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In verità, in verità vi dico

1

di Giuseppe Zucco

Il disegno è di Erica il Cane

 

È più brusco
trovarsi a tu per tu con le strutture tutto in una volta.
Elio Pagliarani

La parte migliore di me non avrebbe dovuto lasciarti andare. Sinceramente, la parte migliore di me non avrebbe dovuto neanche permettere che ti allontanassi di un millimetro.
La parte migliore di me avrebbe dovuto lottare – svenarsi, sgolarsi, certo – e cercare di convincerti: metterti al riguardo di quanto la stabilità sentimentale venuta a instaurarsi tra una cardiochirurga giovanissima ma molto promettente e uno dei più noti autori televisivi del momento fosse una tale rarità in natura, un tale evento nel più ampio sistema solare, che non restava altro da fare che preservarlo e custodirlo e consegnarlo come cartolina ai posteri che, un giorno, nel periodo più introspettivo della loro vita, vagamente illuminati da questa immagine di reciproca elettrica attrazione, avrebbero intuito cosa intendevamo noi per felicità – per appagamento, già, dei sensi o dei sentimenti – una specie di riposo del guerriero, il momento di stasi che precedeva o seguiva le grandi battaglie, l’attimo in cui le armature lucide o spaventosamente deformate posavano per terra mentre gli occhi della persona davanti diventavano uno specchio o un lago, qualcosa a metà tra uno specchio e un lago, un punto circoscritto dello spazio infinito in cui riflettersi e immergersi senza alcun tremore e spaesamento.
Eppure, la parte migliore di me ha infilato certe nebbie. Probabilmente, la parte migliore di me ha subito la temperatura elevata della sala autori mentre fuori infuriava l’inverno. La quantità delle sigarette e delle barrette proteiche e della taurina allo zero virgola quattro per cento contenuta nelle lattine durante la stesura delle scalette e dei copioni. I progressivi avanzamenti decimali dello share su cui scommettevo con gli altri autori e gli assistenti ai programmi – non cene, sfilare nudi sul balcone della sala autori che dava sulla strada era lo standard, se perdevi.
In fondo, In verità, in verità vi dico, il titolo nonché la formula di rito che apriva il nostro programma, la cronaca nera al servizio dei cittadini, come tu sai, aveva vagito sotto il sette per cento, da lì era cresciuto, nei primi tempi osservava la curva dell’indice di ascolto inerpicarsi per altezze irraggiungibili con un filo di struggimento – e anche se all’inizio eravamo un semplice gradino della più estesa scalinata del palinsesto, piano piano e poi di colpo eravamo diventati un punto di vista, un marchio riconoscibile, una presenza concreta e puntuale con cui la realtà doveva fare i conti, prova ne erano le telefonate ricevute, l’e-mail intasata dai commenti, la mezza stellina dei critici televisivi su riviste e quotidiani appuntata alla giacca come medaglia al valore, le promesse gaudiose del riposizionamento di In verità, in verità vi dico in una fascia oraria strategica e dell’inserimento di due pause pubblicitarie aggiuntive nel corso del programma, tanto che più volte, di notte, infilando l’indice nel nodo della cravatta, allentavo di poco mentre consultavo le ultime agenzie stampa, un gesto istintivo di cui avrei appreso in seguito la natura profetica.
Non credo che la parte migliore di me, prima di oggi, avesse chiaro il concetto di stabilità sentimentale. Non credo neanche che sapesse cosa farsene, sebbene, in definitiva, decidesse del mio umore e del mio stato d’animo, permettendomi di concentrarmi solo e unicamente sul programma, sul fatto che uno dei miei inviati dovesse per esempio fiondarsi in un paesino di provincia quando ancora la bambina non era stata del tutto conquistata dal rigor mortis per intervistare i suoi genitori e chiedere loro cosa provassero in quel momento, cioè cosa sentissero, quali parole riuscissero ad articolare guardando in modo confuso e cognitivamente ellittico la telecamera davanti al colore neutro della parete di una sala di attesa del reparto grandi ustionati.
Capirai senz’altro, la parte migliore di me non sta cercando di salvaguardare l’astrazione romantica della parola amore. La parte migliore di me ormai da tempo ha superato le più scontate convenzioni – l’amore, naturalmente: e la vita di coppia, il matrimonio, la rigidità asfissiante della monogamia. La parte migliore di me, come avrai capito, prospera proprio su un altro piano.
La parte migliore di me, per essere esatti, è convinta che per un autore televisivo e una cardiochirurga in ascesa, perlomeno in orbita verso la più scintillante delle carriere nei rispettivi campi di azione, la stabilità sentimentale sia tutto. Sapere che nonostante le noie e lo strazio delle grandi battaglie della vita quotidiana c’è sempre qualcuno a casa disposto ad ascoltare senza giudicarti o degradarti all’ultimo livello delle categorie umane, lo stronzo, il pezzo di merda, la merda umana, è una di quelle certezze su cui posare la prima pietra della costruzione di una visione equilibrata della vita e del proprio lavoro.
Detto in altre parole, è chiaro che il simbolico allentamento del nodo della cravatta è stata responsabilità mia, soltanto mia, del tutto mia – e ancora oggi mi pento e mi dolgo di avere indetto quella festa a casa nostra in seguito alla registrazione del più alto picco di ascolti in prima serata non prevedendo che tu tornassi con un giorno di anticipo da un convegno sul futuro della cardiochirurgia, uno di quei elegantissimi rituali massonici da cui rincasavi con espressioni tipo decision making e il costo dei vari devices, piccoli tappeti linguistici sotto cui nascondevi la grande polvere di un problema ricorrente, cioè se per un’azienda sanitaria fosse sensato prima che economico prendere la decisione di operare vecchi catorci su per giù sulla settantina con speranze di vita inferiori all’anno, una percentuale considerevole della popolazione ospedaliera che risucchiava gran parte delle risorse finanziarie, allungando di colpo l’ombra dei cardiochirurghi sul viale del cinismo già ampiamente battuto dagli autori televisivi, un cinismo funebre, a dire il vero, cosa che appena veniva accennata ti faceva inforcare gli occhiali e alzare dal letto e andare in cucina e farti trovare con un bicchiere d’acqua in mano davanti alla finestra aspettando non che io ritirassi tutto, ma che muovessi i capelli e ti baciassi sulla nuca e facessi promessa di non svalutare la tua vocazione cardiochirurgica che di tanto in tanto ti destinava in una qualche località sperduta del nord Africa in un’altra mossa riuscita del capitalismo avanzato.
Ma se tu di punto in bianco non avessi deciso di porre fine alla nostra relazione, di troncarla, di farne cenere da disperdere al vento, probabilmente io non sarei caduto in errore: o in un eccesso di realtà, per essere corretti, anche se tutti i commentatori continuano a designarlo come un vero errore, e dei più irrimediabili, a dirla tutta. La parte migliore di me, in effetti, proprio allora, ha registrato una relazione proporzionale tra la mia stabilità sentimentale e la mia concentrazione sul lavoro.
Se ci pensi bene, è un discorso tutt’altro che unilaterale. Se fai mente locale, tu eri ancora necessariamente al mio fianco quando il padre della bambina morta per ustioni ha rifilato un secco no alla richiesta del nostro inviato, un pugno in faccia e due tre calci nello stomaco, ma sono stato io stesso a sedare l’inviato al telefono invitandolo a scongiurare la vendetta o la denuncia, pena la sparizione del suo nome dai titoli di questo e di futuri altri programmi, e con tanto di frattura al setto nasale di proseguire il suo lavoro, intervistando la lunghissima sequela dei parenti della bambina, gli anziani, soprattutto, chiedendo loro cosa provassero in quel momento, come se non fosse più un pezzo televisivo, ma un inchino alla probabilità statistica, qualcuno alla fine avrebbe risposto con le lacrime agli occhi, umidità cariche di rassegnazione cosmica che avremmo deliberatamente sottolineato con la musica adatta, un tantino melodrammatica, a dire il vero – la stessa cosa successa mentre io ero ancora necessariamente al tuo fianco, e sotto la luce gelida azzurrina della sala operatoria il tuo respiro non approdava all’asma, la tua fronte non era imperlata di goccioline di sudore, la tua mano non tremava, il tuo bisturi non trovava inceppo né ostacolo, il tuo ago disegnava bene ogni sutura, e il bypass aorto-coronarico riusciva nonostante le mille e una complicazioni che di solito annodano il cartellino all’alluce tanto al paziente quanto alle quotazioni del cardiochirurgo di turno.
Chiaramente, se solo avessi avuto sentore, se solo avessi previsto gli esiti disastrosi della relazione ormai scientificamente dimostrabile tra stabilità sentimentale e concentrazione sul lavoro, la parte migliore di me si sarebbe guardata bene dall’indire seduta stante al picco di ascolti di In verità, in verità vi dico una festa a casa nostra. Vedere i tuoi occhi dilatarsi oltre misura sulla soglia della nostra camera da letto mentre due ispettrici di studio completamente svestite vagavano sulla landa desolata del mio corpo emettendo tutta una serie di esoterici balbettii, aveva cancellato di colpo dalla mia memoria il numero complessivo di puntate che aveva tenuto il pubblico incollato al televisore. È vero, uno dei miei inviati, rovistando nel sottobosco intorno alla casa della donna scomparsa, aveva ritrovato il frammento superiore di un femore, e noi, principianti Sherlock Holmes in erezione, di quel femore ne avevamo fatto un cadavere, la prova che il marito aveva scombinato la disavventura della donna scomparsa in mille piccole disavventure sotterrate con estrema cura e perizia, ma a quel punto io avrei restituito la risoluzione del caso piuttosto che smarrire la stabilità sentimentale e quindi la concentrazione sul lavoro. Se mi sono spiegato bene, non è esattamente amore, ma neanche egoismo, il mio. Se ti sto tortuosamente ma ufficialmente chiedendo di tornare al mio fianco, riguadagnando in modo più contemporaneo e disinvolto i vantaggi di un’efficiente stabilità sentimentale del tutto preclusa alle tradizionali coppie monogame, è per scongiurare di farti incorrere in un qualche errore capitale – errore che peserebbe su una vita intera e su un’intera carriera.
La parte migliore di me, infatti, non ha retto. La parte migliore di me, già abbastanza annebbiata da lavoro scommesse taurina, quanto tu sei andata via, è caduta nelle spire dell’instabilità sentimentale, seminando errori a catena sul lavoro. Per esempio, chiedendo la testa dell’inviato che non era riuscito a raccogliere neanche una microscopica fluidità salina sul volto di un qualsiasi lontanissimo parente della bambina morta ustionata, essendo i parenti rinchiusi nel più stretto riserbo. Per esempio, caricando me stesso su una macchina di redazione e precipitandomi nel paesino della bambina morta ustiona. Per esempio, aspettando sotto casa il padre della bambina, due ore tonde, se non ricordo male, e poi notandolo uscire da casa, scagliarmi addosso, stringergli le mani al collo e urlare chi si credeva di essere, proprio così, che titoli e quali argomenti avesse lui per mettersi di mezzo tra le telecamere e la verità. Per esempio, introducendomi nell’obitorio, con la telecamera a tracolla, dopo avere corrotto un paio di infermieri, cercando il numero della cella frigorifera associato al nome della bambina morta ustionata.
Non ti sto pregando, ora, in questo istante, dovunque tu sia, di ritornare. Non ti sto dicendo tra le righe di prendere le tue cose e venire a ripiegarle nei cassetti di questa casa nelle prossime ore. Non è questo.
La parte migliore di me sta solo tentando di farti immaginare quale abisso di rimorso e risentimento potrebbe spalancarsi sotto i tuoi piedi nel momento in cui troveresti le pareti domestiche sguarnite di una figura che in modo molto disinvolto e contemporaneo ti assicura una duratura stabilità sentimentale e di conseguenza una tenuta nel mondo del lavoro. Pensa solo a tutti i casi di infezione o di sanguinamento post-operatorio che potresti incidentalmente causare ai tuoi pazienti se le rigorosissime procedure sanitarie di cui sei fedele devota fossero messe a repentaglio da tutta un’altra qualità di pensieri instabili e sentimentali. Pensa solo a quanta disperazione stia bruciando per riemergere dal fondo di un errore o, ci siamo capiti, di un eccesso di realtà, che mi è costato prima le proteste, poi un’interrogazione parlamentare, quindi la soppressione istantanea del programma.
La parte migliore di me, se solo avesse trovato qualcuno a casa disposto ad accogliere le mie ragioni senza darmi preventivamente contro, con una qualche certezza non si sarebbe precipitata nel paesino né avrebbe aggredito il padre della bambina ustionata, non avrebbe corrotto gli infermieri né sarebbe entrata nell’obitorio, non avrebbe aperto la cella frigorifera né avrebbe messo in spalla la  telecamera e ripreso gli arti ustionati della bambina, le gote ustionate, le dita ridotte a miseri carboncini consumati, montando poi quelle immagini nel servizio mandato in onda.
Non sto affatto dicendo che tu non possa frequentare chiunque tu voglia, con una prossimità tra i corpi che declinerai tu di volta in volta: siamo troppo adulti e democratici e contemporanei per compromettere la nostra stabilità sentimentale cioè la nostra carriera per questo genere di cose – anche se ammetto che deve essere stato sufficientemente traumatico farsi trovare addosso due ispettrici di studio, peraltro svestite, con le labbra appaiate sul bottone rossastro dei miei capezzoli.
Sto solo dicendo che noi due, una volta seduti abbracciati davanti al tramonto di questa trascurabile incomprensione, facendo tesoro della nostra rinnovata stabilità sentimentale, potremmo diventare due esseri umani migliori – migliori e pacati, più retti, particolarmente in sesto e misurati, capaci di prevedere quanto sfuggire gli errori e i fallimenti e le capitolazioni.
Anche perché la parte migliore di me, come quella di ogni singolo spettatore che ha composto il pubblico dell’ultima puntata trasmessa di In verità, in verità vi dico, riesce a stento a prendere sonno dopo avere allestito l’oscurità nella propria stanza o a cercarsi nello specchietto retrovisore durante una pausa al semaforo o a riempire in altro modo l’attesa di completamento del download illegale di un film americano.
Il sorriso ustionato della bambina ustionata denuda i denti e continua a espandersi tra i pensieri sebbene in principio apparisse definitivamente rigido, e annerito.

