http://www.youtube.com/watch?v=KDUrqKD9RHA
Guy Ben Ner, Stealing Beauty, 2007.
http://www.youtube.com/watch?v=KDUrqKD9RHA
Guy Ben Ner, Stealing Beauty, 2007.
di Giuseppe Zucco
Nel migliore dei mondi possibili, questo post non avrebbe ragione di esistere. Gli scrittori avrebbero già un posto fisso nei palinsesti. Accanto ai programmi di puro intrattenimento, ce ne sarebbero altri in cui gli scrittori e le loro opere contenderebbero l’attenzione e la pazienza degli spettatori.

VI
Quaderno americano
di
Federico Zuliani
1.
Tu, che non mi scrivi più,
so però che vivi ancora oltre certe finestre
senza più libri, importanti, senza
permetterti le debolezze che
ti concedevi, soltanto, per farmi sentire
un po’ meno impotente, un po’
meno vinto. Tu sai nutrirti infatti
di questo buio che io invece temo
e che s’è annesso, ad uno ad uno, i miei
porti. La notte, poco s’adatta ai borghesi
– che credono ai giorni fasti, alle luci, alle case
dalle tovaglie stirate, coi monogramma.
Ma tu, che già allora sapevi
di questa era ventura di passaporti
negati, di cavalli di Frisia e di
desiderio d’Armenia, hai preso
per tempo la via dell’esilio
dalla convinzione che saremmo potuti
divenire ciò per cui le madri
c’hanno educato, in quel tempo, ad essere,
nei giorni dei calzini stirati, delle
certezze, repubblicane. Oggi
so che hai preso un posto, anche per me,
tra i tavoli dei reduci, dei colpiti, da proscrizione.
2.
Ci hanno insegnato la diaspora nei gesti
delle madri, delle possibili nuore,
da che parte andasse il coltello
sulle tavole spoglie delle feste avite
e dal sacro timore per le parole avvolte
nel vuoto greve del non pronunciato.
Ma oggi, di contra, ci ritroviamo
perché, come ultimo sfregio, chi possiede le chiavi
delle nostre vite, ci ha vietato
di andare incontro alla morte, indossando
le maschere funebri degli antenati.
Le maschere, che conserviamo negli atri
delle case, e che sono state prese
sui volti dei morti, sui corpi già vuoti
d’aria, ma ancora vestiti, ancora in possesso
degli oggetti che si lasciano ai vivi, che rimangono
a ricordarci dell’illusione che sta, tra noi,
e il credere che ci sarà dato di
avere, pure noi, quegli anni
che sono stati, prima, dei padri e dei nonni.
Ma oggi, in questo paese che ci chiama altri,
quelli, ci spiegano che è meglio
– per ragioni di salute pubblica –
che la morte esca dalla vita degli uomini
perché ricorda troppa se stessa, perché
priva del sonno i bambini. E così, nella diaspora,
i padroni ci impongono infine d’avanzare soli;
ci vogliono nudi, uguali, nel nostro essere nati
senza padre né madre, nel non essere
di nessuna gens, nel sapere nostro, solo il presente.
Come ad ogni legge ingiusta prima, anche a questa
obbediremo, per poi indossare le maschere
mentre siamo soli, in casa. La libertà
nelle case ci impone però, senza accorgercene,
nuovi confini, ma soprattutto, ce ne rende
i guardiani (gli schiavi) più attenti, i più fedeli.
Oggi che sono transenne tutto intorno a noi,
la morte ha smesso di uscire in strada,
è divenuta privata, come i parcheggi,
o il diritto proprio dei Greci di Ionia, su cui è costruita
l’illusione collettiva per cui, rinunciando
alla morte, si possa avere in cambio la vita.
3.
Avrei voluto portarti con me, Ossip Emili’ovic,
ma Marina ha ragione: l’America non si addice
ai tuoi piedi, e so che sei contento di aspettarmi laggiù
assieme a Proserpina, e agli dei della casa
a cui è stato interdetto il passaggio del mare.
Quaggiù, sappi, godo l’estate delle persone non grate
in questo deserto di grattacieli posti a difesa
del nulla che viene, e che vive nei fiumi,
nelle grandi pianure delle metropolitane.
L’Armenia, qui, è tavolini con tovaglie a quadretti
con i bordi macchiati, e non c’è spazio
per le nostre lentezze, per il tuo modo di
aspettare che la notte si alzi, che vengano a dirci
che è ora di andare. L’esilio si sconta nei tabacchi
ignoti, nel sali e scendi per i supermercati.
Mancano, poi, le pattuglie, e per questo
se ne sentono i passi avanzare, tra i tombini
sopra le tombe levigate dei mezzi piani. Il mondo,
oltre il mare, è fatto per chi crede ai profeti,
per i-senza-vergogna nel dire “io”. Mi
manchi. Aspettami, te ne prego. Tornerò
perché il buio di Mosca è diverso, con te
e pure la radio annuncia in un modo diverso
che è meglio dormire con le finestre sprangate.
4.
Viaggiando s’apprende a conoscere
l’attesa che anticipa lo squillo delle sirene,
mentre si fanno le scale, quando si è in coda
per la Comunione. Qui, di notte,
i miei amici sono tutti cinesi
mi confondo coi nomi, pretendo
che sappiano almeno come ci si ubriaca.
Diverso però è il ritornare, e trovare
che la propria città ha assunto i colori del buio
che s’è federata in nostra assenza coi barbari.
E così, spogliati lo zaino ed i gradi, non rimane
che augurarsi che presto venga il tempo
di un’anabasi ultima che ignori i sentieri
e che proceda tra i tetti, fra le ombre lunghe
dei sottoscala. Viaggiando, abbiamo tentato,
tante volte, ma invano, di spogliarci nudi,
di confonderci, nelle folle, di sparire
nelle strettoie anguste delle stazioni;
ma ogni tentativo, fatuo, ha lasciato
su di noi, più indelebile, la mera lingua
delle madri e dei padri, questa cosa
invincibile e atroce, che mi impone, anche ora,
di dire “noi”. Tornare, mi obbliga, così
ad accettare che questo vuoto che tocco
solo, ignoto, ma che ha saturato anche l’aria
di cui sono fatte le cattedrali, è il mio vuoto,
che questa indegna colpa, la mia colpa.
Federico Zuliani è nato nel 1983 a Milano, dove si è laureato in Storia del Rinascimento presso l’Università Statale. A partire dall’adolescenza ha vissuto lunghi periodi all’estero, tra Argentina, Scandinavia e Asia. Ha pubblicato alcune traduzioni da autori iberici e nordici su riviste e in volume (J. V. Jensen, Alla stazione di Memphis, La Pulce, 2005). E’ del 2008 Travelling South (Milano, Lampi di Stampa), la sua prima opera poetica, che raccoglie testi scritti tra il 2005 e il 2006. La dimora del tempo sospeso segnala tra l’altro Travelling South, di cui esiste una bella ricognizione su Absolute Ville

di Davide Orecchio
Iniziano ad affiorare gli scomparsi.
Porto Palo 1996. Quindici pachistani annegati, trovati dai pescatori e rigettati in acqua, ora passeggiano sul molo tra barche ormeggiate, reti, persone incredule. Sono illesi: niente di loro l’ha trattenuto il mare. Conservano braccia e gambe e i bulbi degli occhi. La pelle non è neppure squamata. Ridono. Annusano molluschi e sugheri. S’informano se c’è lavoro in città.
