreso, insorge: sono bravi ragazzi, normali. Gli avvocati della difesa sostengono che gli 8 rapporti fossero “consecutivi e consensuali”. Nei giorni scorsi arriva una sentenza che lascia sbigottiti.)

 

poesia venuta con la rima

8 rapporti

consecutivi

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Ciao, Enzo!

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le uniche parole per dire cosa sia stato Enzo Jannacci per le passate generazioni sono le sue.

Cavallo di Troia

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di
Andrea Liberati

Fatti #4
27 febbraio 1952 
sui prati di Newmarket
la fattrice Romanella
 diede alla luce un piccolo cavallino
… troppo veloce per essere dipinto, 
padre della creatura era un campione rinomato 
Tenerani 
1947 Derby italiano di galoppo Gran Premio di Milano St.Leger italiano, Queen Elizabeth Stakes Goodwood Cup. 
il piccolo Ribot 
il suo allevatore Federico Tesio 
fondatore della Razza Dormello 
già allevatore di Nearco 
4 luglio 1949 Premio Tramuschio
 1000 metri.
 Ribot distaccò i suoi coetanei
(vinse perché gli fu “data strada” dalla compagna di scuderia Donata Veneziana, nonché sorellastra di Ribot, che però in allenamento Ribot regolarmente “strapazzava”, soltanto che essendo la prima corsa di Ribot, il cavallo, dal non facile temperamento, doveva ancora adattarsi completamente alla nuova, per lui, realtà delle corse). 
4 settembre Criterium nazionale
 Gran Criterium: 
il fantino Enrico Camici
per contenere la rimonta finale di Gail. 
1500 metri Premio Pisa
 2000 metri premio Emanuele Filiberto 10 lunghezze su Gail. 
10 lunghezze su Botticelli, 1954, futuro vincitore di una Gold Cup ad Ascot. 
Prix de l’Arc de Triomphe, la classica francese
 Premio Brembo 2200 metri 
Besana 2400 metri. 
L’8 ottobre 1955: 3 anni: 10 a 1 
e Ribot e Ribot e Ribot e Ribot e Ribot e Ribot e Ribot e Ribot e Ribot e Ribot e Ribot e Ribot e Ribot e Ribot e Ribot e Ribot e Ribot e Ribot e Ribot…VINCE VINCE 10 a 1 10 a 1 solitario sul traguardo con tre lunghezze di vantaggio! sul resto del gruppo! 
IL MIGLIOR CAVALLO D’EUROPA 
L'”anziano” Ribot 
Milano, Gran Premio della città. 
Batte sulla lunga dirittura milanese 
Barba Toni 
Vittor Pisani 
Tissot (il fratellastro) (8 lunghezze).

« It is exciting to see a good horse winning; Ribot greatly amazed me. »
 Elisabetta II, la Regina

 1957, Ribot, entrato in razza funzionò come stallone in Italia, Inghilterra e Stati Uniti. 
28 aprile 1972, 20 anni 
emorragia interna. 

Théodule Ribot, pittore francese di non grande rilievo, deve la sua fama ad un cavallo.

Documentire #7
 Ma perché poi mai fare questo questo e questo o questo a che pro non credo in un pro se mai in un pre anche se l’ho dimenticato. 
La ragazza impegnava molto del suo tempo a telefonare, scoprendo in quei piccoli geroglifici sospettabili sequenze già viste. Un cavallo o un cane. 
Tutto il cinema è fuoricampo. In una prima semplice inquadratura un piano di un uomo andato-ritornato, oramai, in un totale di elica, nel cervello. 
Come se nulla fosse accaduto.


Documentire #9

 Non parliamo di morti convenitene né tantomeno di vivi ci sarà una qualche alterazione mediana più che soddisfacente Lui, avendo sgozzato l’intera famiglia, si lavò le mani, prese il calice non spezzò il pane e andò al cinema. 
All’andare in analisi preferì sempre l’andare a puttane stesso onorario poche parole solo sogni ad occhi sbarrati. A scuola dissero di non dare del tu ad un animale ma di dare a esso dell’esso gli essi. Per fortuna non ho la memoria di un flipper.
 Vado al cinema perché non ho molta immaginazione e nemmeno molta vita.

Documentire #10
 Ma appena parte, il gioco ricomincia.
Ti ricordi di me?
 Sei ragazza dai capelli verdi. 
Le immagini avrebbero potuto sovrapporsi. Una tragedia sfiorata. Come una carezza. Si può fare l’amore più volte al giorno non si può amare tutti i giorni che Iddio c’ha dato. 
Ti penso tra l’altro nelle mie repliche ossessive.

Documentire #16 
Tutta l’ansia che dentro non riesce ad evacuare nemmeno dall’ultimo buco di culo della finestra che è poi quella dell’arte? Che lavoro fai? Niente rispondo a queste domande cercandone sempre di belle non sono per le novità è Bresson e i suoi rumori che mi hanno affezionato all’immagine al colore a quello che ci potrebbe essere fuori dal quadro ritorna la finestra? no no no no è una porta non la vedi è di legno convesso di mogano no ogni verifica che fai seppur incerta è arte.

Documentire #25
 Eh sì si trattava di essere anime prima e poi gemelle prima o poi. con tutto il suo corpo malgrado tutto il suo corpo era il più spirituale credeva nei volti nella tragicità dei volti e dei tic. Fare dei primi piani a dei volti compressi nei tic! che delizia sarebbe. preparava delle linee mica faceva progetti non scalava nelll’amore lo faceva: come quel pazzo che costruì, facendolo, un impero di sassi nascosto e nascosti nelle tasche. Cazzo.