[Questo racconto è stato pubblicato nell’antologia Storia di martiri, ruffiani e giocatori, edita da Caratteri mobili, a cura di Vicolo Cannery]

La casa di Peter Handke

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di Danilo De Marco

Si entra nell’ampio giardino: una macchia verde da una parte, uno sterrato coperto di ghiaia dall’altra.

Peter Handke viandante carinziano in Friuli

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di Erri De Luca e Hans Kitzmüller

Peter Handke è un bambino che ha saputo tutto del mondo e se ne va tra gli adulti raccontando loro qualche dettaglio.

Tre nostalgie

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di Vanni Santoni

(Che, sì, potrebbe essere anche il titolo di un libro di Richard Yates*). Ho letto di recente tre bei romanzi, che trovo siano uniti, oltreché dal fatto di essere stati scritti da autori nati nella forbice di un quindicennio (Pavolini 1964, Ghelli 1975, Cognetti 1978) e legati a vario titolo a Roma (Cognetti per l’editore, Ghelli per averla scelta come città di adozione, Pavolini per nascita e editore), da una fortissima tensione nostalgica, declinata tuttavia secondo modalità affatto diverse.

il Grande Rischio scienza

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di Antonio Sparzani

Ci vorrebbe una vera Commissione Indipendente che vigilasse continuamente e attivamente sui grandi rischi connessi sia con la scienza, sia, e forse soprattutto, con i suoi variopinti portavoce, o profeti, o sacerdoti, non so, detti scienziati, e scienziate, naturalmente.
Questa faccenda della sentenza del tribunale dell’Aquila che condanna un’intera commissione per il suo operato è proprio emblematica, anche e soprattutto nel senso che i suoi rimbalzi mediatici, vicini e lontani, tendono sempre più a deformare e a non far capire quale sia il centro del problema. Tanto che viene tirato in ballo Galileo che proprio poco c’entra e perfino Giordano Bruno, che già ha subito abbastanza ingiurie perché gliene si debbano aggiungere altre.

Addio mia bella Nauplie – Atelier du Roman

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Allocution prononcée en clôture de la XIVe Rencontre de L’Atelier du roman à Nauplie (Grèce) les 6 et 7 octobre 2012.
di
Lakis Proguidis (trad. di effeffe)
Eccoci infine giunti al termine del XIV Incontro de L’Atelier du Roman a Nauplia. L’usanza vuole che alla fine di ogni Incontro sia annunciato il tema dell’incontro successivo. Quest’anno non sarà così per il semplice motivo  che non ci saranno più gli Incontri dell’Atelier du Roman.

Avuto, visto 12-14 / Vincenzo Ostuni

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tratto da Faldone zero-venti : poesie 1992-2006 di Vincenzo Ostuni, Ponte Sisto, 2012

Il perché delle biografie

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di Isabel Burdiel

Diceva Josep Pla che, se a quarant’anni continui a leggere romanzi, sei un idiota. Non è necessario essere d’accordo per rifletterci un po’ sopra.

Per molti lettori – forse anche per Pla –  la poesia è il genere dell’adolescenza, il romanzo quello della giovinezza e la biografia è il genere della maturità. Un genere che esercita un fascino particolare per coloro che iniziano a sentire che la vita si fa seria, e che abbiamo bisogno di ordine e di consolazione in mezzo al rumore e alla furia di una vita che galoppa e ci sfugge. Si tratta di quegli anni alle spalle nei quali non c’è scampo al tempo, quando il passato, come diceva il poeta Ángel González, è così incerto e scoraggiante quanto il futuro per gli adolescenti. 

Autismi 27 – La mia inettitudine

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di Giacomo Sartori

Ci sono persone che sanno fare tutto, o sembrano sapere fare tutto, mentre io non so fare quasi niente. Tanto per cominciare non so cantare. Nella mia famiglia sono tutti intonati, io invece sono stonato come una campana, una campana precipitata dalla cima del campanile sul lastricato sottostante. Mia moglie, che canta molto bene, mi ripete sempre con una voce paziente ma anche surrettiziamente esasperata che non esistono persone stonate, basta fare esercizio. Io non le ho detto che c’è stato un periodo in cui vocalizzavo inni marxisti-leninisti, ma restavo pur sempre stonato: certe cose si mimetizzano perfino a chi ci sta più vicino. Insomma, canto unicamente quando viaggio in macchina da solo e ho i finestrini chiusi, preferibilmente di notte. Del resto non so nemmeno ballare. Una volta certi amici della mia prima fidanzata mi hanno convinto a provare, e io ho ballato. Vedi che sei capace, mi dicevano, facendomi dei sorrisi incoraggianti come si fa con i portatori di raccapriccianti handicap. E a me stesso sembrava di ballare passabilmente, se non proprio bene: forse proprio perché avevo un po’ bevuto. Poi però una di loro con il pallino della didattica mi ha detto che ero proprio sulla via buona, se adesso cercavo di creare un minimissimo legame tra i miei movimenti e il ritmo della musica sarebbe stato perfetto. Allora ho capito che era meglio che lasciassi perdere, anche se certe volte è imbarazzante essere l’unico che non balla. E non so fare le divisioni con due cifre. Ero assente il giorno che il maestro le ha insegnate, e non c’è più stato verso di rimediare (adesso può far sorridere, ma nell’era pre-elettronica ho speso tantissime energie a mascherare questa mia inettitudine, per anni sono vissuto nel terrore di venire smascherato e di pagarne le conseguenze). Ma non so nemmeno giocare alle carte, parlare ai bambini, raccontare barzellette, andare in vacanza, cucire, capire se fa freddo o caldo, non so come funziona facebook e tutti gli altri aggeggi di adesso, non so rispondere su due piedi alle persone quando mi domandano cose anche molto semplici, pur avendo dei fermi convincimenti non so avere opinioni politiche coerenti, o anche solo opinioni coerenti di altro tipo, e forse addirittura idee coerenti, non so tenere i segreti, non so essere fedele, non so vedere un derelitto che soffre senza piangere io stesso (benché in altri frangenti non sappia evitare di far piangere certi derelitti), non so mandare al diavolo mia madre quando fa la nobildonna settecentesca, zittire i tipi che dicono stronzate, infrangere le illusioni altrui, anche le più dissennate (tanto più se si tratta di amici), andare alle feste, o anche solo intervenire nelle conversazioni, toccare i pesci vivi, baciare i morti, pisciare da uomo, fare due cose nello stesso momento, procreare, ricordarmi le trame dei libri e dei film, ricordarmi le altre cose, chiedere un piacere, guardare le persone senza mostrare che le guardo, dormire senza terrificanti incubi, essere ottimista, vedere film sanguinolenti, o anche solo sequenze sanguinolente, leggere i cosiddetti gialli, avere una calligrafia leggibile, comprarmi le scarpe, e via dicendo: la lista potrebbe essere lunghissima. Queste affollate inettitudini restano però pur sempre anedottiche: sono ben altre quelle davvero cariche di invalidanti conseguenze. In particolare non so respirare. Senza accorgermi trattengo il respiro, e quando proprio non ce la faccio più sbuffo fuori l’aria, e gioco forza ne segue una agonica inalazione. Gli appassionati di record subacquei o subaerei di apnea mi capiranno. Questo fin da bambino: quando guardavamo la televisione i miei mi dicevano che era impossibile starmi vicino, e mi allontanavano. Adesso quando vado al cinema i vicini tossicchiano, o anche si alzano e cambiano posto. Non ho mai imparato a respirare. Mia madre mi portava da ogni sorta di dottori, ma non è servito a niente. Ma non so nemmeno mangiare. O meglio, condurre alla bocca i cibi in qualche modo riesco, anche se pare faccia molto rumore e molte briciole, ma poi non so capire quando sono sazio, il che mi crea sempre dei problemi. Adesso sarò sazio?, mi chiedo. E adesso? Avrò mangiato troppo poco o troppo tanto? Nemmeno mio fratello sa giudicare quando è sazio, come del resto nemmeno lui sa valutare se fa freddo o caldo, e secondo lui è perché nostra madre decideva tutto lei. Comunque sia è dopo aver ingerito il cibo che viene il peggio: non so digerire, non ho mai imparato. Non digerisco gli spaghetti al pomodoro, la carne, il pesce lesso, il formaggio, la pizza, i cavoli, le cose più comuni e semplici. E i pochi alimenti che digerisco mi fanno male. Il pane mi fa male, la pasta in bianco mi fa molto male, il vino mi fa malissimo, e via dicendo. Un cetacico terapeuta al quale mi sono rivolto diceva con il suo vocione incoraggiante che dipendeva dall’equilibrio tra i succhi pancreatici e la bile: bisognava dissotterrare le ragioni profonde responsabili del suo traviamento nella tenera infanzia, per poi reimpostare tutto: ci sarebbe voluto un po’ di tempo ma poi avrei digerito anche i rospi crudi e i sassi. Un altro terapeuta magretto e di modi tenui sosteneva che dovevo riconciliarmi con le sostanze alle quali il mio corpo era allergico: mentre io stringevo in ciascuna mano una fialetta contenente una data sostanza lui mi massaggiava certi punti appropriati del corpo con il sottofondo di una musica indiana. Il bello è che al giorno d’oggi l’eclettismo e l’ecumenismo furoreggiano anche in campo sanitario. Purtroppo però un’altra cosa che non so fare è perseverare nelle terapie che comincio. Del resto nemmeno di camminare, sono capace. Insomma, per un po’ riesco, ma poi mi inciampo. Non c’è nessunissimo ostacolo, nemmeno millimetrico, e io inciampo. Dopo essermi inciampato mi guardo indietro, un po’ per darmi un contegno e un po’ anche per constatare che davvero non ci fosse qualche intoppo, non si sa mai, ma non c’è mai un intoppo. Pure per questo mia madre mi portava dai dottori, e anche in questo caso invano. E poi non so ascoltare le persone. O meglio, mi sforzo di ascoltare, ma perdo subito il filo, mi distraggo. La maggior parte delle volte fingo di stare a sentire e mi domando cosa cavolo stia dicendo quel’essere umano che mi sta parlando con tanta foga. E comunque che ascolti o non ascolti stare tra la gente per un periodo prolungato mi provoca il mal di testa. È cominciato prestino, verso i sei mesi, e poi si è acuito a due anni e mezzo, quando per la prima volta sono stato internato (mia madre lavorava). Per i miei gusti all’asilo c’erano troppi essere viventi che parlavano tutti assieme, troppi odori, troppe aspirazioni divergenti, troppi ormoni. Non è che mi dispiacesse, ma mi sfiancava, mi provocava appunto dei nefasti mal di testa. Più di una volta sono finito all’ospedale. Del resto nemmeno con un’altra persona singola ho mai imparato a convivere. Mi sono sforzato, ho fatto indubbi progressini, ma non ho mai davvero imparato. Ne sa qualcosa mia moglie. Forse la cosa più grave, viste le mie passioni e il mio stile di vita, è però che non so parlare. Fino circa ai venticinque anni emettevo suoni inarticolati. E nonostante i passi in avanti la mia dizione rimane tuttora molto impastata, al limite dell’incomprensibilità, non mi vengono in mente le parole più comuni, quando sono stanco balbetto. E comunque le mie biascicate asserzioni rifuggono qualsivoglia sottigliezza dialettica: sono tombali colpi di accetta. Immaginiamoci allora lavorare: per la maggior parte degli impieghi bisogna ben tollerare la promiscuità, saper ascoltare, avere cristalline opinioni, e bisogna sapere parlare, saper digerire, saper pisciare da uomo. Tutte cose che non so fare. Beninteso sgobbo lo stesso, altrimenti non potrei appunto mangiare, e anzi paradossalmente per certe cose sono considerato brillante, ma patisco esponenziali emicranie derivate dalla sinergia dei singoli mal di testa (procurati dalle singole inadeguatezze). A causa del ridondante consumo di analgesici sono definibile un drogato. Quel che però è più grave di tutto, era scontato che finissimo qui, non so amare. Nel corso degli ultimi decenni ho fatto molta strada, ma non mi sembra che si potrebbe affermare che padroneggi i rudimenti minimi dell’amore. Certo, a casa mia non si usava, e non sono cose che poi si imparano tanto facilmente in età adulta, ma è assurdo inseguire sempre cause e colpe: devo prendermi le mie responsabilità. Ho imparato a fare come se amassi, a comportarmi come una persona che ama, ma non so se amo davvero, non mi pare. Più che un amatore sono un attore che impersona meglio che può un amatore. Con la mia inettitudine amatoria cerco di fare meno danni possibile, ma qualche volta ci sono feriti, qualche volta ci scappa il morto. Talvolta mi accorgo di amare più un animale che le persone, e ho orrore di me stesso. Secondo mia moglie tutte queste inettitudini sono dovute al fatto che non mi prendo in mano: secondo lei moltissime cose sono come il canto, se mi mettessi, e continuassi per esempio le terapie che comincio, imparerei benissimo a fare tutto. Io non credo che abbia ragione, ma mi fa piacere che abbia fiducia in me. Lei è una di quelle persone che canta e balla e ama con leggiadra baldanza, allargando via via senza pena alcuna lo spettro di azione. Però non è vero che non mi sono mai sforzato: molte cose le ho imparate anzi mettendoci una esagerata applicazione, la fanatica ostinazione e l’inumana perseveranza ereditate da mio padre fascista. Insisti che ti insisti ho appreso a guidare la macchina, anche se dentro di me considero che non so guidare, e nel tempo in cui chiunque altro ne avrebbe imparato dieci, ho assimilato qualche lingua straniera. Nello stesso modo ho anche imparato un po’ a scrivere. Mi sforzo, ma so che i risultati saranno quelli che saranno. So che i ragionamenti astratti mi saranno sempre preclusi, so che non potrò mai leggere un cosiddetto giallo, che non avrò mai opinioni coerenti. So che tutto mi costerà sempre fatica.

