Il rifiuto è sempre stato un gesto essenziale. I santi, gli eremiti, ma anche gli intellettuali. I pochi che hanno fatto la storia sono quelli che hanno detto di no, mica i cortigiani e gli assistenti dei cardinali. Il rifiuto per funzionare deve essere grande, non piccolo, totale, non su questo o quel punto, «assurdo» non di buon senso.
P.P. Pasolini
Quando sei giunto al termine di un “ciclo di studi” parcellizzato in una quarantina d’esami, per conseguire una di quelle lauree come filosofia, allora ti viene da articolare una sola certezza. Hai – letteralmente – maturato una percezione diversa del significato reale della parole. Certo, anche sui giornali, sui vari volantini si leggono slogan del tipo “difesa dell’istruzione pubblica” o anche “ contro il governo”, siamo tutti “contro i tagli”, e “per la meritocrazia”.
Come si aiuta, come si soccorre, come si salva il prossimo – e quindi inevitabilmente se stessi – negli anni duemila? Nei momenti di estremo intervento, cosa differenzia le ultime generazioni da quelle che ci hanno preceduto? Siamo diventati più disponibili e generosi? Ci siamo qualificati come una massa di autentici calcolatori smidollati? Quale pressione etica accelera, se accelera, le nostre pulsazioni nei confronti di chi avverte, seppure inconsciamente, il proprio battito cardiaco sfumare o franare di colpo?
Questa e altre domande hanno fatto nido nella mia testa tutta l’estate. Nei telegiornali, puntuale come gli eritemi solari, più e più volte si è avverata la composta disperazione o la temperata euforia di un qualche annegamento o di un qualche salvataggio. Gente di ogni età, in preda a un malore, un affaticamento, una improbabile combinazione di eventi, non la finiva più di toccare il fondo o di essere trascinata a riva per una respirazione artificiale. E se del superstite apparivano sempre intensamente netti e sfigati i bordi della sua figura, del soccorritore in sé e per sé continuavo a saperne quasi nulla, come se fosse un’esemplare poco avvezzo alla gabbia di un riconoscimento.
Ai telegiornali, però, hanno fatto seguito i libri. Ne leggo sempre un paio d’estate – quest’anno è toccato, in rapida successione, a Sotto il vulcano di Malcolm Lowry (Feltrinelli, 2005) e Troppa felicità di Alice Munro (Einaudi, 2011). Con una partecipazione che i telegiornali ignorano, mi sono addentrato nelle loro pagine, senza aspettare di trovare nulla – cioè, nulla che avesse a che fare con l’attualità più stretta – e sorprendentemente, come se cose distanti cospirassero in segreto tra di loro, i due libri, il primo a metà, il secondo all’inizio, nel fitto intreccio della trama, aprivano una radura narrativa in cui staccava una scena di soccorso e la figura di un soccorritore.
Grido raramente al miracolo, ma le scene, anche se inscritte in due libri lontanissimi per destino, stile, struttura, periodo storico di pubblicazione – Sotto il vulcano è un romanzo del 1947, Troppa felicità è una raccolta di racconti del 2009 – erano anche parecchio simili. Uguali e contrarie, per essere precisi.
Hugh, nel capitolo 8 di Lowry, e Doree, nel racconto Dimensioni della Munro, stanno viaggiando su un autobus. Entrambi, prima di ogni altro passeggero, distinguono una persona versare in pessime condizioni sul lato della strada. Entrambi smontano veloci dall’autobus, cercando per come possono di darsi da fare, avvicinandosi alla persona ferita, prestando un primo soccorso. Entrambi sono duri di orecchi ai richiami di chi sta intorno, richiami che li sollecita ripetutamente a non invischiarsi con quel sangue, e di venire via, lasciando fare ad altri. Solo il finale della scena non combacia: Hugh è costretto a non toccare il ferito e a risalire sull’autobus, Doree assiste e rimane accanto al ferito fino all’arrivo di un’autoambulanza.
Immagino che dal confronto serrato di queste scene possa ricavarci qualche informazione utile sulla natura del soccorritore, e così ci torno su. La diversa chiusura di scena non è dovuta solo alla biografia unica dei personaggi in questione, ma anche dal periodo storico che attraversano.
Hugh è un eroe della Repubblica Sovietica, è sul punto di partire dal Messico per aiutare i repubblicani spagnoli dagli attacchi di Francisco Franco, è completamente imbevuto di valori comunisti, basta poco per vederlo e sentirlo schierarsi dalla parte degli ultimi, chiunque essi siano, ma la cultura politica che alimenta le fiamme del suo idealismo lo spinge a individuare in ogni situazione i possibili vantaggi o svantaggi che potrebbe ricavarne – per esempio, in questo caso, se avesse soccorso davvero l’indio aggredito e lasciato a terra sanguinante, molto probabilmente una non specificata e altrettanto sanguinaria polizia fascista lo avrebbe ritenuto una specie di complice post-factum. Anche se questa forma di sensibilità, che a tratti si declina in un opportunismo calcolatore, non è una sua esclusiva, ma costituisce parte dello spirito del tempo – soprattutto l’opportunismo, a quanto pare. Ecco cosa scrive Lowry a proposito degli altri passeggeri affacciati sulla scena del delitto: Anche se l’ostacolo più grave e definitivo al muoversi in aiuto all’indio era il fatto che ognuno avesse scoperto che non era affar suo, ma di qualche altro. E, guardandosi intorno, Hugh vide che proprio questo era l’argomento di cui tutti stavano discutendo. Non è cosa che riguardi me, dicevano tutti, riguarda, poniamo caso, voi; e poi scuotendo il capo: anzi, nemmeno voi, ma qualche altro, e le loro obiezioni si facevano sempre più complesse, sempre più astratte, finché la discussione prese a poco a poco una piega politica. Idea ancora meglio codificata nel ritratto collettivo di alcune signore rimaste sull’autobus: Sedevano tutte in fila, ora, immobili, pietrificate, senza parlare di nulla, senza una parola, come statue di ghiaccio. Era stato naturale lasciare il problema agli uomini. E tuttavia, in quelle vecchie era come se, attraverso tutte le varie tragedie della storia messicana, la pietà, quel moto impulsivo di fraternizzare, e il terrore, quell’impulso a fuggire (che si impara da ragazzi), fossero stati alla fine riconciliati dalla prudenza, dalla convinzione che è meglio rimanere dove si è, che chi sta bene non si muove.
Questione molto diversa quella di Doree. Essendo la protagonista di un racconto breve, di Doree, Alice Munro rivela alcune scarne ma preziosissime informazioni. Doree è una cameriera, un tempo è stata sposata, dopo il lavoro risponde alle domande di una psicoterapeuta, cura la sua persona giusto per risultare il più anonima possibile, suo marito, qualche tempo prima, al culmine di un attacco di gelosia e ossessione, aveva ucciso i suoi tre bambini. Il primo impulso che la spinge a praticare la respirazione bocca a bocca al ragazzo dalla cui testa fuoriesce un’orrenda schiuma rosa è il ricordo dei suoi bambini, la rievocazione di tutte le strategie di soccorso – liberazione delle vie respiratorie, posizione della spina dorsale – apprese negli anni per rimediare con chirurgica precisione e amore materno a una sciagura che avrebbe potuto coinvolgere i suoi figli. Del resto, il mondo che le si dispiega intorno ha qualcosa di freddo, razionale, burocratico, e partecipando al mondo Doree non fa altro che incontrare o mettere in pratica un numero imprecisato di strategie – o ancora meglio, di procedure – che governano e mantengono l’ordine degli spazi sociali: le strategie/procedure per lavorare e conservare il posto di lavoro, per frequentare a suo vantaggio le sedute psicoterapeutiche, per incontrare nell’istituto di sicurezza il suo ex-marito pallido come un fantasma.
Così, una volta esplorate le scene, volendo tracciare una stilizzata ma non esaustiva parabola della figura del soccorritore, usando Hugh e Doree come segni di una qualche mutazione, trovando finalmente sfogo alle inquietudini appiccate dai telegiornali, potrei azzardare questo: se prima il soccorritore, le operazioni di soccorso, erano reperibili all’interno di un sistema di valori predefinito, e potevano essere ricondotte a una forma di idealismo, o in molti casi di ideologia, motivo per cui le azioni del singolo appagavano un qualche bisogno collettivo o una qualche aspettativa sociale – la manutenzione costante di un’idea di giustizia, per dirne una – oggi è più probabile che il soccorritore si muova per sé, per sé soltanto, nella speranza luminosa di intraprendere, attraverso la propria perizia e il proprio coraggio, la ricomposizione dei bordi scheggiati di un personalissimo trauma.
La svolta non è di poco conto. Si è passati dal soccorrere uno per soccorrere tutti, al soccorrere uno per soccorrere se stessi. Con un risultato: se nel primo caso è molto più semplice temporeggiare, calcolare i pro e i contro delle proprie azioni, dato che il ritorno personale dell’operazione di soccorso, a parte la pace dei giusti che spirerebbe sulla propria coscienza, non è immediato né spendibile, nel secondo caso ogni minuto sottratto alle operazioni di soccorso potrebbe incrinare la possibilità di ricomporre il proprio trauma, alleviarlo o mettergli su una qualche sordina. Brutalmente parlando: davanti a una gravità assoluta, si passerebbe dal calcolo all’urgenza delle proprie azioni.
Ovviamente, la generalizzazione è una pistola fin troppo calda, ma questa idea della ricomposizione del trauma attraverso un’azione di soccorso potrebbe svelare qualcosa del nostro presente e del nostro futuro. Scrive Alice Munro di Doree mentre segue l’autista dell’autobus che le intima di restare a bordo: Come se non l’avesse sentito, o si fosse guadagnata il diritto speciale di rendersi utile, Doree lo seguì, smontando dall’autobus.
Tra le righe, la Munro sembra convenire che sia proprio il trauma subito, e la volontà di superarlo – o comunque sia, di attenuare il male e il dolore che dispensa – a conferire a Doree il diritto speciale di rendersi utile.
Potrebbe apparire un’annotazione marginale, e invece ribalta la questione: perché, mettiamo, se il trauma subito da singolare diventasse collettivo – la perdita del posto di lavoro, per dare un’idea neanche tanto fantascientifica, la perdita di uno o più diritti – e le azioni di soccorso scivolassero dal piano puramente materiale di un danno fisico a quello più rarefatto dei bisogni e dei desideri, tutti i soccorritori, nella speranza luminosa di superare o attenuare il trauma, potrebbero fare gruppo, riconoscendosi l’uno nel trauma dell’altro, rinfocolando una qualche forma di idealismo, mettendo mano a un piano generale di prevenzione. La respirazione bocca a bocca, in fondo, visti i tempi in cui tocca avventurarsi, potrebbe diventare la più decisiva azione politica del futuro.
Il disastro non era che si accorgesse che m’ero svegliato da poco, ma che avevo dormito a casa. E ogni giorno si ripeteva la stessa scena: io che facevo in tempo ad alzarmi, a lavarmi faccia e denti, e poi mi sedevo a tavola con loro, e lui che se ne accorgeva subito, perché quella cosa lì, intendo che avevo dormito in casa, non mi riusciva di nascondergliela. Lui era mio padre. E io ormai da un anno, ossia da quando non frequentavo più l’università perché s’era sfasciato tutto, dormivo in casa. Lui non voleva. Diceva che prima o poi venivano, mi prendevano e mi mandavano in Germania, oppure mi attaccavano al muro e ci attaccavano anche loro, lui e mia madre. I primi tempi, parlo di settembre, erano tornati i soldati, sbandati e mezzi in borghese, a piedi o in treno, da soli e in gruppetti, e sembrava che fosse finito davvero tutto, poi un giorno, verso la fine del mese, i soldati hanno iniziato a sparire e a nascondersi nei beudi, molti a salire in montagna. Allora mio padre disse che dovevo sparire anch’io. Che un giorno a l’altro prendevano anche gli studenti e li facevano andare in quella cosa di Salò. Mio padre le cose le vedeva. Quel giorno infatti erano arrivati i tedeschi a rastrellare la valle fin giù a Sanremo e s’erano portati via tutti. La sera girò voce che tra i presi c’era gente d’ogni età e tra i giovani, chi si era salvato è perché aveva aderito a quella cosa là di Salò. A uno gli avevano sparato mentre scappava. E quel giorno no, ma il giorno dopo mio padre tirò fuori dalla cantina un vecchio materasso di lana e me lo mise in spalla. L’umidità aveva appesantito il materasso, sembrava d’avere in spalla un sacco di olive, con la differenza che per portare un materasso devi continuamente fartelo girare addosso. Ricordo che mio padre mi guardava che barcollavo e scuoteva la testa. Non andavamo molto d’accordo, esami non ne avevo mai dato, ma mia madre mi proteggeva. Lui diceva che m’ero iscritto a lettere per non far niente e che anche un professore di Genova gli aveva detto che un’aquila non lo ero e che perdevo tempo.