Santiago 1975. Salvador Allende emerge davanti alla Moneda. Il suo cranio è intatto. Nessuna scorticatura sulla cute né cedimenti ideologici. Non indossa elmetto, non porta pistole. Mormora a un passante: “Ricominciamo”.
di Luca Ricci
ai miei amici scrittori, bestie da macello
La mattina presto del giorno in cui uscì il libro del mio amico, verso le quattro o le cinque del mattino, la città venne messa in maschera da un acquazzone improvviso. Me ne accorsi da sotto le coperte e pensai che se fosse continuato a piovere la gente si sarebbe tenuta alla larga dalle librerie: tra scrittori succede sempre così, i libri degli amici sono accolti con un misto di curiosità e invidia. Quel sentimento ambivalente mi accompagnò anche durante la colazione, mentre notavo che il cielo si schiariva e le strade si asciugavano. Poco male, mi dicevo, una bella giornata non significa automaticamente una buona vendita. Mi vestii con sofferenza e decisi di fare una seconda colazione fuori. All’edicola comprai quei giornali dove ritenevo più probabile fosse uscita qualche recensione del libro, magari un’anticipazione o un pezzo concordato fatto da altri amici del mio amico. La sofferenza si tramutò ben presto in sollievo: anche se c’erano un paio di interventi molto elogiativi, in effetti se ne parlava poco o niente. Quando arrivò l’ora dell’apertura delle librerie non ebbi il coraggio d’entrare. Quello era il momento in cui i commessi aprivano i pacchi e sistemavano le novità sui banconi principali, quello era il momento in cui il libro del mio amico era incontestabilmente il libro più nuovo, l’appena nato. Me ne andai a contare le foglie dei platani lungo il fiume. Quante copie avrebbe potuto vendere, onestamente? Inviai un messaggino di congratulazioni al mio amico, e ancora camminai per cercare di svagarmi, di pensare ad altro. Verso mezzogiorno infilai l’ingresso di una libreria di catena e notai che il libro del mio amico, com’era prevedibile, se ne stava in un angolo oscurato dalle piramidi delle strenne natalizie. Pochi, pochissimi titoli occupavano la maggior parte dei metri cubi disponibili: proprio così, toglievano l’aria ancor prima dello spazio, e non c’era davvero modo di non notarli. Si trattava di quei libri che erano arrivati prima di quello del mio amico, e che con ogni probabilità sarebbero rimasti esposti anche dopo. Occupavano anche le vetrine ed erano gli stessi di cui avevo lungamente letto sui giornali. I soliti nomi, i soliti libri, nessuna sorpresa. Mi sentii un po’ meglio e rincasai per mettere qualcosa sotto i denti. Controllai la situazione su internet: chi non ha una visibilità immediata può sempre contare sulla remota possibilità di un passaparola in rete. Senza nascondermi un’oscura soddisfazione constatai che non stava succedendo nulla di particolare. Sì, del libro del mio amico si parlava ma entro margini del tutto accettabili: e in fondo di quale libro non si parla in rete? Non era scoppiato un caso, un interesse particolare, un’onda di commenti e feed-back e tweet anomala. Nel primo pomeriggio il sole venne di nuovo inghiottito da un cielo senza colore, e cominciò a fare freddo. Se fosse ricominciato a piovere la partita si sarebbe chiusa prima del tempo. Mi diressi verso un’altra libreria e chiesi al commesso una copia del libro del mio amico. Il commesso, vagamente disorientato, ci mise qualche minuto a ricordarsi dove mai potesse essere. E ancora non potei fare a meno di guardare allibito le torri di quei pochi titoli fortunati che la filiera editoriale aveva insindacabilmente scelto di vendere quell’autunno. Era divertente il fatto che la loro presenza aggressiva in libreria in genere fosse direttamente proporzionale alle opinioni piene di buon senso progressista della maggior parte dei loro autori. C’era parecchio intrattenimento e molta saggistica di denuncia. Mi venne da pensare, stavolta con inequivocabile malinconia, che dalle librerie era stato espunto il mistero della letteratura. Pensai proprio così, che certa narrativa ormai subiva lo stesso trattamento della poesia. Uscii con una copia del libro del mio amico sottobraccio, ma non ebbi il coraggio di cominciare a leggerlo. Mi sembrava già una concessione straordinaria, un fatto quasi inammissibile, che fossi stato proprio io a comprargliene una copia, a dargli quello scandaloso aiutino. In un modo o nell’altro comunque si erano fatte le cinque del pomeriggio, e la parabola della vita del libro era entrata nella sua fase discendente, il suo destino stava per compiersi. Forse il mio amico lo starà presentando da qualche parte, riflettei ironico. Sapevo che quella mossa sarebbe servita soltanto a rendergli meno amara la sconfitta. Mi chiamò qualcuno, un altro amico scrittore, chiedendomi a bruciapelo: “Allora quand’è che ti decidi a scrivere dei gialli seriali con un bel commissario che entri nel cuore della gente?”. Attaccai livido di rabbia e proseguii il giro delle librerie. Alle cinque del pomeriggio il libro del mio amico era stato spostato dal bancone delle novità agli scaffali. Alcune librerie l’avevano già parcheggiato in magazzino, segno inequivocabile di ciò che sarebbe successo tra poche ore. La cosa mi dette un tale sollievo che mi ripromisi di non pensarci più. Cadde ancora qualche goccia di pioggia, il che fermò diversi acquirenti nell’ora solitamente ritenuta di punta per quanto riguarda lo shopping. Con gioia – una gioia torva che poteva ben riassumersi nell’adagio “mal comune mezzo gaudio” – restai a guardare le strade un po’ meno affollate del solito. A casa poggiai il libro del mio amico sul comodino e ancora non ebbi animo di dargli un’occhiata: e se fosse stato buono? E se fosse stato molto buono? Mi cambiai velocemente e decisi che la mia giornata si sarebbe conclusa con un po’ di jogging. Fuori, il cielo era nuovamente tornato lindo. Tutta quella pioggia l’aveva pulito eccessivamente, e adesso soprintendeva le cose del mondo con la stessa indifferenza con cui, alla fine della corsa liberatoria, mi soffermai a contemplare le saracinesche abbassate di alcune librerie. Era tutto finito, per il mio amico. Tre lunghi anni per scriverlo e un giorno appena per venderlo. La novità del mattino si era trasformata nella resa della sera.
(Pubblicato su Orwell, l’inserto culturale di Pubblico, il 24-11-2012)
Convegno internazionale
Université Paris Ouest Nanterre La Défense, 6 e 7 dicembre 2012
Qui il link all’Università e al programma
Colloque organisé par le Centre de Recherches Italiennes (CRIX-EA 369 Études Romanes), avec le soutien de l’École Doctorale 138 LLS (Lettres, Langues et Spectacles) et l’UFR LCE. Avec la participation de l’Institut Culturel Italien de Paris. Dans le cadre du projet “Precarity and Post-autonomia : the Global Heritage”, avec le soutien du NWO (The Netherlands Organisation for Scientific Research).