(l’immagine:  Sam Doyle)

Premio Ciampi – Valigie Rosse 2012

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Venerdì 26 Ottobre ore 21.00 Teatro La Goldonetta, Livorno
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Premio Valigie Rosse 2012. Il Premio Ciampi – Valigie Rosse 2012 viene assegnato al francese Charles Juliet, personaggio di grande rilievo nel panorama della poesia francese, con la sua antologia Radici della luce, curata e tradotta da Federico Mazzocchi; e l’italiano Giacomo Trinci con la sua plaquette inedita Sul finire. A seguire lo spettacolo teatrale Non si sa dove si va, ma si va di e con Carlo Monni ed Andrea Kaemmerle, con Roberto Cecchetti (violino), Massimo Barsotti (pianoforte). Allestimento, regia e musiche a cura di Maria Cassi e Leonardo Brizzi. Uno spettacolo folle,  allegro e surreale. Il primo pretesto sono le storie dei minatori di Maremma tratte dalla “Vita Agra” di Luciano Bianciardi, meraviglioso testo pieno di sagacia ed ironia, un libro che rappresentà un clamoroso caso editoriale e letterario.

Il senso di una fine

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 di Gianluca Veltri

Julian Barnes, Il senso di una fine, Einaudi, pag. 160, traduzione di Susanna Basso

Il libro vincitore del Booker Prize 2011 Il senso di una fine di Julian Barnes, ha suscitato reazioni di violento entusiasmo e acida avversione. A quanto pare, Barnes o lo adori o lo detesti. L’autore del Pappagallo di Flaubert gioca ai limiti della regolarità (letterariamente parlando, ovvio), perché se da una parte riesce accattivante, per altri versi si rivela sottilmente manipolatorio verso il lettore. Soprattutto perché lo obbliga a seguire la storia attraverso il punto di vista, le percezioni e i ricordi di un narratore a cui tutti rimproverano di «non capire». Questo ci conduce insieme a lui in un cul de sac, nella sostanziale incomprensione degli eventi-chiave, con effetti sorpresa a catena. Depistaggio totale, magistrale e vigliacco, da parte dell’autore.

Tony Webster, protagonista e io narrante, è un sessantenne che ha compiuto una scelta di normalità. Tony è un uomo medio, pallido, mediocre, assai diverso, a osservarlo da giovane, dall’adulto che sarebbe potuto diventare. (Sennonché, risulterà chiaro che la normalità non esiste mai.) Nei due tempi in cui il romanzo è scandito, c’è un prima e un dopo, assai nettamente tagliati in due dalla linea della vita, come un tracciante. Prima è gli anni ’60, la Londra più o meno swingante, scuola, prime relazioni, futuro spalancato davanti, delusioni, incontri. Il delta della gioventù. Dopo è quarant’anni più tardi: le carte sono state giocate, l’esistenza non è finita ma i sogni sì. Tony è divorziato, una moglie rimasta amica, una figlia distratta e lontana. Ormai da decenni si sono divaricate le strade dagli amici e dai compagni di allora. È come se la maggior parte della vita si fosse svolta, concentrata, consumata, in poche stagioni — quelle decisive, piene, luminescenti di una giovinezza inconsapevole. Della compagnia di Tony, Adrian era l’amico più brillante: intelligente, provocatorio, filosofico. Capace di teorizzare persino il suicidio e la sua obiettiva plausibilità. Veronica era stata il primo amore di Tony, una ragazza spigolosa con la quale il protagonista aveva vissuto una relazione complicata. Veronica aveva preferito proprio Adrian — il collega intelligente — al nostro narratore. Tony scrisse ai nuovi amanti una furiosa lettera: peccato che quarant’anni dopo si sia dimenticato della cattiveria di quella lettera. Abbiamo la tentazione di sottovalutare la nostra brutalità, come pachidermi che non avvertono la propria grevità. Oggi, decenni dopo, Tony riceve dalla madre di Veronica, conosciuta illo tempore in uno sconcertante e gelido weekend, un’eredità a dir poco inattesa: 500 sterline e il diario di Adrian, l’amico filosofico, che si suicidò ancora giovane, praticamente subito dopo essere uscito dai radar di Tony. Perché? Perché il suicidio (allora) e perché questo lascito (adesso)? Cosa accadde a quello studente così brillante? E cosa provocò in Adrian quella antica feroce lettera scritta ai due traditori? Tanti tasselli cercano di rimettersi a posto, avvenimenti dell’epoca vengono ripassati al setaccio ossessivamente. Quelle pagine che erano tutte bianche sono state scritte, forse imbrattate, ma intanto non si possono cancellare più. Nella prima parte della vita non ti accorgi che un pomeriggio vale quanto un anno, un fine-settimana quanto un decennio. Passati come un soffio, i giorni dell’incoscienza tornano indietro come quadri in serie, come specchi deformati. Tony ha conosciuto l’epoca di quella pienezza esplosiva, e poi un vasto tempo uniforme senza lampi e senza ricordi, come una spiaggia di sabbia levigata e intatta. Quasi dovesse rassegnarsi a una copia sbiadita della vita, una gara ad accontentarsi. Valutare, per tutto il resto dell’esistenza, le conseguenze di quella stagione, dal momento in cui si è messa in moto «la catena delle responsabilità».

Il colpo di scena finale fa seguito a disvelamenti che mostrano come sia assai discutibile la nostra versione dei fatti, e quanto risulti fallace il monologo con cui ci costruiamo da soli la nostra storia autoassolutoria.

[pubblicato su Mucchio Selvaggio n. 699, ottobre 2012]

 

video arte #12 – omer fast

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Da: Omer Fast, CNN Concateneted, 2002.

Anonymous. La grande truffa. IV

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WarGames

(Termina con questo post la pubblicazione del pamphlet Anonymous. La grande truffa, fortunosamente arrivato nei database di Nazione Indiana. Qui la prima parte. Qui la seconda parteQui la terza parte.)

La legge del caos

 

È un gioco o è la realtà?
Che differenza fa?
Wargames (1983)

WarGamesQuando si entra in una chat sulla rete Anonymous, una stanza aperta a tutti, ci si trova in un ambiente potenzialmente infiltrato da curiosi, troll, giornalisti e agenti di polizia, nel quale in fin dei conti nessuno dice la verità. È probabile che in molte di queste chat vi siano soltanto infiltrati, che passano il tempo a manipolarsi a vicenda. O che registrano in silenzio, dal fondo della sala, ogni parola. Un curioso che volesse discutere con un Anonymous dovrebbe allora armarsi di molta pazienza. Muoversi pazientemente da una stanza all’altra. Legarsi di amicizia con altri utenti. Fornire via via prove più convincenti della propria sincerità. E alla fine, continuerebbe forse a non capire se si trova “dentro” o “fuori”.

Un biglietto nel calice d’argento

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di Antonio Sparzani

«Il Suo etichettare le idee [Vorstellungen] distinguendo quelle di origine spirituale (ideale) da quelle di origine fisica (o fisiologica) e la Sua corrispondente definizione della fisica come scienza delle idee della seconda categoria fa rivivere dentro di me alcuni ricordi giovanili.

Vi è tra i miei libri un astuccio polveroso che custodisce un calice d’argento Jugendstil, che a sua volta contiene un biglietto. Mi pare ora che da questo calice e da questa barbuta epoca si levi uno spirito quieto, benevolo e costantemente gaio. E scorgo come esso Le stringa amichevolmente la mano, come saluti la Sua definizione di fisica come un rallegrante segno di un magari tardivo ma profondo punto di vista; e prosegue aggiungendo quanto adatte siano le Sue etichette al proprio laboratorio ed esprime infine la propria contentezza per il fatto che i giudizi metafisici del tutto in generale (come egli accuratamente diceva) “siano stati relegati al regno delle ombre di un primitivo animismo”.

Il problema del tre per cento – Cosa significa essere un traduttore letterario negli Stati Uniti

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(Silvia Pareschi è una traduttrice, ha tradotto autori come Don DeLillo, Junot Diaz, Nathan Englander, Alice Munro, Cormac McCarthy, Denis Johnson, Jonathan Franzen, vive per metà dell’anno a San Francisco, cura questo blog. E così, in seguito alla pubblicazione del post La traduzione dei libri è un’azione politica, mi è venuto naturale chiederle un commento a riguardo. Prima di rimandarvi alla lettura dell’articolo, vorrei esprimerle qui la mia gratitudine per tutto il lavoro di ricerca svolto.)

La fotografia è di Lucie & Simon

di Silvia Pareschi

Si chiama Three Percent, il blog curato da Chad W. Post e dedicato alla letteratura tradotta negli Usa. Chad W. Post è anche il direttore di Open Letter, la casa editrice della University of Rochester che pubblica esclusivamente opere in traduzione, oltre che l’autore di un libro uscito l’anno scorso negli Stati Uniti con il titolo The Three Percent Problem.

Il “problema del tre per cento” che affligge i traduttori statunitensi consiste nel fatto che solo il tre per cento dei libri pubblicati negli Usa (come anche nel Regno Unito) è tradotto da altre lingue. Se poi restringiamo il campo alle opere di narrativa e poesia, la percentuale scende intorno allo 0,7%.

Confrontando queste percentuali con quelle dei libri tradotti in Italia, la differenza salta agli occhi. Anche se secondo gli ultimi dati dell’AIE le traduzioni sono in calo – nel 1997 il 24,9% dei titoli pubblicati erano traduzioni da una lingua straniera, nel 2009 erano il 20,1%, e oggi sono scesi al 19,7%: questo perché pubblicare libri di autori italiani in genere costa meno – resta comunque il fatto che in Italia circa il 20% dei libri pubblicati sono tradotti da altre lingue.

Ma cosa significa essere un traduttore letterario negli Stati Uniti, e perché in quel paese c’è un così scarso interesse per i libri di autori stranieri? Ho provato a chiederlo ad alcuni traduttori e membri di associazioni di categoria.

Secondo Brent Sverdloff, direttore del Center for the Art of Translation di San Francisco, le cose stanno lentamente migliorando. Innanzitutto il famoso 3% ha ormai quasi raggiunto quota 5%, mentre le nuove generazioni di immigrati, almeno in una città come San Francisco dove il 45% delle famiglie parla una lingua diversa dall’inglese, cominciano a capire che la conoscenza di una seconda lingua è un vantaggio da sfruttare, non un handicap di cui vergognarsi.

Un altro parere positivo è quello di Minna Proctor, scrittrice, traduttrice dall’italiano (premiata per la sua traduzione dei racconti di Federigo Tozzi) e editor in chief di “The Literary Review”. Proctor ritiene che la traduzione letteraria abbia raggiunto un livello assai elevato negli Stati Uniti, grazie all’abbondante offerta di formazione specializzata e all’influenza della piccola editoria indipendente che si concentra sulla pubblicazione di opere tradotte. Un’apertura importante, insomma, per un mercato tradizionalmente chiuso come quello americano, e la sensazione che i confini geografici e artistici del paese stiano finalmente cominciando a espandersi.