Passammo un portico e una vigna e finimmo davanti all’entrata del Beudo Grosso. Il beudo, per capirci, è un condotto. Una valle ligure è costituita da tante vallette e gole, e ogni valletta ha il suo condotto d’acqua piovana, che a volte è asciutto, coperto o scoperto, e porta giù al torrente o ad altri beudi. Là dentro ci trovammo a dormire sei o sette uomini, un paio di giovani come me, dalla voce, gli altri dovevano essere sui trent’anni o giù di lì. Uno degli anziani disse che non c’era più posto, ma mio padre non ci pensò due volte a sistemarmi il materasso e disse che se non c’era posto si stringevano. In realtà ci si stava anche in centocinquanta. Mi sedetti sul materasso, mio padre mi passò la mano sui capelli e se ne andò. Doveva camminare curvo, perché il soffitto in certi punti era basso, e anche perché mio padre era grande, zoppo per una ferita rimediata sul Carso, ma grande per essere ligure. Rimasi a sentire i suoi passi che si allontanavano e rimbombavano e quando non li sentii più pensai che con mio padre ci parlavo sempre troppo poco.
Tremavo dal freddo, e così rimasi sveglio fino all’alba. Ogni tanto si sentivano dei versi di bestia. E uno che era accanto a me, ma senza materasso e mi aveva chiesto se poteva sdraiarsi un attimo da un lato, mi disse che era la civetta che si fermava all’entrata e aspettava che uscissero i topi. Aveva una bella voce anche se balbettava un po’. Un bersagliere sardo, così almeno me lo presentò quello che balbettava sdraiato accanto a me e traduceva cosa diceva (spiegandomi che il bersagliere aveva disertato e aspettava la volta buona per contattare i partigiani e mettersi con loro) disse in sardo che la civetta era una bestiaccia e sputò sulle pietre. Le pietre erano fredde, ogni tanto se ci mettevi la mano ti saliva addosso uno di quei ragni o di quei grilli che vivono nelle tane, pieni di antenne. Che fossero ragni e grilli me lo disse quello sdraiato accanto a me, a me sembravano formiche. E c’erano anche le formiche e le salamandre e le lumache che lasciavano la bava, e c’erano i nidi di ragno, mi disse sempre quello accanto. Gli chiesi come si chiamava. Italo, studente anche lui, agraria, prima a Torino, poi a Firenze. Forse ti ho già visto alla spiaggia, gli ho detto. Forse se all’alba uscivamo e ci guardavamo ci riconoscevamo.
All’alba tornai a casa, Italo disse che non usciva. Dormii in camera tutta la mattina e quando mio padre tornò e mi trovò in pigiama se la prese con mia madre. Che era pericoloso, che non dovevo presentarmi e lei anziché lasciarmi dormire mi doveva rimandare nel beudo. Quando mi ripresentai nel beudo portai qualche mela e la rosicchiammo in silenzio con Italo. Sul materasso ci si era sdraiato uno. Un po’ ce lo lasciai, poi lo feci sloggiare. Una mezz’ora soltanto disse. Va bene, dissi. Ma il tempo laggiù non si riusciva mica a dire. Come si faceva a dire se era giorno o era di nuovo notte. Secondo Italo era già notte. Mi aveva raccontato di dov’era, viveva nella villa sulla strada per San Giovanni. Suo padre studiava le piante, il giardiniere di casa era quel ragazzo coi capelli ricci e lunghi che avevo visto un mucchio di volte. Poi stavamo delle ore senza parlare.
Rimasi nel beudo qualche giorno, mio padre mi portava delle patate bollite, delle mele, acqua, ma poi a volte mi prendeva un attacco e allora andavo a dormire a casa e a mezzogiorno quando mio padre entrava si arrabbiava. Io gli dicevo che ero appena arrivato, che ero venuto per cibo o per un impacco di varma agli occhi che si riempivano di orzaioli. Ma lui non ci credeva e se la prendeva con mia madre. Si mordeva un dito, che per lui significava: mi tengo dal metterti le mani addosso.
Nel beudo parlavo solo con Italo. A volte non ce lo trovavo perché era uscito anche lui per una scappata a schiena bassa nelle vigne fino a casa. E poi tornava con uva e uova sode. Gli altri non erano sempre gli stessi. Il bersagliere sardo girava voce che fosse passato coi partigiani, e Italo mi assicurava che era anche per lui questione di giorni e poi con suo fratello salivano coi garibaldini di Vittò. Cosa farai quando sarà finito tutto, gli chiesi una volta. Lo scrittore, disse. E cosa scriverai? Scrittore di teatro. Poesie alla Montale. Guarderò la Liguria di giorno, finalmente di giorno, e la scriverò. L’ubagu e l’aprico. Agraria, dissi, sarebbe piaciuto farla a me. Facevo lettere perché a Genova avevamo una zia che viveva vicino alla facoltà e ci lavorava, e mio padre s’era intestardito per le lettere. Non io. Insistetti per farmi dire cos’aveva scritto e cos’altro avrebbe scritto là sotto se solo avesse avuto carta e inchiostro e una candela. Romanzi sulla resistenza, e racconti per bambini, disse. Mi rivelò un segreto. A Sanremo, nella pensione ebrea, ci aveva vissuto un tal Walter Benjamin, scrittore tedesco di origine ebrea che poi era morto sui Pirenei, e lui sapeva dove questo Benjamin aveva nascosto una valigia pieni di racconti per bambini, e quando finiva tutto andava in quel posto che era una soffitta e si portava la valigia e traduceva i racconti dal tedesco, si faceva aiutare. Ma di suo, gli chiesi, cos’avrebbe scritto? Disse di tutto. Racconti soprattutto, ne aveva in mente a centinaia. Pesci grossi, pesci piccoli. Le storie di Adamo, che era il giardiniere di casa e si chiamava Libereso. Bastimenti pieni di granchi. I loro bagni, le ultime estati innocenti, prima della guerra. Storie di caccia, a Colla Bracca. Le storie di Giuà dei Fichi e di Marcovaldo. Io sbadigliavo. Storie di campagna, disse credendo che mi piacesse la campagna. Ma io dissi che non mi piaceva neanche la campagna, avrei semplicemente voluto fare agraria perché mi sembrava semplice, mio padre era contadino, aveva 1.500 piante di ulivi e se finita agraria o se nel mezzo di agraria mollavo potevo sempre andare in campagna. Quando gli raccontavo cose del genere, sospirava come se ci pensasse.
Un giorno tornarono i tedeschi e bruciarono delle case sopra san Giovanni o San Romolo, o in entrambi i posti. Neanche mia madre seppe dirmi con precisione. Io, che dopo il pranzo, scacciato da mio padre, rientravo nel buio, quel giorno ripassai svelto sotto i portici e mi infilai terrorizzato negli orti prima ancora di uscire dalle case. Da quella sera il Beudo Grosso si popolò tanto che non mi fu nemmeno facile trovare Italo. Ne convenimmo che non era più un luogo sicuro. E lui disse che a breve sarebbe andato via. Anzi, una volta o l’altra rientravo e non ce lo trovavo più. Mi chiese se volevo salire con lui in montagna. Cosa facevo là dentro, a sentire le bestie, i topi e le lumache passare, in quella puzza che ci saremmo mai più tolti di dosso. C’era il grande Cascione, u megu, in montagna, c’era la libertà. Io dissi che mio padre i partigiani non li poteva soffrire, erano straccioni e avevano i pidocchi. Queste cose lo irritavano e per rispondermi che non era vero balbettava ancora di più.
Siccome il Beudo Grosso ogni giorno che passava era davvero sempre più affollato, Italo disse che andava a trascorrere gli ultimi giorni nel Beudo della Polveriera, un beudo che stava tra casa nostra e il paese di Bastieto, e dai miei orti ci si arrivava benissimo in tre minuti di scorciatoia o di risalita del Beudo delle Capre. E così lo persi di vista, ossia, anche se forse non l’avevo mai visto, non lo vidi mai più. Chiesi a mio padre di condurmi nel Beudo della Polveriera, ma mio padre disse che là dentro un giorno o l’altro ci entravano i tedeschi perché ci giravano troppi delatori a Bastieto. Ed ebbe ragione. Un giorno si sentì una cagnara e i saloini si misero a correre inviperiti per i carruggi di Bastieto, e spararono a più di uno. Gli spari dentro il Beudo Grosso, dove mi trovavo ancora in quel tempo, si sentivano come da un’altra valle e fin dopo la fine della guerra non saprò mai che Italo quella notte s’era salvato ed era riuscito a salire in montagna.
Il Beudo Grosso era ormai diventato pericoloso, c’era mezza Sanremo. Si poteva tentare nel Beudo della Crosa, secondo mio padre. Il Beudo della Crosa raccoglie le acque di diverse vallate ed è coperto, un tunnel perfetto, col soffitto a volta, di blocchi di pietra tufalina. Mio padre le cose se le sente. Un mezzogiorno viene dall’uliveto, mi dice che nel giro di mezz’ora arrivano i tedeschi e si portano via mezzo paese. Mi ordina di prendermi due stracci e di seguirlo nel Beudo della Crosa. E infatti, quando è un po’ che son là sotto le campagne della Crosa, nascosto nel beudo, in quel nuovo odore di umido (perché ogni beudo ha il suo odore), con la mano che devi sempre toglierti le ragnatele davanti, sento il soffitto rimbombare e le camionette dei tedeschi che bloccano le uscite del paese. Spari pochi, ma urla e luci che penetrano l’entrata del Beudo della Crosa. Io e la dozzina della mia età che eravamo lì siamo indietreggiati in salita. E stavamo lí, immobili, seduti perché in piedi non ci si stava. Uno mordeva una mela e si è mangiato un calcio negli stinchi da uno dei più vecchi. Non c’è cosa che viaggia come i minimi rumori nei beudi. Lo impari presto. Mi dicevo: ecco che questa cosa ti mancava, ci passavi cento volte al giorno per la mulattiera della Crosa e qui dentro non ci conoscevi, quest’odore te lo saresti perduto. Ragionavo come Italo ormai, mi raccontavo le storie. O forse lo facevo perché mi mancavano i suoi sospiri che avrei riconosciuto tra i sospiri di cento persone. Quando tutto tacque, gli spari, e i passi, uno dopo l’altro uscimmo. Il sole tramontava, era luce che feriva.
Nel 44′ mi nascondevo ancora nel Beudo della Crosa. I partigiani avevano preso una batosta. Quel comandante Cascione, medico, era stato ucciso, aveva risparmiato un prigioniero e questo bastardo era riuscito a scappare e aveva portato in montagna i tedeschi, li aveva condotti nel luogo dove si accampavano e c’erano stati molti morti. Pensavo a Italo, alle storie che non gli avevo mai raccontato e che ora mi inventavo durante l’ozio. Erano storie piene di luce e di amicizia. Ne avevo sempre in mente una, che avevo sognato una volta che avevo la febbre in quel freddo. Era la storia di due ragazzi di Sanremo che non si conoscevano e che per puro caso, esattamente nello stesso tempo, avevano letto un manuale su come si costruiscono i trampoli e allora s’erano messi a fabbricare i loro trampoli, in cantina o in soffitta, e quando li avevano pronti erano andati a provarli in piazza – nella stessa piazza e c’erano arrivati esattamente assieme. Era una piazza dove non passavano né tram, né bici, né carri, per questo era venuta loro in mente. E si erano messi i loro trampoli, uno da un angolo della piazza e l’altro dall’altro e si erano mossi, a piccoli passi, prima rasente i muri e poi senza tenersi a nulla, fin quando non stavano bene in equilibrio e procedevano, stupiti, mentre si avvicinavano incerti uno all’altro e si sorridevano, fino ad arrivare a un passo uno dall’altro senza riuscirsi a dir nulla.
Passavano i mesi, i partigiani riformavano le file e progettavano colpi di mano alle polveriere. A volte scendevano fino in città. Mio padre non li poteva soffrire perché gli rubavano la verdura, ma sotto, lo sapevo, stava dalla loro parte.