Projet scientifique et organisation : Silvia Contarini (Université Paris Ouest Nanterre La Défense) et Monica Jansen (Utrecht University)
Collaboration : Luca Marsi et Christophe Mileschi (Université Paris Ouest Nanterre La Défense), Judith Revel (Université Paris 1)
Aide à l’organisation : Estelle Paint, Manuela Spinelli et Alessio Berré (Université Paris Ouest Nanterre La Défense)
Les partenaires du projet « Precarity and Post-autonomia : the Global Heritage » : Vincenzo Binetti (University of Michigan, Ann Arbor), Joost de Bloois (University of Amsterdam), Silvia Contarini (Université Paris Ouest Nanterre La Défense), Frans-Willem Korsten (Leiden University/Erasmus University Rotterdam), Federico Luisetti (University of North Carolina, Chapel Hill), Monica Jansen (Utrecht University)
Oggi è la giornata mondiale del suolo. Il suolo è quella sostanza sporca che chiamiamo comunemente terra, nello stesso modo cioè della Terra, il globo terrestre, che invece i suoi quarti
di Reinaldo Arenas, a cura di Gianluca Cataldo
Foto: “Baracoa”, di Eleonora Quadri
Pubblichiamo di seguito la traduzione di una parte del prologo scritto da Reinaldo Arenas in contemporanea, si presume, alla revisione del romanzo El mundo alucinante, un atto di difesa della propria visione poetica della Storia, fatta di storie incastrate in un frenetico e semplice fluire del tempo. Nella speranza di vedere presto un’edizione italiana delle sue prime opere, mi scuso per gli eventuali errori di traduzione, e ringrazio Fabio Burani per l’aiuto.
Azione popolare: lottare per il bene comune
a cura del comitato Area ExEnel

Immagine della copertina del libro di Salvatore Settis Azione popolare, Einaudi, 2012
incontro lunedì 10 dicembre 2012 ore 18.30
intervengono Salvatore Settis in dialogo con Marco Biraghi, Marco Belpoliti e Gianni Biondillo
Careof DOCVA
Fabbrica del Vapore, via Procaccini 4, Milano
“La comunità dei cittadini è fonte delle leggi e titolare dei diritti. Deve riguadagnare sovranità cercando nei movimenti civici il meccanismo di base della democrazia, il serbatoio delle idee per una nuova agenda della politica”. (dalla presentazione di Azione popolare, Einaudi, 2012)
—
Careof DOCVA
Fabbrica del Vapore, via Procaccini 4, 20154 Milano
+39 02 3315800
careof@careof.org
www.careof.org
Tram 12 e 14, fermata Bramante/Monumentale
Bus 37, fermata Procaccini/Messina
MM2, fermata Porta Garibaldi
di Gian Balsamo
Gentile Signor Curato:
ci ricordiamo di tanti Curati a Carrù. Di nome, però, ricordo solo un suo successore: Don Luigino, che creò il Carnevale dei Cuori in festa, e s’è lasciato dietro tanto affetto in paese, meritato a parer mio. Ma, di fatto, ricordo molto meglio Lei, Signor Curato, sebbene, mi perdoni, abbia scordato il suo nome. Penso che molti dei miei coetanei di Carrù la identificheranno facilmente. Lei era alto e smunto e, strano manierismo, nei locali dell’Azione Cattolica ci diceva sempre: “spengi la luce,” invece di spegni. E uno alla volta, non l’avrà dimenticato, ci portava a turno nella Stanza del Disordine della Casa Canonica, la stanza immediatamente a destra della porta d’entrata. Oggi le scrivo per spiegarle la maniera in cui Lei mi indusse a lasciare Carrù. Mentirei se sostenessi che mi accingo a raccontarle l’unica ragione per cui me ne sono andato dal paese natale. Ma dopo aver letto questa lettera, dovrà riconoscere che Lei mi privò di alternative: rimanendo a Carrù, ero destinato a morire di fame.
Oggi comprendo che, per ragioni di censo, e anche in quanto ero il perenne primo della classe, ero un intoccabile, e infatti Lei mi toccò proprio poco nella Stanza del Disordine. Non ricordo altro che carezze sulle mie gambe nude; a quei tempi portavamo tutti pantaloncini esageratamente corti. È vero che potrei avere scordato altri dettagli, ma non lo credo; la moda di disseppellire memorie rimosse ha fatto scalpore qualche anno fa, devastando le vite di tanti suoi confratelli, però non mi pare che questo tipo di ricordo vada cercato col lumicino. Non so nemmeno fin dove Lei si spingesse con gli altri bambini.
Sono diventato scrittore anche grazie a Lei, perché mi ha aiutato a scoprire, intorno agli otto anni o giù di lì, la trama del triangolo amoroso. Questa stessa trama l’avevo vista rappresentata nei film proiettati al Cinema Moderno di mio nonno Francesco, ma ero troppo giovane per capirla. Poi un giorno, nella Casa Canonica, l’ho vissuta in prima persona, pur continuando a non comprenderla. Era d’estate? Lo penso, perché noi bambini trascorrevamo interi pomeriggi nella Casa Canonica. Non saprei dire perché, in quei giorni, venissimo nella Casa Canonica invece che nei locali dell’Azione Cattolica, nostra destinazione naturale, dove avevamo il ping-pong per giocare, il calciobalilla, etc. Forse i locali dell’Azione Cattolica erano in fase di costruzione o di ristrutturazione? È probabile. Fatto sta che, giorno dopo giorno, Lei ed io ci appartavamo nella Stanza del Disordine, dove mi prendeva in braccio e, canticchiando, mi accarezzava le gambe nude. Il senso di amore paterno e il conforto che mi comunicavano quelle sue carezze erano uno stimolante irresistibile. Tanto che ogni nuovo giorno anelavo a quei nostri abbracci; illuminavano le mie giornate.
Poi venne il giorno in cui la vidi avviarsi verso la stanza del disordine in compagnia di un altro bambino. In uno sprazzo, la mia mente infantile fu in grado di eseguire la semplice equazione: Stanza del Disordine uguale abbraccio. Ma non fui in grado di eseguire l’altra equazione, altrettanto evidente: 1 + 1 = 2. Così, terzo incomodo, vi seguii entrambi. La porta della Stanza del Disordine era già chiusa quando la raggiunsi. La spalancai. Al mio apparire sulla soglia, non solo lessi il cruccio colpevole sul suo viso, Signor Curato, ma anche la sorpresa indispettita sul viso del bambino al suo fianco. E vidi anche, in un lampo (come se fossi nella posizione privilegiata di un dio o d’un narratore onnisciente), i muscoli del mio viso contrarsi nell’espressione di un sentimento che non mi era per niente familiare, e di cui non conoscevo nemmeno il nome, credo: la gelosia. Avevo forse otto anni, e scoprivo in quel momento, in anticipo su ogni esperienza di delusione amorosa, il potere evocativo di una delle trame letterarie più comuni: il tradimento amoroso. È la trama che conosco meglio fin dall’infanzia, ma al tempo di questo incidente non potevo raccontarla ad altri che a me stesso. Mi bastava chiudere gli occhi per veder scorrere, come in un film, la sequenza delle scene: lei che cammina con un intruso al fianco; io che vi seguo, trovo la porta chiusa, la spalanco e compaio sulla soglia…
Questa esperienza mi ha facilitato, più tardi, nella scoperta del potere evocativo di tante altre trame: l’invidia, l’ambizione, la brama, la paura, la nostalgia, il desiderio. Le ho sfruttate tutte, una ad una, nei romanzi che ho firmato col nome di Luigi Ferdinando Dagnese. Ma la trama della mia gelosia di quel giorno lontano non l’avevo mai raccontata, finora.
Oh, Signor Curato, perché mi ha tradito?
È a causa sua, Signor Curato, che non sarei potuto sopravvivere a Carrù. Sulla porta della Chiesa Parrocchiale venivano affissi settimanalmente i titoli dei film mostrati nel Cinema Moderno di mio nonno Francesco, ed ogni titolo era seguito dal grado di peccato, veniale o mortale, di cui si sarebbe macchiato lo spettatore. I grandi film che hanno lasciato una traccia indelebile sulla cultura nazionale e internazionale, da Otto e mezzo di Fellini all’Avventura di Antonioni, provocavano immancabilmente peccati mortali. Ma Lei mi insegnava che non faceva molta differenza, che io li vedessi o no, quei film. C’era ben altro, a lordare la mia anima: nel proiettare quei film a pagamento, la mia famiglia vendeva il peccato. Un giorno, lo ricordo come se fosse ieri, alcuni bambini scrissero il proprio nome e cognome su una parete posticcia, in compensato, nei locali dell’Azione Cattolica. Quando io manifestai il desiderio di imitarli, Lei si limitò a chiedermi: “Il tuo nome, Balsamo, qui?” Ricordo specialmente il sorriso, un po’ crudele, un po’ ottuso, con cui mi disse queste parole.