Secondo Susan Bernofsky (traduttrice dal tedesco di autori come Walser e Hesse, curatrice del blog Translationista, in cui riporta notizie sul mondo della traduzione negli Usa), invece, il mercato non ha mai favorito i traduttori, e le cose non stanno affatto cambiando. L’industria editoriale parte dal presupposto che i libri tradotti vendano meno di quelli scritti originariamente in inglese. Di conseguenza si investe meno nel marketing dei libri tradotti, generando una spirale negativa che solo di tanto in tanto viene interrotta dalla comparsa di bestseller stranieri, come ad esempio la trilogia di Stieg Larsson e L’eleganza del riccio. Anche Bernofsky, come tutti gli altri traduttori intervistati, cita le piccole case editrici specializzate in letteratura straniera, nate negli ultimi decenni anche grazie a Internet, che ha ridimensionato notevolmente il ruolo della pubblicità su carta stampata. La sopravvivenza di queste case editrici (tra cui Archipelago Books, Ugly Duckling Presse, Melville House), che pubblicano libri con tirature di poche migliaia di copie, è resa possibile anche dai finanziamenti delle istituzioni culturali dei paesi d’origine (soprattutto quelli dell’Europa occidentale).

Anne Milano Appel, che traduce dall’italiano (autori come Primo Levi, Claudio Magris, Giovanni Arpino, Goliarda Sapienza) ricorda che non solo i lavori di traduzione dall’italiano all’inglese sono sempre scarsi, ma anche che le sue tariffe non sono aumentate da quando ha cominciato a fare questo mestiere, molti anni fa; anzi, a volte gli editori vorrebbero pagare anche meno (in questo non ci sono molte differenze tra la situazione dei traduttori americani e di quelli italiani). Molti editori, continua Appel, sono riluttanti a mettere il nome del traduttore in copertina: questo non tanto per ignoranza o negligenza (come capita in Italia quando il nome del traduttore non viene citato nelle recensioni), ma piuttosto perché gli editori tentano di nascondere il fatto che si tratta di un libro tradotto, convinti che il lettore medio non sia in grado di apprezzare le traduzioni e quindi sia restio ad acquistarle.

Questo parere viene confermato da Alison Anderson (che traduce dal francese autori come il premio Nobel J. M. G. Le Clézio, Amélie Nothomb e la già citata Muriel Barbery di L’eleganza del riccio), la quale, pur sostenendo che negli ultimi vent’anni la situazione sia migliorata, forse grazie al proliferare di piccole case editrici, siti internet e blog e dedicati alla letteratura tradotta, ritiene che ci sia ancora molta strada da percorrere per ottenere un degno riconoscimento degli autori stranieri sul mercato anglo-americano. Il problema nasce soprattutto dall’atteggiamento dei media e delle grandi case editrici, che considerano “difficili” le opere tradotte: il New York Times, per esempio, è noto per pubblicare pochissime recensioni di libri tradotti, e lo stesso si può dire per i programmi culturali della National Public Radio. Uno dei motivi della scarsa attenzione del pubblico americano per le opere tradotte risiederebbe, sempre secondo Anderson, nella percezione della traduzione come un’attività fondamentalmente accademica, svolta nel tempo libero da professori universitari e non da professionisti che traducono per mestiere. Questa immagine elitaria, spesso confermata dalle scelte di traduzione di case editrici come Dalkey Archive Press e Open Letter, che preferiscono opere sperimentali a romanzi di più larga diffusione, non ha certo contribuito ad avvicinare il grande pubblico dei lettori americani alla letteratura straniera. Anche Anderson cita il sostegno delle istituzioni come elemento fondamentale per la diffusione dei libri tradotti, e fa l’esempio della Francia, spiegando che quasi ogni libro tradotto dal francese può usufruire di un finanziamento da parte del Centre national du livre, o di un programma come French Voices, che finanzia testi non ancora acquistati da un editore americano. Questo sostegno, secondo Anderson, avrebbe incoraggiato almeno i piccoli editori ad assumersi il rischio di pubblicare testi tradotti (anche se questo forse potrebbe significare che il già piccolo mercato statunitense dei libri tradotti risulti addirittura “gonfiato” rispetto alle reali dimensioni che avrebbe senza le sovvenzioni).

A proposito di sostegno istituzionale, lo scorso luglio il National Endowment for the Arts ha annunciato i vincitori della Translation Fellowship per il 2013. I sedici traduttori premiati hanno ricevuto una sovvenzione di $12.500 ciascuno per un progetto di traduzione (Lynne Lawner, traduttrice dall’italiano, per la traduzione delle poesie di Giorgio Orelli). L’ammontare complessivo della Fellowship, che si aggira intorno ai $200.000, è significativamente calato rispetto ai circa $300.000 del 2010, ma rimane una cifra del tutto rispettabile. L’altro grant a cui i traduttori possono accedere è il PEN Translation Fund: creato da un donatore anonimo (di cui è appena stata rivelata l’identità: si trattava di Michael Henry Heim, morto lo scorso settembre, traduttore e professore di lingue slave alla UCLA) nel 2003 per sostenere un traduttore esordiente, questo grant consiste di una cifra di circa $3.000 assegnata ogni anno a ciascuno dei circa dieci vincitori.

Così, se da un lato i traduttori statunitensi devono fare i conti con un mercato molto ridotto a causa di un presunto scarso interesse dei lettori, dall’altro godono di un discreto sostegno istituzionale, potendo usufruire di finanziamenti provenienti non solo dai paesi d’origine della letteratura tradotta ma anche da istituzioni pubbliche e private statunitensi interessate a promuovere la traduzione di libri stranieri in inglese. Anche in Italia esistono programmi di sostegno questo tipo, come i premi e contributi per la traduzione offerti dal Ministero per gli Affari Esteri, e il concorso bandito dal Centro per il libro e la lettura per finanziare la traduzione in inglese di opere di narrativa, saggistica e letteratura per ragazzi (questi contributi, però, che l’anno scorso hanno raggiunto un ammontare complessivo di 25.000 euro – “ferme restando le attuali disponibilità di bilancio” – vengono erogati agli editori e non ai traduttori). Quando però ho chiesto a Anne Appel se avesse mai ricevuto una sovvenzione per la traduzione dal governo italiano, mi ha riferito quello che le ha detto di recente un’editrice americana: “Noi siamo sempre in cerca di libri da pubblicare, eppure sentiamo parlare piuttosto raramente di quelli italiani, perché gli organismi che sostengono e promuovono la letteratura tedesca e francese, per esempio, non esistono per quella italiana. Molti editori non ci mandano neppure i loro cataloghi.” Non a caso, fa notare Appel, Best European Fiction, la serie pubblicata da Dalkey Archive Press e curata da Aleksandar Hemon, ha smesso di inserire autori italiani perché l’Italia si rifiuta di contribuire al progetto.

Tirando le somme si può dire che, per quanto vivere di sola traduzione letteraria in Italia sia quasi impossibile, negli Stati Uniti lo è ancora di più, perché i finanziamenti, per quanto generosi, non possono supplire alla mancanza di un mercato. La speranza, per i traduttori americani, è che il loro 3% venga sempre più incrementato grazie a quelle case editrici che hanno scelto di costruire un catalogo con il 100% di libri tradotti. La speranza per i traduttori italiani, invece, è che la nostra quota del 20% non continui a diminuire.

A Mal di libri

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MAL DI LIBRI on the road: La prima festa in strada dedicata alla lucida follia di
inventare, scrivere, leggere e pubblicare storie.

Sabato 20 e domenica 21 ottobre 2012
Roma, Isola pedonale del Pigneto e dintorni. Dall’aperitivo a mezzanotte. Mal di Libri: non un festival, ma una vera e propria festa nata dall’idea dell’Associazione Fortebraccio, formata da giovani lavoratori dell’editoria romana e non, una festa in strada completamente dedicata alla mania di inventare, raccontare, scrivere e leggere storie. Mal di Libri nasce dall’idea che la crisi non è che un punto di partenza per re-inventare l’aggregazione, proprio riunendo la gente intorno alle storie, da sempre collante e incentivo alla conoscenza e allo scambio, facendo perno sul lavoro prezioso di editori indipendenti e di riviste, blog e associazioni. In accordo con il progetto “Riprendiamoci la notte” dell’Assessorato alla Famiglia, all’Educazione e ai Giovani di Roma Capitale, Mal di Libri quest’anno invade l’isola pedonale del Pigneto, quartiere romano dell’effervescenza artistica, delle idee, ma anche dell’immigrazione e del fermento sociale.

Mal di Libri ha deciso di creare un vero e proprio percorso per locali (mappato su flyer e in rete), così da fare di un aperitivo o di un sabato sera un’occasione sì per evadere, ma portandosi a casa qualcosa di diverso oltre agli eventuali postumi di una bevuta: un libro, una storia, una nuova amicizia, un ricordo, attraverso laboratori, reading, piccoli concerti, incontri con autori e psicologi.
Insieme ai locali e agli editori uniti per due giorni in un’inedita partnership, sarà protagonista della festa dedicata alle storie la Biblioteca Goffredo Mameli situata nel cuore dell’Isola Pedonale, che aprirà questa seconda edizione di Mal di Libri sabato 20 ottobre alle 17 con Ascanio Celestini che, proprio nella biblioteca intitolata a chi ha dato voce e musica al Risorgimento, presenterà Pro Patria (Einaudi), il nuovo romanzo che racconta l’Italia di oggi attraverso le lettere dei protagonisti della Repubblica Romana rilette e riportate alla vita da un detenuto. Per proseguire con le storie dal Senegal del griot e suonatore di kora Madya Diop accompagnato da Silvia Balossi. E conoscere da vicino autori come Christian Raimo (che si esibirà in una jam session a voce e musica), Giorgio Vasta, Luca Telese, Vincenzo Sparagna, Carlo Sperduti, Stefano Sgambati, e molti altri. Sarà tra l’altro l’occasione per celebrare insieme i settant’anni di due musicisti americani che hanno scelto Roma come casa, con il concerto di Mike Cooper e Jack Wright, e proseguire in bellezza con il Balkan Beat di Mondo Cane, nella festa di sabato sera dedicata a tutti gli amanti dei libri.

Ma Mal di Libri non è solo ascolto, ma anche “istigazione a creare”: sabato 20 ottobre due occasioni uniche per proporre i propri scritti nel cassetto a editor professionisti, in maniera totalmente gratuita: “La posta dell’editor”, per sottoporre racconti brevi o incipit di romanzi ai due scrittori Francesco Pacifico e Michele Vaccari, con la consulenza (sempre gratuita) dell’Agenzia Vicolo Cannery e de L’Erudita, neonata casa editrice gestita da tre under trenta, e il Premio Carlo Sperduti, il primo premio dedicato a uno scrittore vivente e ignoto, il cui tema è l’ossessione per qualcosa o qualcuno. In entrambi i casi, i migliori racconti saranno letti in pubblico alla presenza di editori e addetti ai lavori e vinceranno un premio in libri.

Hanno già aderito all’iniziativa: Donzelli, Indiana, La Nuova Frontiera, Totem Libri, Del Vecchio editore, Bel Ami, Aliberti, Voland, Tunuè, L’orma editore, Giulio Perrone editore, Red Star, NDA Press, Agenzia Vicolo Cannery, Agenzia Totem Libri, Il Nuovo Male e molti altri.
Mal di Libri nasce da un’idea del Circolo Fortebraccio, un’associazione che nel 2010 decide di dare vita a forme insolite e il più possibile originali per promuovere la lettura come un vero e proprio mezzo di aggregazione. Nel 2011 nasce così l’idea di una festa di idee e di contenuti più che di nomi, che coinvolga una rete di addetti ai lavori accomunati dall’inesauribile passione per il narrare, convinti che un libro possa accompagnare egregiamente e in maniera divertente un buon bicchiere di vino o un mojito. Alla sua seconda edizione, Mal di Libri si propone di nuovo come un diversivo alla rassegnazione da crisi che ci porta a perdere la fantasia e a bruciare il nostro tempo in evasioni spesso pericolosamente senza idee. Mentre la fantasia, da sempre, è la linfa delle idee. E con le idee non c’è crisi che tenga.
Qui i programmi di sabato e domenica Per ulteriori informazioni: maldilibri@gmail.com

Mal di Libri:
Da un’idea del Circolo Fortebraccio e di Chiara Di Domenico. Con il sostegno di Assessorato alla Famiglia, all’Educazione e ai Giovani di Roma Capitale, Regione Lazio e Dipartimento della Gioventù presso il Consiglio dei Ministri.
Con il patrocinio gratuito di Biblioteche di Roma, Assessorato alle Politiche Culturali e al Centro Storico di Roma Capitale, Municipio VI e Università di Roma Tor Vergata – Corso di Laurea Magistrale in Scienze dell’Informazione, della Comunicazione e dell’Editoria.
Con la Media Partnership del quotidiano Pubblico e UndeRadio, la web radio di Save the Children interamente gestita dai ragazzi delle scuole medie di Roma.
In collaborazione con Les Flaneurs, Colla (una rivista in crisi), Sette per Uno, Tropico del Libro, Legambiente e Book Cycle

Ufficio stampa Mal di Libri: Chiara Di Domenico, maldilibri@gmail.com e 3389350282.