Documentire #29
 Invidio le persone che dicono di aver perso una giornata. C’era un vecchio alcolizzato, bello, che, dopo aver bevuto l’aceto dal fondo di un resto, minacciava chiunque tentasse di regalargli una giornata. L’accusa di inconcludenza si giustifica con una ellissi temporale. Gli altri son tutti cerchi perfetti: Giotto e la purezza del suo tondo, una balla inventata da una ditta di compassi fallita.

MA IL VERO E PROPRIO MOVIMENTO DEL GIOCO D’ AZZARDO SUI CAVALLI AVVIENE NELLE CORSE TRUCCATE NEI CAVALLI IMPASTICCATI NEI FANTINI COMPRATI 

- registrazione simultaneamente delle pressioni nelle cavità cardiache (atri e ventricoli, nell’aorta, nell’arteria polmonare, nella vena cava superiore e nell’inferiore. Le registrazioni vennero effettuate per mezzo di un microcatetere in vivo nel cavallo, assieme ad Auguste Chaveau (1827-1917), professore di Fisiologia veterinaria all’Università di Lione; Marey e Chaveau fornirono notevoli interpretazioni dei dati dal punto di vista emodinamico
- scoperta del periodo refrattario del muscolo cardiaco nel 1875;
- la prima registrazione intracardiaca grafica dell’attività elettrica del cuore, in animale, per mezzo di un elettrometro capillare (1876); si osservi che il primo elettrocardiogramma in un essere umano, con elettrodi posti sulla superficie corporea, fu registrato solo nel 1887 ad opera di Augustus Desiré Waller;
- la prima registrazione dei movimenti della parete toracica in corrispondenza dell’apice cardiaco, determinati dai movimenti sisto-diastolici del cuore (Apicocardiogramma)

Tre cose che ho imparato scrivendo in rete

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birradi Sergio Baratto

(Qui di seguito il testo che Sergio ha letto sabato 23 marzo alla festa per i dieci anni di Nazione Indiana. G.B.)

Vorrei parlare brevemente di alcune cose che ho imparato nei miei dieci anni di “tirocinio” di scrittura in Rete, da un punto di vista strettamente personale, senza alcuna pretesa di formulare verità assolute. Queste cose che ho imparato le ho raccolte in forma di appunti e riassunte in tre parole. La prima è “responsabilità”, la seconda è “peso”, la terza è “schiuma”.

Responsabilità

Ovvero assunzione di responsabilità, pratica della parola responsabile.

La forma blog ai suoi esordi era molto legata al concetto di anonimato, anzi alla mistica del nickname. In parte per un vezzo un po’ adolescenziale, in parte anche, forse, per via dell’attitudine fortemente autobiografica, diaristica. Il blogger degli albori era come una specie di esibizionista mascherato. Molto sexy!

Perciò, in parole semplici: metterci la propria faccia, o meglio la propria identità, è stato un passo molto importante. È stato un atto “primordiale” di assunzione di responsabilità: «Io Sergio Baratto sono l’autore di queste parole, belle o brutte, stupide o intelligenti, e di esse mi assumo pubblicamente la responsabilità».

Questo poteva sembrare scontato a chi approdava alla scrittura in rete avendo già un’esperienza pregressa di scrittura in luoghi “tradizionali”, cioè su carta, o comunque come autore già pubblicato, come nome già pubblico. Ma non era altrettanto ovvio per chi esordiva direttamente nella scrittura sul Web.

«Metteteci il nome! Metteteci la faccia!» è stata un’esortazione che all’inizio ha prodotto anche parecchie reazioni stizzite, difensive, irricevibili per quanto umanamente comprensibili: di fatto, nessuno di noi era braccato dall’esercito sulle montagne del Chiapas!

Ecco, io penso che davvero non si dia vera libertà senza assunzione di responsabilità. Che la parola (la scrittura) non sia veramente libera senza questo atto preliminare.

 

Peso

La seconda parola è “peso”, e per me ha a che fare con il dogma dell’ironia. Il dogma dell’ironia, non l’ironia.

Questo dogma ha tre appendici:

1) si deve scherzare su tutto;

2) l’unica cosa che conta è lo stile;

3) Non bisogna mai prendersi sul serio.

“Peso” è una parola disprezzata, che viene usata quasi solo negativamente: essere considerati “pesanti”, cioè vedersi attribuire uno dei peggiori difetti sociali, costa molto in termini di esclusione, di emarginazione; quando diciamo che un film o un libro è “pesante” lo bolliamo fatalmente con un marchio che è peggiore dello stigma di Caino: quel libro o quel film è pesante, cioè poco o punto sopportabile per eccesso di seriosità.

Eppure la serietà non è la seriosità! Il peso non è la pesantezza!

Per me il peso è quello che ti permette di calarti in profondità. E senza peso non puoi volare, ma solo lasciarti trascinare dal vento.

Ovviamente non voglio dire che ambisco a scrivere cose pesanti. Ma mi pare che la gravità sia una forza imprescindibile, quando si parla di scrittura.

Ci sono due forze, una ascendente e una gravitazionale: sono entrambe fondamentali. Se manca la prima non esiste profondità, ma al limite solo sprofondamento; se manca la seconda esiste solo l’evaporazione. Gas rarefatti che si disperdono e si perdono.

Cosa intendo con questa “leggerezza senza peso”? Quella maniera, così diffusa nella scrittura in rete, nei blog, e così supinamente asservita al dogma dell’ironia – quella maniera di scrivere di ogni cosa in modo superficiale, carino, divertente, simpatico, disimpegnato, che ha decretato all’epoca la fortuna di molte cosiddette blogstar e che oggi impera su Twitter. Quella coazione a “scherzare” su tutto, o meglio a prendere a ogni riga le distanze dalle proprie parole, a sottintendere – con una continua, leziosa, stucchevole strizzatina d’occhio al lettore – che non ci si sta prendendo veramente sul serio.

Ecco, io per reazione ho imparato la serietà. Ho imparato che esiste una leggerezza seria, di peso. Io preferisco chiamarla levità, per non confondermi, ma il concetto non cambia.