Bambino cattolico irreprensibile, sentivo che era compito mio espiare la vendita del peccato per conto di tutti quanti i miei famigliari. E ce n’erano davvero tanti, di colpevoli da redimere, oltre a Nonno Francesco: la famiglia di mio padre Agostino, il droghiere, e quelle dei suoi due fratelli Domenico e Franco. Il cibo che i miei genitori, mia sorella ed io mangiavamo a tavola, nel retro della drogheria, era acquistato con i frutti di proventi immondi; ogni boccone, dunque, mi spingeva nello stomaco un’oncia di peccato. E il peccato ̶ immagino che Lei lo sappia bene, Signor Curato ̶ è indigesto. A fasi alterne, smisi di mangiare oppure ridussi i miei pasti, per così dire, all’osso. Espiavo. I miei coetanei dovettero rinunciare a chiamarmi “ciccione,” perché pienotto, sì, lo ero stato, ma non lo ero davvero più. Digiunavo e mortificavo la carne alla maniera, senza rendermene conto, dei primi eremiti cristiani d’Egitto e di Palestina. Sono diventato un mistico perché, grazie a Lei, non potevo più considerarmi cattolico.
Ma, Signor Curato, se ero degno di sederle in grembo, non sarei stato anche degno di sedere in grembo a San Pietro?
È certo che sarei finito male, se avessi speso il resto della mia vita a Carrù. Già a vent’anni sapevo che, per salvarmi dall’anoressia, sarei dovuto scappare dalle case e dalle strade che avevano visto crescere e radicarsi in me quel complesso assurdo. Anche Lei è scappato da Carrù, mi risulta, o meglio, venne rimosso precipitosamente dalle proprie mansioni di Curato. La fuga da Carrù m’è costata sacrificio ma m’è anche valsa avventure impagabili. Lo racconto, se le interessa, nella “Lettera a mio figlio” che ho appena pubblicato, a mo’ di introduzione alle mie memorie carrucesi, in Amori, americhe e amarezze. E Lei come se l’è cavata, dopo Carrù? Dov’è finito?
Mi creda, Sinceramente,
Gian Balsamo
ricevo questo testo da Balsamo, e lo posto volentieri; lui stesso, nella lettera di presentazione, lo definisce “un artefatto letterario che sostituisce l’ironia al legalismo e al rancore”; GS
(Gian Balsamo ha pubblicato di recente un memoir, “Carrù,” in Amori, americhe e amarezze a cura di Danilo Manera (Araba Fenice, 2012). È autore di Lettera alla venere in pelliccia (BdV, 1993) e Joyce’s Messianism (University of South Carolina Press, 2004). Vive a Palo Alto in California.)
di Cristiano de Majo

Sul Corriere della Sera dell’8 ottobre, un articolo di Ranieri Polese, riportando dati e chiacchiere con agenti letterari ed esperti del settore alla vigilia della Buchmesse, attestava una sorta di spread alla rovescia – di dimensioni molto più ridotte in realtà – nel rapporto tra autori italiani di narrativa tradotti in Germania e autori tedeschi di narrativa tradotti in Italia. Le ragioni di questo successo del, direbbe Montezemolo, romanzo made in Italy sono, a sentire gli intervistati: “l’elemento folklorico, pasta, un bel paesaggio, un intreccio giallo, magari un thriller fra i vigneti del Chianti con un ispettore simpatico e un morto con un coltello nella schiena”, oppure “un immaginario arcaico femminile, la Sardegna. Per un po’ di anni anche mafia camorra e ‘ndrangheta hanno funzionato bene”. Insomma un grande amore per le storie che non tradiscono l’immagine del Belpaese vagheggiata dai nordeuropei (una mescola di tradizioni, crudeltà, passione e gioia di vivere), anche se, in verità, in questi anni l’editoria tedesca, come quella francese, non è stata del tutto disattenta alla nostra letteratura cosiddetta di ricerca.
È ancora più difficile farsi un’idea di quali siano le logiche che guidano la pubblicazione di romanzi italiani in lingua inglese, un mercato storicamente poco attento alla narrativa straniera, e forse per abbondanza di prodotto interno oltre che di sciovinismo letterario. Su Amazon.com si trovano edizioni in inglese di Piperno, Ammaniti, Veronesi, Avallone, Giordano; c’è una notevole invasione di crime novel nella patria del crime novel (Camilleri, Carofiglio, Carlotto); ma sono anche annunciate per il 2013 di due romanzi complessi, non proprio dei best-seller, Storia della mia purezza (Pacifico) e Il tempo materiale (Vasta); mentre sono del tutto assenti i nomi considerati più alti e influenti della nostra letteratura contemporanea: Siti, Moresco, Nove, Trevi; Tommaso Pincio che, forse superficialmente, potrebbe sembrare lo scrittore più in sintonia con quell’immaginario, è presente, e per motivi credo più musicali che letterari, con Un amore dell’altro mondo e basta. Se ne potrebbe trarre la conclusione che la forma romanzo compiuta abbia maggiori garanzie di riscuotere attenzione e che lo sperimentalismo sia visto con diffidenza, con le eccezioni di Pacifico e Vasta, che però scrivono di due temi molto sentiti in America: il problema dell’identità religiosa e il terrorismo.
Un altro dato interessante viene dal Premio Alassio 100 libri, che ogni anno incorona un “libro per l’Europa” a opera di una giuria composta da italianisti stranieri. Vincitrice di quest’anno Valeria Parrella, che segue Michela Murgia, Margaret Mazzantini. Tutte a vario titolo rappresentanti di una letteratura che verrebbe da definire normale.
Qualche giorno fa mi è capitato di leggere sulla Los Angeles Review of Books un lungo articolo su una edizione bilingue dei Canti di Leopardi curata da Jonathan Galassi, celebrato traduttore di Montale, oltre che poeta e presidente di Farrar, Strauss & Giroux. Alan Williamson, l’autore della recensione, si soffermava sulla difficoltà di tradurre Leopardi, citando Calvino – “oltre i confini dell’Italia, Leopardi non esiste” – e, attraverso qualche esempio, riconosceva a Galassi la buona riuscita in un’impresa così difficile. La parte finale del pezzo era dedicata, invece, a un ragionamento interessante sull’immagine degli italiani. Per quale ragione, si chiedeva l’autore, gli italiani, percepiti da nordeuropei e americani come un popolo caldo, amichevole ed edonista, hanno nel loro pantheon letterario scrittori cupi come Leopardi, Montale, Pavese?
Le risposte che ipotizzava Williamson non convincono del tutto: un passato troppo più glorioso del presente (pessimismo storico); condizioni di vita estremamente dure fino al Ventesimo secolo. Ci vorrebbe forse una maggiore conoscenza dell’identità italiana e della sua letteratura per concludere che la profonda cupezza di cui parla Williamson è un elemento tuttora presente nei nostri venerabili maestri letterari, e anche una caratteristica rimossa nella nostra autorappresentazione. In quanto a cupezza, proviamo a tracciare una linea che unisca i puntini Leopardi e Pavese, appunto, fino a Pasolini e Moresco… Se è vero che la nazione italiana è una costruzione letteraria prima che geografica (Carducci, Volponi) – tema tra l’altro approfondito ne L’Italia letteraria di Stefano Jossa, uscito qualche anno fa per Il Mulino – bisognerebbe forse abbandonarsi alla letteratura per scoprire qualcosa di più su noi stessi; la cupezza dei nostri classici potrebbe indicare che il modo in cui amiamo rappresentarci e odiamo essere rappresentati sia una falsa pista, che sole pizza e mandolino siano specchietti per le allodole per dissimulare un antropologico mal di vivere.
