di Alessandro Chiappanuvoli Gioia
Riccardo Romagnoli, Il diciottesimo compleanno, 2012, Transeuropa edizioni, 176 pagine
“In questo libro ogni frase è un animale famelico, pauroso e rabbioso, qualcosa che divorando (e divorandosi) trasmuta da una a un’altra possibilità di esistenza.”
Giorgio Vasta – Le scritture che traboccano
[Roma, 8 dicembre 2012, Fiera “Più libri più liberi”, ore 15.00: presentazione de Il diciottesimo compleanno di Riccardo Romagnoli (Transeuropa editrice, 2012), intervengono l’autore, Dario Rossi e Giorgio Vasta. – Appena arrivato in fiera, programma in mano, la folla tutta arrampicata. La prima persona che ho incontrato fu proprio Vasta: “È un libro notevole, uno di quei libri che testimoniano la rinascita della narrativa italiana.” Di Romagnoli invece non avevo mai sentito parlare, ma la garanzia della casa editrice mi convinse definitivamente ad assistere all’incontro.]
Qualche mese di purgatorio sullo scaffale della mia libreria. Un progetto grafico d’impatto. Schizzi di sangue stampati nell’interno della copertina. I capitoli scanditi per età, da zero a diciassette anni e nove mesi. C’è una festa di compleanno in preparazione, il diciottesimo di Matteo. Leggo le prime righe. Non è il solito libro.
Piscio e mangio così io penso e fotto, mi spurgo e sbadiglio, come fossi un gibbone reale e una pulca d’acqua bestemmio. Tre ore mancano, e avrò i miei anni nel numero dei diciotto, maggiorenne e responsabile per il mondo e per Luciano e Anna Solmi che sono i miei genitori. Io rispetto le leggi, in nient’altro mi scovo se non in un corpo che segue la gravita e cade. Da un momento qualsiasi della mia vita ho sentito storie né vere né false riempirmi i polmoni di sangue e di aria.
Una rincorsa disperata, nel mezzo, compressa in 169 pagine, un’urgenza sovraumana, verso la libertà salvifica. Matteo è nato assieme al fratello gemello Francesco, nato già morto, già libero dunque. Matteo cresce quindi in una condizione congenita di schiavitù. Un peso opprimente dal quale, vorace, sente di doversi purificare, riscattare. Si dà un tempo, come qualsiasi altro adolescente del resto, 6574 giorni, la distanza per raggiungere gli agognati, fantastici, ingenui, 18 anni, raggiunti i quali sa che sarà libero dai fantasmi della sua stessa casa, dal silenzio del padre, dal bipolarismo (credo) della madre.
Quella di Matteo è una vita spremuta. È una caccia forsennata all’inseguimento della bestia più feroce da domare, il mostro interno, nascosto dentro la caverna del proprio animo. Bruciare le tappe è l’unico senso compiuto che riesce ad attribuirsi. E di questa fame, dell’animale famelico, come lo chiama Vasta, il protagonista è schiavo, il libro ne è schiavo, l’autore stesso pare esserne totalmente prigioniero. Le pagine seguono un flusso che è dato prettamente dall’istinto, la ragione che muove gli eventi, che seleziona cosa dire e cosa non dire, pare irretita da una necessità altera, sconosciuta, irreperibile. “È un romanzo che a volte ho scritto in una specie di trance”, mi ha scritto Romagnoli quando l’ho contattato su internet, e spero non me ne voglia per aver riportato le sue parole. Un vortice di emotività di cattiveria di sensibilità insensibile contemporanea attuale brutalmente ficcante nei nostri giorni terzomillenaristici. Anche il lettore non ha scelta. Io non ho avuto scelta. Ho dovuto seguire, assistere, vivere inerme. Ho potuto leggere con i miei tempi, piano, sciogliere i nodi poetici intessuti tra una frase e l’altra, ma l’impressione era sempre di leggere in discesa, vorticando con la mente in panne, lo stomaco spaccato, il sesso impossessato, costantemente a mezz’asta. Come il piacere del sadomasochismo e tu, lettore, non puoi mai essere il master della situazione. Non hai dato nessun assenso, eppure ti ritrovi legato e incaprettato a mezz’aria, gli orifizi dilatati: diciott’anni sono, ora, il tuo desiderio, carnale, schiavo, sprofonda, obbedisci, leggi.
Il principio di non contraddizione è la versione logica della lotta per la sopravvivenza. Se il principio di non contraddizione non ci fosse sarei ridotto al gorgoglìo di un torrente strozzato che precipita lentamente, trascinando con sé l’intero linguaggio, così come se un qualsiasi essere vivente non sfuggisse la morte già non esisterebbe più. La vita è perché si difende. Oltre i nostri discorsi e il loro senso, oltre la vita, si apre un’unica traiettoria che non conduce ma disperde, un niente che si aggroviglia, e noi non vogliamo che accada, almeno noi che siamo la parte maggiore degli uomini.
Poco, pochissimo posso, voglio, devo aggiungere sullo stile linguistico de Il diciottesimo compleanno. Bastano, del resto, le già citate parole di Vasta. Se poi aggiungessi che il romanzo ha ricevuto una delle prime attestazioni di merito da un certo Antonio Moresco (come mi ha confermato il direttore Giulio Milani), chiuderei un cerchio, metterei un sigillo, amen, fumata bianca, per restare a cavallo dei nostri giorni. Sarebbe come riempire uno spazio, mettere Romagnoli a sedere sul trono, pontificare, nel senso etimologico del termine. Non c’è nessuna sentenza da emettere. Uno squarcio, una breccia, insomma un dibattito, invece, bisogna aprire.
Poesia come poiêsis, creazione, è impressa a inchiostro tra le righe della pagina. Un linguaggio nuovo propone Romagnoli, di per se stesso liberatorio prima ancora che provocante ed estetico. Necessario. Quasi non ci sia altro modo per svelare e velare quei segreti che albergano l’animo umano, che infestano il mondo degli esseri umani, che saturano gli spazi angusti del focolare domestico, che animano la fantasia e le perversioni, certo non solo sessuali, dello scrittore, i segreti che colmano quel tempo familiare e famelico, comune a tutti, che porta all’illusoria liberazione, alla compassata responsabilità, alla vana redenzione, a quel fatidico diciottesimo compleanno.
Mi innamorai di spazi dalle sponde eternamente distanti, vi avrei depositato gli anni successivi, ora per ora.