Scrivendo in Rete ho imparato a prendere sul serio le parole e a dargli peso.

Dare peso alle parole per me è cercare di avere il coraggio delle parole, è attribuire alle parole una potenza creativa, sovvertitrice, perturbante. È salvare l’idea che la parola possa essere agente sulla realtà.

 

Schiuma

Esiste una cosa leggera ma greve? Sì, è la schiuma.

Intendo per “schiuma” la proliferazione dei discorsi parassiti, l’affollamento intorno ai cliché, la crescita ipertrofica delle parole attorno al banale luccicante, all’effimero più facilmente autopromozionale.

Di questa proliferazione, i luoghi della scrittura in rete hanno sofferto come di una patologia invalidante.

Ma davvero la vocazione dei blog era tutta qui, nel replicare le stesse idee e gli stessi discorsi abusati della stampa e della televisione? Davvero era questa subalternità, questo farsi servire dai media il pastone su cui imbastire la propria scrittura liofilizzata ma fighetta? Non credo.

E non è solo questo. La schiuma è anche il rumore di fondo che diventa un chiasso assordante, cancellante.

Chiunque abbia avuto esperienza dei flame, delle guerre di commenti e del trolling ossessivo, sa di cosa parlo.

Ma davvero l’ambizione della scrittura in rete era tutta qui, nel farsi campo di battaglia per logorroici e ridicoli scontri verbali, per l’esibizione narcisistica e per l’esercizio distruttivo di uno spirito puerilmente litigioso? Di nuovo, non credo.

Questa schiuma è il cavallo di Troia dell’appiattimento. Per molto tempo ha propalato una concezione falsamente ugualitaria della Rete, spacciando la sua essenza orizzontalizzante, cioè profondamente reazionaria e repressiva, per una presunta orizzontalità democratica (io sconosciuto aspirante scrittore di Abbiategrasso posso discutere ad armi pari con lo scrittore pubblicato e anzi dargliele metaforicamente di santa ragione).

Si è venduta come l’unico mezzo di dialogo in Rete, il che è una falsità: il Web 2.0 presenta infatti ben altre potenzialità comunicative, ben altre possibilità di costruzione di reti libertarie e non gerarchiche. In un medium in cui posso aprire un mio spazio personale/pubblico di riflessione e di scrittura, e interagire creativamente e costruttivamente con gli altri nodi della rete, perché mai io, aspirante scrittore di Abbiategrasso, dovrei accontentarmi di partecipare alla proliferazione della schiuma, alla velocità, alla dimensione effimera, autoreferenziale e livorosa, quando la Rete mi dà la possibilità di prendermi il tempo e lo spazio di argomentare, ponderare, distillare le parole?

Quando la mia scrittura in rete suscita reazioni – anche critiche – in altri blog, quando si crea un dialogo a distanza su un piano davvero paritario, l’esperienza è arricchente, non avvilente. Ma, perché ciò avvenga, sono necessarie le due cose di cui ho parlato prima: l’assunzione di responsabilità e l’impudenza di prendere sul serio la parola, di darle un peso.

Perciò io sono convinto che la fine della proliferazione della schiuma è una benedizione per chi scrive in rete.

Quando sento dire che i social network hanno messo in crisi i blog, o addirittura ne hanno decretato – alla lunga – la morte, mi viene da ridere. Penso invece che abbiano compiuto una straordinaria opera igienica, succhiando via e portando con sé la schiuma in altri lidi alla schiuma più consoni.

Trasferendo su di sé questa proliferazione liberano la scrittura in rete.

È on-line L’Ulisse n.16: Nuove metriche. Ritmi, versi e vincoli nella poesia contemporanea

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L’Ulisse, rivista monografica di poesia, arti e scritture diretta da Alessandro Broggi, Stefano Salvi e Italo Testa

NUMERO 16: Nuove metriche. Ritmi, versi e vincoli nella poesia contemporanea

Note-book: La lucina di Antonio Moresco

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Nota di lettura
di
Silvana Farina

È come se a Moresco non interessasse la letteratura in sé ma riflettesse sul perché fare letteratura, sul perché scrivere e su che cosa questo significhi per lui. Spesso, anche se gli scrittori amano molto la letteratura, la scrittura stessa, non riflettono su di essa, né sul rapporto tra la letteratura e se stessi. Al contrario, Moresco ha pensato molto alla relazione tra la sua persona e la scrittura, intridendola della sua fatica, della sua vita, delle sue visioni. Così, La lucina, breve romanzo pubblicato da Mondadori nella collana Libellule, è il piccolo embrione che ha scavato e lavorato in segreto dentro l’autore, pretendendo alla fine una sua vita autonoma. Nella Lettera all’editore, Moresco spiega che questo piccolo romanzo nasce proprio come «una piccola luna che si è staccata dalla massa ancora in fusione» del suo nuovo romanzo Gli increati, a saldare quel percorso iniziato con Gli esordi e i Canti del caos.

La lucina «è una storia scaturita da una zona molto profonda della mia vita, è come una piccola scatola nera.» Una storia che come Gli Incendiati è «un’irruzione incalcolata e improvvisa» che urgeva dentro di lui e che Moresco stesso dichiara essere testamentaria proprio per la sua particolare natura intima e segreta. Così, per il valore che ha per l’autore e per la lettura intensa che se ne fa, risulta davvero difficile eppure fondamentale parlarne.
Moresco ci fa un dono, scopre quella zona profonda della sua vita, apre quella scatola nera, offrendoci una vera e propria operetta filosofica. Della filosofia c’è, infatti, una riflessione, un rovello che pone al centro gli interrogativi disincantati di un uomo attraverso una fenomenologia della natura. Una natura che si fa organismo vivente e pulsante, pronta a prorompere e inglobare il segmento umano, sconvolgendolo. L’uomo è immerso nel silenzioso e sismatico cosmo naturale popolato da libellule e lucine (che abitano da sempre il suo mondo, fin da Gli esordi: «Altri stavano conversando vicino alla pila dei mattoni forati, che erano attraversati da parte a parte dalle lucciole»).