Nelle Lezione americane Italo Calvino dà una definizione magnifica di Leopardi dipingendolo come un “edonista infelice”. Ed è bizzarro come questa stessa definizione si possa applicare a molti prototipi di arci-italiano, veri o solo scritti, dai personaggi di Alberto Sordi a Silvio Berlusconi. Leopardi, a ben vedere, non sarebbe come vuole il luogo comune, il mostro, l’alterità, l’anticorpo, ma l’incarnazione di un elemento ben presente nel nostro DNA. La cupezza è in noi e nel nostro spirito, sotto la maschera di Pulcinella.
[Questo articolo è stato pubblicato su Orwell]
E’ da qualche giorno in libreria la riedizione dell’introvabile La città degli uomini d’oggi, di Edoardo Persico, pubblicato ormai 90 anni fa circa. Ho scritto per Hacca la bandella che qui ripropongo. Il libro è, tra l’altro, un bell’oggetto, come tutte le cose che fanno questi temerari marchigiani.
di Gianni Biondillo
Negli anni dei miei studi universitari, in quei vituperati anni ’80, al Politecnico di Milano, di Edoardo Persico non parlava più nessuno. La facoltà d’architettura era salda nelle mani di allievi opachi di Aldo Rossi. Analisti urbani col piglio scientifico, intellettuali coltissimi e freddi, progettisti noiosi.
Persico lo ritrovavo, di sponda, nelle pagine di Bruno Zevi, nei suoi articoli per L’espresso, nei suoi saggi sull’architettura moderna in Italia: devo insomma a un critico romano la curiosità per un pensatore napoletano che, dopo aver vissuto a Torino, decise di abitare proprio nella mia città, a Milano, dove lasciò le sue opere più importanti: dalla installazione in Galleria per il Plebiscito del 1934 all’allestimento del negozio Parker, fino – il suo vero capolavoro – alla costituzione di una rete di relazioni con artisti, scrittori, architetti, che avevano come luogo cartaceo coagulante la rivista Casabella, della quale era, dal 1931, direttore assieme a Giuseppe Pagano.
Persico fu un pensatore autodidatta, inquieto, che visse in povertà estrema, inseguendo le sue chimere, esempio perfetto di tardo bohème, candela che brucia da entrambi i lati, e perciò si esaurisce prima, ma con maggior luminosità dei suoi coetanei. Vita intensa, piena di luci e ombre, quella di Persico. Ed infatti – ubi maior minor cessat – un mio collega ben più titolato di me, Andrea Camilleri, ne ha fatto pure una versione romanzesca.
Occorre rileggerlo, in quest’epoca così povera di slanci teorici, dandogli però l’onore e l’onere del tempo trascorso. Storicizzarlo, per poterlo fare a noi più contemporaneo. Rileggerlo dall’inizio, per capire meglio il suo percorso. Chi avrebbe mai pensato, sfogliando all’epoca La città degli uomini d’oggi, quale sarebbe stata la vita tortuosa di questo ragazzo? Perché, ecco la cosa non detta, è di ragazzi che stiamo parlando: artisti, architetti, critici, pensatori, filosofi. Ma ragazzi. Il nostro migliore Novecento ha saputo permettere a queste giovani menti irrequiete di esprimersi, magari col piglio tronfio che solo la gioventù sa darti, magari con cascami dannunziani – che non mancano in queste pagine del giovane Persico -, magari con misticismi incongrui, appigli teorici datati, ma pur sempre di esprimersi col vivo e profondo desiderio di modificare la percezione della realtà, consapevoli che un nuovo mondo era arrivato e che aveva bisogno di una nuova etica dell’arte che, grazie proprio al loro lavoro, ha saputo poi nei decenni a venire regalare i frutti migliori della nostra creatività al mondo.
Persico aveva ventidue anni quando scrive questo libro. Novant’anni fa. Muore senza averne neppure compiuti trentasei nella sua vasca da bagno. Quattordici anni di passioni che hanno attraversato le discipline, conosciuto mondi immaginifici, costruito teorie urbane. Tutto nasce da queste pagine. Rileggiamole, ne vale la pena.
di Paola Del Zoppo
Heinz Czechowski nasce a Dresda il 7 febbraio del 1935, figlio di un impiegato del fisco di origine polacca. Il contrasto avvertito tra il senso di pace e pienezza dell’infanzia e gli eventi traumatici legati alla guerra, al bombardamento di Dresda del 1945 e al dopoguerra segnano per sempre la sua vita e la sua poesia. «Ancora oggi», racconta nella sua autobiografia scritta in età avanzata, «il quartiere in cui trascorsi la mia prima infanzia mi appare quasi paradisiaco. Mio padre andava a prendere la metropolitana di superficie per andare all’ufficio del fisco alla Marschnerstrasse, vestito elegantemente, mio fratello in bicicletta alla Annenschule. Mia madre e io salivamo sul tetto dell’edificio e salutavamo la silhouette della città immersa nella luce dorata».

di Davide Orecchio
L’UOMO CHE NON ERA MORTO
Sei anni fa, nello stato indiano del Madhya Pradesh, Raju si presentò dalla polizia e chiese aiuto. L’uomo doveva provare d’essere vivo. Katra, il suo villaggio, l’aveva messo al bando perché lo riteneva morto. Si era ammalato e l’avevano ricoverato in un ospedale lontano dal villaggio. Ma un parente aveva avvisato familiari e compaesani che Raju non c’era più. Il villaggio aveva celebrato la cerimonia funebre. Quando, dimesso dall’ospedale, l’uomo tornò a Katra, quello che vide furono fratelli in fuga da un fantasma, bambini terrorizzati, amici che si rinchiudevano in casa. Allora andò a protestare dal panchayat (il comitato del villaggio). E gli risposero: “Sta a te dimostrare che non sei morto”.
Fonte: Times of India, gennaio 2006.
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di Sergio Garufi
Fortunatamente Cortázar non abbiamo ancora finito di leggerlo. A distanza di ventotto anni dalla sua morte continuano a uscire preziosi inediti, tanto che a questo ritmo presto la mole della produzione postuma supererà quella di quando era in vita. Si tratta soprattutto di lettere, come Cartas a los Jonquières, il bel volume edito da Alfaguara che raccoglie circa un centinaio di missive e cartoline indirizzate all’amico Eduardo e a sua moglie Maria nell’arco di più di trent’anni, dal 1950, la vigilia del suo trasferimento a Parigi, fino all’84, pochi mesi prima di morire. I due si conoscevano dai tempi della scuola Mariano Acosta di Buenos Aires, quando scrivevano su Addenda, la rivista letteraria del collegio.
Vuole la leggenda, in parte alimentata dallo stesso scrittore, che da giovane Cortázar conducesse una vita ritirata e dedita unicamente alla lettura. In realtà amò sempre circondarsi di amici coi quali condividere le sue passioni culturali, e questo carteggio con Eduardo Jonquières, che fu poeta e pittore, ne è la dimostrazione evidente. Il grosso delle lettere fu scritto negli anni Cinquanta, perché nel ’59 Jonquières e famiglia traslocheranno pure loro a Parigi, e quindi le occasioni di sentirsi diventeranno più facili, ciononostante il rapporto epistolare s’interromperà solo con la morte di Julio. Purtroppo non si sono salvate le lettere di Eduardo, di modo che le sue parole vanno indovinate attraverso quelle di Cortázar.