Libra, la figlia che verrà

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Libra (Bilancia) è il cortometraggio su donne, lavoro e maternità della regista spagnola Carlota Coronado.

Per una critica comparata dei dispositivi culturali

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di Andrea Inglese

La questione del “lavoro culturale”, che si è rifatta centrale da almeno un anno a questa parte grazie ai diversi movimenti attivi a livello nazionale per una riappropriazione della cultura (Teatro Valle, TQ, ecc.), appare assai diversa se guardata non più dall’Italia ma dalla Francia. Uno spostamento di visuale ci sembra necessario, tanto più che il termine “cultura” non solo risuona come vuota tautologia nei ritornelli pubblicitari delle industrie culturali, ma spesso anche nei programmi nati dall’esigenza politica di contestare e trasformare istituzioni o monopoli esistenti. Inoltre, in Italia, dopo il ventennio berlusconiano, il “ritorno alla cultura” pare incontrare un nuovo consenso: bisogna salvarla, difenderla, produrne e farne circolare di più. Questi gli imperativi largamente condivisi.

Violenza e nuova violenza in Sudafrica

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di Corrado Benigni 

A un criminale non importa più se sei bianco o nero (e i criminali frutto della miseria, ora che non c’è più un regime di polizia, sono ovunque), ma quanto è gonfio il tuo portafoglio. Questa è la nuova faccia della criminalità in Sudafrica, uno dei Paesi più violenti al mondo, soprattutto in questi anni che la “lotta” è finita, che il regime segregazionista è crollato.

Te la faccio vedere nera

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Una nota
di
Igiaba Scego

Ok vivo in un paese assurdo! Me ne devo fare una ragione…ma a volte è proprio difficile capire tutto quello che ci sta succedendo (di negativo) intorno. Leggete qui di seguito l’articolo del Manifesto sulla contestazione di Torino al ministro Fornero. Beh ad un certo punto c’è scritto (e il manifesto cita fedelmente le parole del ministro che sono a dir poco sconcertanti): “Poi parla anche di violenza sulle donne, che è il tema del convegno, dicendo che è stata in Sudafrica, che ha letto un libro sulla violenza, e che è riuscita anche a capirsi con donne molto lontane da lei, donne di un altro continente, donne “nere” che la violenza la conoscono“.
Io sono una donna nera e da donna nera dico: la violenza la conoscono purtroppo tutte…e di tutti i colori. Non è una cosa specifica delle donne nere. In italia le donne vengono uccise, massacrate, seviziate tutti i giorni. Ci sono donne migranti e figlie di migranti tra le vittime della violenza, ma la maggioranza delle vittime è costituita da donne bianche, italiane da generazioni. Quindi dicendo quello che ha detto la sig.a Fornero fa torto a tutte: Nere, bianche, gialle, azzurre, rosse, a pois. Che tristezza infinita ragazze, che tristezza immensa.

Qui l’articolo del Manifesto

Troppa informazione – Un saggio sull’opera di David Foster Wallace

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(Poco più di quattro anni fa veniva a mancare lo scrittore David Foster Wallace. Gli animatori dell’Archivio David Foster Wallace Italia hanno pensato bene di rendergli omaggio traducendo il saggio che J.J. Sullivan ha scritto e pubblicato nel maggio 2011 su GQ USA. Ringraziando Andrea Firrincieli e Roberto Natalini sia per la traduzione sia per la generosità, lo ripubblichiamo qui.)

Tommaso Pincio “Ritratto di David Foster Wallace”, 2011, olio su tavola, cm. 65 x 60

Quando David Foster Wallace, scrittore simbolo della sua generazione, si è tolto la vita nel 2008, ha lasciato dietro di sé un romanzo incompiuto, Il Re Pallido, che potrà servire alternativamente a completare il corpus trascendente delle sue opere oppure a porre un inquietante punto interrogativo sulla fine della sua carriera. John Jeremiah Sullivan si immerge nel nuovo libro e considera quello che ci ha lasciato.

di John Jeremiah Sullivan

Una delle poche bugie che riusciamo a rintracciare nei libri di David Foster Wallace si trova nel pezzo su Michael Joyce, oscuro prodigio del tennis degli anni ‘90, incluso nella sua prima raccolta di saggi, Una cosa divertente che non farò mai più. A parte alcune pagine dei suoi romanzi, è la cosa migliore che Wallace abbia scritto sul tennis – migliore persino del pezzo giustamente lodato, ma spropositatamente famoso, su Roger Federer [1] – proprio perché Joyce era un operaio del tennis, uno sconosciuto, per Wallace era come una tela bianca. Wallace non aveva praticamente nulla su cui lavorare per quel pezzo [2]: un tortuoso accesso ai gironi di qualificazione di un torneo canadese, qualche ora passata a guardare attraverso la rete metallica un soggetto che era allo stesso tempo troppo gentile per essere divertente e non particolarmente articolato. Di fronte a quello che per molti scrittori sarebbe stata una disastrosa mancanza di materiale, Wallace scatenò tutti i suoi stupefacenti poteri d’osservazione sul tennis nel suo complesso, pescando in parte dalla sua personale conoscenza del gioco, ma soprattutto grazie alla sua genuina abilità di considerare una situazione, facendola ruotare mentalmente tra le sue dita come un gioiello di dubbia integrità. Scrive: “Tutti hanno l’aspetto infelice e introverso di persone che passano enormi quantità di tempo sugli aerei e ad aspettare con le mani in mano nelle hall degli alberghi, l’aria di persone che devono crearsi intorno un guscio di privacy usando soltanto la loro espressione.” Ascolta il “pang autorevole” delle corde della racchetta tese per il torneo e osserva i raccattapalle “riconfigurarsi in maniera complessa”. Passa il tempo nei campi dove i giocatori fanno pratica e si riscaldano, i loro corpi “si muovono con la compatta disinvoltura che ho imparato a riconoscere nei professionisti quando si allenano: danno l’idea di un motore potentissimo tenuto a bassi giri.”

La bugia arriva all’inizio del pezzo, quando Wallace sottolinea l’ironia potenziale di ciò che si prepara a fare, e cioè scrivere di persone di cui non abbiamo mai sentito parlare, che sono culturalmente marginali, ma comunque tra i migliori al mondo in un dato campo. Wallace dice: “Vi invito ora a immaginare cosa si proverebbe a essere fra i cento migliori al mondo in qualcosa. Qualunque cosa. Io ho provato a immaginarmelo; è difficile”. Quello che è strano è che questo pezzo è scritto nel 1996 – quando Wallace aveva già  completato il suo secondo romanzo che avrebbe influito sull’intero genere narrativo, Infinite Jest, così come i racconti, alcuni già considerati dei classici, della raccolta La Ragazza dai capelli strani. È difficile credere che non sapesse di essere tra i cento migliori in qualcosa, e precisamente nello scrivere narrativa, e che c’erano già persone serie e competenti disposte ad includerlo in una cerchia ancora più ristretta. Forse dobbiamo supporre che, essendo umano, qualche volta ne fosse consapevole e qualche volta avesse paura che non fosse vero. Ad ogni modo, questa falsa modestia – chiederci di accettare l’idea che lui non pensasse mai di essere così bravo e abbia proposto l’esperimento in maniera ingenua – non può che sembrarci strana. E forse era una cosa voluta. Non ci sono molte cose che accadono per caso negli affari di Wallace; il suo tratto profondamente ossessivo non lo permetteva. È possibile che ci sia qualcosa di stratificato in questo modo di usare lo sport come metafora per la scrittura – più strati di quanto già non ce ne si aspetti? È di per sé curioso che Wallace scelga un giocatore, tra i tanti, che si chiama Joyce, la cui irlandesità “etnica” Wallace enfatizza abbondantemente, alludendo quindi a un artista la cui propria fissazione sulla maestria tecnica lo aveva reso una sorta di mostruoso, splendente ma poco salutare, problema umano della letteratura. Di sicuro Wallace faceva dei giochi testuali a quel livello.

Ecco una cosa difficile da immaginare: essere uno scrittore così creativo che, quando muori, il linguaggio ne rimane impoverito. Questo è ciò che ha compiuto il suicidio di Wallace, due anni e mezzo fa. Non è stata solo una cosa triste, è stato un colpo durissimo.

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È difficile fare il classico paragrafetto biografico su Wallace per lettori che, in questo scenario mediatico soprassaturo, non sapessero chi è stato o perché fosse importante, perché ti torna continuamente in mente il suo racconto La morte non è la fine, in cui faceva la parodia del modo in cui si scrivono i paragrafi biografici sugli scrittori, con la lista delle loro onorificenze e quant’altro, lista che diventa sempre più inesplicabilmente ridicola quando si elencano i nomi dei premi vinti, e capisci come Wallace stia scavando dentro la solita stupidità auto-incensante del mondo letterario americano: “una Lannan Foundation Fellowship, […] un Mildred and Harold Strauss Living Award dell’American Academy e dell’Institute of Arts and Letters… un poeta che due diverse generazioni hanno acclamato come la voce della propria generazione.” Lo stesso Wallace aveva ottenuto molti dei premi di quella lista, come il ‘Genius Grant’ della prestigiona Fondazione MacArthur. Tre romanzi, tre raccolte di racconti, due libri di saggi, la cattedra Roy E. Disney di scrittura creativa al Pomona College.

Quando dicono che Wallace era uno scrittore generazionale, che “parlava per una generazione”, c’è un modo in cui questo è quasi scientificamente vero. Tutto quello che sappiamo su come la letteratura viene prodotta suggerisce che c’è un legame tra il talento individuale e la società che lo produce, l’organismo sociale. Le culture generano geni come un alveare trova una nuova ape regina quando la vecchia muore, ed è facile ora vedere Wallace come uno di questi geni. Ho il ricordo, abbastanza netto da sapere che non è solo il senno di poi, di averne sentito parlare e poi di aver letto per la prima volta Infinite Jest quando avevo 20 anni, e la sensazione immediata: eccolo. Uno di noi sta provando a fare questo. Il “questo” stava per tutto questo, ossia il provare a catturare la sensazione di vivere in una superpotenza frammentata alla fine del ventesimo secolo. È arrivato qualcuno con un intelletto potenzialmente abbastanza forte per rispecchiare questo spettacolo e con una serietà morale abbastanza profonda da voler essere in prima linea. Non si può dire che nessuno dei suoi contemporanei – anche quelli che in quanto ad abilità potevano competere con lui – abbia rischiato un fallimento così grande quanto Wallace.

Gente che non ha mai letto una parola di quello che ha scritto riconosce il suo stile, i cosiddetti vezzi, un mucchio di giochi tipografici presi dal romanzo comico del diciottesimo secolo e ricontestualizzati: le note e le parentetiche scettiche, proposizioni che compulsivamente tornano sui loro passi, ammettendo la loro stessa debolezza. È vero anche che corrispondevano alle idiosincrasie del suo modo di parlare e pensare. (E lo sappiamo bene ora che tutti quei video su YouTube delle sue letture e interviste ci sono diventati familiari – anche un po’ stranamente: per qualcuno che chiaramente si contorceva come un insetto in trappola se posto sotto attenta osservazione, Wallace si sottometteva e si assoggettava a molte di queste situazioni. Aveva molte più foto pubblicitarie di altri sui colleghi. Non si può dire che non fosse una persona combattuta.)

Il punto è che il suo stile ha fatto molto di più che limitarsi a riflettere la sua forma mentis; era una espressione di una sensibilità insolitamente coerente. Wallace era un implacabile revisore e avrebbe potuto semplificare tutti quei paragrafi sintatticamente barocchi. Ma non credeva che il mondo funzionasse in quel modo. La verità, o la ricerca della verità, non gli sembrava fatta così. Era auto-critica – o meglio, un’auto-interrogazione – alla ricerca dei propri diversivi. Da questo punto di vista, è interessante notare che il New Yorker, che ha pubblicato alcuni dei suoi migliori pezzi di narrativa, non abbia mai pubblicato i suoi saggi. Non è un disonore per Wallace o per il New Yorker, è solo un fatto tecnicamente interessante: non avrebbe saputo cambiare la sua voce per adattarsi allo stile tipico della testata. Lo “stile sobrio” si basa sul cancellare la propria presenza come scrittore e invocare una sorta di invisibile autorità narrativa, con l’idea che la personalità e la mente dell’autore sono manifeste in ogni riga, senza il cattivo gusto di dire al lettore quello che sta succedendo. Ma l’incessante strategia del parlare in prima persona di Wallace non deriva dal narcisismo, assolutamente no – era invece un segno di testardaggine filosofica. (Suo padre, filosofo di professione, aveva studiato con l’ultimo assistente di Wittgenstein; lo stesso Wallace da studente aveva offerto un effettivo contributo intervenendo nel dibattito sul libero arbitrio – di recente pubblicato come Fate, Time and Language). Il suo punto di vista sullo stile sobrio era che il suo scopo, alla fin fine, fosse solo quello di vendere qualcosa al lettore. Non in senso volgare, ma in quello retorico. La caratteristica moderazione della rivista, per quanto possa piacere, è una sorta di cuneo fascista che cerca di farti dimenticare i suoi problemi, le mezze verità, le decisioni arbitrarie, e di farti digerire un inesistente sigillo di autorevolezza. Wallace non avrebbe mai potuto escludere se stesso o i suoi articoli dall’insieme delle cose soggette ad un esame scrupoloso.