Dormivo sempre nel Beudo della Crosa, ci avevo portato un altro materasso. Di giorno mangiavo a casa, e quel paio d’ore al caldo a letto in attesa che mio padre rientrasse dalla fatica e si pranzasse, era un lusso. Un mezzogiorno mio padre mi chiese quanti eravamo là sotto. Gli dissi che non lo sapevo, c’era pieno, e sul materasso, dall’alba a mezzogiorno quando non c’ero ci si sdraiava Beppe, il figlio di quello delle bottiglie, che poi nel pomeriggio non si voleva togliere perché diceva che là sotto le cose erano di chi se le prendeva. E allora risate e quando uno faceva aria di nuovo risate… Allora il vecchio non volle che gli dicessi altro e finito il pranzo ordinò a mia madre di mettermi qualche straccio in un sacco da olive, di prepararmi un bottiglione d’acqua di vichy, e un sacchetto di mele e arance e cosa c’era. Quando lei preparò tutto, lui si prese il sacco in spalla, tanto, disse, lui non dava nell’occhio perché zoppo com’era non lo mandavano neanche in Germania. All’imbrunire ci trovavamo nelle terrazze di San Giovanni, dietro quel casone bruciato, ben sopra la villa di quello che l’anno prima si nascondeva con me nel Beudo Grosso, disse. Al primo buio, attenzione, le giornate sono corte, mi avvisò. Io dissi che allora andavo a recuperare il materasso nel Beudo della Crosa, era roba nostra, perché lasciarcelo. Ma lui non ha voluto, davo nell’occhio, poi quelli che erano lì parlavano: “Ha tolto il materasso perché ha cambiato posto…”. E mi avrebbero seguito. Ma dietro il casone bruciato non c’erano beudi, dissi. Te obbedisci, disse. Quel pomeriggio, prevedendo che la notte seguente avrei dormito ben male – anche se mia madre era contraria, temendo più le scenate che avrebbe fatto lui se l’avesse saputo, che per il pericolo di finire in Germania se mi sorprendevano in casa i tedeschi – feci una dormita nella mia stanza come se fosse l’ultima, colazione abbondante, e all’imbrunire uscii di casa e mi nascosi sotto il portico. Secondo gli ordini, dovevo aspettare che la colonna di gente che veniva dalla campagna attraversasse il ponte e risalisse tra le case. Mio padre non si fidava di nessuno. Era la fine di febbraio, l’aria ancora umida e il pettirosso balzellava sui rami. Il torrente era gonfio, e copriva gli zoccoli dei muli che risalivano le rampe. Ma quando voltavano e passavano per la stradina di là del portico si sentiva tutto, anche i colpi di frusta che ogni tanto Bacì da Nea, attaccato alla coda, dava al bue. Li lasciai passare, aspettai il giusto e mi infilai giù per la stradina incassata tra le case. Le capre nelle stalle mi sentivano e scornavano le tavole. I lumi nelle finestre erano accesi, ma tempo un amen iniziava il coprifuoco e si sarebbe spento tutto.
Passai il ponte, e poi rasente i muri, e davanti a villa Meridiana tirai un sospiro. Avrei voluto chiedere se avevano notizie di Italo. Se era vivo. Avrei voluto parlare con quel giardiniere che dicevano conoscesse le erbe come i vecchi. Poi arrivai a San Giovanni, non c’era luna, e faticai a trovare il casone bruciato. Poco dopo sentii mio padre. Lo annunciarono gli scarponi inzuppati, era scivolato in qualche bealera, immagino. Mi bisbigliò un ordine. “Vai su fino ai limoni, e non voltarti a guardare, dalle prime canne ti ci infili, entri profondo e mi aspetti. Ubbidisci senza aprir bocca”. Mentre ubbidivo sentii un rumore di passi arrivare da sotto. Capii che l’avevano seguito o avevano seguito me. Lo sentivo allontanarsi con i suoi scarponi che facevano rumore nell’erbaccio. Io una volta dentro le canne m’ero fermato un attimo a guardare. Gli inseguitori si chiamavano, urlavano, spari, qualcuno si avvicinava al canneto. Entrai.
L’avevano ucciso, avevano ucciso mio padre? Stavo lì, mezzo piegato come se stessi cagando, e pensavo a tutte le cose che mi erano passate per la mente in quei mesi quando mi toccava sopportare le prediche di quel vecchio zoppo al quale ora stavano sparando. Trovavo sempre molto umiliante tutto questo obbedire senza poter dir la mia, mentre i miei coetanei erano sui monti a imbracciare il 91. Gregorio Sanderi, anni 21, studente di lettere a Genova, residente nei condotti perché saloini e nazisti gli danno la caccia. Saolini e tedeschi non sanno manco che esista un Gregorio Sanderi, ma lui ha la sfortuna di abitare a Sanremo, nido di teste calde, sfollati, renitenti di leva, profughi ebrei, e allora se danno la caccia a costoro, potrebbero mettere le mani pure su di lui. Evidentemente non era nemmeno questo (quanta gente scappava a schiena bassa in quel periodo o si infilava nei beudi), era che la mia vita l’avevo sempre lasciata decidere da quel padre che fra poco moriva. O era già morto.
Non sparavano più, ma gridavano ancora. I passi da intorno al canneto s’erano allontanati, ma non ne ero sicuro. Non ero più abituato ai rumori che non fossero rumori sotterranei, dopo un po’ che si sta in un beudo non si distinguono più le cose come una persona normale, ma come un grillo o una lumaca. E più passava il tempo, più ogni vibrazione si allontanava, più mi era chiaro che quell’uomo che non dava mai consigli, ma parlava come se la sua parola fosse legge, se n’era andato. E ci aveva sempre indovinato. Ci pensavo ora, che uscivo con la testa dalle canne e guardavo le montagne buie. Poi rientrai e prosegui nel folto, forse in una specie di solco di quelli che si fanno le bestie, le volpi e i tassi.
A un certo punto inciampai in qualcosa. Stoffa ruvida… Era il sacco. Doveva essere stato qui nel pomeriggio e aveva già portato il sacco, o era il sacco di stracci di qualcun altro che passava le notte nelle canne? Lo aprii, toccai. C’erano mele e stracci, e dal tatto riconobbi il giaccone di fustagno che avevo chiesto a mia madre di infilare nel sacco. Mi sedetti su una pietra e attesi. Ora da qualche parte entrava uno sputo di luce di luna, o forse era il chiarore di colpi di mortaio. Arrivavano rimbombi, echi lontani. Un campanile suonò delle ore. Dopo un po’ davanti a quel chiarore passò qualcosa. Rumori che si avvicinavano come qualche ora prima. Era lui. Me lo disse per non spaventarmi. Io lo rassicurai, sapevo che era lui, dissi. A chi altri veniva in mente di entrare in certi posti, se non a lui e a me che dovevo ubbidire. Non parlare, disse, scemo. È possibile che sei sempre così scemo, non lo capisci che una parola si sente fin giù sul ponte? Taci allora, gli dissi. Il sacco, disse, l’ho portato io, è nostro. Di chi altri poteva essere, chi vuoi che venga qui, dissi di nuovo, a farsi sparare dai fascisti. Chi è furbo se ne sta nel Beudo della Crosa, che è bello asciutto, e stanotte dorme sul mio materasso. Non mi stava neanche a sentire, diceva che l’indomani si rompeva il tempo perché gli faceva male la gamba.
(questo racconto deliziosamente maglianesco uscirà su “Reportage”, n. 12, ottobre-dicembre 2012, in uscita la prossima settimana; l’immagine, scelta dall’autore: Farideh Farivar-Bölling, “der Ursprung”, alias “L’origine”)
Neri Pozza editore, 183 pagine, traduzione Marco Papi
A quasi trent’anni dalla vittoria del Booker Prize, Neri Pozza ripubblica Hotel du Lac, romanzo che potrebbe essere scritto oggi, così come cento anni fa. La lingua di Anita Brookner sembra senza tempo, la sua è una scrittura che, codificata agli inizi del secolo scorso, continua a ripetersi identica, con minime variazioni stilistiche e con rari aggiornamenti psicologici o linguistici.
Il romanzo racconta di Edith Hope, scrittrice di narrativa romantica, che passa una vacanza inquieta in un quieto albergo svizzero sul lago, nei pressi di Losanna. Edith, single quarantenne schiva e ordinata, scrive lettere che non spedisce mai a David, un uomo sposato col quale ha una relazione extraconiugale. Le giornate passano noiosamente (quasi la noia fosse una maledizione satanica) in questo austero albergo, fra personaggi dell’alta borghesia anglosassone che sfilano all’ora di cena con le loro ipocrisie e i loro non detti, più assordanti delle vacue discussioni sul tempo o sullo shopping.
C’è la frivola signora Pusey dall’età indefinibile, sua figlia Jennifer, mansueta e febbricitante di desiderio, il signor Nelville, garbato e crudele, e pochi altri attori di una commedia delle parti che se dapprima affascina la protagonista, nel tempo si trasforma in soffocante e claustrofobica. La verità è che Edith s’è nascosta in questo hotel come a cercare di decantare dalle sue intemperanze londinesi, lei che s’è sempre comportata così come il suo ruolo le imponeva.
È d’amore che si parla in questo libro, e di libertà femminile. Di tutti i lacci e i laccioli che l’etica borghese stringe sadicamente attorno alle vite dei suoi educati rappresentanti, dei vincoli indissolubili di casta, dai quali fuggire può sembrare impossibile. Anita Brookner è brava a restituire, col garbo che questa storia chiede, gli scenari e le tipologie umane. Il talento vero della sua scrittura è saper essere femminile, così come la convenzione richiede. Però, ad essere sinceri, è anche il suo limite.
(precedentemente pubblicato su Cooperazione, n° 29 del 17 luglio 2012)
Scritto nell’arco di un anno, Adage Adagio, uscito originariamente in Inghilterra nel 2009 per The Conversation Paperpress, è un dialogo in versi tra due poeti di formazione diversa: David Nettleingham, ricercatore e insegnante di sociologia presso l’Università del Kent e Christopher Hobday, specializzatosi in Letteratura inglese e americana presso la stessa Università in Canterbury.
L’ispirazione per questo lavoro nasce dall’infittirsi delle discussioni tra i due autori sull’origine del vivere sociale, su quel nature versus nurture che separa la “naturalità” dalle sue elaborazioni o trasposizioni nella “società” degli uomini. Adage Adagio esprime il serrato confronto tra due posizioni distinte che tentano a ogni verso di misurare la propria distanza, di spiegare o confutare le rispettive ragioni. L’intera raccolta funziona sull’espediente dialettico di antitesi e tesi nel tentativo di risolvere la contrapposizione di fondo: da un lato Nettleingham, convinto di una matrice essenzialmente sociale dell’uomo, dall’altro Hobday, che non separa mai completamente i contesti da un a priori naturale, quasi una predisposizione genetica al libero arbitrio. Le due prospettive convergono su ciò che Nettleingham chiama “memoria” e Hobday “ereditarietà”, qualità innate o espressioni di una volontà che rendono però ogni individuo parte di qualcosa di radicale. Con una metafora, si potrebbe dire che ogni foglia è tale secondo la propria specie, ma vive solo se sono vive le radici dell’albero cui appartiene.
L’Essere tradotto.
(Nota del traduttore)
di Lucio Saviani Questo volume contiene ventidue saggi con una introduzione del curatore ed è la mia traduzione dall’inglese del libro pubblicato nel 2007, a cura di Santiago Zabala, dalla McGill-Queen’s University Press con il titolo Weakening Philosophy.
Gli autori dei saggi sono francesi, italiani, spagnoli, americani, tedeschi, ciascuno dei quali – eccetto uno – ha scritto nella propria lingua.
I testi che ho tradotto erano dunque, in alcuni casi, stati scritti in inglese, in altri casi erano, a loro volta, traduzioni in inglese – ad opera di quattro diversi traduttori – dal francese, dallo spagnolo, dall’italiano, dal tedesco. Di volta in volta, soprattutto per i termini filosofici centrali nel pensiero di Vattimo, ho avuto cura di tenere presenti le tracce e gli effetti di quel primo ‘passaggio’ di lingua.
E’ stata mia cura, inoltre, uniformare la traduzione in italiano dei termini fondamentali del pensiero di Vattimo (ma anche di Heidegger, Nietzsche, Gadamer) a partire dalle differenti occorrenze nei testi già tradotti in inglese e poi da me in italiano.
Per i saggi degli autori italiani, ho comparato la versione inglese con il testo originale, rendendo in ogni caso la versione finale la più vicina possibile all’edizione americana. In particolare, il testo di Umberto Eco era originariamente in francese; ho dunque comparato la traduzione inglese con l’originario testo in francese e con il testo in italiano pubblicato nel frattempo da Eco, all’interno del suo Dall’albero al labirinto, con il titolo “Il pensiero debole vs i limiti dell’interpretazione”.