I temi trattati sono diversi. Julio racconta gli inizi stentati a Parigi, la ricerca di un lavoro stabile, i continui cambi di domicilio contrassegnati dalla sigla “c/o”, lo stigma dei grandi scrittori nel loro momento aurorale, quando si subaffitta una stanza presso altri perché non ci si può permettere un alloggio proprio. Poi le lunghe passeggiate per la città, i giri in bici, le visite ai musei e i viaggi in autostop sembrano per lui un unico apprendistato allo sguardo (“sobretodo camino y miro, tengo que aprender a ver”). Grazie a queste lettere, che costituiscono l’autobiografia che non scrisse mai, abbiamo accesso a un Cortázar inedito e sorprendente, colui che Vargas Llosa definì “un uomo eminentemente privato, con un mondo interiore costruito e preservato come un’opera d’arte”.
Con grande pudore e affettuosa cautela Julio si confida all’amico, gli comunica le preoccupazioni economiche, i dubbi di aver fatto la cosa giusta (“que hago aquì?”, si chiede il 31/10/52). Si rivolge a lui forse perché Eduardo rappresenta il suo contraltare: la distanza fra loro infatti non è solo geografica. Eduardo è l’amico fraterno rimasto in Argentina, sposatosi presto e con una famiglia numerosa; Julio invece fa il bohémien sradicato, e a volte pare invidiargli la sicurezza degli affetti e la stentata agiatezza della vita in patria. Presto però la situazione si ribalta. La presenza di Aurora Bernardez al suo fianco lo sprona a lottare in una città che lo ignora, mentre Eduardo si sente al palo. Così arriverà per Julio l’impiego come interprete all’Unesco grazie all’interessamento di Victoria Ocampo (la direttrice della rivista Sur per cui scrisse pure Borges), poi l’incarico di tradurre i libri di Edgar Allan Poe e a poco a poco anche la serenità economica per poter viaggiare. In Italia lui e Aurora vanno a Siena, Venezia, Como, Roma, dove s’innamorano della pizza (“la locura más inconmensurable del sistema solar”, 27/10/53); ma i resoconti di viaggio negli anni, di pari passo con la sua progressiva affermazione artistica, comprendono paesi come l’Uganda, l’Austria (che chiama musilianamente Cacania), Cuba, Svizzera, Nicaragua, India, Danimarca, Brasile, Kenia e Inghilterra, a volte anche con soggiorni di mesi.
Non mancano le osservazioni sull’arte e la letteratura dei posti visitati, così come i sapidi ritratti degli illustri colleghi conosciuti (Octavio Paz, di cui fu ospite a New Delhi, o Albert Camus a una festa di Gaston Gallimard), e i ragguagli sulla genesi dei propri libri (dall’annuncio il 30/5/52 dell’idea dei cronopios e dei famas, che Aurora giudica negativamente perché troppo moralistici; all’ultima lettera in cui illustra Gli autonauti della cosmopista, il reportage intimo e fiabesco scritto assieme a Carol Dunlop, pieno di gioia di vivere malgrado il presagio della loro fine imminente).
Pur essendo intessuto da molti riferimenti colti, questo libro non somiglia affatto a quei fastidiosi epistolari letterari in cui lo scrivente si prefigura un grande pubblico e autorevoli esegeti postumi. L’interlocutore resta uno, e Cortázar è tutto tranne che un monologhista. Chiede sempre a Eduardo come gli vanno le cose, s’informa sulla sua famiglia e sulla sua carriera ed è prodigo di consigli, tanto che parla molto più dei suoi libri che dei propri. Ma il lato umano è preponderante in questo carteggio, ed è questa la sua vera forza, ciò che più attrae il lettore, tanto che alla fine si potrebbe dire che il tema principale del dialogo dei due amici sia il dilemma tra restare o andarsene, lottare in patria o cercare fortuna all’estero. In una commovente lettera del 27/8/55, questa volta tocca a Julio trovare le parole giuste per incoraggiare Eduardo in preda allo sconforto. Lo invita così a seguire la sua vocazione senza trincerarsi dietro l’alibi del “tengo famiglia”, e al contempo enuncia la propria filosofia di vita: “al mundo no hay que resistirle, lo que hay que hacer es elegir bien el mundo que uno prefiera y al cual hay que darse; y a ése, ah, a ése hay que darse a fondo, como cuando se nada, se duerme o se quiere“.
[Questo articolo è stato pubblicato su l’Unità del 20/11/2012]
Traduzione isometra di Daniele Ventre
di Giacomo Sartori
Cari ragazzi, permettetemi di chiamarvi così, io devo confessarvi che non conosco più di tanto questo romanzo che avete deciso di trasporre a teatro. Questo testo che vi ha parlato e sul quale volete lavorare è mio, nel senso che sono io che lo ho scritto. Sono io che gli ho dato vita – vita cartacea, per molti versi più pregnante e fervida della nostra – ai personaggi che in esso si dibattono, e soprattutto la sua lingua è il frutto del mio lavoro. Di questo sono sicuro. Ma mentirei se vi dicessi che so perché l’ho scritto, e mentirei ancora di più se vi facessi credere che so cosa vuol dire. La verità è che non ho la minima cognizione del perché esista, non ho la più pallida idea se significhi qualcosa. Il fatto che descriva una contingenza sociologica riconoscibile potrebbe far pensare che io detenga o ritenga di detenere le chiavi per decifrare quella stessa realtà: non è così.
Ma non fraintendetemi: mi fa piacere, un piacere sincero, che vi interessiate a lui. Mi da sollievo pensare che gli anni che ho passato a produrlo non siano inutili, e quindi per estrapolazione che nemmeno quello che faccio adesso – perché la mia vita resta ancora la scrittura – sia vano. È un palliativo che mi conforta e mi aiuta a vivere. Come potete immaginare non è facile dedicare mesi e mesi, anni, a un’attività che non ha alcun senso. Se però adesso un senso voi lo trovate, vuol dire che il mio agire ha una sua giustificazione, che forse la mia esistenza non è inutile. Per molte ragioni che adesso non ho voglia di disseppellire questo sillogizzare mi suona fallace, quasi un’impostura, e soprattutto illusorio, ma mi fa lo stesso bene. Come tutti gli uomini vivo anch’io di appagamenti fallaci e di illusioni. Sono anch’io un essere umano, sono anch’io sensibile – e forse più di altri – ai complimenti.
Quando ne parliamo io fingo di conoscerlo fin nelle sue indicibili intimità, fingo di essere quell’imperioso soggetto che ne detiene le redini, o comunque ne ha detenuto le redini. Questo è un esercizio che mi ripugna ma al quale sono abituato, perché mi si chiede di farlo anche in altre occasioni. Quando un libro viene pubblicato già la mia testa è altrove, già ho dimenticato il testo, o meglio ho cominciato a dimenticarlo – ho bisogno di dimenticarlo, una necessità fisica, legata a un istinto di sopravvivenza – devo però parlarne come se tutti i miei pensieri fossero ancora lì, come se fosse qualcosa che ha ancora a che fare con me. È una menzogna alla quale mi presto a malincuore: mi costa fatica – parlo di una misurabile tensione che produce malessere, non è una metafora – mentire. Lo considero però un prezzo da pagare, un male minore. Considero che l’inebriante libertà che mi governa quando scrivo valga bene questo agile pegno sociale. Nella vita tutti noi ci troviamo a sostenere ruoli che hanno lati spiacevoli, non vedo perché io dovrei esserne esente. Altri scriventi preferiscono trincerarsi in un’intonsa torre di avorio, io ho l’impressione che quell’arroganza mi sarebbe ancora più penosa. Senza contare che ne ricavo pur sempre, torno alla mia vanità, qualche soddisfazione.