La sua contemplazione di fronte alla natura «Chissà se la luce non è anche lei dentro un’altra luce? E che luce sarà, se è una luce che non si può vedere? Se neanche la luce si può vedere, che cos’altro si può vedere?» può richiamare gli interrogativi di un pastore alla luna. Il Canto Notturno di un pastore errante dell’Asia si apre proprio con una domanda alla luna: «Che fai, luna, in ciel? Dimmi, che fai, /silenziosa luna?» Tuttavia, se Leopardi non riceveva risposta, il protagonista de La lucina riceve delle risposte dalla vegetazione, dalle rondini, dagli insetti che lo circondano, indice forse del fatto che l’uomo forza la sfera dell’universo per poter accedere ai suoi più profondi significati.

Cosa sarà quella lucina? Il narratore se lo chiederà spesso, e ci descriverà meticolosamente tutte le sue azioni nella sequenza ciclica delle stagioni, in quel brulicare di vita e morte. Fino a quando quest’uomo solo incontra un bambino evanescente (quasi un alter ego del piccolo Moresco) che lo accompagnerà nel suo percorso finalizzato alla scomparsa di sé, allo svanire di un’essenza fuori dal tempo. Allora la solitudine («sono venuto qui per sparire, in questo borgo antico abbandonato e deserto di cui sono l’unico abitante») diventa la necessaria condizione per un percorso catartico che si fa esperienza etica nella consapevolezza che quella dolorosa fisicità è vita e morte in un flusso vitalistico continuo. In questa sorta di diario del pensiero, di Zibaldone, morte e (ri)nascita, infanzia e maturità non sono mai stati così vicini, poli necessari di un cerchio eterno del divenire, di un imprescindibile ritorno alle origini.

Antonio Moresco si conferma un autore insurrezionale, nel senso lato della parola, perché capace di incendiare le camere d’aria interiori di ogni singolo lettore, capace di sconfinare, di rovesciare piani precostituiti. Attraverso questo testo necessario, Moresco spalanca le percezioni di un uomo che vive il disagio di stare dentro un microcosmo a sua volta accartocciato in un macrocosmo e con un disincantato lirismo leopardiano spacca la vita in mezzo, mette in crisi la percezione dell’universo. La lucina è quindi un’altra fessura, accanto ai Canti del Caos, che squarcia la zona ignota, come se la letteratura fosse una cruna, come lui la definisce, che ci conduce verso di essa.

Travestita estate

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di Franz Krauspenhaar

Ci si avvicina alla fine del viaggio. Ma la fine è un traguardo, non una catastrofe. [George Sand.]

Questo caldo infernale mi spinge lentamente alle corde, una volta tanto vorrei camminare nella neve, nel nord della Svezia, e rischiare l’assideramento dentro una Volvo senza benzina… prima che arrivi una troupe di Discovery Channel a cercarmi con le prove di un tentato suicidio… ma no, tu dov’eri? Dov’eri quando cercavo di finire le mie pene il mio supplizio col tuo aiuto? Ti chiesi l’offerta della tua mano per tagliarmi le vene, che io non riuscivo a farlo nella solitudine delle ore ultime, e tu mi parlasti del bene della vita. Il perché, il percome, il persopraesotto. La statua di sale quanto basta, pepe macinato al momento. Ho deciso di raccontarti questa estate piena di vuoto, questo calvario sudato, come un sudario senza croci, ma spasmi di vuoto orticario… come? Credi che io stia poetando, con la ferocia dolce dei falliti che s’impennano come motociclette adolescenziali? No, l’ora della poesia l’ho trascorsa. Tornato alle più miti intenzioni della prosa, all’espressione giudiziosa delle frasi che proseguono con una certa libertà sul foglio, più piane, meno sinistre e gocciolanti e spasmodiche, m’inclino come un bombardiere di idee torride, e ti chiamo, ad ascoltare il mio racconto d’un’estate, quella appena svanita, nel vento della fine stagione, come svendita.

Il romanzo e la strategia dell’inventario

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Di Andrea Inglese

Spunti kunderiani

Nel 2010, il Seminario Internazionale del Romanzo ci ha offerto uno spunto di riflessione, mettendo a confronto in maniera polemica due principi che, di per sé, dovrebbero garantire al genere romanzesco la sua vitalità: il principio architettonico, che organizza ed esplora il materiale narrativo, e il principio – come io lo definirei – della peripezia, che costituisce il materiale narrativo allo stato per così dire “grezzo”. In realtà, come Massimo Rizzante ha sottolineato, l’odierna produzione editoriale, che fa del romanzo il suo genere letterario privilegiato, contribuisce ad enfatizzare il principio della peripezia a scapito di quello compositivo, privando così il genere delle sue potenzialità conoscitive.

Atlantide non fu affondata in un giorno – Di scrittura collettiva e letteratura

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di Vanni Santoni e Gregorio Magini, a nome di SIC

First Columbus route, tratto da The Beginner's American History, by D. H. Montgomery, published by Ginn & Company, Boston, U.S.A.,1893
First Columbus route, tratto da The Beginner’s American History, by D. H. Montgomery, published by Ginn & Company, Boston, U.S.A.,1893

Caro Giuseppe,

abbiamo letto con interesse la tua “lettera aperta” sulla scrittura collettiva. Per quanto ti rivolgessi a Vanni, il tuo discorso chiama in causa la SIC, ed è per questo che il presente post è firmato da entrambi i fondatori. Per mantenere il dibattito sul tono aperto e personale su cui l’hai avviato, abbiamo tuttavia deciso di risponderti separatamente.