Uniformare la traduzione dei termini che maggiormente caratterizzano il pensiero di Vattimo (indebolimento, torsione, verità, convalescenza, credere, emancipazione, uomo dell’oltre), ma anche dei termini fondamentali di alcuni degli autori, come Nancy, Rorty, Savater, Taylor così come appaiono nelle loro opere pubblicate in Italia, ha inoltre reso possibile una serie di rimandi interni agli interventi nel volume, non rintracciabili nell’edizione americana – all’interno di una sezione, come nel caso dei saggi di Taylor, Welsch e Schürmann e tra le diverse sezioni del volume, come per i saggi ora citati e quello di Risser. In particolare, ciò è risultato più evidente a proposito della traduzione vattimiana del plesso Überwindung/Verwindung, anzi, della stessa scelta di Vattimo di interpretare la coppia concettuale come ‘plesso’. La traduzione che Vattimo propone di Verwindung, ossia un superamento in termini di ripresa, recupero, rimettersi-da (come da una malattia) è centrale nel saggio di Risser sull’ermeneutica come “convalescenza”, ossia quel percorso di recupero della salute in cui la malattia rimane come una resistenza all’interno dell’organismo. Intorno al discorso di Risser sembrano poter raccogliersi diversi saggi del volume, proprio grazie al loro riferirsi alla Verwindung vattimiana in chiave di avvitamento e torsione (termini che, a mio parere, rimandano anche al mancante verbo italiano che possa tradurre il per-plectěre latino – origine di “perplesso” – che denota un per-implicare, complicare, piegare, muovere e allo stesso tempo tenere in “plesso”).
La concezione di questo volume e la sua traduzione in italiano sembrano insomma poter essere un utile esempio di quanto Gadamer afferma in Verità e metodo a proposito della necessaria, essenziale, costitutiva relazione tra interpretazione e traduzione. Nella tradizione ermeneutica, come è noto, ogni attività di interpretazione è da ritenere una traduzione. Quest’ultima, secondo Gadamer, a sua volta presuppone sempre un dialogo ermeneutico; ossia, ogni traduzione giunge a compimento di una interpretazione ad opera del traduttore. Scrive Gadamer: “Come nel dialogo (…) ci si sforza di collocarsi nella posizione dell’altro, per capire il suo punto di vista, così il traduttore si sforza di trasporsi completamente nel suo autore. Ma questa trasposizione non equivale ancora, nel dialogo, alla piena comprensione, né, nella traduzione, si identifica senz’altro con la riuscita della riproduzione. (…) La condizione del traduttore e quella dell’interprete sono quindi sostanzialmente identiche”. (Verità e metodo, pp. 346-347).
Come è noto, il traduttore di Verità e metodo in italiano è stato Gianni Vattimo. Sul Vattimo traduttore – come ricorda Zabala nel suo intervento in questo volume – lo stesso Gadamer ha affermato: “Un certo gusto per i giochi – e un certo gusto per il rischio, che è peculiare di ogni giocatore – lo ha costantemente messo al riparo da ogni infelice dogmatismo: queste stesse caratteristiche lo hanno reso un eccellente traduttore”. Vattimo è stato finissimo traduttore di Gadamer e di Heidegger – come spesso viene ricordato nei saggi di questo volume – ma anche di Nietzsche, Schelling, Moore, Tatarkiewicz e curatore delle edizioni italiane di opere di Fink, Rorty, Deleuze, Derrida. Quanto Gadamer afferma sul Vattimo traduttore vale, evidentemente, per il Vattimo filosofo; così come nella filosofia ermeneutica di Vattimo è sempre all’opera l’intrinseca relazione tre interpretazione e traduzione. Basti pensare alle traduzioni vattimiane di Übermensch, Geviert, Erinnerung, Ge-ring, An-denken.
Del tema della traduzione (intralinguistica, interlinguistica e intersemiotica) ho avuto modo di parlare con Vattimo in più occasioni. Vorrei ricordare qui tre episodi, risalenti a periodi molto lontani tra loro, che mi ricordano il senso e lo spirito dell’affermazione di Gadamer sul Vattimo traduttore. Nella primavera del 1983, a Napoli, poco prima che fosse pubblicato “Il pensiero debole”, in una pausa di un seminario Gianni confessava di stare rileggendo a fondo “don Benedetto” e, parlando della traduzione, mi diceva che era sempre più interessato alla storia dell’essere come ad una traduzione, dell’essere nelle sue concrezioni, ovvero istituzioni. In un seminario di qualche anno dopo, sempre a Napoli, sul senso della Kehre heideggeriana, commentando le molteplici possibilità di traduzione in italiano del termine Verwindung (sul quale si concentrano diversi dei testi raccolti in questo volume, a partire dal saggio di James Risser), Gianni giunse a dire più volte che un tornante di montagna (Kehre), semplicemente, ad un certo punto “fervinde”. Infine, in un seminario su Rete e Società trasparente che organizzai a Roma nel 2005 all’interno del mio corso di Storia della filosofia alla “Sapienza” e per il quale ospitai Gianni Vattimo e Santiago Zabala, proposi di rileggere insieme una delle prime pagine (l’intervista a “Lotta Continua” del 1980) di Al di là del soggetto in cui appare, a mio avviso, una formidabile anticipazione di temi e riflessioni sulla Rete e sulla società della comunicazione generalizzata. In quell’intervista, rispondendo a una domanda che, a proposito del compito della filosofia, cita le immagini della mosca nella bottiglia (Wittgenstein) e del pesce nella rete (Bobbio), Vattimo dice di preferire l’immagine della rete “non però pensando gli uomini come pesci, ma per esempio come acrobati. La rete diventa trapezio, attrezzo, intrico di vie che si può percorrere; anzi, l’esistenza consiste forse proprio in questo movimento lungo le maglie della rete, intesa come reticolo di connessioni. (…) Il reticolo, la rete in cui è presa, e data a noi, la nostra esistenza, è l’insieme dei messaggi che, nel linguaggio e nelle varie ‘forme simboliche’, l’umanità ci trasmette”.
Quando ebbi finito di leggere la pagina, Vattimo si disse meravigliato perché non ricordava quel passaggio dell’intervista e che quella che io chiamavo sua intuizione era stata una sua semplice traduzione “della rete nella rete”, così come la mia lettura, secondo lui, era riuscita a mettere “lungo le maglie della stessa rete” due momenti così lontani del suo cammino di pensiero.
E’ per me motivo di grande soddisfazione aver potuto consegnare i testi raccolti in questo volume ai lettori italiani. Non avrei potuto immaginare un mio migliore contributo a questo volume in onore di Gianni Vattimo. Sono felice che proprio loro, Gianni Vattimo e Santiago Zabala, curatore del volume nell’edizione americana, abbiano chiesto che fossi io a curarne la traduzione italiana.
Nel volume i contributi di Rüdiger Bubner, Paolo Flores d’Arcais, Carmelo Dotolo, Umberto Eco, Manfred Frank, Nancy K. Frankenberry, Jean Grondin, Jeffrey Perl, Giacomo Marramao, Jack Miles, Jean-Luc Nancy, Teresa Oñate, Richard Rorty, Pier Aldo Rovatti, Fernando Savater, Reiner Schrümann, James Risser, Hugh J. Silverman, Charles Taylor, Gianni Vattimo, Wolfgang Welsch, Santiago Zabala.
STATUS DEL VERROBLOGGER
E ora che sono il verro spero che il mondo abbia posto per me. Che ci sia spazio nel mondo per il verro attraverso i pensieri e desideri del verro. Che il mondo accetti il mio lavoro e riposo attraverso il mio pensare e desiderare lavoro, riposo. Per non dire di sogni e ambizioni. E se il mondo sarà anche il verro, troverà facile pretendere giustizia per il verro ossia anche per sé, id est per me.
“Vedete? Non potete uccidermi. Non ci sono carne e sangue sotto questo mantello: c’è solo un’idea.” V for Vendetta(2006)
C’era una volta V, un misterioso personaggio mascherato che combatte…
— Il crimine! — diranno subito i miei piccoli lettori.
Non esattamente: nella celebre serie a fumetti di Alan Moore e David Lloyd, V combatte un potere totalitario e corrotto, ben più minaccioso di qualsiasi Joker, Pinguino o Enigmista. Prendendo in prestito molti aspetti della mitologia del supereroe — la maschera e il mantello, l’identità segreta, il covo, il modus operandi — non senza una certa ironia, V si presenta come perfetta e seducente icona rivoluzionaria postmoderna. Un terrorista buono. Un Batman politicizzato. Un Robin Hood radicale.
(Eleonora Marangoni, classe 1983, laureata a Parigi in Letteratura Comparata, nel 2011 ha scritto e pubblicato in Francia il saggio “Proust e la pittura italiana” per Michel de Maule éditions, attualmente in ristampa. Nella speranza che trovi presto un editore anche in Italia, presentiamo qui l’introduzione.)
Samuel Morse, Gallery of the Louvre, 1831–1833
di Eleonora Marangoni
Alla ricerca del tempo perduto è il racconto di una vocazione letteraria. Come gli attanti delle fiabe di Propp, quattro personaggi scortano il protagonista delle Recherche nel suo lungo apprentissage [1] verso l’iniziazione artistica: sono il pittore impressionista Elstir, la Berma – regina dell’arte drammatica –, il letterato Bergotte e il compositore Vinteuil. Ciascuno riveste un ruolo emblematico nell’economia del romanzo: Bergotte è l’archetipo della creazione letteraria; Vinteuil e la sua sonata rappresentano l’universo musicale; la Berma e la Fedra di Racine vanno in scena per il teatro intero; i paesaggi impressionisti di Elstir sono sineddoche della pittura nel suo insieme.
L’excipit del romanzo, Il tempo ritrovato, suggella e conclude questo percorso interiore, e ci ricorda che l’arte può farsi solida certezza per chi la sceglie come guida solo a patto che la si intenda come rigorosa disciplina fisica e intellettuale e non come mero intrattenimento estetico. Creatrice di presenze impalpabili, carica di miraggi spaesanti e di punti di riferimento effimeri, l’arte diventa ricompensa solo nel momento in cui arriva a materializzarsi nello slancio luminoso della creazione.
Nella sua accezione classica, l’arte è culto della bellezza, e risponde alle esigenze di superiorità e di eccellenza del sacro. La parola “culto”, dal latino “colere”, coltivare, indica una pratica assidua, svela un processo quotidiano, suggerisce un omaggio ricorrente: su stessa “fede” riposa il dialogo di Proust con la creazione artistica, che “rappresentava per lui l’idea stessa della divinità (…) La sua vita intellettuale e quella fisica furono d’altronde entrambe subordinate a questo fine supremo” [2]. L’arte non va dunque intesa solamente come la chiave di lettura della Recherche. Essa è anche un mezzo, che permette di restituire l’essenza delle cose, “di ciò che è più reale della vita, e che costituisce la vita vera”[3].
Sebbene nella sua opera Proust insegua “il sogno romantico e simbolista che hanno condiviso Mallarmé e Wagner”[4] di una sintesi fra tutte le arti, nella Recherche è la pittura a regnare incontrastata. Si tratta di una preferenza marcata: dei quattro attanti che sostengono il protagonista nel suo percorso interiore, solo la figura del pittore Elstir sopravvive fino alla fine del romanzo.
La pittura per Proust è in primo luogo un esercizio dello spirito, una “cosa mentale”. Proust prende in prestito questa espressione da colui che designa nel 1890 come il suo pittore preferito, Leonardo da Vinci: “Ciò che sembra esteriore, è in noi che lo scopriamo. La nozione di cosa mentale, dice Leonardo da Vinci della pittura, può essere applicato a ogni opera d’arte.”[5] Solamente attraverso l’invisibile si arriva dunque a penetrare il visibile: un quadro non esiste senza la sua interpretazione, e qualunque espressione artistica si situa a metà strada fra materia e spirito. Al contempo imitazione e atto creatore, la pittura riunisce nel suo gesto due movimenti opposti e complementari: da un lato, essa cristallizza la bellezza del mondo esterno; dall’altro, la percezione della realtà è influenzata dalle visioni pittoriche. Lo spettatore è dunque parte attiva nel processo artistico in quanto, attraverso la contemplazione, non solo si trova a riconoscere delle realtà, ma ne inventa delle nuove: “I miei occhi, istruiti da Elstir a privilegiare proprio gli elementi che un tempo scartavo a bella posta, contemplavano lungamente ciò che il primo anno non erano stati capaci di vedere”.[6]
***
Fine conoscitore in materia d’arte ed esteta devoto, Proust si appassiona alle arti visive in tenera età. Anche se “non è dotato per il disegno, e ne patisce”, riempie i taccuini di schizzi, figure accennate, personaggi abbozzati. Resterà sempre diffidente nei confronti della fotografia e, quando vuole farsi un’idea di una città che non conosce, il suo primo riflesso è quello di scoprirla attraverso la visione dei grandi artisti che l’hanno rappresentata: “Rimpiango il fatto di non aver guardato abbastanza la Veduta di Roma all’interno della quale si staglia uno degli uomini dipinti da Ingres (il ritratto dell’architetto Granet, n.d.e.) – scrive a Jean-Louis Vaudoyer, suo corrispondente dal 1910. Non conosco Roma, e vorrei, grazie allo studio di scorci come questo – rinforzati da qualche schizzo di Corot – immaginarla.”