Facevo l’esempio di un testo recente, figuriamoci allora un romanzo che va per la sua strada già da vari anni. Mostrare una complicità nei suoi confronti mi apparirebbe come inscenare un’intimità con un ex-amore che non frequento da tempo, quando ormai più niente ci lega, ed è anzi lievitata una mutua diffidenza. Del resto non siete tardi, e voi stessi vi siete accorti che conoscete meglio di me la vicenda e i personaggi. Leggo sulle vostre facce lo stupore, ogni volta che lo constatate. Ma se ci pensate è normale che sia così: voi il testo lo avete letto e riletto (come si dovrebbe leggere sempre, e come quasi nessuno più legge), io non lo bazzico da molto tempo. Anzi, si può dire che non l’ho mai fruito nella sua interezza e a mente fresca, senza tensioni e senza a priori, con mente innocente e per certi versi ingenua, senza ravvisare il seguito, come cioè si devono leggere i testi. È per questo che è ormai più vostro che mio. O meglio, è solo vostro.
La mia ignoranza è ben più sostanziale di quello che potrebbe sembrare, non riguarda solo i dettagli. Permea le linee di fondo, la sua stessa ragione di essere. Non so con precisione che rapporti intrattenga con la realtà effettuale e riconoscibile (molti hanno pensato che il suo movente fosse quello) che pretende descrivere, e che io non conosco (l’ho immaginata per induzione), pur avendola per certi versi nel sangue, e quindi conoscendola meglio di chiunque altro: davvero non lo so. Men che meno potrei allora dire se ha un qualche valore, se vale la pena leggerlo, se appunto emana un qualche senso. Certo nella mia testa ci sono ipotesi e convinzioni, certo rifletto anche su questo, come sulla mia pratica attuale di scrittura, ma devo constatare che non sono elucubrazioni davvero profonde, sono pensieri viziati dall’andazzo e dagli assilli del momento, contradditori e per così dire interessati: restano pur sempre mille miglia sotto l’orbita solitaria dove evolve il testo.
Non è quindi solo una questione di memoria che scioglie via via gli ormeggi, non è questione solo di tempo che passa. Quello che mi è impossibile è dare un giudizio generale. Ci ho lavorato per anni, ma mentre mi davo da fare pensavo mano a mano ai vari dettagli non al tutto. Non giudicavo, sgobbavo. Certo miravo a raggiungere un’unità, ma mi focalizzavo sui particolari anche infimi, sulle singole frasi, sulle inezie. Perseguivo un gusto globale, ma era un fine sempre irraggiungibile, per molti versi cangiante, sempre più lontano mano a mano che mi avvicinavo, non una realtà, non un compagno di viaggio. La mia visione era centrifuga, non centripeta. Nella mia testa c’era quella lucidità da alcaloide che solo la scrittura sa mantenere nel tempo, ma non avevo uno sguardo d’insieme, come nella vita non si capiscono gli amori e le passioni che ci travolgono. La visione d’insieme la si può avere solo a posteriori, solo quando non si è più coinvolti, quando si è ormai passati ad altro. Solo l’io che ha destituito quello precedente può giudicare il suo predecessore. Del resto qualsiasi giudizio letterario è sempre arbitrario e già datato, intrinsecamente errato. La letteratura non è fatta per essere giudicata, ma per essere fruita, omaggiata.
Non vorrei però che mi fraintendeste, la mia non è una dismissione di responsabilità. Mi considero in tutto e per tutto responsabile delle relazioni ambigue e per certi versi perverse che il testo ha con il cosiddetto mondo reale, come anche di ogni sua pecca, dei suoi eventuali pregi. Considero di essere il legittimo destinatario di tutte le critiche e delle eventuali lodi. E in fondo non ho timori in questo senso. Ho passato anni a limare ogni rotellina – per usare una metafora ormai obsoleta, ma che rende il lato artigianale e per certi versi impreciso che sempre ha avuto e sempre avrà la scrittura – dell’intricato ingranaggio. E quindi mi sento piuttosto sicuro del fatto mio. E se ho fallito, nella vita ci sono anche i fallimenti (ritengo anzi che nel percorso di chi scrive le disfatte siano necessarie), lo ho fatto dando il massimo di me stesso.
Se mi sforzassi potrei diventare esegeta di me stesso. Qualche volta – quando appunto mi ritrovo in situazioni che mi costringono a farlo – mi cimento. Mi trasformo in uno storico dell’io che sono stato, divento un critico letterario che analizza i testi che ho scritto. Scavo alla ricerca dei motivi episodici e profondi, metto in relazione, interpreto e decripto, risalgo e deduco, ricostruendo successioni e temi, pedinando il loro divenire. È un esercizio che non mi arreca alcuna soddisfazione, alcuna gioia, e soprattutto per il quale non mi sento dotato. È un compito utilitario che svolgo quando proprio non posso farne a meno, esattamente come mi obbligo a riepilogare i miei movimenti precedenti quando non trovo le chiavi di casa. Altre persone adorano questo lavorio di dissezione, questa autopsia di un cadavere già freddo, non io. Sento che non è il mio terreno, che non è lì che posso dare il meglio di me stesso, che anzi è lì che vengono alla luce i miei manifesti limiti. Io amo battermi con le vite impettite ma anche folli delle parole, amo tendere come archi nervosi le frasi, non mi interessa dissezionare, diagnosticare.
Cari ragazzi, da queste parole potreste forse dedurne che non credo nel potere gnoseologico e forse anche demiurgico della letteratura. E invece sono persuaso che nel suo fragoroso vuoto di senso pulsino le impalpabili verità che possono dare significato alla nostra esistenza. Non possiamo coglierle, come non si possono imprigionare senza ucciderle le farfalle, ma possiamo pur sempre ammirarle. Penso addirittura che testi letterari si annidino le divinità che abbiamo smarrito per strada con il cosiddetto progresso, o comunque la nascosta nostalgia che ad esse ci lega. A volte mi sembra anzi che la funzione precipua della letteratura sia per l’appunto quella di aprirci al divino, a quello che gli uomini hanno chiamato il divino, e che forse abita ancora in tutti noi, anche se non sappiamo più percepirlo. Penso che alcuni scriventi attuali arrivano ancora a infilzare con le loro frasi l’aurea di qualche sfaccendata ma pur sempre fulgida divinità: spesso si tratta di individui con le pezze sul culo o che annaspano nelle bassezze, spesso nella loro stessa meschinità. Cari ragazzi, anche se è forse patetico chiamarvi così, penso più prosaicamente che i testi che ho scritto non mi appartengono.
(l’immagine: William Blake, “Urizen in chains”)
Parrebbe che nella ricezione della poesia straniera gli automatismi intellettuali, le limitatezze di corporazione, le miopie critico-teoriche si palesino ingigantite e facciano “sintomo”. Per questo vale la pena decifrare questo particolare sintomo: l’assenza o l’estrema scarsità di Francis Ponge, nell’editoria italiana. Sì, perché è ben strano che un autore morto alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, la cui intera opera è stata raccolta in due volumi nella Pléiade, tra 1999 e 2002, non conosca ad oggi un’ampia traduzione nella nostra lingua.
volentieri pubblico, per la cortesia di Canio Loguercio, la presentazione di Luigi Cinque dell’evento Reti, Roma – Palladium, 27-28-29 novembre 2012 e un contributo di Ruggero Pierantoni.