 

Vanni – Fin dalla primissima comparsa della SIC, abbiamo dovuto confrontarci con commenti del tipo “ahhh, il romanticismo schiacciato dalla fredda macchina”. Ad essi abbiamo in genere risposto spiegando che anche il processo di creazione di un romanzo individuale è più simile al lavoro di un artigiano che fa le notti in opificio tagliandosi le mani, che allo sbocciare di un fiore, ma è chiaro che la questione è più complessa, e riguarda la funzione autoriale. Sul tema, e dunque su come tale funzione si declini in un’opera scritta col metodo SIC, abbiamo scritto un saggio, intitolato Solve et coagula – la funzione autoriale nell’era della sua riproducibilità telematica: crediamo sappia tuttora affrontare la faccenda in modo esaustivo. Nel momento poi in cui si parla di funzione autoriale, è evidente che stiamo parlando anche di responsabilità dell’autore, questione della quale abbiamo parlato in questa intervista su Bibliocartina, che sarà utile ai lettori anche per inquadrare meglio alcuni aspetti operativi che stanno dietro alla stesura di In territorio nemico.

Detto questo, è chiaro che la tua riflessione sta un passo più avanti rispetto a quello dei sostenitori a priori della scrittura solitaria, dal momento che non chiedi “dov’è il romanticismo?”, bensì “dov’è la letteratura?”. Credo che a questo punto sia l’opera a essere chiamata a dare una risposta (e auspichiamo che sia in grado di darla); al di là di ciò, non si può dimenticare che con il metodo SIC abbiamo creato un modo del tutto nuovo per giungere a un romanzo. Già gli si chiede di essere letteratura? Chiaro che ci proviamo, ma per cominciare ci siamo dati come obiettivo minimo quello di fare buona narrativa, a cominciare dal genere scelto, che può essere percepito da alcuni come meno letterario di altri. Sul perché di un romanzo storico-avventuroso, abbiamo scritto un altro saggio, Affinità Elettive. (Perdona tutti questi link, ma il dibattito intorno alla SIC è oggi a un determinato punto di evoluzione in virtù del lavoro teorico svolto da noi e da altri in questi anni e il lettore occasionale che vi si volesse avvicinare non può non passare almeno dai suoi snodi principali).

Attenzione poi a quando dici “simile profusione di forze”: è vero che In territorio nemico ha visto 115 autori al lavoro, ed è ben noto quanto impegno ne ha richiesto il coordinamento da parte nostra, ma certo questi 115 non hanno lavorato come se stessero scrivendo 115 romanzi. Molti degli autori di In territorio nemico hanno lavorato solo alcune ore alle loro schede, e tuttavia il loro contributo vive nel libro. Se si sommassero le ore complessive impiegate da ciascuno, si otterrebbe un tempo totale senz’altro superiore a quello che un singolo autore impiega su un singolo romanzo, ma non più del quadruplo o del quintuplo; se anzi si togliesse il tempo aggiuntivo che è venuto dall’agire in condizioni sperimentali, affinando il metodo in corsa – non ci sono state prove generali, né del resto potevano esserci – e con una buona parte di scrittori non professionisti o comunque al debutto su un’opera di una certa portata, si scenderebbe facilmente al triplo o al doppio; in condizioni ottimizzate anche tecnologicamente – per la stesura di In territorio nemico abbiamo infatti usato uno strumento di base come l’e-mail, per tenere basso il livello di alfabetizzazione informatica necessario alla partecipazione – e con uno staff composto interamente da scrittori esperti e abituati a scadenzare le consegne, si sarebbe potuti giungere a un monte-ore non dissimile da quello di un singolo autore che lavora a un romanzo di 320 pagine. Si capisce dunque come ci si trovi di fronte a una divisione di lavoro, non a un accumulo.

Per quanto riguarda invece la questione del “marketing” a cui fai riferimento, è normale che ai giornali piaccia citare i 115 autori nei loro titoli – si tratta del resto di qualcosa mai visto prima – ma la funzione svolta dal numero è effettivamente di setaccio. Non c’è un elemento, un carattere, uno snodo narrativo di In territorio nemico che non venga da scelte che i Compositori hanno fatto su varie possibilità proposte dagli autori, esse a loro volta frutto dell’incrocio delle precedenti. Questo proprio per le caratteristiche del metodo, che porta tutti gli autori a lavorare su tutti gli elementi della trama, e non a scrivere ognuno un pezzetto (sul funzionamento del metodo SIC, rimando al nostro manuale). Tutto lì dentro è un distillato della coscienza collettiva dei partecipanti, e dunque, volendo pensare la scrittura collettiva da parte di un campione abbastanza grande di autori come un credibile carotaggio della società a cui appartengono, anche “la coscienza collettiva”; si potrà poi aprire un dibattito intorno alla capacità della coscienza collettiva di fare scelte di genio, ma intanto abbiamo provato che è in grado di fare scelte di trama, di estetica e di poetica (su come poi i singoli vivano il lavoro “in SIC”, ti rimando a un intervento di Jacopo Galimberti pubblicato proprio qui su Nazione Indiana, a uno di Marco Codebò pubblicato su Finzioni e a uno di Michele Marcon, sempre su Finzioni). Quando abbiamo testato il metodo, una fase durata due anni e mezzo in cui sono stati scritti sei racconti (più due brevissimi nel corso di workshop dal vivo), ciò è sempre avvenuto con gruppi di scrittura con un numero di componenti più ridotto, in genere tra sei e otto: da un punto di vista strettamente pratico, questa è la dimensione ideale; abbiamo deciso di fare un salto di oltre un ordine di grandezza per due ragioni: testare (ancora!) la tenuta del metodo su masse, oltre che su gruppi, come era del resto tra i nostri obiettivi iniziali, e verificare se l’aggiunta di ulteriori autori, al di là delle ovvie complicazioni pratiche, continuasse a portare un valore aggiunto al testo.