Jan Vermeer, Veduta di Delft,1660, conservato al Mauritshuis dell’Aia.
Nella sua opera, Proust cita un centinaio di artisti, diversi per stile, tecnica, epoca e provenienza. Aldilà del leitmotiv del “pezzetto di muro giallo” di Vermeer, la Recherche trabocca di riferimenti pittorici: non mancano i tramonti di Whistler, l’Infanta di Velasquez, gli strapiombi di Turner, l’Inquisizione di El Greco, i tutù di Degas. Proust si serve dell’ opera dei grandi maestri per caratterizzare personaggi, cesellare descrizioni, sublimare in valori eterni fuggevoli realtà altrimenti schiave del Tempo.
Nella Recherche la pittura non è più mero elemento decorativo, come nei romanzi di Balzac o di Zola, ma una “peripezia, un evento, un vero e proprio personaggio”.
Le doppie dimensioni di vita/arte e letteratura/pittura se ne stanno abbracciate e, quello che Proust ricerca nei pittori, non è un semplice riferimento estetico, ma una nuova prospettiva, una visione del mondo unica e al contempo universale, eternizzata nel gesto dello scrivere. Il romanzo stesso sembra piegarsi alle leggi che la pittura detta, e pratica a sua volta vere e proprie trasposizioni d’arte, “care a Gautier e a Baudelaire, che dal campo della poesia passano ora a quello della narrazione”[7].
L’apporto dell’arte italiana appare, in questo contesto, decisivo quanto sottovalutato: gli artisti italiani citati da Proust sono poco meno di una trentina, secondi solo agli esponenti della scuola francese, e quasi il triplo dei pittori fiamminghi, olandesi e inglesi. L’Italia fornisce colori e sagome all’imponente affresco proustiano e, in un gioco perpetuo fra bellezza e verità, ogni artista riveste una specifica funzione, intessuta di prerogative estetiche e univoche originalità: il lusso e i fasti di una serata mondana dai Guermantes si nutrono delle opulenze veneziane delle tele di Carpaccio e di Veronese, l’attitudine sensuale di Odette de Crécy si profila nelle eteree fanciulle del Botticelli, l’ingenua modestia delle figure di Giotto modella i tratti autentici e pieni d’una domestica sempliciotta.
Sandro Botticelli, Madonna del melograno (dettaglio), 1487, museo degli Uffizi, Firenze.
I modelli, i maestri e le influenze di Proust in materia di critica ed educazione artistica furono numerosi, eterogenei e in definitiva troppo intricati per una mappatura lineare. Eppure, in un’ideale panoramica aerea, il dialogo dell’autore della Recherche con l’arte italiana sorvolerebbe tre grandi zone distinte, estese e a tratti confluenti. Queste fasi rinviano a loro volta ai luoghi cardine dell’estasi artistica: il Louvre, museo in cui Proust scopre l’Italia, la città di Venezia (e la cappella degli Scrovegni a Padova), dove per un momento s’illude di possederla, e una camera da letto foderata di sughero al 102 boulevard Hausmann, dove non smette di rimpiangerla sognando i campi d’oro di Firenze e i cieli rossi di Roma.
***
Proust nasce affamato d’arte: ancora adolescente, si interessa alle opere minori di Leonardo, sa tutto di Whistler e Moreau e si estasia davanti alle delizie frugali di Chardin: “prima di aver visto dei Chardin non mi ero mai reso conto di cosa c’era di bello, nella tavola sparecchiata a casa dei miei genitori, in un lembo di tovaglia ripiegato su se stesso, o in un coltello contro un’ostrica vuota”[8].
Suo “professeur de beauté” in questa prima fase, il conte Robert de Montesquiou, personaggio mondano dell’epoca, modello del barone Charlus e icona del clima “decadente, languido, estetizzante”[9] della Parigi della fine dell’800. I due si conoscono il 13 aprile 1893 nel salotto di Madeleine Lemaire, celebre acquarellista dell’epoca. L’incontro con Montesquiou è la rivelazione di un mondo: Proust scopre le minuzie di Pisanello, l’esotismo orientale del japonisme e l’Art Nouveau. Quasi trent’anni dopo, la sua ammirazione per Montesquieu è ancora intatta: nel 1921, scrive a Jacques Boulenger definendolo “il miglior critico d’arte dei nostri tempi […] Non possiamo che arricchirci di fronte alla sua saggezza […] è un critico d’arte, un saggista incredibile, che sa rendere come nessuno, in prosa, l’opera di un pittore o di uno scultore che gli piacciono.”[10]
Il Louvre è dunque il tempio di questi primi anni da esteta devoto. All’epoca, il museo era lo spazio pubblico per eccellenza, primo luogo di cultura, “rivale trionfante del teatro, della biblioteca e della chiesa”[11]. È nelle gallerie dell’antico palazzo reale che il giovane Proust dá appuntamento ai suoi amici. Fra gli altri, lo scrittore Lucien Daudet (figlio del celebre drammaturgo Alphonse), il collezionista d’arte René Gimpel, lo stesso Montesquiou e l’esteta Charles Haas (uno dei modelli di Swann), che “lo iniziano ai raffinati segreti dell’amatore d’arte”[12].
Sono anni mondani, vivi e affamati: Proust fa il suo ingresso in società, divora il mondo con gli occhi e lo guarda brillare nei salotti.
Charles Ephrussi, noto collezionista e direttore della Gazette des Beaux-Arts, gli apre le porte del suo ufficio in rue Favart, che ospitava il fondo bibliotecario della rivista contenente le pubblicazioni d’arte più autorevoli – come il prestigioso Burlington Magazine – e i cataloghi di vendita delle case d’asta più esclusive.
Parigi non tarda ad accoglierlo nei suoi salotti: dagli Straus, Proust ammira dei Monet; in casa di Ephrussi contempla dei Manet; Georges Carpentier gli mostra i suoi Renoir, Jean Cocteau gli presenta Picasso. Alla galleria Durand-Ruel, nel 1900, Proust visita la memorabile esposizione delle ninfee di Monet, che consacrerà l’impressionismo. Incontra Degas, Forain, Rodin e Boldini, e nel corso della sua vita assisterà progressivamente al tramonto del simbolismo, all’apogeo del cubismo e all’alba del surrealismo.
In questa fase, ricordiamo anche la nascita dell’amicizia con il pittore Jacques-Emile Blanche, autore del più celebre ritratto dello scrittore, conservato oggi al museo d’Orsay. Proust scrive la prefazione di una raccolta di scritti di critica d’arte ad opera del pittore francese, dal titolo Da David a Degas.
Jacques Emile Blanche, Portrait de Marcel Proust, 1892.
Proust entra dunque in contatto coi maestri della sua generazione, li vede al lavoro nei loro ateliers e osserva, dalla prospettiva privilegiata delle collezioni private, attitudini e tendenze dell’arte del suo tempo. Tuttavia, per un uomo dell’inizio del ventesimo secolo – per mondano, curioso o potente che fosse – non era semplice entrare in contatto con i capolavori della pittura mondiale. All’epoca gli editori d’arte non esistevano quasi, le riproduzioni dei dipinti erano in bianco e nero e, anche per un parigino cultivé, la conoscenza della pittura si limitava spesso alle grandi collezioni pubbliche e a capolavori universalmente consacrati. A dispetto della sua profonda cultura estetica, la conoscenza diretta di Proust in materia di arti visive resta dunque limitata.
***
Una seconda fase è marcata dall’influenza fervente di John Ruskin. Per almeno un decennio (1895-1905) l’esteta inglese sarà l’incontestabile guida artistica e il mentore culturale dell’autore della Recherche. Proust entra probabilmente in contatto con Ruskin attraverso la mediazione del diplomatico inglese Robert de Billy. Ruskin non voleva che le sue opere venissero tradotte prima della sua morte, e Proust non conosceva a sufficienza l’inglese per apprezzare i suoi scritti in lingua originale. Egli fu dunque introdotto all’opera del critico anglosassone attraverso gli articoli e i saggi a lui consacrati, in particolare attraverso degli estratti tradotti e commentati nel Bulletin de l’Action Morale e per mezzo di due articoli di Maurice de la Suzeranne pubblicati nella Revue des deux Mondes.
Nei Pastiches et mélanges, leggiamo: “L’universo tutto a un tratto riprese ai miei occhi un valore infinito. La mia ammirazione per Ruskin donava una tale importanza alle cose che mi aveva fatto amare che queste mi sembravano cariche di un valore più grande di quello della vita stessa […]. È il potere del genio di farci amare il bello come una bellezza che sentiamo più reale di noi stessi, in queste cose che agli occhi degli altri restano limitate e caduche, come noi stessi siamo”[13].
Lo stile di Ruskin era innovativo, così come i temi prescelti, che ruotavano intorno a una teoria estetica originale fondata sulla “verità delle impressioni”, tematica che diventerà portante nella Recherchedu temps perdu. Ma l’incontro con Ruskin è, prima di tutto, la messa in luce dell’opera dei grandi maestri italiani; l’immaginario proustiano, già rivolto a sud grazie alle collezioni parigine, si arricchisce ora delle visioni di Carpaccio, di Giotto, Bellini e Mantegna; si nutre – in contrapposizione alla “bellezza delle cose comuni” di cui Chardin è maestro – della sontuosità e della ricchezza dell’opera di Paolo Veronese, costruisce infine la sua visione incantata di Venezia: “Reincarnatosi in Swann e nella nonna del protagonista, Ruskin introduce il giovane narratore all’amore per Venezia e dei suoi artisti, grazie ai loro doni rispettivi: la riproduzione di un disegno di Tiziano e le litografie di alcune tele del Vecellio raffiguranti la laguna”[14].
È così che Proust si appassiona al Rinascimento italiano e scopre i tesori di Roma e Firenze, che “alimenteranno il testo con metafore, immagini, sfumature psicologiche, antichi volti che saranno accostati a quelli dei suoi contemporanei”[15]. Questi paesaggi, destinati a rimanere lieux rêvés, sollecitano incessantemente l’immaginario dello scrittore.
Poeta, critico d’arte, erudito, specialista di pittura religiosa, pittore egli stesso, Ruskin era anche l’autore di diverse copie di dipinti celebri. Attraverso uno dei suoi schizzi Proust s’innamora della bella e fragile Sefora di Botticelli, fanciulla i cui tratti delicati e l’attitudine languida ricordano a Swann un’Odette dimessa, dall’aria malinconica e vulnerabile.
John Ruskin, Sephora, 1874 (copia a partire delle Storie della vita di Mose di Sandro Botticelli alla Cappella Sistina).
Il critico inglese muore nel 1900: Proust scrive un In memoriam e, lo stesso anno, parte per Venezia. Arriva in Italia ad aprile, insiema a sua madre e gli amici Marie Nordilinger e Reynaldo Hahn. Con quest’ultimo si spinge poi fino a Padova, dove ammira gli affreschi di Giotto nella Cappella degli Scrovegni. A ottobre torna di nuovo a Venezia: è da solo stavolta, e ne ripercorre le strade in silenzio come se volesse imprimere nella memoria le impressioni del primo soggiorno. Nei suoi viaggi in Italia, Proust integra le suggestioni ruskiniane all’esperienza del vissuto: le due visioni, riunite, popolano le pagine di Albertine scomparsa.
Di ritorno a Parigi, Proust si immerge nella traduzione della Bibbia di Amiens e di Sesamo e gigli, con l’aiuto dell’amica Marie Nordilinger e l’apporto “spesso occulto” di sua madre. Fino alla morte di quest’ultima nel 1905, Proust lavora all’edizione francese delle opere di Ruskin, interrompendo così la stesura del suo primo romanzo, Jean Santeuil: “Mi restano due Ruskin da fare e poi proverò a tradurre la mia stessa anima, sperando che, nel frattempo, questa non mi abbandoni”[16], scrive a Maurice Barrès nel 1908.
È proprio traducendo l’opera dell’esteta inglese che Proust affina il suo gusto estetico e riesce a definire uno suo stile personale. Nel corso dei cinque anni di lavoro, si distacca progressivamente dall’autore di Sesamo e gigli e decide di consacrarsi una volta per tutte al suo romanzo. Una volta acquisita la lezione che il poeta inglese aveva da impartirgli, Proust non tarda infatti a liberarsi del suo professore: traducendo Ruskin, si prepara a diventare uno scrittore.
Quello che Proust ammira in Ruskin è il lirismo, non certo il suo puritanesimo, e un mutato atteggiamento è particolarmente percepibile nell’ultimo capito della prefazione alla Bibbia di Amiens, che “tronca di netto con l’accecata ammirazione dei primi tre”. “Questo vecchio comincia a infastidirmi”, scrive nel 1904 a Marie Nordilinger. Lo scrittore inglese considera “il Bello” da una prospettiva moralistica ed esalta la “bellezza della religione”; in Proust invece è la “religione della bellezza” a regnare sovrana.