L’unica volta che l’ho incontrato, ad un rinfresco prima di una lettura, riuscii solo a biascicare qualche frase convenzionale del tipo “ammiro il suo lavoro” etc. Ma l’impressione visiva mi ha segnato fortemente, perché in quella atmosfera da cocktail party (Tom Wolfe era a tre metri da noi, nel suo vestito bianco), Wallace sembrava la persona più fisicamente a disagio che abbia mai visto. Se vi è mai capitato, ad un certo momento nella vostra vita, di essere intrappolato in una stanza di una casa di montagna con un animale selvaggio, un procione o una lince, ecco a cosa somigliava Wallace, pietrificato in quel modo. Aveva un sorriso sul viso come se stesse aspettando che qualcuno gli stesse per dare un pugno. Allo stesso tempo era educato e faceva spallucce quando ti parlava. Tutti erano vestiti elegantemente tranne Wallace, che portava una sorta di camicia da contadino russo ed era nella fase “ho i capelli lunghi come una signora, ma anche la barba”. Gli dava un’aria da barbone, uno che aveva visto una tavola piena di cibo e avesse deciso di unirsi alla festa. Tuttavia quando salì sul palco alla fine, insieme a George Plimpton e Seymour Hersh tra gli altri, non solo fece la sua parte, ma riuscì anche ad incantare il pubblico e più di una volta dovette interrompersi per far calmare le risate, pronunciando quelle vocali così rotondamente nasali.

Il suo stile era regionale in molti sensi – ad esempio nella scrupolosità dell’uso della lingua. Solo nel Midwest perdono tempo nella grammatica in una chiacchierata tra amici; da nessun’altra parte, quando chiedi “Posso avere un the freddo?” ti rispondono “Non saprei… puoi?” E Wallace si considerava in qualche modo uno scrittore regionale – altrimenti non avrebbe permesso a Marion Ettlinger, la fotografa per eccellenza degli scrittori arci-famosi, di scattare quella foto di lui con il trench che sorride in maniera ironica accanto ad un campo di grano ondeggiante. Come disse nel saggio che lesse quella sera, sapeva di provenire da un paesaggio “la cui vuotezza è al tempo stesso fisica e spirituale.” Il vero “massimalismo” del suo stile, che i detrattori trovavano auto-indulgente, sembrava suggerire un ambiente con molto spazio da riempire. In uno dei suoi primi saggi – sul giocare a tennis nella zona dei tornado – mitizza il suo rapporto con le pianure:

Amavo la precisa relazione delle linee rette più di ogni altro ragazzino con cui sia cresciuto. Penso che sia perché loro erano nativi del luogo, mentre io mi ci ero trasferito quando ero piccolissimo da Ithaca, che era dove mio padre aveva ottenuto il Dottorato. Perciò, quello che avevo conosciuto, seppure nella maniera orizzontale e semiconsapevole di quando si è bambini, era qualcosa di diverso: le alte colline e i tortuosi sensi unici dell’interno dello stato di New York. Sono abbastanza sicuro che conservai quella poltiglia amorfa di curve e dossi in controluce laggiù in qualche anfratto lucertolesco del mio cervello, perché i […] bambini con cui giocavo e facevo la lotta, ragazzini che non conoscevano e non avevano conosciuto niente di diverso, non vedevano nulla di assoluto o nuovi-mondesco nella disposizione planare dell’area cittadina […]

Nuovi-mondesco: era come se Wallace diventasse informale quando abbandonava il rigore e traeva delle conclusioni che non erano propriamente difendibili – un modo per averti dalla sua parte.

Probabilmente si tratta dell’unico scrittore notoriamente “difficile” che non abbia quasi mai scritto una pagina che non fosse piacevole, o almeno interessante, da leggere. Ma era il tema della solitudine, un tipo particolare di solitudine postmoderna, satura di informazioni, che, più di tutto, attirava folle ai suoi reading che per dimensione e livello di eccitazione erano più simili a ciò che si può vedere ai concerti di una nuova band in un negozietto di dischi. Molti dei lettori di Wallace (cosa che ora è facile da vedere visto che ognuno di loro ha scritto un messaggio di apprezzamento da qualche parte su internet) credevano che stesse parlando a loro nei suoi testi – che fosse una delle poche persone al mondo che potesse aiutarli a navigare in una nuova spiritualità selvaggia, in cui ogni possibile sorgente di consolazione è stata annullata. E Wallace stava parlando a loro; la sua innata consapevolezza gli impediva di sottrarsi interamente al suo ruolo di saggio. In questo senso possiamo capire le sue frequenti affermazioni, stranamente alla Pollyanna, sul presunto potere della narrativa contro il solipsismo, e cioè che solo nella letteratura sappiamo con certezza di avere “una profonda conversazione piena di significato con un’altra coscienza.”

Wallace sapeva che questo era un luogo comune. (Come dimostra il fatto che venne ripresa come una cosa da dire su di lui, negli articoli scritti dopo la sua morte.) La narrativa può solo sostituire il caos di un testo al caos di un discorso. Sostituisce gli specchi della stanza con altri specchi. Non voleva essere soltanto una cavolata, però; in più gli dava qualcosa da dire nelle interviste. Nei suoi libri, un’idea così leggera non sarebbe mai sopravvissuta alle tempeste fulminanti della sua analisi panottica. È proprio come in Caro vecchio neon, la storia di un ragazzo dell’elite dorata che si uccide, ricordata dal suo compagno di classe, David Wallace, che è “pienamente cosciente che il cliché secondo cui non si può mai veramente sapere quello che avviene nella testa di qualcun altro è vecchio e insulso, ma al tempo stesso cercava molto coscientemente di impedire a quella consapevolezza di farsi gioco di quel tentativo o di spedire tutta quella linea di pensiero in quella spirale ripiegata su se stessa che non ti permette di andare da nessuna parte.”

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Si sente che in qualche modo Wallace non riusciva a risparmiarsi nessuna di queste spirali tortuose. Anche se tendeva a tenerlo per sé quando era in vita – sappiamo che aveva sofferto di depressione clinica e disturbi d’ansia da quando era adolescente e che aveva combattuto coraggiosamente per tutto quel tempo contro la chimica del suo cervello. Con la sua morte abbiamo perso uno scrittore che ha tenuto la scena della letteratura americana in uno stato di flusso energizzante, perché lui si metteva sempre in gioco e, tecnicamente parlando, si era dimostrato capace di quasi qualsiasi cosa. L’ultima raccolta di racconti pubblicata da lui in vita, Oblio, non a torto è considerato il suo libro più cupo e meno divertente, ma contiene storie che mostravano una nuova maestria e concisione, compreso il capolavoro in un paragrafo di Incarnazioni dei bambini bruciati. La nozione che Wallace non avesse altri capolavori dentro di sé sembrava insensata, come la predizione un cambiamento nelle leggi della natura.

Ci aiuta sapere tutto ciò, o sapere ad ogni modo che c’è un popolo di persone che prova la stessa cosa, se vogliamo capire il frastuono che si è creato intorno a Il Re Pallido, il romanzo che Wallace ha lasciato incompiuto, e che ora è stato pubblicato da Little, Brown. Voci di un romanzo incompiuto avevano incominciato a girare subito dopo la sua morte, e possiamo anche dire che negli ultimi anni i lettori fedeli erano rimasti aggrappati a questa promessa di un nuovo libro, quasi come un modo per difendersi dalla realtà e dalla violenza di quello che era accaduto. Un po’ del dolore collettivo per l’uomo si era sublimato nell’eccitazione per il nuovo libro. Mi sono sorpreso anche io, mentre finivo la mia copia per la recensione, di sentirmi mancare il fiato al pensiero – a lungo rimandato – che non ci sarebbero stati più nuovi libri di Wallace. Di sicuro ci offriranno ancora un bel mezzo scaffale di volumi: le sue lettere, la roba non raccolta in precedenza, “il meglio di”, la raccolta delle opere. Ci può stare.

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Il Re Pallido è diverso. Questo libro ce lo ha lasciato – le persone più vicine a lui sono d’accordo nel dire che voleva che lo vedessimo. Non si tratta quindi, in altre parole, del classico caso di Gran Romanzo Postumo, in cui dei professori vanno a stanare un manoscritto che l’autore probabilmente non voleva che leggessimo. Sembra che Wallace abbia lasciato questo libro dicendo qualcosa del tipo “fatene ciò che volete”. A quanto pare uno dei suoi ultimi gesti in vita è stato di ordinare le pagine già pronte da leggere e metterle in un posto dove la moglie, l’artista Karen Green, le avrebbe trovate. Dai suoi appunti si è risaliti a dei capitoli parziali, che il suo editor storico Michael Pietsch ha messo insieme creando una specie di bozza di romanzo come doveva apparire nella testa di Wallace – più rifinito in alcune parti, meno in altre. Pensate ad un murale finito a metà. Il Re Pallido (titolo che potrebbe riferirsi ad un’espressione popolare del diciannovesimo secolo, “il re pallido dei terrori” ad indicare la paura malinconica della morte) tratta la storia di un gruppo di persone che lavora in un palazzo dell’Agenzia delle Entrate nell’Illinois. Alcuni dei personaggi si relazionano tra loro in diversi modi, mai banalmente consequenziali. Due di loro si chiamano David Wallace. E questa è la trama. Non va mai avanti [3]. Non inizia praticamente mai.

Non c’è da vergognarsi se vi viene il sospetto che un libro su un gruppo di persone a caso che lavorano per il governo possa sembrare una cosa insopportabilmente noiosa. La ragione per cui non lo è però ha che fare con la parola su – non è il termine esatto, né la giusta preposizione. Wallace non scrive sui suoi personaggi; non lo ha fatto per quasi mai. Lui ci scrive dentro. Le cose che riesce a fare su un campo da tennis o in una crociera, o a una convention sulla pornografia, lo hanno reso una fonte di ispirazione e allo stesso tempo di invidia folle per il genere di persone che, come me, ha imparato a fare ”scrittura per riviste” alla sua ombra (era il genere di scrittore che anche quando non cercavi di copiare il suo stile ti faceva pensare a come non stavi cercando di copiarlo) – a Wallace piaceva fare così, nei romanzi, con le vite interiori dei suoi personaggi.

Immaginate di entrare in un posto, diciamo un’immensa copisteria di un grande magazzino. È mattina presto e siete il primo cliente. Vi fermate sotto le luci accese fosforescenti e lasciate che le porte si chiudano scivolando alle vostre spalle, osservate i commessi nella loro divisa con la camicia blu, le bocche aperte, che girano per il negozio ancora assonnati. Prendeteli come un’immagine unificata, con una vaga superficie impenetrabile di noia e insoddisfazione di cui siete contenti di non far parte, e partite per il vostro obiettivo, fare delle fotocopie o quello che sia. Ecco il momento in cui Wallace preme il pulsante di Pausa, quel breve istante in cui voi accendete la disattenzione, e vi concentrate in voi stessi. Lui porta indietro quel momento, e preme Play di nuovo. Adesso è diverso. Vi trovate in una stanza con un gruppo di esseri umani. Ognuno di loro è come voi, è stato ferito ed è guarito in modo strano. Ognuno di loro, anche il più superficiale, ha un romanzo dentro sé. Ognuno di loro è amato da Dio, o merita di esserlo. Hanno tutti qualcosa a che fare con te: quando lasci che la membrana della consapevolezza diventi porosa, l’osmosi è possibile, sapete che è vero, abbiamo tutti a che fare l’uno con l’altro, siamo parte di una narrazione – ma quale? Wallace vuole assolutamente scoprirlo. E capiva che il mondo moderno ci bombardava con scenari come quello della copisteria, in cui è molto facile scordarsi di questa domanda. Ci sentiamo “soli nella folla”, scrive in uno dei suoi racconti, ma non “ci fermiamo a pensare a cosa abbia dato vita a quella folla,” con il risultato che “siamo, sempre, volti in mezzo a una folla”.