 

Gregorio – Ti rispondo da un punto di vista un po’ più distante di quello di Vanni, perchè l’articolo su La Lettura non l’ho scritto io (c’è il naso dell’uno e dell’altro in tutto quello che scriviamo, ma cerchiamo di non scrivere insieme proprio tutto tutto). Riassumo il senso delle tue considerazioni, per come io le ho intese: “Può darsi che la scrittura collettiva,” mi sembra che tu dica, “sia la terra promessa di una letteratura che annovera l’intelligenza collettiva nella shortlist delle sue utopie. E voi me la presentate come un espediente per riuscire a pubblicare un libro? Mah…” Nel corso del tuo ragionamento, proponi, attraverso il rimando all’OuLiPo, un interessante spunto sulla scrittura collettiva come poetica, di cui mi occuperò più avanti.

Se dell’impresa SIC conoscessi solo quell’articolo, credo che condividerei le tue perplessità. Mi pare infatti che Vanni sia stato troppo timido nel presentare i nostri obiettivi. Ma leggendo tra le righe del suo articolo, e di molti altri testi che abbiamo scritto in questi anni sul tema, mi pare lampante la nostra speranza di aver inventato, o copiato, o scoperto, o un po’ inventato un po’ copiato un po’ scoperto, qualcosa di rivoluzionario. Di aver messo a mare una caravella, essa pure frutto di esperienze molteplici, che può esplorare mondi nuovi. Di aver gettato ponti per unire isole distanti. Di aver dissepolto tesori sommersi. Tutto questo noi speriamo: ma perché non lo diciamo apertamente? Perché ricordiamo la frustrazione di Stephen Dedalus: “Il molo di Kingstown. Sì, un ponte deluso.” Come dire: abbiamo messo a mare un transatlantico, che ha tutta l’aria (l’aura?) di poter fare grandi cose, ma potrebbe anche fare un naufragio titanico al primo viaggio. Per questo siamo timidi: perché neanche noi abbiamo idea di dove ci porterà questa impresa. E del resto, come in tutto ciò che concerne l’arte, giudicare i risultati non spetta a noi. Ci rendiamo conto che una simile inibizione possa far sorgere il timore che “dietro i 115 autori, niente”. Ma immagina la posizione diametralmente opposta: “Abbiamo inventato un metodo di scrittura collettiva che permette di scrivere capolavori a raffica”. La verità, ovviamente, starà da qualche parte in mezzo tra questi due estremi, ma, come ben sai, far emergere tutte le articolazioni di una questione complessa in un articolo di giornale – che peraltro aveva un altro obiettivo, quello di tracciare la storia dell’intero fenomeno della scrittura collettiva – non è facile.

Vengo alla scrittura collettiva come poetica. Dici: “Da parte mia, andando indietro nella storia della letteratura, sebbene con qualche forzatura, ho sempre inteso la scrittura collettiva come un’officina di letteratura potenziale…”. Ecco, questo è un approccio che non ci appartiene affatto. Noi parliamo sempre di metodo, teoria, processi. Questo perché per noi la scrittura collettiva non è un gioco – per quanto serio, per quanto significativo, per quanto produttivo – sulla forma, o sui modi in cui la forma agisce, o non agisce, sui contenuti. Per noi la scrittura collettiva è una tecnica. Rispetto al vocalicidio di La Disparition, agisce su un piano completamente diverso: non quello della scrittura d’arte, ma quello delle tecnologie della scrittura. È vero che la parola “tecnologia” rimanda a universi di senso che sembrano avere poco in comune con la letteratura. Ma se ci pensi bene, noi non facciamo qualcosa di molto diverso dalla maestra che dice: “Prendi la penna, disegna le parole, segui le righe…” Solo che lo facciamo in modo più complicato, con schede da compilare e turni da seguire e manuali ed email e archivi online, perché si vuole realizzare opere d’arte in 115, non un testo qualunque da soli. E tuttavia il modo in cui lo facciamo, io credo, non è neppure così complicato, se nel 1967 a Barbiana dei bambini figli di contadini potevano scrivere: “Noi dunque si fa così,” e spiegare per filo e per segno come scrivevano tutti insieme sotto la guida del maestro, utilizzando un metodo di scrittura collettiva che non era tanto più rozzo del nostro. E quindi “la letteratura?”. Quella, se c’è, sarà dentro In territorio nemico. E se sarà da qualche parte, non sarà nel metodo SIC o nell’editore di primo piano, ma nelle poetiche e nelle parole che quel libro avrà espresso.

Figli della bolla formativa: laureati, precari e al nero

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precarious thought

di Roberto Ciccarelli

A un anno dalla laurea lavora solo un laureato su tre. E chi lavora è sempre più precario, viene pagato in nero. Dopo cinque anni la situazione tende a migliorare: lavorano stabilmente 7 laureati su 10, tra i triennali quasi 8 su 10. Sono i dati del XV rapporto Almalaurea che colgono il drastico aumento della disoccupazione dei «colletti bianchi» che tra il 2010 e il 2011 è aumentata del 4% passando dal 19 al 23%. Una tendenza cresciuta del 5% negli ultimi 5 anni. Il precariato cresce tra i laureati triennali, +10% dal 2008 e +6% tra gli specialisti. Ma la laurea resta sempre un titolo da prendere perché garantisce un tasso di occupazione più elevato rispetto al diploma (+12%). Le prospettive non sono però rassicuranti.

La bolla formativa è esplosa

Nei prossimi anni la componente maggioritaria dell’offerta di lavoro sarà costituita da individui in possesso della scuola dell’obbligo o di un diploma secondario. Nel 2010 il 37% dei manager aveva completato tutt’al più la scuola dell’obbligo, contro il 19% della media europea a 15 paesi e il 7% della Germania. Su 407 mila assunzioni previste, il 14,5% ha coinvolto i laureati e il 32,3% i lavoratori senza formazione specifica. Insomma per dirigere un’azienda – medio-piccola – non c’è bisogno di una specializzazione e per essere assunti non occorre la laurea.