Inevitabilmente, dunque, la percezione proustiana dell’opera di alcuni artisti italiani conosciuti grazie alla mediazione di Ruskin differirà notevolmente dall’interpretazione del suo mentore. Ruskin sarà tacciato di idolatria: il senso veicolato dall’opera d’arte non è per Proust religioso ma estetico, dal momento che “il piacere estetico è precisamente quello che accompagna la rivelazione di una verità”[17]. Bisogna amare un’opera d’arte per quello che è, e non per il messaggio che veicola, ancora meno perché un altro scrittore ne parla. Proust rivolgerà la stessa critica a Robert de Montesquiou e, nella Recherche, a Swann e al barone di Charlus.
Raggiunta una pienezza intellettuale autonoma, Proust prende le distanze da Ruskin, e rivisita l’arte italiana in modo personale: la sua influenza rimane presente, ma è “smorzata e ridimensionata”. Questa fase rappresenta un momento chiave nel pensiero proustiano: stile ed opera da questo momento saranno costruite su una nuova estetica, sempre altrettanto nutrita di presenze italiane ma in modo più personale e forse (bisogna pronunciare questa parola a bassa voce, per non urtare la sensibilità del nostro genio suscettibile) meno idolatra. D’altronde, come lui stesso ha scritto, “Non c’è miglior modo di arrivare a prendere coscienza di quello che sentiamo in noi, che quello di provare a ricostruire quello che un maestro ha sentito. Grazie a questo sforzo profondo, è il nostro stesso pensiero che viene posto, insieme al suo, alla luce del giorno”[18].
***
Le crisi d’asma si erano intensificate già dal 1982; dal 1905, Proust è costretto a rinunciare a una buona parte delle sue uscite mondane e visite culturali e, com’è noto, presto la malattia finirà per confinarlo a casa. Fra il 1897 e il 1922, anno della sua morte, Proust non è stato più di tre volte al Louvre. Quando il suo amico Jean-Louis Vaudoyer gli chiede di indicare otto dipinti che, secondo lui, non sarebbero potuti mancare in una “tribuna francese” (riprendendo il modello espositivo della tribuna degli Uffizi di Firenze) Proust risponde: “Non vado al Louvre da quindici anni. Ci tornerò non appena potrò alzarmi al mattino”. Nel 1920 non ci era ancora riuscito : “Sono vent’anni che non vado al Louvre, l’ultima volta che sono uscito mi ci è voluta una preparazione di otto giorni, ed è stato per andare a sentire un concerto”. Jean Cocteau ha scritto in proposito: “Le uscite pomeridiane di Proust avevano luogo una o due volte l’anno. Ne facemmo una insieme. Andammo a vedere delle tele di Moreau da Madame Ayen e poi al Louvre, ad ammirare il San Sebastiano di Mantegna e il Bagno turco di Ingres”[19].
In una lettera non datata, Proust confida a Montesquiou: “La ragione di questo malessere che mi trascino dietro da tutti questi giorni è il fatto che sono voluto a tutti i costi andare a vedere i dipinti di Whistler. Ho fatto per un morto quello che non farei per dei vivi, pensando “ora o mai più”, “amate quello che non rivedrete di nuovo” che sembravano dirmi queste bellezze nomadi pronte a ripartire per Boston”.
Ricostruzione della camera di Proust al museo Carnavalet di Parigi.
L’ultima visita a un museo Proust la farà un anno prima di morire, nel maggio del 1921. Al Jeu de Paume di place de la Concorde si apre una grande retrospettiva sui maestri olandesi: il “petit pan de mur jaune” dellaVeduta di Delft di Vermeer lo chiama, e lui non può resistere. Scrive a Vaudoyer, e lo prega di accompagnarlo: “Non sono andato a letto ieri per andare stamattina a vedere Vermeer e Ingres. Accettate di condurre sottobraccio con voi un morto che cammina?”. Questa uscita gli ispirerà l’episodio della morte di Bergotte, episodio che rintraccia molte delle angosce provate in quell’occasione e che è, al contempo, una vera e propria “promozione del museo come luogo letterario”[20].
Negli anni di claustrazione e malattia, il museo ideale dello scrittore si restringerà ulteriormente, alimentandosi esclusivamente dei supporti stampati e delle riproduzioni d’arte. Solo grazie ai libri illustrati la pittura rimarrà parte integrante di un quotidiano recluso, e popolerà le pagine della Recherche. L’enciclopedia proustiana non è dunque tutta stampata con lo stesso inchiostro: da un lato, ci sono i pittori che Proust ha conosciuto grazie alle opere originali, dall’altro ci imbattiamo in quelli che ha scoperto solamente attraverso le riproduzioni o le descrizioni romanzate; ai primi “riserva le sue abilità di critico d’arte, ai secondi, la sua fantasia.”[21]
Leonardo da Vinci, Cinque caricature, 1485-1490, Galleria dell’accademia, Venezia.
“Albertine annodava le braccia dietro ai capelli neri, il fianco arcuato, la gamba spiovente nell’inflessione d’un collo di cigno che s’allunga e s’inflette per ritornare su se stesso. C’era solo, quando si metteva del tutto su un lato, un certo aspetto del suo viso (così bello e buono se visto di fronte) che non potevo sopportare, adunco come in certe caricature di Leonardo, rivelante, si sarebbe detto, la malvagità, l’aspra avidità di guadagno, la furbizia di una spia, la cui presenza presso di me m’avrebbe fatto orrore e che sembrava smascherata da quel profilo. M’affrettavo a prendere fra le mani il volto di Albertine e a metterlo di faccia.”
La prigioniera, t.III, p.476
Jacopo Robusti, detto Tintoretto, autoritratto (dettaglio), 1588 circa, musée du Louvre, Parigi.
“Swann aveva sempre avuto questa particolare passione di ritrovare nella pittura dei maestri non solo i caratteri generali della realtà che ci circonda, ma ciò che, al contrario, sembra meno suscettibile di generalità, vale a dire i tratti individuali dei volti che conosciamo: così, nella consistenza di un busto del doge Loredano scolpito da Antonio Rizzo, il risalto degli zigomi, l’obliquità dei sopraccigli, insomma un autentico sosia del suo cocchiere Rémy; sotto i colori di un Ghirlandaio, la fisionomia del signor di Palancy; in un ritratto del Tintoretto, l’insediarsi dei primi peli delle fedine nel grasso della guancia, l’increspatura del naso, la penetrazione dello sguardo, la congestione delle palpebre del dottor du Boulbon.”
Dalla parte di Swann
[1] Cf. a questo proposito G. Deleuze, Proust e i segni. Tale scoperta si svolge in quattro movimenti che corrispondono a quattro classi di segni (mondani–amore–sensibili–artistici) e l’opera “si presenta come l’esplorazione dei vari mondi dei segni, che si organizzano in cerchi, intersecandosi in certi punti.” Il mondo dell’arte è il mondo ultimo dei segni, che reagisce su tuti gli altri: “è per questo che tutti i segni convergono verso l’arte, tutti gli apprendimenti, per le vie le più diverse sono già apprendimenti incoscienti dell’arte stessa”.
[2] A.V. Diaconu, « Considérations sur le thème de Proust et la peinture », in Bulletin de la Societé des amis de Marcel Proust et des amis de Combray, n° 12, Illiers-Combray, 1962, p. 546.
[3] J.-M. Quaranta, « Art », in Dictionnaire Marcel Proust, Honoré Champion, Parigi, 2004.
[4] J.-Y. Tadié, Introduzione generale alla Recherche du temps perdu, Pléiade Gallimard, Parigi, 1987.
[5] M. Proust, Contre Sainte-Beuve preceduto da Pastiches et mélanges e seguito da Essais et articles, Parigi, Gallimard, 1984, p. 640.
[6] M. Proust, ARDTP, III, p. 6.
[7] T. Laghet, « Le vernis d’un autre maître. Proust et la peinture ancienne » in Proust, l’écriture et les arts, BNF, Gallimard/Réunion des musées nationaux, Parigi, 1999, p. 28.
[8] M. Proust, Correspondance, texte établi, présenté et annoté par Philip Kolb, Plon, Parigi, 1991, V, p. 39.
[9] A. Beretta Anguissola, « Proust et les peintres italiens » in Proust, l’écriture et les arts, op. cit., p. 34.
[10] M. Proust, Correspondance, op. cit., III, p. 250.
[11] A. Compagnon, “Proust au musée”, dans Proust, l’Ecriture et les arts, BNF, Gallimard/Réunion des musées nationaux, Parigi, 1999.
[12] Ibid.
[13] M. Proust, Contre Sainte-Beuve ; preceduto da Pastiches et mélanges et seguito da Essais et articles, Gallimard, Parigi, 1984., p. 138.
[14] A. Beretta Anguissola, « Titien », in Dictionnaire Marcel Proust, op. cit.
[15] T. Laghet, « Le vernis d’un autre maître. Proust et la peinture ancienne » in Proust, l’écriture et les arts, op. cit., p. 27.
[16] Proust, Correspondance, op. cit., xiv, p. 93.
[17] M. Proust, Introduction à la Bible d’Amiens, Bartillat, 2007, p. 84.
[18] M. Proust, Pastiches et mélanges, op cit.
[19] J. Cocteau, 1947, La Difficulté d’être, Le Livre de Poche, Parigi, 1993.
[20] A. Compagnon, Proust au musée, op. cit.
[21] T. Laghet, « Le vernis d’un autre maître. Proust et la peinture ancienne » in Proust, l’écriture et les arts, op. cit., p. 300.
Kenneth Anger – Inauguration of the Pleasure Dome (195di
di
Enrico Camporesi
È un’annosa questione, quella che circonda le esposizioni di cinema. Si sa come, nello spazio museale, una componente fondamentale del film, la sua stessa condizione di esistenza, venga a mancare – la proiezione. Ancora più inconcepibile è, a prima vista, la presenza di un cineasta in una galleria. Cosa si può vendere, infatti? Non certo una copia di un film, poco appetibile per i collezionisti. Del resto (ma questo è forse un altro corno del problema) siamo di fronte alle stessa trita questione dell’arte della riproducibilità tecnica. Più volte mi domando se non sarebbe proficuo accantonare questa definizione insoddisfacente, in favore di un paradigma diverso – Paolo Cherchi Usai proponeva, dal canto suo, un’arte della ripetizione. (1)
Non questa la sede per spingerci in un’inchiesta ontologica sul cinema. Più pragmaticamente, invece, in termini di mercato qualcosa è stato fatto. Nella sua estrema semplicità, sembra uno stratagemma soddisfacente, per il cineasta, trarre dalla copia del film stampe di qualche immagine. Dal film alla foto dunque, in edizione numerata e siglata. Questa la soluzione adottata da tempo da Jonas Mekas. Così è anche nella mostra di Kenneth Anger alla Galérie du Jour di Agnès B. a Parigi (che del resto, è anche la gallerista di Mekas). Vi è allora una stanza con qualche stampa di grande proporzioni. Lo spettatore si avvicina e l’occhio si dirige a scrutare la consistenza dell’immagine. La grana però pare svanita, dissolta in una piattezza sconcertante. Un pensiero lo assale, le stampe sono incredibilmente deludenti. Certo l’effetto dell’Osiride interpretato da Donald Cammell in Lucifer Rising, ad esempio, non è del tutto svanito, ma quando si scorge sul cartellino la scritta tirage numérique, l’insieme appare ben più deprimente.