Ecco cosa adoro in Wallace, questi dettagli osservati così bene, microdescrizioni di stati d’animo di intere ramificazioni del super-sistema sociale, frasi che mi fanno sentire come: “Se non lo capisci vuol dire che vivi in un altro mondo”. Era la cosa più simile ad un angelo custode che abbiamo mai avuto. Ci sono paragrafi in Infinite Jest in cui riesce ad intrappolare certe cose, qualità sfuggenti di nostri “momenti”, cose che non siamo sicuri che gli altri sentano, ma abbiamo il sospetto che forse sia così. Leggere quei passaggi è come guardare lo svilupparsi dell’inconscio collettivo su una lastra a raggi-X:

Con il braccio fuori dal finestrino come un tassista, Gately sfreccia nel territorio della Boston University. Nel territorio degli zainetti personalizzati e delle tute sportive firmate. Ragazzini senza barba con gli zaini e i capelli ritti e duri sulla testa e fronti spianate. Fronti completamente prive di rughe e di pensieri, come la crema di formaggio o le lenzuola stirate. […] Gately ha le rughe sulla fronte da quando aveva dodici anni. […] Sembra che le ragazze della Boston University non abbiano mangiato che prodotti caseari in tutta la loro vita. Queste ragazze fanno l’aerobica step. Hanno capelli lunghi puliti e spazzolati e belli. Non hanno nessun tipo di dipendenza. La strana sensazione di disperazione nel cuore del desiderio.

Il Re Pallido ha molto in comune con Infinite Jest, che pure si occupa di un gruppo di persone, unificate in maniera circostanziale – in questo caso i residenti di una casa di recupero per tossicodipendenti, o gli studenti di una accademia di tennis – si immerge nelle loro vite, creando alla fine una sorta di ruota di storie interconnesse tra loro. Ma Il Re Pallido non ricorda esattamente Infinite Jest, non ce lo fa tornare in mente, diciamo. Leggendolo si sente quanto Wallace era cambiato come scrittore, si era compresso ed era sprofondato dentro di sé. Ci sono diversi personaggi, e alcuni che possono essere definiti come personaggi principali. Come Claude Sylvanshine. Un veggente dei dati. Sa cose sulla gente, ma queste conoscenza si manifesta come piccole esplosioni di informazioni disconnesse, che non riesce a fermare. (Wallace presta parti di se a diversi personaggi, e talvolta i loro tratti si confondono). Troviamo Lane Dean Jr., che è stato un cattolico fervente ai tempi delle superiori. E Meredith Rand, la bella dell’ufficio – il resoconto passo-dopo-passo di cosa succede in una tavolata di uomini e donne (in questo caso in un bar dove i dipendenti dell’Agenzia delle Entrate si ritrovano dopo il lavoro) quando arriva una persona estremamente attraente è allo stesso tempo doloroso e dotato di humor nero, un esempio di quello che cercavo di descrivere come il suo potere di osservazione, e di come doveva essere scoraggiante il trovarsi chiuso nella testa di Wallace, non nel senso della malattia, ma della sua chiarezza:

Basti dire che Meredith Rand mette i […] maschi in imbarazzo. O si innervosiscono piombando in un silenzio impacciato, come se partecipassero a un gioco in cui la posta è diventata improvvisamente altissima, oppure si scioglie loro la lingua e vogliono dominare la conversazione e si mettono a raccontare un mucchio di barzellette, e in generale sembrano volutamente privi di imbarazzo, mentre prima che Meredith Rand arrivasse, prendesse una sedia e si unisse a loro, volontà e imbarazzo erano totalmente estranei al gruppo. Le liquidatrici, da parte loro, reagiscono a questi cambiamenti in una varietà di modi: alcune si ritraggono rimpicciolendo visibilmente (come Enid Welch e Rachel Robbie Towne), altre osservano l’effetto che Meredith produce sugli uomini con una specie di cupo divertimento, altre ancora sprizzano antipatia e diventano inclini a sospiri ostili se non addirittura a fughe plateali. […] Alcuni liquidatori, al secondo bicchiere, danno spettacolo per Meredith Rand, anche se il succo dello spettacolo sta in una complessa ostentazione del fatto che non stanno dando spettacolo per Meredith Rand, anzi, non si sono quasi nemmeno accorti che è a quel tavolo. Bob McKenzie, in particolare, per poco non dà i numeri, rivolge quasi ogni commento o battuta alla persona che sta a destra o a sinistra di Meredith Rand […]

Immaginate di essere capaci di queste dissezioni, con quella risoluzione dei dettagli – come primati, se preferite – e, il che è peggio, non essere capaci di smettere. Bisognerebbe avere delle enormi quantità di empatia per riuscire a fare in modo che il mondo non si trasformi in un continuo assalto dai grotteschi toni swiftiani. Wallace non provava a rifuggirne – lo coltivava, come la sua arte richiedeva. C’è da ricordare i rischi psichici dello scrivere ai livelli che lui cercava. Come tutte le persone perbene, sono tra quelli che vogliono resistere alle tentazioni di definire il suo suicidio un gesto romantico, ma resta la sensazione che gli artisti siano esposti ai torrenti del tempo in un modo che non può che causare danni, e non c’è nulla di sbagliato nel definirlo come nobile, se fatto al servizio di qualcosa di bello. Wallace ha pagato per aver viaggiato così in profondità in se stesso, per non aver mai distolto gli occhi fino a quando era necessario per scrivere passaggi come quelli che abbiamo citato, per aver trovato gli altri interessanti tanto da dedicargli l’attenzione che serve per riuscire a scrivere scene come quelle. Ecco la ragione per cui la maggior parte di noi non riesce a scrivere un grande romanzo e neanche uno decente. Bisogna lasciare entrare una gran quantità di consapevolezza altrui nella nostra. È un male per il proprio equilibrio.

La scelta di Wallace dell’Agenzia delle Entrate come ambientazione ha senso se consideriamo che stava cercando di fare qualcosa di teologico con questo romanzo, e il ”servizio”, come lo chiamano gli impiegati, offre delle opportune sfumature gesuitiche. Usa l’Agenzia delle Entrate come Borges usava la biblioteca e Kafka i palazzi della legge: come un’analogia del mondo. Insinua un legame tra lo spostamento sotterraneo della politica dell’Agenzia delle Entrate che si trasforma da un’agenzia che ha il compito di raccogliere le tasse (cioè mettere in atto la legge) ad un ente che cerca di massimizzare il profitto, o come Wallace spiega in una nota a margine lasciata sul manoscritto, “Il vero problema è se l’Agenzia delle Entrate debba essenzialmente essere un’entità aziendale o morale”. Attraverso sottili ammiccamenti (tirando in ballo oscure cause civili), Wallace collega la nozione che l’Agenzia delle Entrate stia diventando un’azienda, all’idea, introdotta nella vita americana alla fine del diciannovesimo secolo, che agli occhi della legge, una grande azienda sia la stessa cosa che un individuo, con gli stessi diritti. Wallace non è arrivato a completare tutta l’opera, ma ci basta per capire che una versione completa de Il re pallido avrebbe operato in una logica simbolica in cui, se Agenzia delle Entrate=grande azienda, e grande azienda=individuo, allora Agenzia delle Entrate=individuo. L’agenzia sarebbe diventata una metafora per tutta l’anima politica americana.

Il romanzo ripete certe mosse, zoomando nell’infanzia o gioventù di certi personaggi, che incontriamo da adulti in altre parti del libro, nell’orbita dell’ufficio dell’Agenzia delle Entrate. La complessità dei personaggi si sviluppa in giustapposizione con questi scorci delle loro versioni giovanili. Wallace sta cercando di farci capire che siamo tutti complicati, che quando le persone ci sembrano stupide e sciocche, siamo noi che non stiamo facendo abbastanza attenzione, è la nostra innata testarda tendenza a vedere le altre persone come personaggi minori o maggiori nella nostra storia.

È facile farlo sembrare un libro pesante, ma invece spesso è divertente, e non sempre in maniera educata. Incontriamo il super ottimista Leonard Stecyk, con un “sorriso così largo da apparire quasi doloroso”, una versione di qualcuno che ognuno di noi conosce o forse anche è in qualche misura. Da bambino era così altruista che tutti quelli che incontrava non potevano che odiarlo. ’Un’insegnante nella cui aula il bambino propone un progetto di riorganizzazione per i ganci appendiabiti e gli armadietti delle scarpe che tappezzano una parete […] finisce col brandire le forbici smussate minacciando di uccidere prima il bambino e poi se stessa.” (Non vi rovinerò una bella scena dicendovi cosa l’insegnante di tecnica alle superiori pensa di lui.)

Tristemente, è attraverso questo aspetto del libro – il salto avanti e indietro tra il passato recente (all’Agenzia delle Entrate) e il passato più lontano (gli anni formativi dei personaggi) – che arriviamo a capire cosa l’editore intenda per romanzo ”incompiuto”. Lo schema non funziona. Anzi è quasi assente. Wallace ha faticato per comporre i temi di queste vite in maniera sinfonica, ma non c’è riuscito o, per dirla tutta, non c’è nemmeno arrivato vicino.

Eppure anche in questo stato frammentario, Il re pallido contiene quello che di sicuro è la migliore narrativa di quest’anno. È arduo descrivere la perfezione di alcuni di questi pezzi, tra cui il capitolo (pubblicato sul New Yorker) in cui Lane Dean Jr. cerca di capire se ama o meno la sua fidanzata del college, Sheri, che aspetta un figlio da lui. Se le dice che la ama, lei lo terrà, e passeranno il resto della vita assieme (come poi succede). Nessuno dei due ha però la minima idea di cosa sia l’amore o come interpretare l’uso di questa parola da parte dell’altro: si stanno basando su di una cattiva traduzione. Ma quello che diranno in questo momento determinerà le loro vite. Wallace tratta questa scena d’amore adolescenziale con enorme serietà e fedeltà alla consapevolezza emotiva, tanto da darle una grandezza degna di Madame Bovary. Piccoli dettagli descrittivi che gli sono congeniali sono disseminati ovunque – ad esempio che le figure nel foglio laminato con le istruzioni di sicurezza dell’aereo hanno “braccia incrociate in maniera funeraria”, o che dal finestrino dell’aereo il traffico sembra scorrere “con un pathos futile e senza senso di cui non ci si accorge da terra”. Questi non sono passaggi vistosi. Sono solo descrizioni stranamente precise delle cose che facciamo o vediamo. Entriamo dentro e riconosciamo l’ambiente degli uffici moderni: “La scrivania praticamente un’astrazione. Il sussurro di una climatizzazione priva di fonte”. Gli amici che si sono lasciati nelle cittadine vengono immaginati “vendersi assicurazioni tra di loro, bere liquori del supermercato, guardare la televisione, aspettare la formalità del primo infarto.” Michael Pietsch, l’editor del libro, mi ha indicato un capitolo surreale sul finale, dove Lane Dean Jr., ormai adulto e impiegato dell’Agenzia delle Entrate, ha una conversazione con uno degli spiriti di agenti morti che girano per gli uffici. Pietsch definisce questo passaggio “pienamente fiorente”, e “densamente intricato e fitto come niente di quello che aveva scritto prima”. Un tour de force in miniatura, nemmeno venti pagine, tutto dialoghi, che ricorda in alcune parti il capitolo “Nighttown” dell’Ulisse. Quando ho chiesto a Pietsch come si immaginava che Il re pallido sarebbe stato completato, mi ha risposto “Un libro in cui anche altri capitoli sarebbero stato così ricchi e fitti come questo”, ossia un libro che ci mancherà in maniera fervida.

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Le pagine più interessanti ne Il Re Pallido – che dominano in modo interessante il romanzo – hanno a che fare con l’infanzia della giovane Toni Ware, un personaggio che appare raramente nelle parti del romanzo sull’Agenzia delle Entrate. Resta nella periferia; Wallace non era ancora arrivato a lei. Ma i capitoli sui suoi ricordi di come era cresciuta in uno spettrale parco per roulotte, con una madre malata di mente che portava a casa una serie di fidanzati molesti, sono dei pezzi di prosa formidabili. In più, non somigliano a niente di ciò che Wallace aveva scritto prima. Non trovando parole migliori, potremmo dire che sono privi di coscienza di sé. Wallace si lascia scrivere nel modo in cui i grandi scrittori fanno, nel momento in cui le storie non hanno tempo per i tuoi stessi sofismi interiori. Se è vero, come è stato detto, che Wallace non riusciva con Il Re Pallido a trovare un altro livello per andare oltre Infinite Jest, forse lo trova almeno in questo pagine.

Viaggiarono ancora una volta di notte. Sotto una luna che sorgeva rotonda davanti a loro. Quello che veniva definito il sedile posteriore del furgone era una stretta mensola sulla quale la ragazzina poteva dormire se metteva le gambe nel vuoto dietro i veri sedili posteriori i cui poggiatesta possedevano il lucore opaco dei capelli sporchi. Il disordine e la puzza di lievito indicavano che in quel furgone qualcuno ci abitava o ci aveva abitato; il furgone e il suo uomo avevano lo stesso odore. La ragazzina con la maglietta di cotone e i jeans sbiaditi alle ginocchia. La concezione che la madre aveva dei maschi era che li usava come una fattucchiera gli animali, quale segno e oggetto dei suoi poteri soprannaturali. La parola che usava per loro, a cui la ragazzina non obiettava, era: “familiari”. Mori con le basette che succhiavano fiammiferi di legno e schiacciavano lattine con le mani. Di cui le falde dei cappelli avevano righe di sudore come anelli degli alberi. I cui occhi ti strisciavano addosso nello specchietto retrovisore. Uomini che era inconcepibile fossero mai stati a loro volta bambini o avessero guardato nudi dal basso in alto qualcuno di cui si fidavano, con un giocattolo. Ai quali la madre parlava come fossero dei poppanti facendosi trattare come una bambola senza testa: bistrattare.