Una volta di più Almalaurea conferma che la maggior responsabile dello scacco dell’istruzione pubblica italiana non è la scuola, o l’università, bensì il ridotto interesse del tessuto imprenditoriale (costituito per la maggioranza da Pmi) ad assumere personale qualificato, a partire dai livelli più alti. Se i vertici di un’azienda non sono laureati, perchè dovrebbero assumere dipendenti più qualificati di loro?

Dicerie dei piccoli imprenditori

La controprova è stata fornita da un’indagine commissionata al Censis dalla Cna dove questa realtà viene rovesciata e la responsabilità viene addebitata agli under 25 ai quali i piccoli imprenditori attribuiscono la scarsa, o inesistente, volontà delle aziende di fare nuove assunzioni.

La Cna stigmatizza l’approssimativa preparazione tecnica del 39,5% dei giovani, lamenta la loro scarsa attitudine del 26,6% al lavoro artigiano e la scarsa propensione a sostenere la fatica fisica (nel 25,1% dei casi). Uno slancio di realismo impedisce all’indagine di addebitare la stagnazione delle Pmi solo al morbo del «lazzaronismo» che avrebbe colpito i giovani dall’inizio della crisi. La Cna sposta il mirino sul bersaglio grosso. La colpa della crisi è della scuola. Gli imprenditori denunciano il suo forte scollamento dal mondo dell’impresa.

Tre aziende su 4 giudicano la scuola inadatta ai propri bisogni (76,6%), per una su 4 è del tutto inadeguata (24,2%). Si lamenta inoltre il poco tempo dedicato alla formazione pratica (39,7%) e la carenza di occasioni di tirocinio (27,7%). Per il 23,2% degli imprenditori la scuola non è in grado di trasmettere i valori del mondo del lavoro. Non si dice quali, forse sono quelli della massima flessibilizzazione e dei salari ridotti? Non importa, perché sul banco degli accusati c’è l’intero sistema educativo che non risponde ai bisogni delle aziende, figlio di un’impostazione teorica e generalista, frammentato in una miriade di percorsi formativi che non permettono uno sbocco occupazionale.

L’indagine sottolinea inoltre che il 33% delle imprese è riuscita ad assumere nuovo personale, il più delle volte in sostituzione di altre figure. Più di un’impresa su 4 (26,4%) ha fatto ricorso alla cassa integrazione, il 17,1% delle imprese ha ridotto l’orario di lavoro dei propri dipendenti, il 16,6% riorganizzato i processi di lavoro, il 13,6% riconvertito professionalità già presenti all’interno dell’azienda. Un’impresa su 10 ha ridotto lo stipendio dei dipendenti (10,7%), mentre sono poche di meno quelle che non hanno rinnovato contratti a termine o di collaborazione (7,9%). Può stupire fino a un certo punto che la rude razza pagana delle piccole imprese consideri la formazione scolastica con un’alzata di ciglio. In fondo questa è la tradizionale rappresentazione del piccolo imprenditore italiano interessato più al «fare» che agli inutili discorsi «intellettuali».

 

cv

 

La campagna contro la “licealizzazione” della società

Questa campagna contro la scuola, come istituzione e come luogo della formazione di saperi “non utili” alle aziende e quindi alla società è il fattore che ha fatto esplodere la bolla formativa. Dieci anni fa, lo ricorderete, non passava settimana in cui tutti enfatizzavano il ruolo dei master o della laurea per favorire l’ascensore sociale. Da quando, invece, ci si è resi conto che le aziende non assumono, lo Stato ha bloccato il turn-over e moltiplica a dismisura i precari nella pubblica amministrazione (secondo la Cgia di Mestre sono 3,3 milioni di persone) è partita la caccia alla “laurea inutile”. E poi si è arrivati a sostenere che è ormai “inutile” laurearsi per trovare un posto di lavoro stabile. E ben retribuito.

Feroce è stata la campagna contro la “licealizzazione” della società. Tutti che volevano la laurea, nessuno che accettava i lavori “umili”. Esemplare è stato, ad esempio, Giorgio Guerrini, presidente di Confartigianato: nel 2011, 45 mila posti tra i mestieri artigiani “ad alta intensità manuale” sono rimasti scoperti per mancanza di candidati. Stesso discorso quando, sempre nel 2011, si è scoperto che i profili più ricercati tra i “giovani” nel 2011 sono i cuochi, camerieri e altre professioni dei servizi turistici (+23,4%).

Curiosa espressione “licealizzazione”. Perché a licealizzare la società è stata innanzitutto la riforma Berlinguer-Zecchino del 2000, il famoso “3+2″, che ha organizzato i corsi di laurea con i moduli di insegnamento, spezzettando gli esami secondo un commercio di debiti e crediti. Una laurea è la somma di questo smercio quotidiano, non l’accumulazione e la differenziazione di saperi in base ad un’esperienza, un dialogo. In compenso si fanno tanti stage. Gratuiti. Questa riforma è stata un fallimento, più volte sottolineato in questi anni dai rapporti Almalaurea. La campagna contro l’istruzione pubblica, e il ruolo della scuola, lo ha rimosso. Con un duplice risultato: si delegittima il sistema della formazione fallito per incapacità dei governi e si sposta la responsabilità sui soggetti che non accettano le possibilità offerte dalla società.

Le prove del fallimento? Le ha date il governo Monti quando ha ammesso che l’obiettivo fissato dalla Commissione Europea per il 2020 è irraggiungibile: il 40% di laureati nella popolazione di età tra i 30-34 anni. Oggi siamo fermi al 26-27%. Insieme alla Romania, l’Italia è il paese più arretrato d’Europa.