Non mancano, ad ogni modo, i film esposti (in proiezione video): in una sala sta Inauguration of the Pleasure Dome (1954) accompagnato dalla Messa glagolitica di Janáček, nell’altra Puce Moment (1949), che l’occhio distratto del visitatore si può concedere di sbirciare. Certo rimane poca cosa dell’impatto dei film nella sala ma qualcuno potrebbe obiettare che fra le sparse membra della filmografia di Anger, così disseminata di progetti incompiuti, smarriti o appena abbozzati, una visione parziale non sia poi così fuori luogo, quasi come si stesse a guardare gli arti amputati caduti dal letto di Procuste. C’è però qualcosa che ha attratto prevalentemente la nostra attenzione. La sala di ingresso presenta alcune memorabilia dalla collezione di Kenneth Anger: ritratti del cineasta, volantini per le proiezioni di alcuni suoi lavori. Ancora meglio sono le pareti allestite coi formidabili ritrovamenti di Anger. Un muro è completamente ricoperto di immagini di Billie Dove. Ricordi di una carriera folgorante, al fianco di Douglas Fairbanks in The Black Pirate (Albert Parker, 1926) ma soprattutto a fianco di Howard Hughes, del quale fu la compagna. Incastonato al centro di questa parete colma di ricordi sta un dipinto della stessa Dove, Masquerade, in guisa di testimonianza del suo talento in pittura. Anger, l’ammiratore, l’aveva risparmiata nel suo impietoso Hollywood Babilionia, citandola solamente di striscio in qualche riga dal sapore melanconico sulla Hollywood post crisi del Ventinove. (2)
Su muro di fronte si trova un altro fitto mosaico di fotografie e locandine, di un altro idolo di Kenneth Anger, Rodolfo Valentino. Altrove, il cineasta ricordava come fosse legato alla sua famiglia, per via di una nonna costumista che, a suo dire, gli avrebbe donato i bottoni del cappotto che Rudy indossava in The Eagle (Clarence Brown, 1925). Probabilmente si tratta di un’altra storia da intrecciare al suo vissuto fantastico, in perenne indecidibilità fra la realtà e la finzione, sulla falsariga dell’aneddoto che lo vuole attore bambino nel Midsummer’s Night Dream (1935) di Max Reinhardt. In fondo, non vi è poi alcuna ragione di voler provare il contrario. Ciò che conta è che gli avvenimenti del suo vissuto, anche qualora fasulli, sono eloquenti riguardo all’autore. Così come parlano queste foto disposte davanti ai nostri occhi, una sorta di atlante mirabile della Babilonia californiana della quale Anger aveva raccontato le peripezie a più riprese. C’è appunto più di un richiamo nelle sale agli scritti del cineasta sulla Hollywood tumultuosa: in una teca stanno alcuni articoli dai Cahiers du cinéma, un abbozzo del volume a venire (che sarà pubblicato inizialmente in francese, da Jean-Jacques Pauvert, nel 1959). (3) Vi è poi una sorta di scultura al neon, con un paio di labbra femminili aperte, stile insegna da night bar. Sulle labbra si legge, neanche a dirlo, Hollywood Babylon.
Anger sostiene di aver cominciato a raccogliere fotografie dalla tenera età di tre, quattro anni. Una passione febbrile lo ha sostenuto nell’accumulare vertiginosamente questi materiali, «come se si trattasse di proteggersi dal mondo tramite un fragile ma raffinato, efficace scudo», ha scritto giustamente Jean-Claude Lebensztejn. (4) Di tale pratica la mostra alla Galerie du Jour restituisce una visione avvincente e credibile: una sorta di tempietto portatile dove ci può recare per rendere omaggio agli idoli di celluloide.
Il culto della Hollywood tramontata pare correre parallelo, nell’opera di Anger alla venerazione di Lucifero. Del resto non c’è da stupirsi giacché più volte lo stesso ha identificato questo “angelo della luce” con il cinema e il fascio di luce emesso dal proiettore. Fra gli oggetti disseminati nella sala da Anger sta, a illuminare la parete dedicata a Valentino, una curiosa abat-jour che riprende un momento da The Sheik (George Melford, 1921). La tenue luce emessa dalla lampada carezza garbatamente i ritratti del divo. Forse anche in questo bizzarro soprammobile si annida un poco della potenza di Lucifero.
Kenneth Anger – Galerie du Jour Agnès B.: dal 13 settembre al 3 novembre 2012. 44 rue Quincampoix, 75004 Paris.
Note:
[1]) Cfr. P. Cherchi Usai, The death of cinema. History, cultural memory and the digital dark age, BFI, London 2001, p. 59.
2) Cfr. K. Anger, Hollywood Babylon, Dell Publishing, New York 19752, p. 152.
3) Cfr. K. Anger, L’Olympe ou le comportement des dieux, in «Cahiers du cinéma», n. 76, novembre 1957; Id., Hollywood où le comportement des mortels, in «Cahiers du cinéma», n. 77, dicembre 1957; Id., Les dieux aux enfers (fin), in «Cahiers du cinéma», n. 79, gennaio 1958.
4) J.-C. Lebensztejn, Figures de culte. Beckford avec Anger, in «Vacarme», n. 24, estate 2003.
Personalmente adoro gli scrittori un po’ stupidi, e diffido degli scrittori intelligenti. Si presuppone che i grandi scrittori debbano essere senza fallo molto intelligenti, e che proprio questo li caratterizzi, e invece a ben vedere quello che amiamo in loro è proprio l’ottusità e la stoltezza. Non dico che gli scrittori debbano essere deficienti, e che più ebeti sono meglio è, come si potrebbe dedurre da certa narrativa attuale, ma insomma una certa dose di scempiaggine mi sembra difficilmente rimpiazzabile. Uno scrittore troppo intelligente è come una pietanza con gusti scontatamente ridondanti e servita con troppa prosopopea, un dolce con un eccesso di burro e panna montata, un paludato salotto che richiama alla mente una rivista di arredamento, dove ti siedi in punta di poltrona. Senza voler indulgere in incauti biografismi, e guardandosi bene da una retorica della devianza, a ben guardare Dante era un bigotto pedantone con il dente avvelenato, Stendhal un presuntuoso sempliciotto, Flaubert un tetro maniaco depressivo, Baudelaire un irresponsabile sotto tutela, Cervantes un mezzo deficiente, Dostoevskij uno psicopatico, l’Ariosto un candido (con la compulsione all’adulazione) patito di macellerie sanguinolente e virginali fichettine, Thomas Bernhard e Céline due deliranti e logorroici fanatici, Dickens un lacrimoso buontempone, Marguerite Duras una melensa sognatrice, Robert Walser e Dino Campana due minorati mentali, Marina Cvetaeva e Virginia Woolf due derelitte lucidissime squinternate, le Brontë e Emily Dickinson non ne parliamo, Svevo un pedissequo frustrato, Hemingway un vitellone vieppiù patetico allo scemare del testosterone, Gadda un prematuro inacidito vecchiaccio, e via dicendo. Se fossero stati così sagaci la maggior parte di questi personaggi lo avrebbero dimostrato nella vita di tutti i giorni, o comunque non sarebbero finiti a scrivere. Gli scrittori davvero intelligenti, qualcuno ce n’è, si salvano solo affogando il loro acume nei meandri di bizantine mangrovie, come fa Proust, o invischiandolo nelle ragnatele enigmatiche dell’angoscia, Kafka e Beckett insegnano, o di qualche altro nemico giurato del raziocinio. Ma in linea generale non c’è peggior sicario di testi letterari che la superiorità cerebrale. Il pessimo Umberto Eco, rimanendo ai giorni nostri, è forse il paradigma dei danni irrimediabili che può causare l’intelletto alla narrazione, come anche Claudio Magris, e l’intoccabile Borges, seppure a un tutt’altro e squisito livello, e scendendo di quota Sartre e Simone de Beauvoir, e Jorge Semprun, e René de Ceccaty, e nella poesia Octavio Paz e Alberto Casadei, ma per me lo stesso Celati è un po’ troppo intelligente, anche se finge sempre il contrario, proprio come Vassalli, e quatto quatto l’inconsistente Baricco, e tanti altri, a tratti perfino Michele Mari, in qualche pagina perfino il sensibilissimo Giorgio Vasta. Gli intelligentoni di cui parlo a rigor di logica andrebbero chiamati algidi habitué della letteratura, ingegneri specializzati nel riciclo narrativo, ragionieri dell’estetica, ironici giocolieri, virtuosistici funamboli, scafati fantini del cavallo postmoderno, pedanti docenti, pensatori, superdotati della tastiera, non certo romanzieri e poeti. In moltissimi casi l’eccesso di perspicacia riesce a sabotare talenti e ispirazioni davvero possenti: pensiamo per esempio a Arbasino o a Aldo Busi. Del resto è una calamità nazionale, molti nostri scrittori debuttano benino, e poi pensano troppo, si lasciano fuorviare da una scontata deriva di solito commercialmente populista, ma a volte appunto cerebrale. Ne consegue un’inflazione esibizionistica, un’ipertrofia delle frasi o dell’opera alla lunga stomachevole, o anche solo una zavorra di cinguettii d’erudizione e presunte argutezze che impedisce ai testi di volare alto. Forse la ricetta migliore per avere uno scrittore di razza è quindi un’intelligenza mediocre e marezzata di manchevolezze che la inclinino verso una qualche forma di idiozia, seppure sovvertita o anche soverchiata da non ben assestate originalissime intuizioni, spesso in eroica o sciagurata lite con i tempi, da solforose chiaroveggenze, e da una moralità zoppicante o asmatica, il tutto beninteso schiaffeggiato da bordate di furibondo invasamento (notoriamente ingegno-repellente). Quello che viene impropriamente chiamato genio è in realtà il pedissequo frutto di uno squilibrio, un riuscito dosaggio di doti e tare, a mio modesto avviso affatto involontario, e non necessariamente legato a una qualche saggezza, per buona pace del teleologico panzone americano e del suo panteon in retromarcia. Non è però agevole dire perché una supremazia dell’intelligenza sia così ostile alla riuscita letteraria, e non sarò io a risolvere questo dilemma (abbisognerebbero neuroni più fini). Certo presupposto per qualsiasi forma di buona letteratura è la cognizione della sconfitta, una premonizione di catastrofe, un rimbombare raccapricciante o anche ilare del nulla, mentre l’intelligenza è hybris che repelle, insopportabile autosoddisfazione, stucchevole baldanza, genocidio delle antinomie. L’intelligenza sgomita per dominare e sottomettere, violando i silenzi, imprigionando qualsiasi afflato letterario: è soprattutto artificiosa e inverosimile, falsa. Quando invece la stupidità nei giorni fasti sa essere affascinante e struggente, profonda e umanissima, si intride di verità e saggezza. Si potrebbe certo obiettare che anche la cosiddetta intelligenza razionale è una forma di stolidità, forse la più grave di tutte, come sembrerebbe provare gran parte della filosofia occidentale, e quindi come tale potrebbe contribuire al gioco, ma ha la pecca irredimibile di prendersi troppo sul serio, diventando letterariamente inutilizzabile e anzi nociva. Il vero genio della stupidità letteraria è beninteso Rousseau, che con la sua illuminata ottusità ha aperto la via a fiumane di autori purtroppo meno stolti di lui, e quindi minori. Stiamo parlando di un personaggio, tanto per intenderci, cui gli oggettivi limiti cerebrali hanno impedito di imparare i rudimenti minimi della scrittura musicale. Ai ragazzi molto brillanti che mi chiedono un consiglio, qualche volta capita, io dico di abbracciare la metagenomica applicata, la fisica delle particelle elementari, la lessicografia sumerica, non certo la letteratura. Purtroppo sei troppo intelligente per queste cose, mi dispiace molto, gli dico. In certe circostanze bisogna essere franchi. Molti bravi scrittori nei loro discorsi orali perdono la ritenutezza che hanno negli scritti, e lasciano incautamente libero sfogo alla loro non eccelsa intelligenza: tolto l’interesse etologico, la prestazione si rivela quasi sempre assai spiacevole. Come si è già capito queste riflessioni, certo esse stesse un po’ ebeti, non sono gratuite, sono anzi intrinsecamente interessate. Contagiato da una vocazione precoce per la scrittura, per anni ho pensato di essere troppo idiota per mettermi a scrivere. Aizzato dalla cosiddetta educazione scolastica, quella macchina concentrazionaria che fuorvia generazione dopo generazione dalla reale essenza della letteratura, per anni ho rifuggito la scrittura. Solo molto tardi ho constatato che gli scrittori intelligenti devono ingaggiare una lotta titanica con il loro intelletto, sono costretti a battersi fino a riuscire a debellarlo, sterminarlo. Ho capito che a me era risparmiata questa prova dagli esiti spesso fatali: partivo quindi avvantaggiato. Ho capito che potevo provare.
(l’immagine: Sam Doyle, “Fishing boat”, 1980 circa)
“Quand on est plus de trois on est une bande de cons!” (quando si è più di tre sì è una banda di stronzi)
Georges Brassens
Poedelaire
Vorrei partire da una fotografia, anzi da due. Quando ho letto che Charles Baudelaire si era fatto fotografare da Nadar in una posa ispirata a Edgar Allan Poe, la prima cosa che ho fatto è stata quella di andare a vedere le due fotografie. Commuove pensare a come si possa tradurre un sentimento, di ammirazione in questo caso, attraverso la dimensione mimetica del proprio corpo, lo sguardo, la postura. Baudelaire dopo avere tradotto Poe sulla carta si faceva tradurre da lui ancor prima che dal geniale Nadar su lastra. Che cosa ha fatto che mi imbattessi su queste due fotografie? Da dove ero partito per ritrovarmi in un’immagine allo specchio, nel double je animato dai due scrittori?