Le ragioni di un Festival.
RETI: incontri straordinari di Musica, Scienza e Poesia
Se l’universo, si riflette, come un grande pensiero e non solamente come puro meccanismo, a ragione si deve approdare ad un neoumanesimo che lo riconsideri e veda la conoscenza come una identità di nuovo multiforme e sempre di confine. Ed è proprio al confine che RETI fest, guarda e lo fa, (non è il solo, sia chiaro!) in funzione di una nuova drammaturgia delle arti la quale, oggi, non può nemmeno delinearsi senza il contributo paradossale, onirico e sovversivo che certa scienza contemporanea riesce a esprimere. Tre giorni di incontri straordinari dunque tra musica arte scienza e poesia. Tre giorni di cammino sul limite, che poi è la scoperta dell’altro, del corpo dell’altro, della successiva stazione, della prossima arte, della scienza come matematica e poesia, dell’ identità selvaggia tra significato ( della parola ) e significante ( del suono/musica ), del pensiero magico, della poesia come ritorno alla parola necessaria, formante pensiero, da cui tutto deriva.
Limiti, confini, oggi, oltretutto, in continua espansione tra le nuove semantiche del linguaggio verbale e internetico, le ibridazioni dell’arte visiva, la comunicazione digitale di massa e le ragioni della fisica quantistica che, almeno nell’estremamente piccolo, contraddicono e umiliano buona parte delle filosofie dominanti dal settecento ad oggi. E, aggiungerei, la sempre maggiore consapevolezza e conoscenza che abbiamo della sala macchine, del cervello. Le neuroscienze sono la condizione decisiva per uscire dalla modernità ed entrare in una sorta di futuro/passato, e RETI, qui grazie davvero alla consulenza di Viviana Kasam e dei suoi amici scienziati, dedicherà molta della scena al cervello in relazione alle arti e dunque al profilo, oggi fondamentale, della neuroestetica.
RETI è : la parola ( poetica ) e le altre arti che si misurano con la scienza mentre quest’ultima, nella sua parte migliore, ci racconta come viene ibridata, e si fa poesia, si fa filosofia, o risuona sulla stessa frequenza della musica e, talora, del grande – pure! – pensiero mistico. RETI, senza dimenticare il relativismo culturale delle discipline antropologiche del 900, rivendica, oggi, un’identità di confine per le Arti. Ma, va detto, non si tratta più di contaminazione. Oggi che siamo tutti contaminati, è la coniugazione che conta e le sintesi che ne possono derivare , non le declinazioni dell’identità.
RETI, Festival, numero zero, è dunque dedicato alla Drammaturgia ( intesa appunto come coniugazione, incontro ) delle Arti. E saranno incontri straordinari: perché i curatori, gli artisti, gli scienziati e i poeti di scena in RETI 2012 sono qualcosa di più di semplici portatori dei loro relativi ( sia pure alti ) “intrattenimenti” : sono tutti, irredimibilmente, dei viaggiatori della forma.
RETI 2012 è: Balanescu Quartet, Valerio Magrelli, Gregorio Botta, l’Opera Quartet, Andrea Riccardi, Pippo Delbono, Canio Loguercio, Ruggero Pierantoni, Alessandro D’Ausilio, Luisa Lopez, Marcello Sambati, Luigi Cinque, Giuseppe Vitiello, Osvaldo Ticini, Viviana Kasam, Marco Maria Gazzano, Carlo Infante, Gabriele Fedrigo, , Luca Francesco Ticini, Mario Sesti, Michele Cinque, Matteo Cerami, Maria Grazia Calandrone, Patrizio Fariselli, Sal Bonafede e molti molti altri.
Luigi Cinque
Inizi e fini
Etienne Jules Marey non era contento, le sue immagini fotografiche erano “laboriose e mediocri.” Quell’addensarsi di corpi, di arti, di ali, attorno all’ostacolo da superare lo considerava un “difetto”: lui li voleva “equidistanti”. Le immagini non apparivano uniche, perfette,”equidistanti”, come quelle di Muybridge: eterne. Esse sentivano l’evento, il suo avvicinarsi, il suo svanire e si addensavano, sfumando, una nell’altra. Perché, sia inizio che fine, non stanno, lì, fermi ad aspettare. Sembra, quasi, che un infittirsi di eventi, di urti determini un inizio e un loro improvviso disaggregarsi, una fine. E’ per questo che la transizione, alcune volte, è impercettibile, tanto da apparire all’ultimo momento, invisibile sino a pochi millesimi di secondo prima. La cavalla Frou Frou, amatissima da Vrònsky, sa già di dover morire prima ancora che l’uomo se ne renda conto perché percepisce una sottile asincronia tra il suo corpo e quello dell’uomo.
L’intervallo che separa, nel linguaggio comune, un inizio da una fine è segnabile, forse, come fa Pollicino, con il ciottolo, mezzo bianco, mezzo nero : sincronia. Un modello sociale assai semplice di questo concetto sono gli eventi sportivi che, almeno a livello di spettacolo pubblico, iniziano e terminano, in genere, in uno spazio che resta, nel frattempo, lo stesso. Non è un caso che, come ci ricorda Pindaro, le statue degli atleti avessero statura umana. La loro “disponibilità erotica” era parte del loro messaggio, li costringeva a mostrarli toccabili, adorabili, desiderabili. La loro omogenea grandezza li rendeva utilizzabili nella figurazione interna del desiderio e quindi della condivisione , anche se breve della sintonia, della “equidistanza” temporale con noi. E, il modello sociale più alto è certo quella forma sublime di atletismo che è la musica la cui vita breve e pericolosa si affida a pochi respiri di sincronia. E’ proprio questo il modello che mostra, con la più grande generosità, l’addensarsi degli eventi che precedono, spesso di centinaia di anni, la prima nota e che, spesso, dopo centinaia di anni, ne spengono l’ultima. Meno ovvia, sfuggente, appare la magia sincronizzante e, quindi gli orizzonti temporali degli inizi e delle fini, nelle percezioni e nel commercio con le strutture architettoniche. Certamente, la “porta”è un inevitabile elemento di sincronizzazione spaziale e non è un caso che, proprio al suo livello, sia nell’entrare che nell’uscire, gli accavallamenti, il toccarsi, lo spingersi, il muoversi tutti assieme e tutti con lo stesso vettore, creino le condizioni temporali degli inizi e delle fini. Ma è la vera e propria forma a dettare le sue leggi sincroniche. Chiunque abbia passato almeno un’ora nel Pantheon la cui forma, apparentemente priva di asse dominante, abbandona il suo visitatore ad un confuso vagare che assomiglia forse più all’organizzarsi dei liquidi in prossimità del foro di uscita e , almeno, finisce per inventare l’insorgere “spontaneo” del gorgo iperbolico. In tutto identico a quello, costruito e dissolto nell’aria dai milioni di pipistrelli ad ogni alba e ad ogni tramonto da milioni di anni attorno alla bocca della “ Bat Cave”, in Stati Uniti. La provvidenziale continua asincronia del nostro cervello ci informa, senza alcuna discrezione o gentilezza, che abbiamo ancora, davanti o dietro alcune fini, alcuni inizi su cui, un altro astuto meccanismo ci impedisce di concentrarci . In ogni caso, ci dicono, è il caso si seguire il buon consiglio di Frank Herbert che, proprio all’inizio di “ DUNE” scriveva : Un inizio è il tempo in cui occorre prendere massima cura dei più delicati equilibri”.
Ruggero Pierantoni