Compressione dei redditi

L’indagine Almalaurea ha coinvolto oltre 400 mila laureati in 64 atenei e registra una contrazione delle retribuzione dei laureati tra il 16 e il 18%, di poco superiore ai mille euro, 1.400 dopo cinque anni. Gli ingegneri guadagnano di più (1.748 euro al mese), gli insegnanti sono i più poveri (1.122 euro). Questa situazione è stata provocata da due fattori: l’Italia si trova agli ultimi posti per la quota di laureati sia per la fascia di età 55-64 anni sia per quella 25-34 anni. E i laureati non guadagnano abbastanza, e in maniera duratura. Quindi non pagano le tasse, non versano i contributi, non finanziano le prestazioni del Welfare e quindi, in cambio, non riceveranno una pensione, un sussidio di disoccupazione, un reddito di base, prestazioni dignitose nel sistema sanitario nazionale. E’ una delle catene prodotte dall’esplosione della bolla formativa. La recessione dei lavori della conoscenza colpisce al cuore le nuove generazioni e lo Stato sociale.

(Im)mobilità sociale

In questa condizione, la mobilità sociale è un bene residuale riservato a coloro che possiedono più risorse familiari per sostenere la povertà dilagante. Le indagini Almalaurea hanno messo in evidenza che una parte rilevante dei laureati proviene da famiglie i cui genitori sono privi di titolo di studio universitario. Fra i laureati di primo livello del 2011 la percentuale di laureati con genitori non laureati raggiunge il 75 per cento. La selezione sociale inizia quando si passa alla laurea di secondo livello. Fra i laureati specialistici la quota di chi proviene da famiglie con genitori non laureati scende al 70 per cento. Un’ulteriore conferma la si ottiene esaminando l’origine sociale di provenienza dei laureati specialistici a ciclo unico (medicina e chirurgia, giurisprudenza, ecc.): le famiglie con i genitori non laureati calano al 54 per cento. Una giustizia sociale di classe.

 

ps

[“the p(recarious) s(cholar)”, da dance scriber]

L’importanza di una laurea in lettere

C’è anche un altro luogo comune confutato dal XV rapporto Almalaurea: visto che i laureati non trovano lavoro, e quelli che lo trovano svolgono ruoli non «allineati» alla loro formazione, è inevitabile restringere l’accesso alla formazione terziaria e a quella specialistica, al fine di garantire a pochi «eccellenti» l’ingresso sul mercato. Un luogo comune che dovrebbe permettere, ad esempio, agli ingegneri informatici – che sono pochi e molto richiesti – di percepire un buon reddito.

Almalaurea dimostra che tra il 2008 e il 2012 è accaduto esattamente l’opposto: le loro retribuzioni si sono ridotte del 9% (il 17% nel caso dei laureati specialistici). Non resiste nemmeno l’ultimo tabù dell’ignoranza dettata per legge. Quante volte è stato ripetuto che «non conviene» prendere una laurea umanistica, perché di letterati o avvocati ce ne sono a bizzeffe, e «sono tutti disoccupati»?

Dati alla mano, AlmaLaurea dimostra che rispetto alla Germania, in italia ci sono pochi laureati in queste discipline. Sembra assurdo, ma è proprio così: nel 2010 in Italia erano il 19%, mentre in Germania il 23%. La ragione per aumentare il numero di questi laureati viene spiegata con Martha Nussbaum: «le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica» e anche con l’idea che gli «umanisti» siano più sensibili rispetto a «lavori che non sono stati ancora creati, per tecnologie che non sono ancora state inventate».

Troppe cose per un governo inesistente

Almalaurea insiste: bisogna rifinanziare scuola e università, premiare il “capitale umano”, accrescere il “valore aggiunto” della formazione delle persone. Un giorno, tutto questo, arriverà, forse. Ma non conviene, prima di tutto, affrontare la volontà delle imprese di non assumere, sbloccare il turn over nella scuola e nell’università, modificare le riforme Gelmini che impediscono un serio reclutamento, modificare nella sostanza la formazione professionale al di là degli equivoci della riforma Fornero e dell’apprendistato?

Troppe cose per una legislatura troppo breve. E per un governo che, se mai vedrà la luce, dovrà pensare a tagliare i rimborsi ai partiti e cambiare la legge elettorale.

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Articolo già apparso in La furia dei cervelli, 11 marzo 2013.

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[La prima immagine è una scultura di Paolo Fumagalli, Precarious thought (2008)]

Apollonio Rodio – Argonautiche IV 891-919 – Le Sirene

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trad. isometra di Daniele Ventre

νῆα δ᾽ ἐυκραὴς ἄνεμος φέρεν. αἶψα δὲ νῆσον
καλήν, Ἀνθεμόεσσαν ἐσέδρακον, ἔνθα λίγειαι
Σειρῆνες σίνοντ᾽ Ἀχελωίδες ἡδείῃσιν
θέλγουσαι μολπῇσιν, ὅτις παρὰ πεῖσμα βάλοιτο.

Francesca Canobbio – Poesie inedite

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CONCERTO AL MINIMO

hai scavalcato il pianoforte fino alla sua coda- fino a tastare le corde che tese a capestro con un pizzico o più di follia davano la morte sospesa nel nastro fatto scorrere al collo che pendendo una nota sul petto fanno il cuore maiuscolo più dello spazio- stella nana- stellina di ottave in colonne di marmo sonoro- e cerchi- dall’alto scorgo e cerco dalla cupola quanto di celeste ormai giunto- quanto dista l’oscuro nell’ordine spartito da dio- se ha un suono il suo passo sulla scala o porta- un profilo di mani giunte fanno un coro su questo pavimento che hai ormai tentato capovolto quando con tutta la voce- tutte le voci sono uno schianto?

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