Galeotta era stata una ricerca fatta per un amico a Torino sulla creazione di un itinerario letterario da farsi in città. Ogni volta che devo esplorare la natura stessa di un itinerario mi rivolgo a Mr Walter e più particolarmente ai suoi Passages per identificare una traccia utile al lavoro che sto facendo.
“Le flâneur fait figure d’éclaireur sur le marché. En cette qualité il est en même temps l’explorateur de la foule. La foule fait naître en l’homme qui s’y abandonne une sorte d’ivresse qui s’accompagne d’illusions très particulières, de sorte qu’il se flatte, en voyant le passant emporté dans la foule, de l’avoir, d’après son extérieur, classé, reconnu dans tous les replis de son âme. Les physiologies contemporaines abondent en documents sur cette singulière conception.”
Scrive Walter Benjamin nel testo Baudelaire ou les rues de Paris e la definizione del flâneur come esploratore della folla e ancor più come “classificatore” dei tipi che la formano fa riecheggiare allora le note del celebre uomo della folla (The Man of the Crowd) di Edgar Allan Poe. Intanto scoprivo che esisteva eccome una traduzione di flâner, e l’ho scoperta al bancone di un bar qui a Torino. Me l’ha raccontata proprio l’amico per cui stavo lavorando: “far flanella”, bighellonare. Pare che fosse il rimprovero delle matrone rivolto ai clienti che sostavano a lungo nei salotti senza consumare.
Per chi non lo avesse letto il racconto di Edgar Allan Poe, ma ne consiglio a tutti l’incredibile lettura, il protagonista, seduto in un caffè nella via più trafficata di Londra, scruta i numerosi passanti che si trova di fronte. Li descrive e cataloga uno per uno, sa dire tutto di loro e, in particolare, riesce perfettamente a dedurre la loro posizione sociale. Particolarmente commovente il passaggio in cui racconta i differenti tipi di commesso, da abiti ed espressioni diverse a seconda delle “maisons” per cui lavoravano. La descrizione della folla va avanti, fino a quando l’attenzione del narratore non è attirata da un uomo sulla sessantina che non corrisponde ad alcuna delle categorie. Il protagonista si mette a pedinarlo con l’unico obiettivo di ottenerne una qualche informazione rivelatrice. L’unica conclusione a cui arriva, seguendolo negli strani itinerari senza una meta precisa è che il misterioso personaggio pare abbia come unica meta quella di stare sempre in mezzo alla folla.
Baudelaire, proprio lui, che aveva dedicato all’opera di Edgar Allan Poe, tutto l’amore e l’energia che soltanto un traduttore può conoscere – La prima volta che ho aperto un suo libro, ho visto, spaventato e affascinato, non solo dei temi da me sognati, ma delle FRASI che avevo pensato, e che lui aveva scritto vent’anni prima“- lo riassume così:
Vous souvenez-vous d’un tableau (en vérité, c’est un tableau !) écrit par la plus puissante plume de cette époque, et qui a pour titre L’Homme des foules ? Derrière la vitre d’un café, un convalescent, contemplant la foule avec jouissance, se mêle par la pensée, à toutes les pensées qui s’agitent autour de lui. Revenu récemment des ombres de la mort, il aspire avec délices tous les germes et tous les effluves de la vie ; comme il a été sur le point de tout oublier, il se souvient et veut avec ardeur se souvenir de tout. Finalement, il se précipite à travers cette foule à la recherche d’un inconnu dont la physionomie entrevue l’a, en un clin d’oeil, fasciné. La curiosité est devenue une passion fatale, irrésistible !
Publié la 1ère fois en 1863 Le peintre de la vie moderne
Un quadro! scrive Baudelaire e colui che dipinge è “un convalescente”. Il revenu récemment des ombres de la mort, ci ricorda la maschera dei fantasmi, dei “revenants”, ma forse, il regno dei morti a cui fa riferimento il poeta non sarà mica la follia?
A Charles Baudelaire Walter Benjamin dedica le pagine più belle della sua opera, Parigi, capitale del XIX secolo. e proprio quelle pagine le fa cominciare con una strana citazione.
«Je voyage pour connaître ma géographie», viaggio per conoscere la mia geografia. La stranezza è nell’attribuzione che fa della frase in esergo, ovvero «nota di un pazzo».
Folla vs Follia, che pazzia! Così dalle strade di questa immaginaria ricerca in mezzo alla gente emerge un nuovo quadro, l’inquietante visione di Hieronymus Bosch, conservato al Museo del Louvre, citazione dell’opera di Brant dedicata alla Stultifera navis che letteralmente stregò i filosofi, da Erasmo a Michel Foucault. Come un rimosso costante – in francese si dice refoulement e si usa anche per le maree che si ritirano, allontanano- riemerge ogni volta dalle acque più profonde facendoci dubitare sulla nostra stessa posizione in mezzo agli altri. Naufraghi o sommersi?
Torniamo a Walter Benjamin che nei Passages ci dice: “Il XIX secolo, un lasso di tempo in cui […] la coscienza collettiva cade in un sonno sempre più profondo. Ora però il dormiente – simile in questo al folle – intraprende attraverso il suo corpo un viaggio macrocosmico: grazie allo straordinario affinamento della sua autopercezione, i rumori e le sensazioni dei suoi organi interni – pressione del sangue, movimenti intestinali, battito cardiaco e tensioni muscolari – che nell’individuo sano e sveglio si perdono nella risacca della buona salute, generano le immagini del delirio o del sogno che nedanno una traduzione o spiegazione. […] Questo stato della coscienza, suddivisa dalla veglia e dal sonno in una molteplicità di sezioni e dispicchi, va ora solo trasposta dall’individuo alla collettività. Va da sé che gran parte di ciò che per l’individuo è esterno appartiene per la collettività alla propria interiorità; le opere architettoniche, le mode, persino il tempo atmosferico, sono, all’interno della collettività, ciò che i processi organici, i sintomi della malattia e della salute, sono all’interno di un individuo”.
La folla può dunque cedere alla propria follia senza che questa ne pregiudichi la propria stessa sopravvivenza?
Come spiegarsi diversamente fenomeni di massa come i Rave party degli anni novanta? Quelli in cui individui a se stessi sconosciuti si ritrovavano in grandi spazi ascoltando musica Techno e House assumendo ogni tipo di sostanza in grado di mantenerli in posizione eretta per delle ore di marcia sul posto? Del resto il verbo inglese « to rave » si traduce con delirare, farneticare, vagheggiare o “estasiarsi”. ma c’è chi lo traduce con “divagare”. Flânerie collettiva? Forse. To rave come “andare pazzi” ?( she raves about that singer va pazza per quel cantante) .Ma allora perché mo i Flash Mob com’è indicato nel titolo? Beh, dei flash mob parleremo nella seconda puntata. Forse.
Tra una ventina d’anni, quando a qualcuno toccherà il compito ingrato di rovistare tra i frammenti di cultura pop di inizio Millennio per dare loro un senso, una serie televisiva come Mad Men giocherà un ruolo da padrone. E questo non solo perché la vicenda dei pubblicitari di Madison Avenue, tutta concentrata in una manciata di anni che vanno dal 1960 in poi, si sta candidando a diventare la serie tv più cool di sempre, e nemmeno per il realismo narrativo di qualità sopraffina che negli anni l’ha fatta accostare a nomi vertiginosi come quelli di Philip Roth o Richard Yates: ma anche perché la parabola del suo successo non è estranea a una forma sottile di sospetto. Matthew Weiner, il suo geniale e ossessivo creatore (il genere di persona, per capirci, che va al mercato a scegliere la frutta che dovrà comparire sul set per accertarsi che abbia l’aspetto più vintage possibile), ha detto una volta che Mad Men è un’opera di fantascienza al contrario, che utilizza il passato per parlare dei nostri giorni. La metafora è perfetta, perché invita lo spettatore diffidare del proprio sguardo. In altre parole: se vi innamorate di una ragazza che si veste come si vestiva sua madre quando aveva la sua età siate ben consci che state compiendo un’operazione mediata dallo spirito del tempo. Il passato è passato, e ogni ricostruzione è una rielaborazione. Fantascienza al contrario, appunto.
Che il presente abbia nei confronti degli anni Sessanta un debito culturale è cosa palese, ma altrettanto evidente è il fatto che la retorica della nostalgia ha la tendenza a spacciare versioni della storia recente edulcorate al limite della stucchevolezza. Uno dei principali meriti di Mad Men, fin dai suoi esordi nel 2007, è sempre stato quello di fornire di un decennio così carico di mitologia una lettura radicalmente alternativa. Niente musica rock, esperienze lisergiche di vario tipo dosate con il contagocce, rivoluzioni culturali relegate sullo sfondo. La trasformazione sociale è un fuoco d’artificio solo se vista a quarant’anni di distanza, vissuta sulla propria pelle più facilmente assume la forma del terreno che ti cede sotto i piedi giorno dopo giorno, un cadavere eccellente dopo l’altro (da Marilyn a Kennedy e oltre). Non è un caso che nella sigla d’apertura si veda una sagoma nera precipitare da un palazzo, circondata dagli emblemi del desiderio della (allora) neonata società dei consumi, né che questa sigla abbia attirato su di sé tante critiche perché ricorda le sagome umane in caduta libera dal World Trade Center il giorno degli attentati. Come dire: ciò che vedete crollare oggi sotto i vostri occhi ha iniziato a cadere molti decenni fa, e proprio nel momento in cui meno ve lo sareste aspettato.
Arrivata alla quinta stagione, lasciato il ghetto dei consumatori seriali della forma breve e annidatasi in ogni anfratto dell’immaginario collettivo, oggi Mad Men richiede una scelta di campo. Da una parte c’è l’hype più sfrenato, il draping virale che rimbalza per la Rete (draping = fotografarsi in posa alla Don Draper, il protagonista interpretato da Jon Hamm), il numero celebrativo di “Newsweek” dedicato all’estetica vintage. Dall’altro, più sobria e inquietante, l’immagine che quest’autunno ne pubblicizzava il ritorno sugli schermi, Don che in una metafora metafisica degna di De Chirico osserva un manichino esposto nella vetrina di un negozio, riflettendo la propria immagine sbiadita (verrebbe da dire: in via di dissoluzione). La presa di posizione è necessaria perché, con la cronologia narrativa arrivata a fine 1966, la tensione sottocutanea sta progressivamente venendo a galla, lo scontro generazionale è alle porte e i toni si sono fatti se possibile ancora più cupi. In quella che con ogni probabilità diventerà la scena cardine della stagione Don si chiede: «da quando la musica ha cominciato a diventare così importante per noi?». Quando la giovane moglie gli regala un disco dei Beatles e gli consiglia di ascoltare quel capolavoro dimenticato che è Tomorrow Never Know, Don interrompe l’ascolto a metà, si chiude in camera e improvvisamente diventa chiaro che da questo punto in poi la caduta sarà più rapida.
Tocca fare delle scelte. Se schierarsi dalla parte del vecchio che declina, ma che si è imparato ad amare, o del nuovo che avanza, con la consapevolezza che di lì a pochi anni la fiammata cupa degli anni Settanta si porterà via ogni sogno di cambiamento. Se mettere in primo piano la bellezza formale di un mondo che scompare o il lamento che produce disgregandosi. A ogni spettatore tocca il compito di estrarre la bellezza dal disfacimento, e viceversa.
[Questo articolo è stato pubblicato sul Mucchio Selvaggio, luglio 2012. La fotografia è tratta da Collider]
(Mesi fa, su Amazon, è apparso un pamphlet, autopubblicato da un anonimo, dal titolo Anonymous. La grande truffa. L’ebook criticava, in modo puntuale e per nulla benigno, un gruppo di attivisti altrettanto anonimi, dediti a operazioni globali di hackeraggio in sostegno a lotte e movimenti di tutto il mondo:Anonymous. Recentemente, in uno dei canali di chat più elitari dell’hacking tedesco, sono stato contattato dall’autore, che mi ha messo a disposizione il testo. Per quanto non mi trovi del tutto d’accordo su più di un punto, la lettura che dà del fenomeno Anonymous mi sembra comunque utile, mettendo in luce diversi punti cruciali della politica e dei movimenti ai tempi della rete e della deterritorializzazione. Per questo ho deciso di mettere su Nazione Indiana tutto il pamphlet. Data la lunghezza del testo, l’uscita sarà in quattro post, uno alla settimana, a partire da quello di oggi. Buona lettura!)
Anonimi e falsi anonimi
Della nebulosa Anonymous, alcuni sostengono che non si possa dire nulla. Troppo sfuggente, troppo composita per essere definita. Troppo mutevole perché le parole non risultino presto già vecchie. Anonymous imporrebbe dunque il silenzio, come una divinità neo-platonica? Invitiamo coloro che lo pensano a ritirarsi in preghiera, in buon ordine assieme ai novelli teologi dell’evo cibernetico.