A volte, anche nel mezzo della bellezza o del terrore, c’è un’ondata di parodia o di pastiche nelle sezioni con Toni Ware. Wallace sembra prendere in giro il peggior Cormac McCarthy, l’incorreggibile McCarthy che, quando vuole scrivere “funghi velenosi” scrive “funghi con strombature dentellate e membranose sotto cui i rospi pare facciano la siesta.” Wallace fa ricordare a Toni Ware i ragazzi che “portavano grossi cappelli spiegazzati e lacci di cuoio al collo e certi sfoggiavano turchesi sulla persona, e uno l’aveva aiutata a svuotare il serbatoio sanitario della roulotte pretendendo poi in cambio un rapporto orale.” Questa strana incertezza di tono è accresciuta quando il passato atroce di Toni ricorre successivamente nel libro, ma questa volta con il tono di un altro personaggio, che inizia con “La mamma di Toni era un po’ fuori di testa…blah, blah”, come se la storia di ognuno di noi non fosse che una questione di tecnica. Tuttavia questo passaggio a prima vista frivolo, successivamente scivola di nuovo nello stesso stile in terza persona, e ci riporta alla pagina più memorabile del libro, la scena della morte della mamma di Toni. Come se Wallace non riuscisse a resistere a questa nuova voce. Forse possiamo concludere che la sua era una ricerca di qualcosa di più soddisfacentemente convenzionale, di più adulto, nel suo lavoro, e che questi capitoli siano solo lampi entusiasmanti di un nuovo Wallace, tragicamente mai nato…

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Aspettate un attimo – stiamo parlando di David Foster Wallace. Le cose non possono essere così semplici, e tanto meno così melense. Ovviamente subito dopo l’ultima frase del capitolo su Toni Ware, come per punirci per il fatto che ci sia piaciuto più del resto del libro, Wallace fa una cosa che può essere descritta come un vero e proprio schiaffo sul torace. Dopo averci servito una dose di virtù vecchio stampo, pagine e pagine di scrittura di tipo classico, entra nel capitolo più arci-meta, più fitto di note, ammiccante e consapevole di esserlo, intelligente che la metà bastava, ubriacante con trucchetti da post-modernismo che abbia mai scritto. È qualcosa di perverso, come se Wallace ci ascoltasse, nella sua testa, scrivere la stessa lettera che lui ha scritto a Eggers per L’opera struggente di un formidabile genio e che Eggers ha messo nel retro di copertina come citazione e che dicevano, in parte, “Ho ammirato i molti inebrianti pezzi comici post-moderni,” ma “le parti in cui ti sei lasciato andare e hai costruito dei madrigali dolorosi […] sono le parti più artistiche del libro.” Riesce a sentire che gli diciamo qualcosa del genere, subito dopo che il pezzo su Toni Ware ci ha distrutto, e lui ci risponde, molto enfaticamente, “Scusami ma questo problema del testo è proprio parte di quello che sto cercando di dire. Senza di questo starei suonando musica da camera.”

Saranno i critici del futuro a dibattere sui meriti estetici di questa decisione. Wallace di certe non era per niente tranquillo su questo punto. Spesso mentre leggevo Il Re Pallido mi sono tornati in mente dei pensieri riferiti al saggio che ha scritto su Dostoevskij:

[Questa nuova] biografia ci spinge a domandarci come mai sembriamo richiedere alla nostra arte di tenere una distanza ironica da profonde convinzioni o domande disperate, costringendo cosí gli scrittori contemporanei a ridicolizzarle o a cercare di farle passare camuffandole con qualche trucco formale come citazioni intertestuali o giustapposizioni incongrue, relegando le cose veramente pressanti fra asterischi, come parte di qualche artificio polivalente di defamiliarizzazione o qualche altra cagata del genere. La povertà tematica della nostra letteratura si spiega ovviamente in parte con il nostro secolo e la nostra situazione.

È quasi come se stesse descrivendo Il Re Pallido. Come se avesse dentro la testa un critico ostile che odia il suo lavoro. Tutti gli scrittori hanno queste voci, ma in Wallace erano praticamente personalità aggiunte. Nel capitolo-trabocchetto ci viene detto che il romanzo che stiamo leggendo è in realtà un “libro di memorie in prima persona”, la vera storia di un uomo che si chiama David Foster Wallace. E c’è anche un altro personaggio nel libro che si chiama David F. Wallace. Come anche uno che si chiama David Cusck, che condivide tante cose, biograficamente, con il vero David Foster Wallace.

Non si tratta semplicemente di trucchi da giocoliere. E non è nemmeno una questione di cosa intendesse veramente Wallace, visto che non sappiamo cosa intendeva. Michael Pietsch ha fatto un lavoro egregio come editore – da lettori gli dobbiamo molto – ma non c’era molto da editare. Sarebbe disonesto dire altrimenti. La prosa non arriva mai a possedere quello che Poe chiamava “unità di impressione” nel modo in cui Infinite Jest, nonostante la struttura a matassa, ci riusciva, o ci riusciva a tratti. In più c’è la questione della pubblicazione postuma. Ti priva di quella sensazione di piacere, che si ha mentre si legge, di essere in dialogo con le decisioni dell’autore, dando i propri giudizi e allo stesso tempo provando l’eccitazione di esserne testimone, che è parte dell’emozione creata dai libri. Qui non sai quali sono queste decisioni. Ogni parola che leggi e che non ti piace pensi “Beh, l’avrebbe cambiata.” Mentre tutto quello che funziona, quello diventa il vero Wallace. Ma anche le scelte principali, come cosa usare come finale del romanzo, sono state fatte, per necessità, non da Wallace, ma da Pietsch. “Non c’era un sommario o una sequenza dei capitoli”, mi ha detto, “e nemmeno un’indicazione di cosa doveva essere il capitolo iniziale e finale.” A questo punto la questione se questo sia o meno “un romanzo di Wallace” rimane irrisolvibile.

Se volessimo un altro finale, potremmo dire una cosa: Il Re Pallido, per come lo conosciamo, è vero rispetto a Wallace almeno per un aspetto importante. Era egli stesso incompiuto e irrisolto. C’è una bella poesia di Stevie Smith che si chiama “Era sposato?” in cui sostiene che gli uomini siano più eroici degli dei. Le difficoltà degli uomini sono più grandi, dice, “perché sono così contrastati.”. Wallace era così contrastato. Era ambivalente e in conflitto, tra le altre cose, con i diversi modi di scrivere il suo romanzo. Non era sicuro di quale preferiva, o come potessero andare bene insieme. E cosa sarebbe successo se quello a cui dava più valore non sarebbe stato quello che gli veniva più congeniale?

Mettere da parte queste contraddizioni avrebbe significato abbandonare la fonte della sua forza. Queste contraddizioni lo hanno salvato dal suo moralismo. Era uno scrittore che, in lotta per sollevarsi dal rumore del suo tempo, restava disperatamente parte di esso, sensibile alle sue voci anche mentre cercava di controllarle. La sua realtà, come scrisse una volta, era stata “MTVizzata”. Ecco perché, meglio di tutti, sembra parlare dall’interno di un tornado. (Un simbolo che lo ha inseguito in tutta la sua opera, e che ricompare ne Il Re Pallido). Ed è questa qualità, di essere diviso all’interno, che rischia di essere appiattita e cancellata via dalla sua storia dall’idolatria post-mortem, che lo vuole un distributore di saggezza. Dobbiamo proteggerci da questo. Perderemmo il Wallace più essenziale, quello che ammicca di continuo, riconsidera, spera di non aver detto quello che ha appena detto. Quelli erano i momenti in cui la sua voce era più autenticamente parte del nostro tempo, e sono la ragione per cui la gente un giorno sarà capace di leggerlo e sentire cosa significava essere vivi oggi.

L’opera di Wallace sarà considerata un grande fallimento, e non nel senso peggiorativo, ma nel senso speciale che usava Faulkner quando diceva dei romanzieri americani “Giudico la nostra opera sulla base del nostro splendido fallimento nel fare l’impossibile”. Wallace ha fallito in maniera stupenda. Non c’è nessun mistero sul perché gli venisse così difficile finire questo romanzo. Gli scorci che vediamo di quello che voleva che fosse – un vasto modello di qualcosa di piatto e schiacciante, dentro cui una costellazione di anime individuali avrebbe splenduto nella sua luminosità, e le connessioni che ci tengono tutti insieme in questo mondo si sarebbero anche loro accese, come filamenti – questo avrebbe dovuto essere un romanzo di un livello straordinario, e crediamo che lo scrittore nel pieno delle sue forze sarebbe stato abbastanza forte per riuscirci. Ma non sempre ha avuto la forza necessaria.

 

John Jeremiah Sullivan collabora da molto tempo con la rivista GQ, e recentemente anche con The New York Times Magazine e The Paris Review. È stato premiato due volte con il National Magazine Award. È autore di due libri, Blood Horses (FSG, 2004) e la raccolta di saggi Pulphead (FSG, 2011).


[1] Questa nota a piè di pagina non è soltanto un tributo, ma un annesso reale e difendibile a questo pezzo: avrei dovuto scrivere io il pezzo su Federer per Play, la rivista sportiva pubblicata per troppi pochi anni dal New York Times. Come Wallace, avevo giocato a tennis a scuola e continuavo a seguire questo sport. Era stato facile rispondere quando Play mi chiamò per dirmi che avevano accesso a Federer a Wimbledon. Tuttavia GQ non mi permise di farlo. A quanto pare avevo firmato qualcosa che il mio agente descrisse come un “contratto,” che mi impediva di scrivere per altre testate. In più, per correttezza nei confronti di GQ, da qualche mese non rendevo molto, avevo mandato all’aria un paio di pezzi e non potevo certo mettermi a discutere. Alla fine della discussione con quello che sarebbe stato il mio editor, e dopo avergli detto che non se ne faceva nulla, fui io a suggerirgli di contattare Wallace, che per me era come dire “perché non chiami la Casa Bianca?” L’editor si trovò molto in imbarazzo. Disse “Beh, a dire il vero abbiamo chiamato prima lui. E non poteva farlo”. In ogni modo, Wallace doveva aver cambiato idea. Diversi mesi dopo, c’era il suo saggio sul mio tavolo di cucina. Leggendolo provai sentimenti complessi. Ad un certo livello era gratificante vedere che aveva usato una chiave di lettura che anch’io avevo vagamente pensato di trattare, e cioè che la grandezza di Federer si trovava nel modo in cui sviluppava il suo gioco elegante a tutto campo dall’interno della spietata velocità e brutalità del gioco di potenza dalla linea di fondo. Ma Wallace lo aveva spiegato con un’accuratezza e una naturalezza che sapevo di non poter raggiungere o nemmeno considerare come possibile. In questa umiliazione c’era una certa strana intimità. Riuscii a sentire, per un breve e confuso istante, esattamente come il cervello di Wallace avrebbe trattato un soggetto che io avevo avuto nel mio, come nel vuoto, prima di sapere che lo avrebbe trattato lui. Ad ogni modo, questo è il mio contributo all’opera di Wallace, il suo ultimo pezzo per una rivista. Non voglio far sentire in colpa il lettore che starà pensando che il mondo delle lettere abbia solo guadagnato da questa sostituzione. Sto solo dicendo che è stato un piacere.

[2] Spesso Wallace preferiva queste situazioni. Ricordiamoci che si fece invitare sul set di un film di David Lynch rassicurando lo staff che non aveva nessuna voglia di intervistare il regista. All’inizio del 2008, GQ gli chiese di scrivere sui discorsi di Obama, o più in generale, sulla retorica politica in America. Ancora una volta era un’idea evanescente che gli veniva presentata, ma Wallace vide delle potenzialità, e noi cominciammo a chiedere informazioni allo staff di Obama che organizzava la campagna, e facemmo anche qualche prenotazione per lui perché andasse a Denver durante la convention. La nostra idea era di piazzarlo il più vicino possibile a coloro che scrivevano i discorsi (e quindi il più vicino possibile ad Obama stesso). Ma Wallace rispose, molto educatamente, che non era questo che lo interessava. Avrebbe voluto essere messo assieme con qualcuna delle “api operaie” del team che preparava i discorsi – per scoprire come il linguaggio fosse usato da, come la definì, “la nona persona in panchina”. E forse era per una questione di carattere che Wallace si trovava meglio a fare il reporter stando lontano dalle luci della ribalta.

[3] In verità qualcosa cambia. Ci sono momenti da paura, e ci sono sdoppiamenti. Appaiono dei fantasmi. Uno dei personaggi si scopre essere un veggente. Una nota alla fine del libro suggerisce che un team di agenti-X, in qualche modo, tutti dotati di qualità inusuali, si stia venendo a formare sotto la guida di un piccolo gruppo di supervisori. La storia è ambientata in un mondo in cui Bush, e non Reagan, è stato eletto nel 1980 (Reagan era il suo vice). Ma queste intrusioni di misticismo non creano problemi nella trama realistica del romanzo.